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I migliori album del 2022 (9): Wilco – Cruel Country (dBpm)

Chiudere un cerchio dopo ventisette anni se non dopo trentadue. Tornare dove tutto era iniziato, ossia più che ad “A.M”, l’album che per gli Wilco di Jeff Tweedy inaugurava nel 1995 una discografia giunta al dodicesimo capitolo in studio, a quel “No Depression” che nel ’90 avviava il viaggio breve degli Uncle Tupelo di Jeff Tweedy e Jay Farrar: capolavoro nel quale da allora si individua l’atto fondativo dell’alt-country e che ha prodotto epigoni in numero incalcolabile. Doppio per ora solo sulla carta (sarà edito sia in CD ─ forse singolo? una durata che ammonta a 77’04” lo permetterebbe ─ che in vinile quando i problemi di approvvigionamento che affliggono il secondo formato consentiranno un’uscita in contemporanea), “Cruel Country” ha ridestato l’interesse per un progetto che da tempo andava avvitandosi su se stesso, dopo aver prodotto almeno una cinquina di album giganteschi, già al solo annuncio del titolo. Possibile che dopo tutto quanto fatto per distaccarsi da quell’etichetta là ─ alt-country ─ inventandosi un sound inaudito sconfinante nel post-rock Tweedy e soci volessero rivisitare i luoghi da cui erano partiti?

In realtà è così e non è così. Nel percorso che da una Absolutely Sweet Marie sedata chiamata I Am My Mother porta a una The Plains con vistose scorie “post-” gli Wilco declinano sì country-rock (la title track, la ballata Please Be Wrong), quando non schietto country (A Lifetime To Find, Country Song Upside Down), ma pure folk (Ambulance) e folk-rock (All Across The World), non lesinano le consuete melodie beatlesiane (versante Lennon: Hints, Hearts Hard To Find) né momenti da college radio (The Empty Condor, Bird Without A Tail) che fu. A rendere eccezionale “Cruel Country”, decretandolo la loro prova migliore da “Sky Blue Sky” (lontano 2007), sono il livello della scrittura (più byrdsiana dei Byrds, Tired Of Taking It Out On You è quanto di più istantaneamente memorabile ci abbia regalato Jeff Tweedy da molti anni a questa parte) e la rilassata intensità di incisioni catturate perlopiù dal vivo in studio, con pochissime integrazioni a posteriori.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022. “Cruel Country” sarà infine disponibile, sia in CD che in vinile (entrambi doppi), a partire da venerdì di questa settimana.

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Wilco – Cruel Country (dBpm)

Chiudere un cerchio dopo ventisette anni se non dopo trentadue. Tornare dove tutto era iniziato, ossia più che ad “A.M”, l’album che per gli Wilco di Jeff Tweedy inaugurava nel 1995 una discografia giunta al dodicesimo capitolo in studio, a quel “No Depression” che nel ’90 avviava il viaggio breve degli Uncle Tupelo di Jeff Tweedy e Jay Farrar: capolavoro nel quale da allora si individua l’atto fondativo dell’alt-country e che ha prodotto epigoni in numero incalcolabile. Doppio per ora solo sulla carta (sarà edito sia in CD ─ forse singolo? una durata che ammonta a 77’04” lo permetterebbe ─ che in vinile quando i problemi di approvvigionamento che affliggono il secondo formato consentiranno un’uscita in contemporanea), “Cruel Country” ha ridestato l’interesse per un progetto che da tempo andava avvitandosi su se stesso, dopo aver prodotto almeno una cinquina di album giganteschi, già al solo annuncio del titolo. Possibile che dopo tutto quanto fatto per distaccarsi da quell’etichetta là ─ alt-country ─ inventandosi un sound inaudito sconfinante nel post-rock Tweedy e soci volessero rivisitare i luoghi da cui erano partiti?

In realtà è così e non è così. Nel percorso che da una Absolutely Sweet Marie sedata chiamata I Am My Mother porta a una The Plains con vistose scorie “post-” gli Wilco declinano sì country-rock, quando non schietto country, ma pure folk e folk-rock, non lesinano le consuete melodie beatlesiane (versante Lennon) né momenti da college radio che fu. A rendere eccezionale “Cruel Country”, decretandolo la loro prova migliore da “Sky Blue Sky” (lontano 2007), sono il livello della scrittura e la rilassata intensità di incisioni catturate perlopiù dal vivo in studio, con pochissime integrazioni a posteriori.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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John Doe – Fables In A Foreign Land (Fat Possum)

Sempre pensato, da quando vidi per la prima volta gli X in foto, che con quella sua bella faccia da onest’uomo americano John Doe sarebbe stato perfetto per il cinema. Che un John Ford qualche decennio prima non avrebbe esitato a includerlo nel cast di un suo western. Deve aver fatto la stessa impressione a tanti: comprensiva anche di varie serie TV, la filmografia dell’uomo nato John Nommensen Duchac sessantanove anni fa è chilometrica. Persino più di una discografia pure assai cospicua giacché oltre alla band sunnominata, una delle più grandi dell’era artisticamente aurea del punk USA, comprende Knitters, Flesh Eaters e una carriera da solista di cui quest’album (primo per la sempre più in auge Fat Possum) è il tredicesimo capitolo in studio. Atteso sette anni ma che gli vuoi dire a uno che nel frattempo ha pubblicato due libri e un disco (splendido) con i riformati X, suonato parecchio dal vivo e aggiunto al curriculum attorale un ruolo di primo piano in All Creatures Here Below?

Di “Fables In A Foreign Land” stupisce più che altro il titolo: come sarebbe a dire “terra straniera” quando il disegno che ne adorna la splendida copertina ritrae un cowboy di schiena, incamminato verso nuove avventure con a fianco il suo cavallo? Immagine quanto mai iconica e, a proposito, il disco prima si chiamava “The Westerner”. E quali “favole”? Schizzi assolutamente realistici invece, per quanto ambientati in un indefinito passato. La distanza che apparentemente separa questi tredici brani pencolanti più verso il folk o il folk-rock che il country, tolte un paio di deviazioni in area tex-mex e rockabilly, dal sound scorticato e ipercinetico degli X in realtà in spirito si annulla. Identica è l’onesta dell’approccio. Si torna lì: all’onestà.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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Lambchop – Trip (Merge/City Slang)

Circola da ventisei anni la sigla Lambchop, contando dall’esordio “I Hope You’re Sitting Down”, dalla depistante copertina tenera a prima occhiata e oscena se guardi bene e ─ a seconda che si consideri uno o due l’accoppiata “Aw Cmon”/“No You Cmon” che al tempo (2004) eleggemmo insieme “disco del mese” ─ questo è il loro tredicesimo o quattordicesimo album. Che costui/costoro sappia/sappiano ancora spiazzare è rimarchevole al di là del giudizio che si dà sulla sua/loro opera e urge che mi spieghi. Quasi mai un gruppo canonico i Lambchop, collettivo per il quale sono passate due dozzine di musicisti, da lungi erano considerati un alias per Kurt Wagner, l’unico che c’è da sempre e autore della stragrande maggioranza del repertorio. Come non mai nelle due prove in studio più recenti, “FLOTUS” e “This (Is What I Wanted To Tell You)”, stranianti compendi di Americana infiltrata di elettronica dopo i quali non aveva quasi più senso catalogarli alla voce “alt-country” e non bastava più aggiungere “chamber pop”.

E che viene in mente al nostro uomo per confondere ulteriormente le acque? Di confezionare un disco di cover facendone scegliere una a testa agli attuali sodali. Sicché qui i Lambchop tornano band vera ma applicandosi a creazioni altrui. A modo loro: slabbrando Reservations degli Wilco fino a momenti a raddoppiarla con tanto di coda ambient e riarrangiando alla Van Dyke Parks le Supremes di Love Is Here And Now You’re Gone, rendendo egualmente a stento riconoscibile lo Stevie Wonder di una Golden Lady languida con brio e rispettando invece la lettera country di Where Grass Won’t Grow di George Jones. Completano un pezzo degli oscurissimi Mirrors e un inedito degli Yo La Tengo che pare invece di Nick Cave. Interlocutorio e intrigante.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.426, dicembre 2020.

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I migliori album del 2020 (14): Jeremy Ivey – Waiting Out The Storm (Anti-)

Sono la coppia più bella del mondo? Di sicuro una delle più artisticamente dotate e affiatate, se è vero come è vero che, dopo avere condiviso a lungo palchi, studi di registrazione e (avrete inteso) molto altro, con i Buffalo Clover, quando nel 2016 Margo Price inaugurava una fortunata carriera da solista (sponsor Jack White) con l’ottimo “Midwest Farmer’s Daughter” Jeremy Ivey si poneva al suo servizio come chitarrista, bassista, armonicista. Spesso co-autore, occasionalmente in cabina di regia. Ormai alta nel cielo di Nashville la stella della consorte, Ivey lo scorso anno ha debuttato pure lui in proprio con il pregevole “The Dream And The Dreamer”. Ci ha preso gusto e tredici mesi dopo gli dà un ancora più convincente seguito. Prodotto da Margo, la cui voce fa capolino più volte e che mette la firma accanto a quella del coniuge sotto due brani: l’iniziale Tomorrow People, una gemma di jingle-jangle sull’orlo del power pop; il pigro country-blues Someone Else’s Problem.

Così un anno iniziato malissimo (ammalatosi di covid, il nostro uomo si è ritrovato in terapia intensiva a più riprese, odissea durata diverse settimane) si conclude in gloria, con un disco che trasuda classicismo da ogni solco senza mai scadere nello stereotipo. Non si può negare che ciascuna di queste dieci canzoni procuri un dèjà vu: ballate come Movies e How It Was To Be potrebbero averle scritte rispettivamente Tom Petty (la cui ombra si allunga anche su White Shadow) e Neil Young, Hands Down In Your Pockets è un Bob Dylan sotto anfetamina (dunque circa 1965), Things Could Get Much Worse è da manuale del perfetto country-rock e così via. Ma la classe è straordinaria, vivacità e intensità incantano e travolgono.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.426, dicembre 2020.

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The Jayhawks – XOXO (Thirty Tigers)

Decimo lavoro in studio dei Jayhawks (produzione parca se si pensa che l’omonimo esordio data 1986), “Back Roads And Abandoned Motels” vedeva la luce due anni fa e si distaccava per genesi dai precedenti nove perché Gary Louris (leader della band dacché Mark Olson la lasciò dopo il quarto album; come si racconta in questo stesso numero anche nella recensione dell’ultimo disco di costui) scriveva appositamente giusto due delle sue undici tracce. Completando la scaletta con brani composti in precedenza per altri ma che i Jayhawks non avevano mai inciso. Anche “XOXO” segnala una prima volta nell’ultratrentennale storia di una formazione che da qualche tempo si schiera a quattro con, ad affiancare Louris, Marc Perlman al basso, Karen Grotberg alle tastiere e Tim O’Reagan alla batteria: Louris ha invitato compagna e compagni a partecipare al processo compositivo e in tal senso ─ dopo tutto questo tempo! ─ l’album è per i Nostri una sorta di nuovo esordio. E che bell’esordio è! Ancora catalogabile alle voci “alt-country” e “Americana” ma capace di allargare, e a volte sensibilmente, gli orizzonti.

Notevole soprattutto l’apporto della Grotberg, che si prende la ribalta pure vocalmente in una Ruby pianistica e talmente classica che chi scrive ha pensato all’inizio si trattasse di una cover e nella ballata country con violino e pedal steel sugli scudi Across My Field: canzoni che rimandano rispettivamente a Christine McVie ed Emmylou Harris. Altri apici di una scaletta di dodici brani senza un inciampo: This Forgotten Town e Living In A Bubble, dove The Band fa comunella rispettivamente con gli Eagles e Harry Nilsson; la stoniana Dogtown Days; una Homecoming che ineditamente evoca i Beach Boys di mezzo; una Illuminate che porta i Kinks a Laurel Canyon.

Pubblicata per la prima volta su “Audio Review”, n.422, agosto 2020.

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Cowboy Junkies – Ghosts (Latent)

“Letargici”: così lessi una volta in una recensione dei Cowboy Junkies (strano non mi sia successo innumerevoli volte, o sempre) e per quanto del disco si parlasse bene converrete che è un aggettivo che non invoglia all’approfondimento. Però in fondo è vero: da sempre il quartetto di Toronto si muove sul confine sottile che separa l’onirico da ciò che fa (più o meno piacevolmente) appisolare. Da quel trio di lavori formidabili che pubblicava fra l’86 e il ’90 ─ “Whites Off Earth Now!!”, “The Trinity Session” e “The Caution Horses” ─ e nei quali declinava una musica sommessa all’incrocio fra alt-country e slowcore quando ancora le etichette suddette manco erano in uso. Formula che si è poi fatta spesso cliché ma che veniva abilmente scansata nel 2018 in un “All That Reckoning” che a tratti sorprendeva con bella energia e persino delle chitarre distorte.

“Ghosts” ha una storia particolare. Due mesi dopo l’uscita del disco di cui sopra veniva a mancare la madre di Margo, Michael e Peter Simmins, voce, chitarra e batteria dei Cowboy Junkies. Ed era durante il tour che promuoveva l’album che si provava a elaborare il lutto registrando questa manciata di brani (otto, per una durata poco sopra la mezz’ora), con l’idea di farci un disco da accludere come bonus a una stampa in vinile di “All That Reckoning”. Progetto fra i milioni mandati all’aria dal coronavirus e i Cowboy Junkies hanno deciso per intanto di renderlo disponibile come download. In futuro, chissà. Certo che sarebbe un peccato se quello che andrebbe considerato a tutti gli effetti il diciottesimo album dei Canadesi (dal predecessore viene ripreso un unico brano) non vedesse mai la luce fisicamente. Lo meritano, queste canzoni che di nuovo spiazzano con chitarre taglienti, fondali elettronici, derive psych, un’ombra di jazz.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.420, maggio/giugno 2020.

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I migliori album del 2019 (1): Purple Mountains – Purple Mountains (Drag City)

Diversamente dalla telefonata di una vecchia pubblicità, una buona recensione evidentemente non allunga la vita. Neanche molte buone recensioni – collezione impressionante: le migliori di una carriera lunga formalmente un quarto di secolo ma in realtà interrottasi dieci anni prima dell’uscita di un disco che da ripartenza, com’era stato inteso fors’anche dall’autore, si è tragicamente trasformato in addio – hanno potuto. E chissà se David Berman ne ha letto qualcuna nei ventisei giorni trascorsi fra la pubblicazione dell’album e quando si è tolto la vita. Si è impiccato il 7 agosto scorso, tre giorni prima dell’inizio di un lungo tour americano (vi ricorda qualcuno?) cui avrebbe dovuto andarne dietro, fra febbraio e marzo di quest’anno, uno europeo. Deve essere stato l’impulso sfortunatamente irreversibile di un momento a indurre al gesto fatale chi ore prima, in un’intervista via e-mail, aveva scritto all’interlocutore di resilienza, mostrandosi a tratti scherzoso, concludendo addirittura pronosticando al giornalista, che gli aveva confessato soffrire di depressione, che certamente un bel giorno si sarebbe scoperto capace di essere di nuovo felice. “Che razza di sorpresa sarà, vedrai.” Già.

Sarò sincero. Ho in casa mezza discografia dei Silver Jews ma non ne sono mai stato un gran cultore. Ne recensii pure un paio di quei sei album, tiepidamente. Mi piacevano all’inizio, quando furono scambiati per una costola dei Pavement nonostante si fossero formati prima, e mi piacque (abbastanza) il congedo del 2008 “Lookout Mountain, Lookout Sea”: lontanissimo dallo sgangherato lo-fi degli esordi, una buona prova di cantautorato alt-country ma, insomma, i capolavori sono un’altra cosa. Tipo “Purple Mountains”, un esorcismo trasformatosi in testamento. Disco cui il nostro uomo lavorava sin dal 2014 (risale ad allora la stesura della torpida I Loved Being My Mother’s Son, in memoria della madre appena scomparsa) e ci aveva provato più volte a dargli forma, invano. Una versione con Dan Bejar dei Destroyer nel per lui inedito ruolo di produttore veniva accantonata e questo più o meno all’altezza (2016) dell’incisione di un album con i Black Mountain pure esso scartato. Giungevano in soccorso prima Stephen Malkmus, poi Jeff Tweedy, infine Dan Auerbach, e nemmeno con loro Berman trovava la quadra. A rivelarsi decisivo era l’incontro con Jeremy Earl e Jarvis Taveniere dei Woods e il resto è – sarà – Storia.

Perché che si sia in presenza di un classico è evidente sin dalle prime battute di That’s Just The Way That I Feel, honky tonk dove un organo chiesastico incongruamente e sublimemente pesa quanto il pianoforte tipico del genere. È mai parsa più seducente che in una orecchiabilissima All My Happiness Is Gone l’infelicità? È mai stato il naufragare fra gli oscuri marosi dell’esistenza più dolce che in Darkness And Cold? È o non è Snow Is Falling In Manhattan la più bella canzone che Leonard Cohen non ha scritto? È la quarta delle dieci tracce in scaletta e, conversando con Andrew Male di “Mojo”, l’autore sosteneva essere soddisfatto di quelle e basta. Quando Margaritas At The Mall, con i suoi fiati mariachi e tanto altro ancora che rimanda a Townes Van Zandt, una She’s Making Friends, I’m Turning Stranger degna del miglior Gram Parsons e la confidenziale Nights That Won’t Happen (che ne avrebbe fatto Sinatra!) se non appartengono appieno all’Ineffabile quantomeno bussano alla sua porta. Dopo una Storyline Fever sull’orlo dell’euforia (!) “Purple Mountains” saluta con la scintillante ballata Maybe I’m The Only One For Me: una lezione riguardo all’imparare ad amarsi di cui David Berman non ha saputo fare – purtroppo per lui e per noi – tesoro.

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GospelbeacH – Let It Burn (Alive)

Un ombra tristissima si allunga su questo album solare e spumeggiante, ma ve ne dirò poi. Parto dal giorno in cui il cantante e chitarrista Brent Rademaker si ritrova per una jam con il batterista Tom Sanford. Rademaker da due anni ha appeso lo strumento al chiodo, disilluso per l’indifferenza con cui è stato accolto anche l’album (“The Tarnished Gold”) con cui i Beachwood Sparks hanno provato a rilanciare una carriera che li aveva visti pubblicare a inizio anni 2000 (e sempre su Sub Pop) altri due ottimi lavori (un omonimo debutto, quindi “Once We Were Trees”) collezionando buone recensioni ma con riscontri commerciali minimi. Il nostro uomo a quel punto per guadagnarsi da vivere si è trovato un impiego presso una galleria d’arte. Scocca però di nuovo la scintilla, attorno ai due prende forma un quintetto e prima ancora che abbia un nome Patrick Boissel della Alive offre un contratto. Lui stesso battezza la creatura: GospelbeacH (“h” finale maiuscola, chissà perché). L’esordio del 2015 “Pacific Surf Line” è una gemma di Americana devota ai Grateful Dead che nel 1970 svoltavano roots. Il seguito del 2017 “Another Summer Of Love” opta invece in maniera altrettanto persuasiva verso un sound fortemente influenzato da Tom Petty. Se vi dico che “Let It Burn” si apre con una ballata di afflato country, Bad Habits, e si chiude con una traccia omonima dal riff che pare Refugee avrete inteso che i GospelbeacH hanno trovato un punto di equilibrio, continuando nel contempo a mettere in fila canzoni una più deliziosa dell’altra.

E vengo all’ombra di cui sopra: poche settimane prima dell’uscita del disco il chitarrista Neal Casal, persona squisita a detta di chiunque lo abbia mai incrociato e artista con una carriera pure in proprio, si è tolto la vita. L’indifferenza può uccidere.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.414, novembre 2019.

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Lambchop – This (Is What I Wanted To Tell You) (City Slang)

Ho un problema con questo disco, che è il medesimo che avevo con un predecessore, “FLOTUS”, di cui il dodicesimo album in studio dei Lambchop è sia propaggine che evoluzione: analoghe le sonorità, qui si lavora di più su una forma canzone classica laddove lì, muovendosi entro orizzonti in ogni senso più ampi (undici tracce, 68’46”, contro otto per complessivi 45’43” del seguito), ci si concedeva qualche ulteriore sperimentazione. Rispetto alla principale, intendo, all’uso dell’auto-tune in un contesto ben altro rispetto a quello del becerume variamente pop e/o black che ci circonda e ammorba, tutto uniformando, a volte sciupando e datando irrimediabilmente materiali se no di valore. L’insopportabile, onnipresente auto-tune. Che ci azzecca(va) con l’alt-country più alternative mai giuntoci da Nashville, con il cantautorato alto – un po’ Mark Eitzel, un po’ Randy Newman corretto Americana – di Kurt Wagner? Responsabile da oltre un quarto di secolo (sempre predominante, monopolista mai) del progetto Lambchop.

Nondimeno nella vita a tutto ci si abitua allorché si è arrivati a farsene una ragione. Tanto avevo messo a metabolizzare “FLOTUS”, giungendo solo dopo svariati ascolti a cogliere un senso e persino una poetica nella scelta di alterare disumanizzandola una voce oltretutto bella ed espressiva, tanto poco ho impiegato a rassegnarmi – si parte così: auto-tune a palla – per “This (Is What I Wanted To Tell You”). Al netto di testi al solito da esegesi, lo consideri uno strumento come gli altri, il cantato, e ti ritrovi libero di perderti in una scrittura stellare, in un ordito definitivamente post-country pregno di elettronica, screziato di funk, di soul, di jazz. Resta però sempre il dubbio: che effetto farebbe con una voce diversa, quella vera?

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.407, marzo 2019.

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