Un gruppo che ho amato tantissimo e che ebbi la fortuna di vedere dal vivo tre volte. Ma già ve lo raccontai qualche mese fa: qui.
Archivi tag: alt-country
Dylaniati: 20 grandi cover di canzoni di Bob Dylan (9)
Jason & The Scorchers – Absolutely Sweet Marie (da “Fervor”, EMI America, 1983)
Band Of Horses – Mirage Rock (Columbia)
Recensendo a suo tempo sulle pagine di “Audio Review” “Cease To Begin”, secondo e ultimo album per Sub Pop di un gruppo rimasto già a quell’altezza appannaggio unico di Ben Bridwell, scrivevo riguardo a una delle canzoni che più mi erano piaciute, Marry Song, che “declina quintessenza di Americana e ti vien voglia di togliere quel ‘Of Horses’ dopo ‘Band’”. Oggi, almeno per uno degli undici brani (sedici nell’ormai fastidiosamente usuale edizione deluxe) che sfilano nel secondo lavoro su Columbia della compagine di Seattle, la tentazione sarebbe quella di allungarla invece che di accorciarla la sua ragione sociale. Ascoltata già lo scorso giugno, quando era stata diffusa con ogni crisma di ufficialità su Facebook e YouTube, Dumpster World faceva incrociare tutte le dita disponibili e spingeva al perfido gioco di parole: Band Of Horses With No Name. Ma davvero abbiamo bisogno in questi anni ’10 dei “nuovi America”? Cazzo, no. Con tutta la fatica spesa evidentemente invano negli anni ’70/primi ’80 per provare a liberarci dagli originali.
La buona notizia è che “Mirage Rock” non ci propina null’altro di così programmaticamente e insieme maldestramente ruffiano. La cattiva è che è nella sua intierezza un album che racconta che quello che sarebbe potuto diventare un grande gruppo si accontenta di provare a diventare un grande successo. Ambizione assolutamente legittima, sia chiaro, e che nondimeno lo porta su traiettorie poco interessanti per – credo – la grande maggioranza di quanti mi stanno leggendo e certamente per me. Tutto molto caruccio, intendiamoci. Qualcosa pure di più e, dovendo masterizzare dei CD di classic rock per l’auto che non ho, due o tre canzoni da qui le caverei. Diciamo una A Little Biblical dalla ritmica moderatamente pestona e dalla melodia zuccherina che, coniugandosi, rimandano ai Fleetwood Mac di “Rumours”, che in ogni caso al massimo le avrebbero trovato posto su un lato B. Diciamo soprattutto una Shut-In Tourist che prova a trovare un punto di equilibrio fra Shins e Fleet Foxes e una Electric Music perfettamente mediana fra i Creedence Clearwater Revival e i Rolling Stones circa “Let It Bleed”. A proposito: era allora agli inizi la gloriosa carriera di Glyn Johns, che quel capolavoro della premiata ditta Jagger/Richards lo curava da ingegnere del suono, nell’attesa di venire promosso a produttore. E lo sapete chi ha firmato la regia di “Mirage Rock”? Esatto, proprio lui e che il disco suoni bene non si discute. Una meraviglia sotto il suddetto profilo il folk-rock fra Eagles e Heartbreakers di How To Live, idem una trasognata Slow Cruel Hands Of Time che l’avrebbe potuta registrare così Jonathan Wilson se disgraziatamente fosse venuto su ascoltando John Denver. O, ancora, una Long Vows mimetica – ma a livello di esercitazione scolastica – nei confronti di Stephen Stills per quanto attiene la scrittura e di Neil Young per l’interpretazione. Talento Bridwell ne ha e basta rimettere su i dischi prima per averne prova incontrovertibile, ma non lo sta usando al meglio. Secondo me.
Archiviato in recensioni
Dan Stuart – The Deliverance Of Marlowe Billings (The Cadiz Recording Co.)
Nei lontani anni ’80 incrociai tre volte Dan Stuart. La prima, a seguire uno spettacolo letteralmente indimenticabile dei suoi Green On Red, lo osservai dall’altro capo del tavolo di una birreria torinese, nel mentre quel gran signore di Jack Waterson mi intratteneva con garbatissimo eloquio, sbronzarsi in maniera altrettanto spettacolare. La seconda mi parve già discretamente alticcio sul palco. Il concerto fu in ogni caso buono. La terza, la serata fu salvata dal resto del gruppo, da Chuck Prophet in particolare. Mai più mi sono imbattuto in vita mia (no, Shane MacGowan in azione non l’ho mai visto) in un uomo più incredibilmente ubriaco. Mi fa allora molto piacere scrivere nel 2012 di un disco di questo mio coetaneo che, per intanto, mi pare un miracolo sia vivo e probabilmente deve sembrare un miracolo a lui stesso. Non so quanto di vero e quanto eventualmente di romanzato ci sia nelle note che accompagnano l’uscita di “The Deliverance Of Marlowe Billings” e raccontano di un divorzio tempestoso, di un ricovero in una clinica per malattie mentali newyorkese con susseguente fuga in Messico e di pulsioni suicide che lì piano piano si quietano. Lo sguardo intenso e triste, ma anche sereno, immortalato da una foto promozionale mi fa però pensare che di fantasia si sia lavorato poco, forse nulla. Ed è un fatto che del nostro eroe, che oggi vive a Oaxaca de Juárez, per dodici anni – da quando nel ’95 debuttò da solista a quando nel 2007 a sorpresa il sodalizio con Steve Wynn si rinnovò, con il secondo capitolo dell’incerta saga di Danny & Dusty – le tracce si erano perse completamente. A momenti stakanovista al confronto l’ultimo biennio. L’album degli Slummers è del 2010. Un EP da titolare con quattro pezzi, del 2011. E adesso un lavoro di ben altra consistenza, che non sarà magari un disco di quelli che possono cambiarti la vita (e a qualcuno “Gravity Talks” la vita la cambiò) ma si fa ascoltare. Eccome se si fa ascoltare.
Per niente new wave in un’era ancora di new wave, troppo underground per potere fare loro un mainstream che pure a lungo li corteggiò (tre gli album per la Mercury), troppo poco psichedelici per potere conquistare del tutto quell’underground che si riconosceva nel paisley e infine troppo in anticipo su quell’alt-country che avrebbe potuto pagare bei dividendi e invece spesso si dimentica persino di contarli fra i padri fondatori: classico esempio di gruppo giusto nei posti e nei momenti sbagliati, i Green On Red. All’altezza dell’unico antecedente di “The Deliverance”, “Can O’Worms”, Stuart li cancellava tutti tranne quelli preconizzanti Uncle Tupelo e compagnia post-Nashville. Diciassette anni dopo si concede egualmente giusto in un paio di occasioni frenesie schiettamente rock’n’roll – con i serrati vortici di Clean White Sheet, con una What Are You Laughing About irresistibilmente innodica – e per il resto lavora perlopiù di cesello – un’altra gustosa eccezione: il jingle power di Gap Toothed Girl – su un’alata scultura di malinconie. Magari sorridenti ed ecco i coretti là-là-là su uno shuffle lento di Gonna Change. Partenza accorata con Can’t Be Found, congedo affidato da lì a una quarantina di minuti all’onirico strumentale Celina’s Lament, l’opera (un concept, pare di intendere) trova il momento più alto e suggestivo nel cinematografico messicaneggiare in transito da Romero a Peckinpah di Gringo Go Home. Piccolo capolavoro assolutamente degno del più glorioso catalogo d’antan. Mi piace concludere con una citazione particolare per i musicisti che hanno qui dato man forte al vecchio Dan: si chiamano Sacri Cuori, sono romagnoli e, con la complicità di ospiti illustrissimi (Giant Sand, Calexico, Friends Of Dean Martinez, John Parish, James Chance, Marc Ribot), un paio di anni fa pubblicarono un album delizioso del quale purtroppo non riuscii a scrivere. Si chiama “Douglas & Dawn”, cercatelo.
Archiviato in recensioni
Non si esce vivi dagli anni ’80 (24)
Come non volere bene ai Long Ryders allora, metà anni ’80, quando cavalcavano liberi e felici? Già solo per quella “y” al posto di una “i” nel nome, a rivendicare più che a semplicemente riconoscere l’influenza dei Byrds country. Ma non si pensi, non conoscendoli, che ricalcassero pedissequamente un canone che veniva invece reinterpretato con bella grinta punk, in studio e soprattutto dal vivo come ebbero occasione di constatare i fortunati (io per esempio) che li videro in azione in Italia in due brevi tour. E a maggiore ragione bisognerebbe volere bene loro adesso, a ripagarli del fatto che nelle storie del rock non ci si ricorda mai dei Long Ryders con qualcosa più della mera citazione. Oggi Sid Griffin ricava il grosso delle sue entrate, presumibilmente, da un’attività di scrittore e critico musicale ed è davvero tutto dire.
Archiviato in archivi
101 canzoni per le quali vale la pena vivere (67)
The Gun Club – Mother Of Earth (da “Miami”, Animal, 1982)
Archiviato in 101 canzoni, video
Non si esce vivi dagli anni ’80 (23)
Passeggiata su una corda con Leonard Cohen a un capo, all’altro Neil Young, in mezzo Townes Van Zandt: così raccontavo anni fa – e avessi aggiunto Dylan e un’ipotesi di Lou Reed campagnolo avrei racchiuso in una frase più o meno tutto Howe Gelb – un piccolo capolavoro chiamato “Chore Of Enchantment”. Certamente uno degli apici di una produzione ineguale e nondimeno prodiga di momenti memorabili e opere notevoli in toto fra le due dozzine abbondanti date alle stampe dall’85 a oggi. L’ultima una deliziosa faccenda di giusto due mesi fa di cui ho finito per non occuparmi su VMO e me ne dolgo. Provo a fare ammenda recuperando un omaggio ai Giant Sand confezionato un quarto di secolo fa, quando certo non immaginavo che nel 2012 Gelb ancora avrebbe fatto dischi e io ancora – cercando di esserne all’altezza – ne avrei scritto.
Archiviato in archivi
Neil Young & Crazy Horse – Americana (Reprise)
Meglio bruciarsi che svanire, meglio bruciarsi che arrugginire, cantava colui che già allora chiamavamo “il buon, vecchio Neil” e ancora non aveva compiuto trentatré anni, celebrando quasi in diretta Johnny Rotten e la fine rovinosa quanto gloriosa dell’epopea Sex Pistols e con essa un’idea di rock’n’roll che “non potrà mai morire”. Era il 1978. E non trovate pure voi straordinario, e anche un po’ commovente, che adesso che di anni il Canadese ne ha ormai più del doppio chiuda un suo disco coverizzando God Save The Queen? Yeaaaah! Ah, no… scusate… non è quella dei Sex Pistols. È proprio l’inno britannico, quello che ieri ha accompagnato i festeggiamenti (cosa festeggino esattamente non si sa) per i sessant’anni di regno di Elisabetta II. Meglio bruciarsi che rincoglionirsi?
Quasi quasi vien da pensare che sia un altro l’anniversario che il buon, vecchio Neil celebra orgogliosamente: i quarant’anni dal suo primo disco di merda. Colonna sonora di un film assurdo e collezione parimenti insensata di tagli, ritagli e frattaglie, “Journey Through The Past” era notevole solo in quanto spettacolare suicidio commerciale a ruota del viceversa vendutissimo “Harvest”. Fino a fine decennio sarebbe rimasto l’unico passo falso di un artista che al contrario per tutti gli ’80 non avrebbe più azzeccato, fino alla resurrezione di “Freedom”, un album che fosse uno. Da allora ne ha pubblicati da perdere quasi il conto e lo salva che ogni tanto (ma tanto) piazzi la zampata, il mezzo o anche intero capolavoro: “Ragged Glory” subito dopo “Freedom” e poi, per giudizio unanime, “Mirror Ball” nel ’95 e “Chrome Dreams II” nel 2007. Io aggiungerei “Living With War”, del 2006, ma è forse una mia debolezza. Siamo onesti: il resto è quando va bene ordinaria amministrazione, quando va male roba che l’unica recensione sensata sarebbe un misericordioso colpo di pistola alla nuca dell’artefice. Non si uccidono così anche i cavalli? A maggiore ragione se pazzi.
Di lavori grotteschi Neil Young ne vanta, per così dire, una collezione senza pari. Ne elenco giusto alcuni: il peggiore matrimonio di sempre fra rock ed elettronica (“Trans”) cui andava dietro una raccolta di rockabilly che manco Kim & The Cadillacs (“Everybody’s Rockin’”), un collage di feedback (“Arc”), un concept su energie alternative e automobili (“Fork Road”), una dimostrazione che sì, “quiet” può essere “the new loud” ma allora datemi Burzum tutta la vita (“Le Noise”). Dura mettersi in competizione con simili apici di genialità rovesciata e nondimeno “Americana” (primo album con i Crazy Horse dal 2003) ci prova. E da subito, da una Oh Susannah che in teoria sarebbe proprio quella che pensate voi ma nella pratica è un mash-up con Venus degli Shocking Blue, è fuga per la vittoria. Preso l’abbrivio con una Clementine che è pure lei quella che pensate voi ma incollata su un riffeggiare degno di cause migliori, il nostro eroe fino alla fine quasi mai toglierà i piedi dai pedali. In questa antologia di tradizionali che a spacciarla per una risposta alla springsteeniana “We Shall Overcome” si sarebbe più dementi di chi l’ha messa insieme (presumibilmente in un tempo non superiore a quello che ci va ad ascoltarla) spicca come presenza incongrua quanto quella di God Save The Queen un classico del doo wop quale Get A Job. Rifatto male, almeno quanto una High Flyin’ Bird da piangere pensando ad altre versioni che sono capolavori di folk-rock psichedelico o una Wayfarin’ Stranger che invece pure. Salviamo il salvabile? This Land Is Your Land, una canzone di suo evidentemente così memorabile che nemmeno questo Neil Young può sciuparla.
Archiviato in recensioni
Bonnie “Prince” Billy – Hummingbird (Spiritual Pajamas)
In tutta franchezza: di Will Oldham aka Palace (Brothers, Music, Songs) ma soprattutto (dal 1999 pressoché esclusivamente) aka Bonnie “Prince” Billy mi ero un po’ stufato. Troppi, troppissimi dischi e un po’ troppo simili fra loro e soprattutto, dopo l’autentico capolavoro che per primo esibiva in copertina la griffe, ossia quel “I See A Darkness” di cui il Nostro promette/minaccia un’imminente rielaborazione, quasi mai baciati da un’ispirazione almeno paragonabile. Spesso collezioni di stereotipi incapaci di aggiungere alcunché a un canone da lungi concluso, impermeabile a qualsivoglia aggiunta significativa. Detto più prosasticamente: due palle… Anche perché uno può pure rifare sempre lo stesso disco, ma a patto di tirar fuori ogni tanto una canzone indimenticabile. E non mi sembra sia stato il caso. Poi, per carità, magari me li sono fatti scappare io per colpevole negligenza altri brani degni di essere rifatti da un Johnny Cash e, insomma, di entrare a pieno diritto in un catalogo maggiore di Americana.
Non saprei allora dire per quale ragione (non per averne letto; probabilmente per le particolari modalità di pubblicazione l’ultima uscita dell’uomo del Kentucky è a oggi passata inosservata) ho deciso di buttare un orecchio a questo EP: disponibile (si fa per dire; mille copie distribuite lo scorso 21 aprile, in occasione del “Record Store Day”) come 10” in vinile, e i pezzi sono in tal caso tre, oppure in download e si aggiunge una quarta traccia che è però una seconda versione (ognimmodo diversissima) di quella che battezza il tutto. La cosa migliore di Oldham da un sacco di tempo in qua? Magari pure perché si limita a fare l’interprete e lo fa invero splendidamente, alle prese all’inizio e alla fine con il Leon Russell di Hummingbird, prima reso come una collisione insensatamente bella di soul, psichedelia e country-gospel (immaginate: se Prince fosse stato uno della Band) e poi come una Knockin’ On Heaven’s Door alternativa. In mezzo, con una Tribulations (Estil C. Ball) dritta dai solchi di “O Brother, Where Art Thou?” e una Because Of Your Eyes (da Merle Haggard) che ticchetta blues rurale fra il languido e l’accorato. Un quarto d’ora in tutto e una tantum avrei gradito qualche minuto in più da costui.
Archiviato in recensioni
Non si esce vivi dagli anni ’80 (13)
Chi si ricorda più oggi di Jason & The Scorchers? Eppure sono ancora in circolazione. Eppure per un formidabile quadriennio, durante il quale pubblicarono due mini e due album uno più travolgente dell’altro, furono uno dei gruppi più eccitanti del rock a stelle e strisce. Eppure inventarono qualcosa che in senso stretto non si era mai udito prima: di quanti altri lo si può dire da trent’anni in qua?
Archiviato in archivi