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OK, dico la mia (40 e non 41)

Ieri sera sono passato da Amantes per uno spritz. Ai lettori torinesi non devo spiegare cosa sia – cosa sia stato – Amantes. Ai non torinesi dico che per ventidue anni in quelle tre stanze sono successe cose – concerti, proiezioni, conferenze, mostre d’arte – e soprattutto si sono incrociate persone. Amantes era quel tipo di posto che ci andavi dopo o prima di cena, quando avevi voglia di fare due chiacchiere, ed eri sicuro (in particolare il giovedì, quando a girare dischi in modalità Kingston era Paolone Ferrari) che ci avresti trovato qualcuno, o qualcuna, che conoscevi. Che probabilmente ti avrebbe presentato qualcuno, o qualcuna, che non conoscevi. Eri arrivato di cattivo umore? Quasi invariabilmente te ne andavi sorridente e non era solo una questione di tasso alcolemico. Era così, Amantes, sempre pieno di gente bella e interessante. Vi si incontrava tutta la Torino di un certo tipo e senza manco bisogno di darsi appuntamento.

Ieri sera molta di quella Torino lì è passata, come me, a sporgere un saluto. Centinaia di persone, così tante da riempire i marciapiedi di via Principe Amedeo per metri e metri in una direzione e nell’altra, così tante da fermare il traffico. La solita gente bella e interessante. Allegra, ma stavolta era un po’ un’allegria di naufragi. Il circolo ARCI locale per antonomasia non celebrerà il ventitreesimo compleanno. Si ferma a ventidue. Abbassa la saracinesca, vittima di una crisi che sotto la Mole ha picchiato duro, incattivendo ma soprattutto deprimendo la città, mortificandone una vivacità culturale che resta unica. Amantes ha chiuso e già mi manca. Ci sono sempre stato così bene che quando, due anni e dieci giorni fa, mi sposai non ebbi dubbi riguardo al dove fare la festa: lì, come ho ricordato a Roberto Tos abbracciandolo. Con tutto quello che hai organizzato qui dentro un ricevimento di matrimonio ti mancava, eh? Ciao, Roberto. Ce lo berremo ancora un bicchiere insieme, da qualche altra parte, ma non potrà proprio essere la stessa cosa.

Sempre ieri è arrivata la notizia della chiusura della più longeva rivista musicale italiana. Quarant’anni compiuti (festeggiati non credo proprio) lo scorso ottobre. Fu su un “Mucchio” allora “Selvaggio” che pubblicai il mio primo articolo, nel febbraio 1983. Vi ho collaborato – sommando due diversi periodi: ’83-’88 e poi ’99-2012 – per quasi diciannove anni e credo di essere stato la seconda firma – dopo Federico Guglielmi e non contando il fondatore e affondatore – per anzianità di servizio su quel giornale. Per dire quanto “Il Mucchio” sia stato una parte importante – determinante persino – della mia vita. Come e perché me ne andai la seconda volta – precedendo di qualche mese le dimissioni, uno via l’altro, di quasi tutti i principali collaboratori – credo che in molti lo ricordino. Per chi vuole rinfrescarsi la memoria, qui, qui e qui. Ci siamo lasciati come peggio non si sarebbe potuto, sono convinto di avere molto contribuito alla perdita di credibilità della testata e non me ne pento minimamente. Al tempo avvertii come un dovere etico il divulgare ciò che avevo scoperto e questo è quanto.

Non sono né contento (come immaginavo che sarei stato) né dispiaciuto (era in realtà morto nel 2013; ciò che è sopravvissuto poco, pochissimo aveva in comune con la storia precedente) che abbia cessato le pubblicazioni. Alla notizia (che fra gli addetti ai lavori circolava già da qualche giorno) mi sono scoperto serenamente indifferente ed ecco, questo mi ha rattristato sì. Ho solo due commenti da fare. Il primo è che trovo che ci sia una sorta di giustizia poetica nel fatto che sia morto, al di là del considerevole calo post-2013 delle vendite sia in edicola che in abbonamento, a causa di un contenzioso giudiziario fra le due persone che tradirono la fiducia dei collaboratori e la passione dei lettori. Il secondo è che mi hanno infastidito le lacrime di coccodrillo su Facebook di quanti si sono detti addolorati, devastati persino, per la scomparsa del “Mucchio”, premurandosi però di aggiungere che non lo acquistavano più dal… (al posto dei puntini un anno qualunque, dal ’77 in poi). Se non si vuole che un giornale muoia lo si compra, non vale dispiacersene dopo.

Per quanto qualche ragione per non mettere più mano al portafoglio, dopo il terremoto che sapete, i lettori storici ce l’avessero eccome.

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Memorabilia (3)

Cosa non si ritrova aprendo certi scatoloni! Ad esempio questa lettera che Daniela Federico mi scriveva dieci anni fa e della quale mi ero completamente dimenticato. Sia chiaro: l’allora e tuttora amministratrice della Stemax aveva assolutamente ragione a riprendermi e a farlo duramente. Nessuna discussione al riguardo. Mi limito solo a osservare che, avesse applicato a se stessa la medesima inflessibilità multandosi di 75 euro al giorno per ogni giorno di ritardo rispetto a un saldo in termini ragionevoli del mio lavoro (diciamo a due mesi dalla pubblicazione, che vuol pur sempre dire a ben tre dalla consegna), io avrei certamente finito da un pezzo di pagare il mutuo. Magari mi sarei persino comprato un casale rock, per quanto non di lusso come il vero e unico casale rock. E senza appropriarmi indebitamente di un solo euro.

Lettera Daniela Federico

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His Private Life (Stiamo perdendo il gusto dell’indignazione)

The Great Rock And Roll Swindle

Casale interamente recuperato con massima

attenzione ai dettagli

Zona notte con parquet in rovere sbiancato

2 camere, bagno, camera padronale

con sala da bagno e cabina armadio

Pavimentazione in resina

ingresso/salotto con camino, ampia zona giorno

con cucina a vista e studio

Zona relax con sala da musica, bagno, cantina

e lavanderia.

Vendesi.

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La ribollita

ribollita

Un mese e un giorno sono trascorsi dacché si mise in tavola la zuppa del casale e tutto tace. Un mese e un giorno sono trascorsi e il silenzio non potrebbe essere più assordante, in special modo se paragonato all’eccezionale  solerzia con la quale, il 28 dicembre 2011, la signora Daniela Federico attaccò le “righe postate questa mattina sulla sua pagina Facebook da Stefani, infondate in fatto e in diritto e con riferimento alle quali mi riservo sin d’ora ogni opportuna iniziativa”. Per la cronaca: erano le 12.29, non erano passate che ore. A questo giro sono trascorsi invece un mese e un giorno e nessuna replica è ancora pervenuta, nessuna risposta seria e dire che di risposte ne erano dovute eccome. Non tanto a chi la zuppa l’ha cucinata, e già le conosce, quanto ai lettori: sedotti e abbandonati. Un mese e un giorno sono trascorsi e il silenzio assorda, ma non stupisce. Fatto è che a quel post era impossibile controbattere, perché i numeri sono per l’appunto numeri e non opinioni e sotto tutti quei numeri c’è la firma della persona che avrebbe dovuto controbattere. Fatto è che ogni risposta non avrebbe potuto essere che una conferma e certe enormità ai lettori, quasi prima ancora che ai collaboratori (ex e attuali), non c’è modo di giustificarle. Si tratti dei 1.600 euro al mese allegramente dilapidati nel biennio 2009-2010 per mantenere autovetture a loro volta acquistate con soldi Stemax o dei quasi 2.000, sempre al mese, per “spese di trasferta, ristoranti e alberghi” messi a bilancio nel 2011. Si poteva per caso smentire che a tutt’oggi la Stemax paghi l’affitto di un ufficio di proprietà dei grandi duellanti Max Stefani e Daniela Federico? Certo che no, è la verità. Si poteva smentire che per quasi quattro anni abbia misteriosamente (ma uno scopo ci sarà ben stato…) tenuto aperto un ufficio di rappresentanza in un paesino di quattrocento anime e che quell’“ufficio” sia oggi casa Stefani? Carta canta e Google pure. Si poteva negare che la quota relativa ai soci di costo del lavoro sia sempre stata clamorosamente preponderante rispetto alla somma degli emolumenti di tutti quelli che al “Mucchio” (e a “Extra”) lavoravano davvero? Idem. E tutto il resto, che sarebbe pletorico reiterare qui, giacché potete sempre andare a rileggervelo. È valido oggi come un giorno e un mese fa, nessuno ha smentito e dire che il non smentire in questo caso valeva e vale come una confessione o poco meno.

Certo, meglio sarebbe stato allora un silenzio totale, a cominciare da chi, in data 24 gennaio 2013 (ore 8.59) sul forum ufficiale della rivista “Il Mucchio”, ventilava atti “di citazione con richieste risarcitorie che altro che il contributo per l’ordine dei giornalisti piemontese”, richieste naturalmente mai arrivate. E che più sobriamente e con l’eleganza che gli è propria a questo giro si è limitato a osservare (1° giugno, ore 20.09) che “premesso che il 90% delle cose che ha scritto sono cazzate e inesattezze (sul restante 10% credo si pronuncerà il direttore al più presto), mi fa strano che lo stesso cilia ste cose le tiri fuori oggi che è fuori (dai coglioni)”. Frase degna – questa sì – di querela, ma va da sé che non spreco tempo e soldi dietro a chi premette e crede quando poi, alla sua apparizione alla ribalta ventidue minuti dopo, la Direttora sparge sciocchezze e fumo che bastano gli interventi del primo utente che passa da lì a smascherare e spazzar via. Invece di sciogliere i quesiti di cui sopra, la Federico – per dire – si attacca al fatto che il sottoscritto abbia sempre parlato di cifre lorde tranne che per quanto atteneva i di lui emolumenti, per i quali (si noti bene!) ha precisato che si trattava di netto. Amministratrice della Stemax sin dall’aprile 1997 e a tutt’oggi, si permette di affermare che 900 euro pagati a chi state leggendo costavano alla cooperativa 1.400 e non è né una cazzata né un’inesattezza, bensì una falsità vera e propria, visto che, tolto un breve periodo durante il quale i collaboratori vennero inquadrati come lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato, si è sempre trattato di cessione di diritto d’autore. Ergo: i famosi 900 netti a Stemax costavano di lordo 1.058,82. E d’accordo che le bugie hanno le gambe corte ma qui (invece di spiegare i 166.113 euro spesi per automezzi solo dal 2004 al 2011) se ne mette nero su bianco una che di arti inferiori è completamente sprovvista. Ciarla, ciarla, la Direttora, e non dice nulla. Racconta che “nei bilanci l’autore del post dovrebbe aver trovato anche 120 mila messi nella cooperativa da me e da Stefani ma questo dev’essergli sfuggito o non faceva gioco” e, casualmente, dimentica di aggiungere che quei soldi i benefattori se li sono poi in massima parte ripresi. Chissà, magari non faceva gioco. Ciarla, come ciarlano giusto per dare aria ai denti quelli/quelle che “i bilanci sono sempre stati certificati”, come se non si sapesse che i revisori dei conti si limitano a controllare che le somme siano giuste, la forma corretta, che si preoccupano di verificare quanto è stato speso e non (perché non è compito loro) come. Ciarla, ma  poi improvvisamente si tace, desolantemente afasica, e lascia che siano i sempre più imbarazzati e imbarazzanti sottoposti (quei due o tre ancora disponibili a farlo) a provare a difendere l’indifendibile. D’altro canto: persino di fronte a un magistrato ci si può avvalere della facoltà di non rispondere, figurarsi dinnanzi al tribunale degli ex-collaboratori pervicacemente presi in giro per anni, figurarsi di fronte ai lettori, in tanta parte ormai ex pure loro. Solo che nell’ultimo caso se non rispondi non ci sarà principe del foro che tenga, la condanna è certa.

Un mese e un giorno sono trascorsi allora anche dacché, proprio in questo blog, scrissi che “del come l’amico Macse venne accompagnato nella primavera 2011 alla porta del giornale fondato da lui medesimo nel 1977, con un accordo di liquidazione in 117 comode rate, vi racconterò un’altra volta, o forse no”. Aggiungevo “magari non ce ne sarà più bisogno” e, con ogni evidenza, peccavo di ottimismo, siccome cose stanno accadendo dietro le quinte (bellissime cose) e però sfortunatamente nessuna si è al momento appalesata, nessuna si è mostrata risolutiva per apporre alla buon’ora la parola “Fine” in calce a una storia che volentieri mi sarei risparmiato. Sono stanco, stomacato, ed essendo stanco e stomacato non starò a redigere con i crismi retorici del caso l’ultimo capitolo di questo romanzetto (forse criminale) da due soldi (ma anche qualcuno in più, via). Senza tornare a raccontare ciò che da più parti, e dunque da più punti di vista, è stato raccontato riguardo alle dimissioni o alla cacciata che dir si voglia dalla Stemax e dal “Mucchio” di Max Stefani nella primavera 2011 (lasciatemelo dire: Rashomon un’altra cosa), mi limiterò a calare sul tavolo le cifre, fiducioso che altro non serva. E le cifre dicono che il signor Stefani veniva “licenziato” non troppo sgarbatamente, mettendogli in mano un accordo che garantiva complessivamente a lui e alla moglie € 4.212 netti al mese dall’aprile 2011 a tutto il dicembre 2020, per un totale di € 492.804 e stiamo sempre parlando di netto e, signori miei, qui non è cessione di diritto d’autore, qui ben altri sono gli oneri fiscali, come di sicuro non mancherà di spiegarci la signora Federico, sempre puntigliosa riguardo a certi dettagli. Visto che c’è, spieghi anche la bizzarria di quella che è chiaramente una liquidazione che viene però mascherata da improbabilissimo (perlomeno a quelle cifre, perlomeno con una simile durata) quasi decennale contratto di “consulenza”, oltretutto duplice giacché uno, di consulenza “editoriale”, lo firma Max Stefani e contestualmente un secondo “di marketing” viene sottoscritto dalla di lui consorte.

Insomma… Se dobbiamo prendere per buono quanto l’autore dichiara in Wild Thing (pag.271), quando afferma che il suo stipendio ammontava a euro 3.500 mensili netti (uguale a quello della Federico, sostiene sempre lui), al “licenziato” vengono garantiti 712 euro al mese in più, per 117 mesi. Stefani costerebbe di stipendio alla Stemax più da consulente che da direttore (si risparmia sui benefit ma solo in parte, visto che l’accordo comprende una Renault New Scenic da 27.996 euro con bollo e assicurazione pagati fino all’estinzione del leasing), non fosse che nel dicembre di quello stesso anno la Presidenza del Consiglio dei Ministri dà una robusta sforbiciata ai fondi per la stampa e l’ex-direttore perde la testa. Dimentico di avere firmato un accordo (in questo a mio avviso l’irregolarità dell’intera faccenda) subordinato all’ottenimento da parte della Stemax dei contributi all’editoria previsti dalla legge 7 agosto 1990, non avendo forse letto (e sarebbe proprio da lui) dove dice che “nell’eventualità in cui per qualsiasi ragione i richiamati contributi all’editoria fossero diminuiti in percentuale superiore al 5% rispetto all’importo percepito dalla Stemax nel 2010 (con riferimento all’anno 2009) l’emolumento e il benefit spettanti al signor Stefani saranno automaticamente ridotti in proporzione”, dà di matto in pubblico. Viola la clausola di riservatezza. Così agendo, invalida il contratto. Alla Stemax possono stappare bottiglie e levare alti al cielo i calici. Se lo sono tolto “dai coglioni” (cit.) con quei nove anni di anticipo ed è un signor risparmio. Oggi credo però che prevalga il rimpianto per quelle nove rate pagate e per un’automobile che piacerebbe potere monetizzare. Sono svariate decine di migliaia di euro che farebbero assai comodo, non li si fosse regalati (ci si chieda il perché) a chi nulla avrebbe dovuto avere in mano per pretenderli e ottenerli.

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La zuppa del casale (rock)

Campbells Condensed

È straordinario, avendo il dente avvelenato e un minimo di curiosità, quante cose è possibile scoprire usando semplicemente Google e certi strumenti giuridici a disposizione di ogni privato cittadino. Mettiamo che per una qualunque ragione (ad esempio: volete farci affari) vi serva reperire informazioni su una società, coop, srl o spa che sia. Non dovrete fare altro che rivolgervi alla camera di commercio competente e dovranno fornirvele. Il bello è che non sarà nemmeno necessario addurre una giustificazione. Voi chiedete e loro (alla camera di commercio) sono tenuti a dirvi e darvi e questo senza che la società oggetto dell’indagine ne venga avvisata. Insomma: ho scoperto che visure, bilanci e note integrative ai bilanci della Stemax erano e sono (come pure i modelli C17 che le cooperative sono tenute a compilare) nella disponibilità di chiunque ne faccia domanda. Ho pensato bene allora di procurarmeli. Perché le voci di corridoio, i pettegolezzi, le illazioni non mi bastavano più. Volevo cominciare a capire sul serio come sia possibile che un giornale che, in quanto pubblicato da una cooperativa, ha ricevuto dal ’96 a oggi svariati milioni di euro di contributi per l’editoria, versi da tempo in condizioni anche peggiori (che il momento sia difficile per tutti non è in discussione) di una concorrenza che dallo stato non ha viceversa mai percepito direttamente un centesimo. Volevo andare a verificare (una cosa è il “sentito dire”, altra il racconto-confessione di una vita selvaggia, altra ancora i conti) se all’origine di questa crisi drammatica ci fosse solo l’incapacità imprenditoriale di chi questa società ha gestito negli anni o qualcosa di peggio, o un combinato di entrambe le cose. Pensavo che mi sarebbe bastata una scorsa superficiale ai bilanci (sono riuscito a oggi ad avere quelli dal 2004 al 2011; il 2003 è largamente ricostruibile dal successivo, il 2012 non ancora disponibile), e soprattutto alle corrispondenti note, per intendere se i sospetti – miei e di altri – avessero un fondamento e meritasse approfondire. Mi è stato sufficiente in realtà leggere la cosiddetta “visura camerale storica” di Stemax – Società Cooperativa per capire che nei bilanci in questione mi sarebbe toccato immergermi.

E così ho fatto, seguendo né più né meno il metodo che seguo da sempre per preparare gli articoli più impegnativi, quelli da qualche decina di migliaia di battute. Lettura attentissima dei materiali in mio possesso accompagnata da un continuo, maniacale prendere appunti su ogni particolare possa lontanamente ipotizzarsi utile in sede di stesura di monografia. Mi ritrovo adesso con qualcosa come diciassette pagine formato A4 fittissime di note scritte a mano, zeppe di virgolettati, evidenziazioni, rimandi, confronti, conteggi, chiarimenti a me stesso medesimo (alcuni dei quali gentilmente datimi da un lettore del “Mucchio” che di mestiere fa questo: revisiona conti). Naturalmente non le userò tutte. Quando scrivo un articolo, di norma non arrivo ad adoperare più del 15%-20% degli appunti. In questa sede mi farò bastare il 5%. Per i miei scopi, abbonda. Vi ucciderei di noia facendovi smarrire nei meandri di bilanci nei quali di anno in anno voci appaiono e scompaiono, vengono dettagliate oppure no, spiegate o sottointese. Facilmente perderei io pure il filo del discorso. Voglio invece che mi seguiate e, sempre al fine di rendere il tutto il più leggibile possibile, oltre a limitare al massimo i tecnicismi darò per scontato che chiunque mi stia leggendo sia all’incirca a conoscenza delle puntate precedenti della lunga diatriba. Che abbia già letto quanto raccontai (qui) riguardo alla fine della mia quasi ventennale collaborazione con “Il Mucchio”, che abbia altresì seguito sul forum del giornale stesso, sui blog di Massimo Del Papa e Federico Guglielmi, sui loro profili Facebook e ovviamente pure sul mio (ma anche su tanti altri) le polemiche e la diaspora infinita che nel corso degli ultimi venticinque mesi (comincia tutto nell’aprile 2011, data dell’abbandono coattivo del giornale da parte del fondatore Max Stefani) hanno portato innumerevoli collaboratori storici del giornale a lasciarlo: nell’ordine, Massimo Del Papa, Riccardo Bertoncelli, il sottoscritto, Carlo Bordone, Federico Guglielmi, Giancarlo Turra, Carlo Babando, Michele Benetello, Aurelio Pasini, Alessandro Besselva Averame. A farla breve, la quasi totalità della redazione musicale della rivista musicale italiana di più lungo corso e se mi sono dimenticato di qualcuno me ne scuso. Darò per scontato nella stessa misura in cui devo presumere che chi mi legge quando scrivo di musica sappia, per dire, chi è Bob Dylan o cosa sia il reggae, che differenze intercorrano fra  punk e psichedelia e che la Lola dei Kinks è un travestito.  L’ABC. Se sei arrivato a leggermi fino a questo punto, credo che proseguirai. Pronto?

Io lo faccio per la verità.” (Daniela Federico)

Non lo nasconderò: due coglioni così. E, del resto, chi non se li farebbe trascorrendo alcuni giorni con la capoccia su degli elenchi di numeri? Confesserò però di essermi anche divertito in certi momenti e che il divertimento veniva dal conoscere i protagonisti della vicenda e dal constatare come taluni vizi siano con ogni evidenza loro connaturati, come parte del DNA. Fantastico constatare ad esempio come il copia-e-incolla sia uno stile di vita che si estende persino ai resoconti delle assemblee nelle quali si dichiara (si tratta ovviamente di atti ufficiali; da qui in avanti praticamente tutto ciò che scriverò è tratto o desunto da atti ufficiali) di avere discusso i bilanci in questione. Iniziano tutte a mezzogiorno in punto, sono sempre “rappresentati in proprio o per delega numero 7 quote sulle 9 costituenti il capitale sociale” e si concludono invariabilmente alle 13.30 con un’approvazione “all’unanimità”. Avete nostalgia di “My Private Life”, la rubrica in cui Stefani mensilmente lamentava che “stiamo perdendo il gusto dell’indignazione”? Di quel vibrante parlare, come da un pulpito e puntando sempre il dito accusatorio, si coglie una chiara eco quando – leggendolo, ammetterò che non riuscivo a crederci – non una ma ben due volte (repetita iuvant, dicono quelli che sanno il latino) nelle note a corredo dell’anno 2009 si imputa una perdita di esercizio di € 30.966 a una diminuzione dei fondi erogati. Si accusa: “La riduzione è stata causata da una interpretazione arbitraria e senza fondamento giuridico effettuata dalla Presidenza del Consiglio”. Non metto becco, per quanto non mi risulti che sia stata avviata un’azione legale nei confronti della Presidenza del Consiglio medesima come si sarebbe dovuto fare se convinti delle proprie ragioni (ma sono naturalmente pronto a ogni rettifica). Avendo buona memoria ricordo però anche il titolo di un’altra, più succinta rubrica che per qualche tempo nobilitò le gloriose pagine del “Mucchio”: “La faccia come il culo”. Mi dica il gentil lettore se non gli pare adatto a descrivere chi in altri, precedenti anni (e non una volta) dallo stato ricevette invece più di quanto non si attendesse e, va da sé, non se ne crucciò. Stralcio dalle note 2004: “A seguito del conguaglio dei contributi della Presidenza del Consiglio dei Ministri degli anni precedenti per importi maggiori a quelli previsti si è registrata una plusvalenza di € 51.693”. Niente male, no? Non ci si lamenta, non si deplora, non ci si indigna nemmeno quando nel 2007 (anno d’oro, per ragioni che spiegherò più avanti) si registrano con soddisfazione “€ 18.358 per maggiori contributi per l’editoria rispetto a quanto accertato dalla società”. A caval donato d’altro canto non si guarda in bocca, ammonisce la saggezza popolare, e di cavalli nel tempo qualcuno ne ha ricevuti in dono abbastanza da farci il palio a Siena per un decennio o due.

Di quanto fosse patologica la tendenza a ricamar fiabe a uso tanto interno che esterno provvede poi a offrire clamorosa evidenza la parabola del ritorno a una cadenza di pubblicazione mensile nel 2005 dopo che per nove anni il giornale era uscito settimanalmente. Io me li ricordo bene gli accesi dibattiti interni alla redazione e fra redazione e proprietà su questo epocale passaggio. Io me lo ricordo bene come da allora Daniela Federico (amministratrice della coop sin dall’aprile ’97) si sia sempre gloriata di avere obbligato Max Stefani a chiudere la disastrosa avventura del settimanale. Quando ancora in tempi recenti illustrava a noi collaboratori come la rivista sarebbe stata altrimenti costretta alla chiusura non oltre il 2006, o massimo il 2007, diceva certamente il vero. Peccato dimenticasse un dettaglio di cui sono venuto a conoscenza solo leggendo le note a corredo del bilancio giustappunto dell’annus miriabilis (sic; anzi: sigh e pure gulp) 2005. Ossia che fu una Legge Finanziaria a determinare un cambio che, se non ci fosse stato entro il 31 dicembre 2004, avrebbe comportato il decadimento dal diritto di usufruire dei contributi per l’editoria per qualcosa come cinque anni, con una conseguente perdita di introiti pari a, malcontati, due milioni e mezzo di euro. Che bisogno aveva la Federico di raccontarci questa pur innocua balla? Dev’essere stato più forte di lei.

Peccato veniale tuttavia, quando è il momento di passare a illustrare qualche peccatuccio un tantinello più grave e per la piena comprensione di quanto mi appresto a narrare sarà opportuno che il lettore vada a riprendersi la lunga citazione da Wild Thing (Pensare selvaggio, traducono quelli che sanno l’inglese) che riportavo nel post dello scorso 23 gennaio. Quella da pagina 209. Legga, o rilegga, e tenga bene a mente. Fatto?

Nel momento in cui c’è da fare uscire degli scheletri dagli armadi non ci poniamo nessun limite.” (sempre la Federico: dura, incorruttibile, quasi eroica)

Avvisavo in precedenza: mi concentrerò su pochissimi punti particolarmente significativi ma, più che altro, di comprensione immediata anche per chi si trovasse a passare qui per caso. Mi concentrerò su alcune spese che in nessun modo, a me pare, possono essere giustificate nel contesto di una piccola cooperativa (dalla quale, per inciso, chi per il giornale davvero lavorava veniva scientemente tenuto fuori; cooperativa di giornalisti per modo di dire e che nondimeno le elargizioni statali le riceveva in quanto tale) che pubblica una testata con vendite che negli anni sono oscillate da abissi di meno di tremila copie a vette di diecimila o più. E che a una firma oggettivamente importante come il sottoscritto in quegli stessi anni ha elargito un munifico compenso (mai adeguato all’inflazione e addirittura nel 2012 drasticamente ridotto) di € 395 mensili netti per undici mensilità annue per il lavoro per il mensile e, a seconda del periodo, € 750 oppure 900 (sempre netti) per ogni numero del supplemento “Extra”. Cifre del genere. Ma c’era chi era pagato anche parecchio meno. C’era chi non era pagato per nulla. I soldi li si scialava invece così…

Per autovetture, ad esempio. Scorrendo il bilancio 2004 mi imbatto in un’ auto in leasing del valore di € 28.896. L’anno dopo compare una BMW (l’unica di cui sia dato di sapere la marca) presa sempre in leasing per € 23.832. Nel 2007 c’è una new entry ancora, per € 14.221. Nel 2008 si spendono € 23.718 per l’ennesimo acquisto, e stavolta il pagamento è con un mutuo oppure cash, e però nel 2009 – anno in cui si registra la perdita di esercizio di cui dicevo sopra – quella vettura dai bilanci sparisce. Dove? Forse rubata? Urge sostituirla, allora, e vai con un nuovo leasing, per € 27.552. Evidentemente tutto ciò non basta (faccio presente che tutte queste auto erano in uso non genericamente ai soci, diversi dei quali possono essere definiti, in senso tecnico, dei prestanome, ma ai due proprietari veri della Stemax, dal ’96 all’aprile 2011 Max Stefani e Daniela Federico) ed entro l’esercizio 2010 viene comprato, pagandolo presumibilmente in contanti, un mezzo del valore di € 19.898. Sia chiaro: non spetta a me stabilire se queste spese si configurino o meno come distrazioni di fondi per usi personali. Partiamo anzi dal presupposto che non lo siano. Quello che domando al lettore, e di rado domanda mi parve tanto retorica, è se sia stato etico spendere così tanto per permettere a così pochi di fruire di beni così costosi che si sarebbero potuti benissimo pagare da soli, attingendo agli alquanto lauti emolumenti che generosamente concedevano a se stessi.

Le automobili naturalmente costa mantenerle: benzina, bollo, assicurazione, pneumatici, meccanico. Come ben sa chiunque ne possegga una. Giudichi dunque chi ne possiede una (io, faccendo il pubblicista e non l’editore, mai me la sono potuta permettere) se siano o meno congrue le spese iscritte a bilancio negli anni di vacche già stente 2009 e 2010 (cito questi due perché, misteriosamente, sono i soli in cui nelle infinite colonnine di numeri ne compaiono che dettagliano queste uscite): sono € 38.164, che diviso per ventiquattro mesi fa 1.600 eurelli al mese e mi sembra un po’ tanto, ma magari sbaglio. Siccome sono non solo i due bilanci più circostanziati ma pure i più significativi perché subito precedenti il disastro di un 2011 in cui il passivo  quadruplicherà abbondantemente, giungendo per quel singolo anno a € 107.455, vi cito qualche altra spesa corrente (oltre alle due autovetture, ricorderete), andando praticamente random: una ristrutturazione immobiliare per € 23.639, spese telefoniche per € 12.067, rimborsi a pie’ di lista per € 26.435, abbonamenti e canoni per € 3.159 (Stefani se ne vanterà che la società gli pagava non solo il pieno ma anche l’abbonamento alla pay TV), spese di rappresentanza non meglio specificate per € 7.290. Dal bilancio 2011 (2011!!! non ancora approvato nel momento in cui la Federico lanciava, rivolgendosi con il cappello in mano ai lettori, una campagna di raccolta fondi straordinaria per salvare il giornale) emergono € 23.781 per “spese di trasferta, ristoranti e alberghi”.

Da bilanci sicuramente a norma di legge ma che, eufemisticamente, definirei criptici saltano fuori nel 2005 € 37.135 di “spese manutenzione immobili” (compaiono nel rendiconto successivo) e nel 2006 € 24.336 per software e ci si domanda se abbiano acquistato venti copie di Xpress o un programmino per pilotare il Voyager. Tornando a razzo sul 2009 e 2010, ecco un indizio che il futuro cominciava a fare paura: vengono acquistate due polizze AXA Mps e una INA Assitalia (beneficiaria la società o altri?) per complessivi € 29.000. Verranno presto rivendute, in pesante perdita. Nel 2011 per la prima e a oggi unica volta si precisa inoltre il compenso per l’amministratore: € 25.773 oltre agli oneri. Acqua fresca, direbbe qualcuno.

Tolte auto e relativi costi, potrebbero tuttavia sembrare bruscolini. Prima di passare ad altro vorrei allora dare a chi legge ancora qualche numero su cui riflettere. Ad esempio, lo strabiliante incremento datato 2007 dei costi della “produzione per servizi”, balzati da € 495.022 alla astronomica cifra di € 738.295. Sarà naturalmente soltanto una coincidenza, ma il 2007 rappresenta nella storia della Stemax una breve età particolarmente aurea a sé stante, giacché è l’anno in cui lo Stato generosamente eroga non una ma due rate di contributi (nessuno protesta). I soldi ci sono, in abbondanza, e vengono subito spesi. Posso garantire che né il sottoscritto né qualunque altro giornalista ne ebbe mai il minimo sentore. A noi i compensi non li aumentarono.

Vi vedo frementi: ma, alla buon’ora, quanto si mettevano in tasca direttore (ora ex) e amministratrice (da due anni a questa parte anche direttora)? Impossibile dirlo con certezza non avendo a disposizione i libri contabili. Posso giusto confidarvi (e se volete andate a controllare) che nel 2008 la quota relativa ai soci di costo del lavoro risulta pari a € 266.545 su complessivi 385.301. Che l’anno dopo si inizia (si fa per dire) a stringere la cinghia e la quota relativa ai soci scende a miserevoli € 160.690 su un totale di 315.954. Che nel 2010 si fa quasi la fame con € 153.494 su 233.597. Tenendo presente che i compensi a Massimo Del Papa (per un certo periodo per sua sfortuna e quasi a sua insaputa socio) erano addirittura più modesti dei miei (non avendo lui “Extra”) e che quelli di Beatrice Mele (che credo, ma questa è una mera opinione, non più che dignitosi) potrebbero e forse dovrebbero, secondo logica, essere conteggiati altrove, vi sarete fatti una vaga idea di quanto si pagavano i padroni. Ops! Volevo dire “i principali soci della cooperativa”. Vero che si tratta di cifre lorde, ma per quanto lordi fossero bei soldi erano.

Se avete letto con attenzione il grande Max Stefani, vi attenderete adesso che vi parli di immobili. E sia. Nel maggio 2009 “Il Mucchio” lascia la sua sede storica di via Lorenzo Il Magnifico e si trasferisce in quella attuale in via Antonio Silvani. La prima cosa che salta all’occhio è che è curioso che chi entra in affitto in un alloggio, o in questo caso in un ufficio, spenda (già scritto poco più su) € 23.639 per ristrutturarlo. Strano ma vero. Un po’ meno strano quando si viene ad apprendere che la Stemax questo ufficio che rimette a nuovo lo assume in locazione da due soci. Quei due soci, va da sé. Non ci sarebbe nulla di discutibile (si tratterebbe di uno scambio di favori conveniente per tutti) se, come si scrive per giustificarlo, “sulla base della ricerca di mercato effettuata il canone di locazione” risultasse effettivamente “essere inferiore di € 4.800 annui rispetto a quello di mercato”. A quanto ammonti non lo si precisa, ma lo si può dedurre con una discreta approssimazione dalla voce “godimento beni di terzi” del bilancio 2010. Sottraendo al totale di € 38.892 i canoni di leasing delle benedette auto restano un 25-26.000 euro. Facciamo per comodità di calcolo che siano 24.000, 2.000 al mese spese incluse. In cinque minuti di ricerca appena effettuata su un noto sito di annunci immobiliari ho individuato, per farvi qualche esempio, 45 metri quadrati offerti in affitto a 800 euro, 50 a 850, 67 a 1.050, 120 a 1.800. Stiamo parlando non soltanto della stessa zona di Roma (Nuovo Salario) ma di vie tutte in prossimità (una davvero a due passi, sempre sia lodato Google Maps) della sede del “Mucchio”. Sede del “Mucchio” che è di circa 50 metri quadrati. Se la ricerca di mercato che citano l’hanno pagata, sarà forse il caso che si facciano rimborsare: non credete? I due non sono più da lungi soci in Stemax ma tuttora affittano alla cooperativa questo ufficio, di cui restano proprietari. Fra l’altro: non so se qualcuno ci abbia fatto caso, ma “Il Mucchio” ha il proprio ufficio a un indirizzo e la Stemax è domiciliata, sin dall’ottobre 2001 e tuttora, a un altro. Quell’altro indirizzo risulta essere un’abitazione privata. Come mai? No, dai, non mi va di essere malizioso come probabilmente sarete voi al riguardo.

Ho la coscienza pulita… mi sveglio la mattina e veramente sono contenta.” (sì, è sempre Daniela Federico che parla e sono tanto felice per lei)

Torno all’inizio. Alla visura leggendo la quale mi sono fatto persuaso che valesse la pena esaminare con attenzione bilanci e note. È una lettura illuminante perché offre conferma incontrovertibile di quanto era in realtà già da tempo (grazie alla confessione resa… scusate… all’autobiografia scritta dall’amico Max) di pubblico dominio: vale a dire che della cooperativa Stemax ha sempre fatto parte tanta, troppa gente che in Stemax poi non lavorava. Non vi figurano gli elenchi dei soci (ho giusto quelli degli anni 2010 e 2011, i soli messi on line da AGCOM) ma qualcosa che è quasi meglio, ossia gli elenchi dei consiglieri di amministrazione e dei cosiddetti sindaci, un livello superiore ai semplici soci. Non ci si crede alla gente in cui ci si imbatte: fidanzate, ex-fidanzate, fratelli delle fidanzate (in Stemax da sempre le fidanzate vanno forte), vecchi amici, giornalisti che però sul giornale sono stati delle meteore, fotografi che al giornale hanno raramente dato una foto, tipografi che del giornale non hanno mai stampato un numero e persino Stefani Senior, formidabile personaggio classe 1921. A minuscola riparazione figura in ogni caso anche una firma che per “Il Mucchio” fu invece effettivamente importante, quell’Andrea Scanzi oggi assai richiesto nei salotti televisivi nei quali si dibatte di grillismo. Sindaco dal 19 dicembre 2000 al 7 ottobre 2005, attualmente Scanzi è una delle colonne di un giornale, “Il Fatto Quotidiano”, da sempre parecchio critico riguardo ai contributi all’editoria. Chissà se e quanto la permanenza in Stemax lo aiutò a forgiarsi un’opinione al riguardo, sarebbe bello domandargli.

È stato sempre leggendo la visura di cui sopra che ho appreso che la Stemax il 20 settembre 2005 apriva un ufficio di rappresentanza. “Bravi!”, mi sono detto. Ecco una mossa intelligente. Certamente non si potevano permettere nemmeno con quel popò di contributi una sede a New York o Londra, ma una a Milano sì e può ben capire il lettore quanto possa risultare preziosa per un giornale di musica romano una sede milanese, tenendo conto che la discografia nazionale proprio a Milano è dislocata in massima parte. Poi ho guardato meglio. L’ufficio di rappresentanza lo avevano aperto a Montasola. Prego? Dove? Montasola, provincia di Rieti, 402 abitanti. Per avere conferma di quanto dico non vi servirà procurarvi il documento in questione. Basta che andiate su Google e scriviate di seguito “Stemax” e “Montasola”.

The Rock House

Un giorno di quasi 15 anni fa, durante una delle sue passeggiate a cavallo in solitaria, Max si imbattè in un casale che dominava la bella vallata di Montasola. Colpa forse dei muri in pietra o di quel senso di pace sospesa che solo certi luoghi possono dare, decise su due piedi di acquistarlo. Un giorno di quasi 4 anni fa, ci portò Tiziana, appena conosciuta, e mentre si godevano la vista sul frutteto le disse: ‘ho comprato questa casa molti anni fa e solo ora che sei qui ho capito perché’. Fu così che decisero, sempre su due piedi, di lasciare le rispettive città, ristrutturare il casale e trasferirsi qui. Qualche giorno dopo Max le ha chiesto di sposarlo, ora hanno due adorabili gemelle di pochi mesi, Lola e Zoè, e due gatti dolcissimi, Debby e Dexter. Sono  inguaribili romantici e amanti della buona compagnia.” (dal sito www.agrodolcemente.it)

Ma che dolce quadretto! Ma che tenerezza infinita! In Wild Thing Stefani la racconta con qualche svolazzo in meno – l’uomo è alquanto rustico, si sa. Non faccio copia-e-incolla perché mai vorrei che mi accusasse di usurpare la sua abilità principale. Mi limito a riassumere e perdonerete l’italiano un po’ zoppicante rispetto a quello di cotanto maestro. La mitica casa di Montasola (il “casale rock”, come è oggi conosciuto fra gli appassionati) vi compare per la prima volta a pagina 219. Curiosamente la si situa dalle parti di Poggio Mirteto ma via, son due passi, non sarà il caso di spaccare il capello e formalizzarsi per una simile, insignificante imprecisione. Si dice di un acquisto deciso su due piedi e pagato con la vendita della propria collezione di vinili. Si accenna che qualche anno dopo diverrà il primo vero “nido d’amore” per lui e la moglie. Tutto questo accade nel 1997. Nel racconto il casale non riappare che a pagina 291 e si è fatto il 2009. Scrivendo che “ovviamente la country house era rimasta quasi come l’avevo trovata dieci anni prima” il buon Max si sbaglia di due anni ma, si sa, diversamente dall’italiano la matematica non è mai stata il suo forte. Più interessante, benché da prendere con beneficio di inventario, è che scriva di piccoli lavoretti di ristrutturazione fatti nel frattempo e che pagherà il grosso del resto principalmente vendendosi casa (con dentro ancora il padre) e reperendo risorse in vari altri modi che qui non è interessante né utile dettagliare.

Oh, non ci crederete mai ma il 30 giugno proprio del 2009 la Stemax chiude il cosiddetto “ufficio di rappresentanza” a Montasola per aprirne un altro e stavolta a Roma. Accade il 1° luglio, vale a dire il giorno dopo, e questo ufficio è sito in via Cairoli. Dev’essere un’altra sorprendente combinazione che proprio allo stesso numero civico vada ad abitare Stefani, essendosi venduto l’appartamento romano e non essendo ancora finiti i lavori a Montasola. Un uomo in ogni evidenza “tutto casa e ufficio”, a dispetto della nomea di indolenza da lui stesso alimentata. A proposito di casualità: nei bilanci Stemax forse rammenterete che in un dato anno… aspettate… fatemi controllare… ecco, nel 2005… compaiono “spese manutenzione immobili” per € 37.135. Chi lo frequentava esclude che in quell’anno siano stati fatti lavori, e in special modo lavori così importanti, nell’ufficio in via Lorenzo il Magnifico e io allora non so proprio cosa pensarne. Suggerimenti?

Sia come sia: una sciocchezza, queste “spese manutenzione immobili”, a fronte di “immobilizzazioni immateriali” per complessivi € 102.898 registrate nel bilancio 2004 e già in calo (ammortamento?) rispetto agli € 128.833 risultanti dall’esercizio precedente.

Oggi Max Stefani vive proprio a Montasola, stessa via e numero civico del fu ufficio di rappresentanza Stemax, in questo favoloso casale certamente interamente ristrutturato con soldi suoi e che in uno stupendo slancio d’amore ha pensato bene di intestare alla moglie. Una vergogna che qualcuno osi insinuare che l’abbia fatto per sottrarsi, in quanto nullatenente, a certe querele che lo stanno inseguendo e una sola delle quali (lo so per certo) comporta una richiesta di danni quantificati in € 100.000. A Montasola, stessa via e numero civico del fu ufficio di rappresentanza Stemax, ha oggi sede legale l’impresa individuale della moglie, la cui attività (ve l’ho già detto che Google è fantastico?) consiste nella “coltivazione di ortaggi (inclusi i meloni) in foglia, a fusto, a frutto, in radici, bulbi e tuberi in piena aria (escluse barbietola da zucchero e patate)”. Lo tenga presente il prossimo che vilmente oserà accostare al nome di Max Stefani, oggi direttore di “Outsider”, l’espressione “braccia rubate all’agricoltura”.

Allora: tutto bene quel che finisce bene? Massì! Del come l’amico Macse venne accompagnato nella primavera 2011 alla porta del giornale fondato da lui medesimo nel 1977, con un accordo di liquidazione in 117 comode rate, vi racconterò un’altra volta, o forse no. Magari non ce ne sarà più bisogno. Mi sentirei però un verme se non informassi il lettore della splendida opportunità che gli si offre. Proprio a Montasola, ancora stessa via e numero civico del fu ufficio di rappresentanza Stemax, è oggi in vendita ad appena 165.000 euro un villino di 100 metri quadrati con un ettaro e mezzo di terreno. Sia chiaro che non è il casale rock, che è immobile di ben altre dimensioni e valore. Forse ne è una dipendenza, forse trattasi di altra proprietà. Al posto vostro (io purtroppo ho in banca due spiccioli e già un mutuo da pagare) non mi farei sfuggire l’occasione di andare ad abitare in un posto tanto ameno e soprattutto con come vicino di casa un’autentica leggenda del giornalismo musicale nostrano. Pensate alle serate che potrete trascorrere insieme lietamente dibattendo della discografia (solo quella blues, mi raccomando) dei Fleetwood Mac.

Però affrettatevi. Ho come l’impressione che per qualcuno del doman non vi sia certezza.

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Voglio la testa di Garcia

Voglio la testa di Garcia

Era da un po’ che pensavo di scrivere un post così. Ma in nessun modo sarei mai riuscito a essere così preciso, puntuale, circostanziato e in una parola perfetto. Mi tolgo il cappello, allora, e passo la linea.

http://massimodelpapa.blogspot.it/2013/05/facili-domande-consigli-per-un.html

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Game over

E l’ultimo spenga la luce.

Who's Next

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Un lungo addio

Un lungo addio

(Avvertenza – In questo chilometrico post si spiegano infine dettagliatamente, per quanto è possibile senza uccidere di noia il lettore, le ragioni del mio divorzio dalla rivista “Il Mucchio”. Chi non mi seguiva anche su quelle colonne, chi frequenta VMO solo perché interessato a leggere di musica può serenamente impegnare altrimenti i cinque o dieci minuti che ha la gentilezza di dedicarmi quotidianamente.)

Esattamente un anno fa a oggi ho lasciato “Il Mucchio”. “Ma non te ne eri andato all’inizio dello scorso dicembre?”, si chiederà perplesso chi ha seguito qui – o sulla mia pagina Facebook, o sul forum della rivista suddetta – il dibattito successivo all’annuncio, nell’editoriale di Daniela Federico del numero di gennaio, dell’interruzione di una collaborazione complessivamente quasi ventennale. “Ma non te ne sei andato dopo la mancata pubblicazione di una  recensione che ti era stato chiesto di modificare?” Be’, la storia è un po’ più complicata di così. Nessuno lascia un giornale nel quale ha trascorso due terzi o all’incirca della sua vita di adulto per un unico scontro, per quanto aspro e grave possa essere stato. Non ci fosse altro, uno per certo non abbozzerebbe – se la sua schiena è dritta; se una schiena ce l’ha – ma, dopo, cercherebbe di ricomporre. C’era evidentemente dell’altro. Tantissimo d’altro.

Un anno fa mi sono dimesso, dicevo. Nella mattinata del 23 gennaio 2012 avvisavo con una mail di quanto stava per accadere i miei compagni di redazione e sventure – persone stimabilissime professionalmente e umanamente che saluto e abbraccio una ad una: Alessandro Besselva Averame, Aurelio Pasini, Carlo Bordone, Damir Ivic, Elena Raugei, Luca Castelli – e poi anticipavo ai capiservizio, su loro richiesta, la lettera di dimissioni che mi accingevo a inviare alla direttrice (nonché editrice e amministratrice: la grande anomalia che è questa rivista si nota anche da certi dettagli) Daniela Federico. Lo facevo perché mi sembrava giusto cercare di limitare i danni collaterali per Federico Guglielmi e John Vignola. Mi sembrava giusto ed ero disponibile a discuterla con loro, la lettera, ed eventualmente a cambiarla in qualche punto, ammorbidendola. Mi sembrava giusto, ma si è rivelato un errore. Un dispiaciuto ma non sorpreso (lo psicodramma collettivo andava avanti da quasi due mesi) Vignola si limitava a prendere atto. Guglielmi mi strappava un rinvio. Ventiquattro ore. Il massimo che potevo concedergli, visto che la sera dopo la Federico sarebbe stata a Torino e di incontrarla, con il rischio di una piazzata in pubblico, non avevo alcuna voglia. Ventiquattro ore. Il secondo e capitale errore. Perché avevo allora tutto il tempo per riflettere che le mie dimissioni rischiavano, arrivando nel momento più drammatico della sua storia, di dare il colpo di grazia a un giornale che non è mai stato un semplice giornale di musica come tanti. Andandomene proprio in quel momento avrei deluso troppa gente, dentro “Il Mucchio” ma soprattutto fuori. I lettori, che diamine. I lettori. Non avrebbero capito e avrei capito il loro non capire. Mi avrebbero visto come un traditore, come un killer magari prezzolato da Max Stefani. Non potevo sopportarlo. E persino quasi peggio era il pensiero che, oggettivamente, a Stefani avrei fatto in effetti un favore. Così quando la mattina seguente Guglielmi, prevedibilmente, mi chiedeva di soprassedere, di fare passare qualche mese ancora, non  opponevo troppa resistenza. Mi limitavo a scrivergli due righe a futura memoria: “Non ci sarà nessuno sviluppo positivo, mai. Lo sa John, lo sai tu, lo sapete tutti. E nessuno ha il coraggio di fare le due uniche cose possibili: dimettersi, oppure andare a uno scontro finale. Tertium non datur, a meno che tertium non voglia dire continuare a vivere di quotidiane umiliazioni per poi probabilmente arrivare comunque a un’ingloriosa fine”. E altro, che qui non riporto perché sono affari nostri.

Quella lettera di dimissioni allora non l’ho spedita. La sera del 24 gennaio mi toccava la cena aziendale, con Daniela Federico e Beatrice Mele. La sera del 25 la dividevo, come diverse altre centinaia di persone, fra il Blah Blah e lo Spazio 211, fra il reading di uno straordinario Maurizio Blatto (uno che per inciso scrive per una testata concorrente: tanto per dire quanto in giro si voglia bene al “Mucchio”) e un concerto con sul palco decine di musicisti, tutti lì gratuitamente per raccogliere fondi per un giornale a un passo dalla chiusura, e in consolle Max Casacci (uno che da Stefani era stato diffamato a più riprese: tanto per ridire quanto in giro… eccetera). La sera del 25 gennaio 2012 sono stato, con Torino, “nel Mucchio”. Sfortunatamente mi è poi toccato passarci il resto dell’anno. Ma è una storia lunga, vi dicevo.

Ho pubblicato il mio primo articolo su quello che era allora “Il Mucchio Selvaggio” nel febbraio 1983. Quelli che ero convintissimo che sarebbero stati gli ultimi nel settembre 1988. Mai mi sarei aspettato di tornare, per così dire, alla base e invece è proprio quanto accadde nel novembre 1999. Ho insomma dedicato a questo giornale una parte molto importante – e in certi momenti esclusiva – della mia vicenda professionale: diciotto anni e sette mesi in tutto, periodo che allo scorso 3 dicembre faceva di me – e di gran lunga – il veterano della compagnia dopo l’inarrivabile Federico Guglielmi. Mi pento di avere dato tutto questo tempo al “Mucchio”? No, per due ragioni. Una è che ho avuto negli anni la possibilità di conoscere eccellenti professionisti e spesso persone meravigliose, fra i colleghi. La seconda è che la militanza – perché per altri giornali, scoprii presto, si scrive ma in uno soltanto si milita – nel “Mucchio” mi ha messo in contatto con i lettori più incredibilmente appassionati che mai rivista specializzata abbia avuto in Italia. Quella stessa gente che un anno fa si è mobilitata con slancio commovente – sottoscrivendo abbonamenti, acquistando arretrati e magliette, offrendo spazi radiofonici, organizzando eventi pubblici – per fare sì che il giornale continuasse a esistere. Ecco: io ho sempre scritto per quella gente. Non per un direttore che mensilmente – in editoriali, rubriche, articoli e risposte a lettere che si era scritto da solo -insultava i suoi collaboratori, non per un editore che faceva un uso sciagurato e a dir poco discutibile eticamente di soldi oltretutto pubblici. Per quella gente ho sopportato.

Il 20 aprile 2011 proprietà (non è proprio esatto, trattandosi formalmente di cooperativa; ma è per intendersi) e direzione del giornale (l’amministrazione no, quella era già l’attuale e da sempre) cambiavano. Non mi facevo illusioni al riguardo. Mai creduto che si trattasse dell’alba di una nuova, radiosa era di vino e rose. Tuttavia dal non farsi illusioni all’avere una delusione dopo l’altra (la prima vedere autonominarsi direttrice una persona che non ha scritto un articolo di argomento musicale in tutta la sua vita; la seconda vedere promossa a caporedattrice una persona con un curriculum di due righe in luogo di un’altra indiscutibilmente, incommensurabilmente più qualificata per quel ruolo, o meglio ancora per quello di direttore) ne corre. Si stava meglio quando si stava peggio? A parte che il giornale si è nel frattempo emendato da taluni difetti detestabili, azzarderei di sì. Perché Stefani almeno nel suo “io so io e voi nun siete n’cazzo” era esplicito. Non cercava un “dialogo” che, nel momento in cui in realtà il contraddittorio non lo si accetta (e chiunque osi alzare la manina per dire che qualcosa non gli sta bene diventa uno “che rema contro”), non è che una presa in giro. Mai pensato che la democrazia sia il migliore dei sistemi per condurre un giornale. Può essere il più nefasto. Nondimeno l’uomo solo al comando e i sacrifici insieme non si tengono. Mi si può benissimo dire (possibilmente non dopo avermi fatto una domanda ed essersi irritati perché la mia risposta non era quella attesa) che devo stare al mio posto, che è diritto del direttore – che in questo caso, ricordo di nuovo, è pure editore e amministratore –  decidere come meglio crede. Perfetto. Nulla da eccepire. Però allora non fare il democratico. Però allora pagami: non per gratitudine, perché ti ho dato un’enorme mano a tirarti fuori dalla merda in cui stavi, ma semplicemente perché ho fatto il mio lavoro, l’ho fatto bene, l’ho fatto nei tempi dati. E se ti credi di essere Mondadori allora sii Mondadori a tempo pieno e non lanciare appelli ai lettori come se fossi “Il Manifesto” o Radio Popolare. Ci vorrebbe un po’ di coerenza. Di decenza. Un minimo.

Nei primi mesi del 2012 sono stati i lettori a salvare “Il Mucchio”. Nel resto dell’anno l’insipienza di chi ne ha preso il timone lo ha riportato nel pieno di una tempesta se possibile peggiore della precedente. Ed è pazzesco che si ritrovi in una simile situazione una casa editrice che negli anni ha ricevuto in grazioso dono dallo stato svariati milioni di euro. Svariati.

Ma diamo i numeri?

516.456,90

517.000

451.360,50

451.179,96

423.160,82

422.221,73

364.552,76

Questi – per i soli sette anni (compresi fra il 2003 e il 2010) dei quali il sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri conserva traccia: la documentazione la trovate qui – sono i denari che ha ricevuto ultimamente Stemax dallo stato italiano come contributi all’editoria. Cifre ragguardevoli, per quanto costantemente calanti (e in tal senso il 2012 ha lasciato sul campo più morti che feriti), e tanto di più lo erano (oltretutto integrate da un bel 10% di credito di imposta acquisto carta) negli anni precedenti. Come potrà constatare, pur nelle pieghe di conti piuttosto fumosi al riguardo, chi avrà la pazienza di andare a cercarsi i bilanci pubblicati annualmente, come da obblighi di legge, sul giornale stesso. Non è questo il luogo per aprire un dibattito sui fondi all’editoria, che sono sempre stati un modo anomalo per mettere una toppa a una situazione anomala come quella italiana, nella quale la raccolta pubblicitaria va immancabilmente (come in nessun altro paese civile al mondo succede) a privilegiare determinati soggetti e anzi e nello specifico un soggetto. A quanti – non per partito preso o pregiudizio ideologico – sostengono che il rattoppo è peggio del buco fino a non molto tempo fa avrei detto che sbagliavano. Oggi non lo direi più. Credo che si partisse da un principio pure giusto, ma che una legge mal formulata e l’assenza per lunghissimo tempo di qualsivoglia controllo abbiano prodotto abusi scandalosi. Nella sua per certi versi imperdibile autobiografia, Wild Thing, Max Stefani è ineffabilmente candido al riguardo. Copio e incollo, e mi perdonerà se per una volta mi cimento in una specialità della quale è notoriamente un campionissimo, da pagina 209.

…avevo saputo da Aurelia Spezzano che c’era la possibilità concreta di ottenere dei finanziamenti da parte dello Stato costituendo una “cooperativa di giornalisti”. Addirittura il 50% del fatturato?!? A me (che non sapevo neanche cosa fosse lo scoperto in banca) parve una favola. Feci quindi una nuova società sotto forma cooperativa che editò il giornale, affittandolo dalla Lakota. La chiamai “Stemax”… …quasi tutte le Cooperative di questo genere (con forse l’unica eccezione del “Manifesto”) sono in effetti delle SRL truccate. Ci sono uno o due proprietari e sette amici o famigliari che non contano niente ma servono solo a fare numero. Vero è che le Cooperative non possono rendere utili ma ognuno può pagarsi lo stipendio che vuole e per pagare meno tasse possibili si caricano sull’azienda auto di lusso, case e ogni genere di benefit, compreso varie assicurazioni. La prima cosa da fare è comprarsi un ufficio e darlo in affitto (ovviamente solo sulla carta) alla Cooperativa: praticamente la Cooperativa paga il mutuo e dopo tot anni ti ritrovi casa gratis.

Ecco. Credo abbiate capito il meccanismo. Molto più avanti, nel pieno dell’epico racconto della sua cacciata dal giornale, Stefani incautamente farà l’elenco (pagina 301) di quelli che erano i soci al momento della sua defenestrazione. Su nove nomi, uno era addirittura ignoto a Stefani stesso e i giornalisti (e spero che l’Ordine non mi espella per avere contato Stefani come tale, ma il tesserino ce l’ha) erano ben quattro. Quattro giornalisti, o comunque quattro persone che a Stemax in qualche modo lavoravano, e cinque prestanome. “Il Mucchio” dal 1996 al 2012 ha preso soldi dallo stato in quanto periodico edito da una cooperativa di giornalisti. Peccato che, nei più volte mutati elenchi dei soci, di giornalisti che in effetti scrivevano per “Il Mucchio” si stenti a trovarne. Io non sono mai stato socio di Stemax. Federico Guglielmi non è mai stato socio di Stemax. John Vignola non è mai stato socio di Stemax. Con l’eccezione di Massimo Del Papa, nessuna delle firme di primo piano del “Mucchio” è mai stata socia della cosiddetta “cooperativa di giornalisti” Stemax. Che ciò nonostante (con ogni evidenza le verifiche a tal riguardo sono sempre state per così dire lacunose) ha ricevuto dallo stato, per gli anni di cui sopra, i contributi previsti per le cooperative di giornalisti. Ne avesse fatto buon uso, almeno!

Pur essendo a conoscenza – più o meno e avendo appreso i dettagli più sconcertanti per un bel pezzo poco per volta e per il maggioritario resto in un colpo solo: avevo qualche ottima ragione per essere fuori di me lo scorso gennaio – di come siano andate in effetti le cose, stento a capacitarmi di come abbia potuto un giornale che godeva di simili aiutini, e che qualche copia la vendeva (in alcuni momenti – oggi incluso – poche, in altri un numero niente affatto disprezzabile), ridursi alle disperate condizioni odierne. Dividerei il discorso in due parti. Innanzitutto ci sono state scelte editoriali folli: il settimanale non sarebbe mai dovuto nascere e, a ucciderlo una volta nato, se non in culla dopo due o massimo tre anni, la Stemax non si sarebbe caricata della zavorra di debiti che ora, a ben nove di anni dal ritorno alla cadenza mensile, la sta trascinando a fondo. Il settimanale è stato un buco nero nel quale sono sparite cifre insensate, un’avventura che Stefani (lo ammette lui stesso di non essere mai stato capace a fare i conti) si è ostinato a portare avanti parecchio oltre la data (2000? facciamo anche 2001 ma certo non 2004) in cui il disastro era andato assumendo proporzioni che si riveleranno ingestibili, inemendabili. E questa è la prima parte: si parla di politiche sbagliate perseguite oltre ogni limite di buon senso. La seconda metà della storia racconta che, mentre progressivamente gli incolpevoli e inconsapevoli collaboratori pagavano dazio vedendo dilatarsi a dismisura i saldi di compensi oltrettutto mai adeguati nemmeno simbolicamente al costo della vita, c’era chi – invece di, ad esempio, provare a investire in innovamento mettendo così fuori gioco quella concorrenza che non poteva permetterselo – si concedeva stipendi sontuosi e, per l’appunto, “ogni genere di benefit”: dalla macchina aziendale al pieno di benzina (sempre Stefani dixit, eh?) e persino all’abbonamento alla pay tv. Mentre c’era chi doveva ricorrere a prestiti perché messo in ginocchio dal ritardo dei pagamenti (ad esempio chi sta scrivendo queste righe: l’ultimo finirò di rimborsarlo il prossimo agosto), altri vivevano un filino più agiatamente. Magari integrando i miseri introiti – visto che c’erano – appropriandosi dei diritti d’autore (ventimila euro, lo sbandiera sempre la stessa personcina ma questo già lo sapevo, grazie) per un libro del quale non avevano scritto praticamente una riga.

Voglio essere molto chiaro al riguardo: se “Il Mucchio” dovesse morire nei prossimi mesi (il “se” al momento attuale è caritatevole) le responsabilità saranno di Max Stefani e di Daniela Federico, ma in una percentuale enormemente sbilanciata verso il primo. 80 contro 20, 90 contro 10, 95 contro 5… fate voi. Per quanto io abbia tanto da rimproverare alla seconda, non posso non cercare di essere – per quanto mi è possibile da persona che è parte in causa – un minimo obiettivo al riguardo. Non posso non riconoscere che, se Daniela Federico ha amministrato la Stemax sin dalla nascita della società e non può quindi in alcun modo dirsi innocente, per un lungo periodo non è stata in condizioni di opporsi a chi (di nuovo: alla faccia della fantomatica cooperativa) ne era nei fatti l’editore. Per lungo tempo ne ha subito le scelte, probabilmente senza condividerle, e non appena le è stato possibile cominciare a esercitare una qualche opposizione, e provare a limitare i danni, lo ha fatto. Per amore del “Mucchio”? Soltanto per portare a casa la pelle? Non ha importanza. Lo ha fatto ed è ciò che conta, anche se probabilmente non ha fatto abbastanza, anche se probabilmente lo ha fatto a tempo abbondantemente scaduto.

A Daniela Federico rimprovero la metamorfosi (perché io un minimo la Daniela di prima la conoscevo ed era persona per la quale per un certo periodo ho nutrito stima, simpatia, anche del genuino affetto) post-20 aprile 2011. A Daniela Federico rimprovero di avere avuto l’arroganza di assumere la direzione del giornale non avendo né le competenze né la sensibilità per farlo e avendo invece a disposizione una persona assolutamente qualificata e assolutamente fidata, cui ha invece scelto di infliggere la peggiore umiliazione professionale che potesse infliggerle ed è comportamento del quale tuttora non mi capacito (manco mi capacito che quella persona non abbia reagito andandosene e facendo causa, ma tant’è). A Daniela Federico rimprovero di essere passata dalla sera alla mattina dal Direttorio al trono imperiale. A Daniela Federico rimprovero le tante promesse fatte (anche io conservo le mail, eh?) e per la più parte non mantenute. Una direzione che con l’acqua sporca di trascorse cialtronaggini ha buttato via quel bambino, bellissimo e dispettoso, che era lo spirito che ha reso “Il Mucchio” un giornale differente da tutti gli altri che nei decenni si sono occupati di musica, o prevalentemente di musica, in questa terra dei cachi. Le rimprovero di essersi fatta prendere per il collo nella risoluzione del contenzioso con l’ex-direttore, quando era lei ad avere in mano corda e sapone, e anche quei soldini oggi avrebbero fatto comodo. Ma il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare e credo che pure da questo derivi la mollezza del “Mucchio” post-Stefani. Forte con i deboli (fastidiosissimo il continuo ricordare ai collaboratori storici che fuori dalla porta c’è la fila degli aspiranti collaboratori) e debole con i presunti forti, la direttora si è persa in costose quisquilie come il rinnovamento grafico quando l’unica, piccola possibilità di restare a galla sarebbe stata quella di studiare e attuare un assalto al Web. Dov’è il nuovo sito del “Mucchio” di cui si favoleggia da un paio di anni? Persino il forum sta gradualmente sfiorendo. Daniela Federico non è arrivata ieri al “Mucchio”, c’è dal lontanissimo 1986, e ciò nonostante in tutti questi anni non ha metabolizzato nulla – per carità: mia opinione – né dello spirito del giornale né della psicologia del suo lettore medio: ci avesse mai acchiappato qualcosa, non le sarebbe passato per l’anticamera del cervello di fare di una recensione che di quello spirito e quella psicologia è financo esageratamente pregna un assurdo casus belli. Non l’avevo certo scritta con quella intenzione (ho un sacco di piacevoli perversioni ma il sadomasochismo no, non mi aggrada) e mai mai mai mai mai mai mai (ho detto abbastanza volte “mai”?) avrei immaginato che avrebbe costituito un problema. Cara Daniela, perdona il francesismo: non ci hai capito un cazzo.

E, cara Daniela, fatti dire un’altra cosa. Non sarebbe andata a finire così male (mi sarei dimesso ugualmente, ma sarebbe stata un’uscita di scena infinitamente meno chiassosa) se, messa a conoscenza del fatto che ritenevo che un tuo ventilato progetto editoriale potesse danneggiarmi, tu sul finire dello scorso settembre non avessi ritenuto di telefonare prima al tuo legale e soltanto poi al sottoscritto. Non si fa così, Daniela. Non fra amici. Gli amici, se sorgono dei problemi fra loro, provano a spiegarsi senza andare prima a vedere a chi dà eventualmente ragione la legge, anche perché non sempre la legge dà ragione a chi eticamente l’avrebbe. Per quanto assurdo sembri innanzitutto a me stesso, io fino a quel pomeriggio ancora mi ostinavo a pensarti come a un’amica. Ma Dio ci scampi dai “compagni che sbagliano”.

“Il Mucchio” si appresta a subire una drastica riduzione della foliazione di cui ci si è guardati bene dall’avvisare i tanti che proprio in questi giorni, essendo passato un anno tondo da quell’altro fatal gennaio, stanno rinnovando l’abbonamento. Agli interni è stato dato il preavviso che precede il licenziamento. I collaboratori retribuiti (percentuale che con il tempo è andata facendosi sempre più minoritaria) hanno ricevuto la scorsa settimana (io compreso) un modesto acconto delle spettanze del 2012. Il resto rinviato a una data da destinarsi che somiglia sinistramente al “mai”. Da qui a fine mese dovrò pagare la quota annuale all’Ordine dei Giornalisti e all’Associazione Stampa Subalpina. In probabilissima assenza di sviluppi positivi in questi pochi giorni che mancano, ne approfitterò per fare ciò che in quasi tre decenni non ho mai fatto (avevo un bravissimo avvocato e il mio punteggio in cause simili è a oggi di tre a zero in mio favore): chiederò assistenza per recuperare i crediti che avanzo dalla Stemax. Al “Mucchio” ho dato tanto in vita mia, troppo. Gli spiccioli (che poi per me spiccioli non sono) farò il possibile per non lasciarglieli.

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La ‘ggente la reclama a gran voce: Sufjan Stevens – Silver & Gold (Asthmatic Kitty)

Sufjan Stevens - Silver & Gold

“La musica ha rotto il cazzo”, mi fa il Guglielmi al telefono e subito mi entusiasmo. “Questa te la rubo”, lo avviso, avendo infine trovato il nome giusto per un blog per il quale è da un pezzo che ho il sottotitolo: “Mi rompo i coglioni io affinché non dobbiate romperveli voi”. Lì vagheggio di sistemare stroncature di tutti i dannati dischi che mi tocca ascoltare e che non hanno giustificazione alcuna per esistere. Tutti quei fottuti dischi “carini”, con un bel suono che hai già ascoltato tre trilioni di volte e due pezzi buoni che una volta ci si sarebbe fatto un singolo e finiva lì. Tutti quei dischi che se scrivi per una rivista ti tocca essere serio e dargli due stelle perché, dai, oggettivamente mica è brutto. E intanto hai buttato via ore preziose dell’unica vita a tua disposizione. Insomma: mi trastullo qualche giorno con l’idea e poi ho un soprassalto di buonsenso e decido di lasciar perdere, ché un blog già ce l’ho e, conoscendomi, andrebbe a finire che i dischi da massacrare li ascolterei quella volta di più per massacrarli meglio e già così non vivo. Come niente “Silver & Gold” lo avrei fatto girare quelle tre volte, tutti i suoi centosessantasette minuti della minchia. Ah già… “Silver & Gold” l’ho fatto girare quelle tre volte, intero, e ogni volta già a metà del primo dei suoi cinque CD avrei voluto morire, o in alternativa scoprire cosa si prova fumando del crack.

C’è chi sostiene che Sufjan Stevens sia un genio e, che il dio delle sette note mi perdoni per questo, una volta io pure mi sono spinto a definirlo “un genietto”, eclettico come pochi mai. Basti ricordare che nell’esordio del 2000 “A Sun Came” declinava avant-folk alla Comus, nel successore “Enjoy Your Rabbit” cosmicherie alla Cluster, in “Greetings From Michigan” pop “come potrebbe Philip Glass” (parola di “Pitchfork”, mica di “Pizza e fichi”), ove in “Seven Swans” era un po’ Nick Drake e un po’ Elliott Smith. In “The BQE” il trentaquattrenne e oggi trentasettenne di Detroit passava direttamente da un pop “come potrebbe Philip Glass” a musica neo-classica “alla” Philip Glass ed era lì che mi facevo fregare e scrivevo di “un suo ‘Koyaanisqatsi’”. ’Sti qatsi! Deve essere stato a quella altezza che si è definitivamente convinto che tutto gli fosse permesso o forse no: forse ha semplicemente inteso che, in un’era di musica liquida che ha liquidato la musica in quanto oggetto con un valore commerciale, uno dei modi per sopravvivere (e lui manco esagera) è buttare fuori un disco dopo l’altro e, se ci sono anche poche migliaia di persone che li comprano tutti, ci campi. Solo che l’arte (figurarsi l’Arte) non ha più nulla a che vedere con tutto ciò. Raccolta in box ed è già la seconda (a quanto pare errare è umano, ma perseverare è divino) di cinque EP approntati nell’arco di altrettanti anni di brani di argomento natalizio, “Silver & Gold” è paradigma insuperabile di un modo estesamente affermato di vendersi nell’accezione deteriore del termine (al confronto Lady Gaga un’epitome di etica): un bell’oggetto (nel tempo della musica liquida un decisivo valore aggiunto) pieno di niente. E allora sarebbe una totale perdita di tempo e spazio, ed esercizio intellettualmente al pari disonesto, provare a nobilitarlo evocando la tradizione tutta americana  dell’album natalizio, quando poi l’unico che meriti un ascolto (tanti giganti della musica nera e persino Bob Dylan sono invece caduti: nell’imperdonabile) resta quello che approntò Phil Spector. E vale giusto a giustificare che io ci abbia perso dietro otto ore appuntare che, fra quelli che vanno considerati cinque album distinti (hanno del resto ciascuno un titolo e una copertina) giusto il terzo, “Christmas Infinity Voyage”, abbia un vago senso, una minima dignità, con le sue sperimentazioni spicciole di pop da camera e techno-wave, fra una danza spastica e uno sgretolarsi di nevrosi, una giostrina stralunata e un valzer dolente. Lasciano viceversa attoniti per la banalità i primi due, “Gloria” e “I Am Santa’s Helper” (ne cavi una Jingle Bells come fatta dai Pavement e la illbient di Eternal Happiness Or Woe: sono tre minuti) e per l’inconsistenza il quarto, “Let It Snow”. Il quinto, “Christmas Unicorn”, finisce con i 12’30” di una traccia omonima di una circolare, sfiancante ossessività che denota il disegno malvagio di questo “cristiano problematico” di farci patire l’inferno in terra, così che noi ci si penta e non si abbia a patire l’altro.

Sono le due di notte di un sabato e io sono qui a scrivere di Sufjan Stevens, quando dovrei essere in giro a cercare droghe e sesso promiscuo. Robe da persona normale. La musica ha rotto il cazzo.

Recensione scritta per “Il Mucchio”, n.701, nella notte fra il 17 e il 18 novembre 2012. Mai pubblicata.

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Non dedico tempo…

…a chi non ha rispetto, a chi è falso, è vile… e non ha stile. A chi non va mai in fondo alle scelte che fa (se ne fa), a chi è custode del ghetto in cui sta.  Perché come sempre è una questione di stile, di chi ce l’ha, di chi non ce l’ha.

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