
Se siete fra i venticinque lettori che hanno acquistato Extraordinaire 1 ─ scherzo: foste così pochi col piffero che avrei posto mano al secondo; è una citazione da I promessi sposi ─ sapevate prima ancora di scorrerne l’indice cosa antologizza questo volume: le monografie dedicate a solisti e gruppi non americani (quelli stanno sul primo) che pubblicai sul trimestrale e poi semestrale “Extra”. Nello specifico, fra l’autunno 2001 (numero 3) e l’inverno 2012 (numero 37; penultimo prima che mi dimettessi per ragioni che non merita rivangare). Sono quattordici, cui come al primo giro ne ho aggiunte alcune, che a questo giro sono quattro, edite sul mensile “Blow Up” fra il 2013 e il 2019 e che mi pare si trovino benissimo in loro compagnia. Preziose per tracciare ulteriori linee fra i vari punti di un discorso complessivo su oltre mezzo secolo di rock e dintorni.
Già lo raccontai nel 2020: in ormai quattro decenni di onorata professione “Extra” resta il mio incubo più bello. Nella storia dell’editoria musicale italiana non si ricordano altre riviste di lungo corso che fossero parimenti in massima parte dedicate all’approfondimento, con pezzi che arrivavano a prendersi dalle dieci alle venti pagine e in ogni numero una lista commentata di cento album di un determinato genere o periodo. Di alcune di queste discografie consigliate fui il solo estensore e fra introduzione e schede parliamo di 140.000 battute. Quanto alle monografie, ci fu un fascicolo in cui ne firmai non una ma due, per un totale di abbondanti 125.000. Per darvi un’idea: il libro che tenete fra le mani assomma a 840.000. Ogni numero di “Extra” mi è costato un rush finale di quattro, cinque, sei giornate lavorative di quattordici, quindici, sedici ore cadauna. Roba da ricovero per esaurimento nervoso, dopo, o minimo da due settimane di riposo assoluto non fosse che con tutte le altre collaborazioni che dovevo tenere in piedi per pagare i conti di un’esistenza di austerità monacale era tanto se potevo permettermi due giorni. Una volta tirai la corda a tal punto che io sopravvissi alla consegna, il mio computer no. Fu nel luglio 2007. Inviai l’ultimo pezzo alle nove di mattina. Ero alla scrivania da ventisei ore. Manco spensi il pc, mi buttai sul letto nella stanza accanto e svenni. A svegliarmi da lì a breve di soprassalto furono un odore stomachevole e un suono tipo sirena di allarme. Nel mio studio una nuvola di fumo e non di quello buono. Insomma: aveva preso fuoco l’alimentatore (il disco rigido per fortuna si salvò e da allora non passa settimana senza ch’io faccia una copia degli archivi su altro supporto). Staccai la spina, spalancai le finestre e tornai a dormire. Giuro.
Però pure stavolta rileggendomi mi sono detto che ne è valsa la pena. Le recensioni rappresentano la ragione principale ─ gli editori e i colleghi che conosco sono unanimi al riguardo e sarà dunque così, per quanto a me sembri incredibile; io da semplice appassionato in gran parte le salto ─ per la quale i giornali specializzati vendono ancora quel poco che vendono. Tuttora mi tocca allora scriverne, tante, e lo trovo un compito sempre più ingrato. Se penso alle ore che sommandosi diventano giorni che sommandosi diventano settimane che sommandosi diventano mesi che sommandosi diventano anni che ho dovuto dedicare, perché mi toccava, all’ascolto di dischi sostanzialmente inutili, che restano la stragrande maggioranza di quelli che superano selezioni ultrarigorose fra i troppissimi che escono, mi pigliano un nervoso e uno sconforto che non vi dico. Mi viene da pensare che, mi restituissero il tempo che ho impiegato così, morirei ultracentenario. Mi viene da pensare di averlo buttato via. Ma gli articoli sono un’altra faccenda. Per cominciare perché quelle me le commissionano e questi ─ sin dacché mi occupavo prevalentemente di attualità e ancora di più man mano che da cronista mi sono trasformato in storico della popular music ─ me li sono quasi sempre scelti. Sempre più spesso, perché avevo voglia di ripassare l’opera di qualcuno ed ero così non soltanto giustificato ma obbligato a farlo. Di quelli davvero corposi (diciamo sopra le 20-25.000 battute) ormai ne firmo massimo quattro o cinque all’anno. Invariabilmente prima di attaccarne uno mi chiedo chi me lo faccia fare, a parte i soldi che sono sempre gli stessi e quindi sempre di meno (i ricchi emolumenti sono fermi a quando c’era la lira). Salvo e al pari immancabilmente dopo avere finito, e tanto di più quando lo vedo impaginato, provare una soddisfazione che ripaga di ogni fatica. Prima o poi (azzarderei più “prima”), con le recensioni smetto. Con gli articoli forse mai, perlomeno fintanto qualcuno sarà disposto a pubblicarli e remunerarli. Idem con i libri, per i quali ho però optato (ne guadagnano fegato e conto corrente) per l’autoproduzione.
Questo è il quarto a uscire con il marchio Hip & Pop e non direi di avere appena scalfito la superficie di quanto scritto nemmeno dall’82 bensì dal ’91, anno fatidico in cui passai dalla Olivetti a Wordstar, ma insomma. Per certo sono partito dai fondamentali. Da ciò che più mi spiaceva restasse disperso e alla lunga perso su giornali destinati sovente se non immancabilmente a una brutta fine, falcidiati da traslochi e/o cantine che non parevano per niente umide. E invece…. Pur selezionando, e parecchio, a occhio ho materiali bastanti a confezionarne un’altra mezza dozzina. Mi riprometto inoltre di scriverne un paio ex novo. La mia metà più saggia, o più pigra, è già atterrita al solo pensiero.
Torino, 5 dicembre 2022
Tratto da Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune.