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Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell

Ho visto la freccia in cima alla porta./Diceva: ‘Questa terra è condannata,/da New Orleans a Gerusalemme’./Ho attraversato l’East Texas/dove molti martiri sono caduti/e so che nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell./Ho sentito il verso della civetta risuonare/mentre smontavano le tende,/le stelle sopra gli alberi spogli/suo unico pubblico./Le ragazze zingare che portano il carbone/sanno bene come pavoneggiarsi,/ma nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell.

Per bizzarra coincidenza è un 5 maggio il giorno in cui Bob Dylan registra Blind Willie McTell, o meglio la versione ─ ne esiste una precedente, del 18 aprile sempre del 1983 ─ di cui ci ha fatto dono solo otto anni più tardi includendola nella prima uscita delle “Bootleg Series”. È alle prese con “Infidels”, il disco che segnerà la sua rinascita dopo l’era fosca e ottusa di un’altra rinascita, quella cristiana, ed è incerto sul valore di un brano a proposito del quale dichiarerà che “non conosco nessuno che faccia questo tipo di canzoni” e, sant’iddio, sta parlando il signore che ha firmato una bazzecola come Like A Rolling Stone e rivoluzionato la storia della canzone popolare quel paio di volte. Talmente incerto ─ “non è incisa bene” e “non si è sviluppata come avrebbe dovuto” altre due inverosimili scuse ─ che in ultima istanza deciderà di escluderla dall’album, preferendole il comizio sionista di Neighborhood Bully: scelta fra le più autolesioniste in una vicenda che in materia di autolesionismo nulla si è fatta mancare. Ma il nastro passa di mano in mano (ne arriva una copia a Steve Wynn e sarà per tramite dei Dream Syndicate, artefici di una versione di elettrico, apocalittico fulgore, che avrò modo di ascoltarlo per la prima volta) e cresce la sua fama. Quando vedrà la luce ufficialmente al mondo toccherà interrogarsi sulla sanità mentale dell’autore, incapace di riconoscere la grandezza di una canzone come non ne componeva (né ne ha più composte) dai mezzi ’70 di “Blood On The Tracks”, se non dai mezzi ’60 di “Blonde On Blonde”. Però in una cosa aveva ragione: nessuno scrive canzoni così. Siamo al sovrumano, nell’afflato come nella qualità, e mi sia concesso citare al riguardo quel finissimo esegeta di Alessandro Carrera quando annota che Blind Willie McTell è “una conversazione desolata fra Dylan e lo spirito della terra, condotto sull’orlo della fine del tempo, davanti alla concreta e terrificante possibilità che anche l’immortalità stia per morire”. E con il bardo di Duluth la faccio finita qui, o quasi.

Ho guardato le grandi piantagioni bruciare,/sentito le fruste schioccare,/aspirato il dolce profumo delle magnolie in fiore/e ho visto i fantasmi delle navi negriere./Posso ancora ascoltare i lamenti delle tribù,/posso ancora ascoltare la campana del padrone/e nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.

Dicevo di una coincidenza: fosse stato ancora vivo, quel 5 maggio il bluesman georgiano avrebbe festeggiato l’ottantacinquesimo compleanno, oppure l’ottantaduesimo visto che sull’anno di nascita ─ 1898 o 1901 ─ le fonti sono discordi. Non l’unico dettaglio rimasto oscuro, avrete inteso se con il blues avete frequentazioni appena più che occasionali. Nemmeno si sa in verità quale fosse il suo vero nome. Per Carrera era nato Willy Samuel McTier, ma a prestar fede a Greg Ward sulla sua pietra tombale sta scritto “Eddie McTier”. Né è chiaro se fosse nato cieco o lo sia divenuto intorno ai vent’anni. Inoltre: confusi i resoconti intorno alle circostanze di una morte che lo colse ─ il 19 agosto 1959, pare ─ a tal punto dimenticato che solamente alcuni mesi dopo la notizia trapelava fra gli appassionati. Usciva un 33 giri su Bluesville, “Last Session”, quando mai in vita Blind Willie McTell aveva avuto la soddisfazione di avere un suo LP nei negozi. Presto il blues revival avrebbe regalato fama e denaro ai coetanei sopravvissutigli e fra costoro a diversi a lui inferiori. E nel 1971 la Allman Brothers Band avrebbe posto Statesboro Blues a incipit del classico e vendutissimo “At Fillmore East”. Ma fatemici arrivare e innanzitutto dicendovi perché sono qui a parlarvi di Willie il Cieco. È in circolazione dalla scorsa estate un cofanetto su JSP, “The Classic Years 1927-1940”. È economico, eccellentemente annotato, suona bene quanto si può pretendere da incisioni così vetuste. Ed è una delle più monumentali raccolte di blues, non solo pre-bellico, che siano mai state pubblicate.

Prosegue per altre 6.789 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.67, dicembre 2003. L’uomo noto con il nome d’arte di Blind Willie McTell nasceva il 5 maggio 1898. Il 5 maggio 1983 Bob Dylan registrava, con l’idea di includerlo nell’album “Infidels”, un omonimo brano dedicato al grande bluesman. Fino all’uscita nel marzo 1991 nel cofanetto “The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991”, che lo contiene, il pezzo resterà invece ufficialmente inedito.

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Charley Patton – L’eterno secondo

È la citazione citabile più citata di Keith Richards, memorabilità pari a quella del riff di (I Can’t Get No) Satisfaction: “Mai avuto problemi con le droghe, soltanto con la polizia”.  Fosse esistita una stampa musicale ai tempi suoi Charley Patton, che era una stella commercialmente di più che discreta luccicanza (essendo l’arte quello che era, cioè immortale), fosse puta caso stato intervistato avrebbe potuto serenamente affermare: “Mai avuto problemi con le donne, soltanto con i loro mariti”. Vita avventurosa ebbe il nostro eroe. Come quella del coevo Robert Johnson, avvolta dall’alone del Mito (ancorché entrambe siano state, in anni recenti, piuttosto ben documentate; in fondo c’è ancora gente in giro che li ha visti suonare) e prematuramente troncata da un destino cinico e baro. Sarebbe stata consona a Patton la dipartita toccata in sorte a Johnson, avvelenato da un marito geloso. Somma ironia per uno passato indenne (se non contiamo botte a sacchi e a sporte e un accoltellamento) per infinite risse da bar, un’intensa frequentazione con la cocaina e qualche arresto (mai avuto problemi con le droghe eccetera), defunse invece per un attacco cardiaco conseguenza di una febbre reumatica. Se esiste un al di là, da qualche parte vi si aggira un Charley Patton incazzato assai con Robert Johnson. Che diamine! Lui era arrivato primo ed è finito per risultare in tutto secondo.

Quando Patton incide le sue ultime facciate, a poche settimane dal fatale infarto, le registrazioni che faranno dell’uomo di Hellhound On My Trail una leggenda sporgono ancora di due anni nel futuro, ma quando un doppio LP per i tipi della statunitense Origin Jazz Library ne rende di nuovo reperibile, ventotto anni dopo, una ricca scelta di esecuzioni la Columbia (tutt’altra potenza poi) ha dato alle stampe da non molto quel “King Of The Delta Blues Singers” che eserciterà un’enorme influenza sulla generazione di ragazzotti inglesi, Clapton e Rolling Stones in primis, che entro breve avrà il mondo in punta di plettro. In Gran Bretagna si potrà ascoltare qualcosa del Nostro, grazie a una succinta compilazione Heritage, solo nel ’64. Troppo tardi. Continuo? La pubblicazione dell’integrale di Robert Johnson su CD è datata 1990. Un doppio che ha venduto a oggi oltre mezzo milione di copie. Quella di Charley Patton ─ un triplo ─ è storia di qualche mese fa e ha provveduto l’indipendente Catfish. Inimmaginabile che i conti si pareggino. È come se dalla luce abbagliante di Johnson quella di Patton venisse sempre obnubilata. Ve ne dico un’altra? Del primo, notoriamente, esistono due foto. Del secondo, una. E a questo punto mi scappa da ridere.

Prosegue per altre 8.508 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.41, ottobre 2001. Charley Patton moriva il 28 aprile 1934. Aveva quarantatré anni.

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Blues Against The Empire – Trentacinque anni di Hot Tuna

Ovvero: come fu che un dopolavoro – che poi in realtà era un “prima del lavoro” – si trasformò in una cosa più seria del lavoro stesso.

Dapprincipio non c’era nessun motivo per scrivere un articolo sugli Hot Tuna, se non che Stefano Isidoro aveva delle pagine da riempire in questo “Juke Box all’idrogeno”, mi ha chiesto se avevo voglia e qualche idea al riguardo e io gli ho risposto “mah… sì… boh…”. E lui: perché non fare una cosa sugli Hot Tuna, che erano una gran bella formazione oggi sconosciuta a tutti, eccetto a qualche reduce? Mi è sembrata un’ottima ragione, benché non mi senta ancora reduce e per certo Stefano Isidoro meno di me. Allora ho tirato fuori i dischi dagli scaffali e, mentre tornavano a girare sullo stereo a forse tre lustri dall’ultima volta a parte “Quah”, che è un album per il quale ho sempre avuto un affetto speciale ma non appartiene al gruppo bensì è l’esordio in proprio di Jorma, ho cercato il nome “Hot Tuna” nell’archivio in cui ho catalogato le riviste straniere comprate dal ’78 a oggi. Sconcertato, ho scoperto di non avere in casa nemmeno un articolo sulla seconda più nota, in realtà terza ma prima, avventura in comune di Jorma Kaukonen e Jack Casady. Persino un’indagine su Internet, dove un delirio apologetico non si nega né a un cane né a un porco, ha sortito risultati deludenti. Mi sono sembrate altre due ottime ragioni per scrivere qualcosa su di loro, vendicando nel mio piccolo lo scandalo di un progetto così poco considerato. E poi ho improvvisamente realizzato che sono esattamente trentacinque anni che questa storia è cominciata, bel numero che può essere detto tondo, come gli Hot Tuna quando suonavano acustici, o spigoloso, come quando accendevano gli amplificatori. Ed eccoci qua.

All’epoca non ero interessato al rock, a malapena tolleravo i Rolling Stones. Piuttosto, alle musiche etniche in generale e alla tradizione nordamericana in particolare.

Così Jorma Ludwik Kaukonen Jr., sessantaquattro anni il prossimo 23 dicembre, in una rara intervista concessa per il venticinquennale degli Hot Tuna ricordava di come fu con qualche perplessità che, nella primavera 1965, accettò l’invito del cantante e chitarrista Paul Kantner a unirsi a un complesso ancora senza nome che il cantante Marty Balin aveva appena messo in piedi, con tre carneadi che si defileranno presto, con l’intento minimo quanto squisitamente commerciale di fornire una colonna sonora alla serata di inaugurazione di un club, il Matrix, acquistato in quel di San Francisco. Era proprio Jorma – originario di Washington DC ma proveniente dal Texas dove aveva spesso accompagnato una sconosciuta cantante, una certa Janis Joplin – a battezzare il neonato combo, accorciando il nome di un bluesman immaginario, tal Blind Thomas Jefferson Airplane, creato dalla sua fantasia. Non mi diffonderò troppo su una vicenda oltretutto universalmente nota, se non per raccontare come vi venne coinvolto il suo concittadino John William Casady, detto Jack e sessantenne lo scorso 13 aprile, e di come quattro anni più tardi insieme i due daranno vita agli Hot Tuna per poi, trascorsi altri tre anni, staccarsi definitivamente dall’Aeroplano che stava per farsi Astronave. Per Jorma e Jack, i Jefferson Airplane non furono il primo gruppo condiviso. Imberbi (il secondo appena quindicenne) erano stati nei Triumphs, complessino nemmeno troppo amatoriale se è vero come è vero che arrivò a pubblicare un singolo: rock’n’roll, che non era per l’appunto l’amore né dell’uno né dell’altro, cresciuti consumando i dischi dell’estesa collezione di blues di un fratello maggiore del secondo, avido collezionista. E il primo arrivava dal bluegrass. Archiviata una storia non esattamente trionfale, a dispetto dell’ottimistico nome con il quale la si era siglata, Jorma si perfezionava all’università del blues cominciando giusto nel fatidico 1959 a studiare la tecnica del fingerpicking. Frequentando l’Antioch College conosceva John Hammond, un altro bianco per caso irrimediabilmente traviato dalla musica del diavolo, e Ian Buchanan, incontro prezioso perché, non potendosi permettere le lezioni dell’idolatrato Reverendo Gary Davis, il giovanotto poteva almeno apprenderle di seconda mano da uno che ne era stato allievo. Era così che imparava tutti i brani che finiranno nel 1970 nello splendido debutto degli Hot Tuna e tuttora si cruccia di non avere avuto la presenza di spirito di dedicare quel 33 giri al maestro. Ancora in un’istituzione scolastica ma domiciliata sulla Costa opposta, la University Of Santa Clara, conosceva Paul Kantner e sarebbe stato incontro, come abbiamo visto, pure più decisivo. Nel frattempo, rimasto nell’area di Washington, l’amico Jack dalla chitarra passava al basso, diventando presto bravo a sufficienza da accompagnare Ray Charles. Suonerà sempre il basso un po’ come una solista (abilità non granché gradita dal batterista dei Jefferson, Spencer Dryden, non contento di doversi caricare sulle spalle per intero il peso della ritmica) e per questo sarà strumentista apprezzato quanto il chitarrista Jorma, fors’anche più peculiare. Ai Jefferson Airplane serviva un bassista, Kaukonen consigliava Casady, il resto è Storia.

Prosegue per altre 9.907 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.76, settembre 2004. Jack Casady compie oggi settantanove anni.

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Il blues che era già rock’n’roll di Lightnin’ Hopkins

Come in tanti altri grandi del blues, in Lightnin’ Hopkins – nato Sam Hopkins il 15 marzo 1912, morto il 30 gennaio ’82 –  convivevano l’istintiva furbizia di chi, cresciuto in miseria, ha fatto un’arte del sapersi arrangiare e un’ingenuità disarmante. Pensate che per tutta la vita fu solito cedere per contanti le canzoni che scriveva, riuscendo così a campare sempre in maniera dignitosa ma perdendo una fortuna in diritti d’autore (i tanti brani, ad esempio, che sui suoi dischi sono firmati Bill Quinn sono in realtà autografi). Da cui, e non solo frutto di una straripante urgenza creativa, la consistenza abnorme della sua discografia: decine di LP e centinaia fra 45 e 78 giri usciti per un numero non meno esorbitante di etichette.

Il modo migliore e più economico per accostarsi all’opera di questo gigante delle dodici battute è mettersi in casa “Mojo Hand”, doppio CD Rhino in box corredato da un corposo libretto. È probabilmente la migliore raccolta possibile del Nostro in sole quaranta canzoni e l’unica che copra la sua vicenda artistica per intero e, grosso modo, in ordine cronologico, dalle prime registrazioni per la Alladin del novembre ’46 all’album per la Sonet del 1974. Arrivato a incidere già trentaquattrenne e con uno stile perfettamente formato nel quale si era consumata la transizione dal blues rurale insegnatogli da Blind Lemon Jefferson a una forma più urbana, nella sua trentennale carriera Hopkins non si discostò mai più di tanto (un peccato, ché gli accenti jazz di brani come I’ll Be Gone e Shaggy Dad fanno intravvedere esaltanti possibilità che rimasero inesplorate) dal nucleo primigenio della sua musica. Play With Your Poodle, incisa nel 1947 in trio con il pianista Thunder Smith e un batterista sconosciuto, esemplifica codesto stile come nessun altro dei più di mille titoli registrati: blues elettrico caratterizzato dal timbro acre della chitarra e da peculiari accenti boogie che lo fanno rock’n’roll molti anni prima che il termine entrasse in uso.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.

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Born Under A Bad Sign – La vita e l’arte di Little Walter

Innovativo quanto Charlie Parker o Jimi Hendrix ma infinitamente più influente per il suo strumento e il settore musicale di appartenenza. A oltre quarant’anni dacché ci lasciò (più di quelli che passò su questa terra), Little Walter è vivo e suona per noi. L’armonica.

Per quel che può valere un riconoscimento che ha il merito ─ e insieme il torto ── di avere ufficializzato l’ingresso di questa nostra musica nelle accademie, il 10 marzo 2008 Marion “Little Walter” Jacobs è stato introdotto nella “Rock And Roll Hall Of Fame”. Non era mai accaduto prima per un armonicista e chissà se mai più accadrà, essendo al massimo cinque ─ James Cotton l’unico vivente e poi (li sistemo in ordine di scomparsa) Sonny Boy Williamson II, Slim Harpo, Sonny Terry e Junior Wells ─ quelli che potrebbero nutrire qualche legittima ambizione in tal senso. Ma è un po’ come cercare di mettere sullo stesso piano Bird e un qualsiasi altro grande sassofonista jazz, Jimi e un qualsiasi altro grande chitarrista rock, parlando di tecnica e valenza compositiva e dimenticandosi che nessuno aveva mai suonato così prima di loro e tutto il resto del mondo ha poi cercato in qualche misura di emularli. Per l’armonica blues c’è un “prima” e un “dopo” Little Walter e da un abbondante mezzo secolo nessuno e nulla che con Little Walter non debba fare i conti. In questo senso è vivo e a ragione di ciò fa ancora più male pensare a come si congedò, consumato dall’alcool, dalla disillusione, dal rancore. Il certificato di morte data 15 febbraio 1968 e attribuisce il decesso a una trombosi coronarica. Ci fu un’inchiesta della polizia, giacché la sera prima di una morte sopraggiunta nel sonno il nostro uomo era stato coinvolto in un violento alterco nell’intervallo di un suo spettacolo, ma in assenza di ogni chiara evidenza al riguardo non si poté che attribuirla ufficialmente a “cause naturali o comunque sconosciute”. Non puoi imputare un’inondazione all’ultima goccia caduta, per quanto sia stata quella a fare vani gli argini. Una rissa risultava fatale, ma prima ce n’erano state decine e ciascuna aveva avuto delle conseguenze, fisiche e mentali. Little Walter se ne andava qualche mese prima di compiere trentotto anni ma dentro era già morto da un pezzo. Lo testimoniano quelle ultime foto tremende, gli occhi acquosi e tristi, accusatori, la faccia di un vecchio disseminata, oltre che di rughe, di cicatrici. Lo testimoniano le ultime incisioni, del ’67 e raccolte in un album che sulla carta avrebbe dovuto essere da sogno, Bo Diddley e Muddy Waters a dare una mano in studio, e nei fatti si trasformò in un incubo. La Chess lo pubblicò lo stesso ed ebbe pure l’ardire di chiamarlo “Super Blues”. AMG lo liquida in una riga con parole feroci ─ “lethargic and at times comical” ─ e c’è poco da ridire. Little Walter se ne andava disperato e io se fossi Dio quel 10 marzo 2008 lo avrei resuscitato giusto per qualche ora, per quindi donargli davvero la pace.

Prosegue per altre 6.709 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.659, giugno 2009.

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I migliori album del 2022 (12): Fantastic Negrito – White Jesus Black Problems (Storefront)

Ha due livelli di lettura il quarto album di Xavier Amin Dphrepaulezz, in arte Fantastic Negrito. Uno più superficiale, che vale soprattutto per noi non di madrelingua che ai testi badiamo meno che agli spartiti e che bomba di disco è, musicalmente? Di fruizione ancora più immediata del precedente “Have You Lost Your Mind Yet?”. Epidermico – e nondimeno cresce con gli ascolti: a dismisura – persino in un brano di grande complessità quale l’iniziale Venomous Dogma: che è tre canzoni in una, serenata per archi che dopo un paio di minuti si trasforma in un vibrante spiritual salvo infine virare rock-blues. Figurarsi in Highest Bidder o Trudoo, funkissime; nel festoso doo wop Nibbadip; in quella novella On The Road Again (Canned Heat) che è Oh Betty; in una Man With No Name di afflato liturgico come la conclusiva Virginia Soil. La traccia numero nove di tredici (tre sono però interludi che fungono da raccordi nella vicenda messa in scena) sembra arrivare dal manuale della perfetta ballata da FM anni ’70, completa di (s)folgorante ritornello. Si chiama You Better Have A Gun e basta il titolo a indurre il sospetto che sotto il vestito pop la società statunitense sia messa a nudo.

E già… È un concept, “White Jesus Black Problems”, e la storia che racconta romanzandola è quella di due avi di Fantastic Negrito che nella Virginia coloniale del Settecento riuscivano a formare una famiglia nonostante lui fosse uno schiavo nero, lei una serva bianca a contratto. I figli che nascevano dall’unione appartenevano così alla prima generazione di afroamericani liberi. Un secolo prima della guerra di secessione, il che rende tanto più formidabile una parabola di orgoglio razziale che parlando dell’America di tre secoli fa si rivolge in realtà a quella di oggi. Laddove lo showbiz è disposto a rinunciare a far soldi pur di non farli con un nero che non le manda a dire.

Adattato da Fantastic Negrito: l’artista che visse due volte. Potete leggere l’intero articolo qui.

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“Il” classico di Jeff Beck (24/6/1944-10/1/2023)

Lasciati gli Yardbirds nel novembre ’66, Jeff Beck pubblica alcuni singoli da solista prima di dare vita all’inizio del 1968 al fenomenale gruppo con il quale registrerà questo LP e (con un aggiustamento minimo di formazione) il seguente “Beck-Ola”: Rod Stewart alla voce, Nicky Hopkins al piano, Ron Wood al basso e Micky Waller alla batteria. Pur premiato da un buon riscontro di pubblico (negli USA è quindicesimo ed è certificato disco d’oro) “Truth” in retrospettiva appare opera sottovalutata (nuocerà alla sua fama postuma la qualità ondivaga e i frequenti cambi di direzione della successiva produzione del chitarrista) e non premiata per i suoi meriti nemmeno da vendite comunque modeste se paragonate a quelle di Cream e Led Zeppelin. Resta uno dei migliori esempi di un hard primevo immerso nel blues e capace di maneggiare con gusto folk e psichedelia.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Più grandi dei Beatles? Ascesa e caduta dei Led Zeppelin

Domenica 28 giugno 1970, Bath, seconda giornata del festival di “blues e musica progressiva”. In centocinquantamila sono calati sulla cittadina del Somerset attirati da un cast stellare: Jefferson Airplane e Hot Tuna, Frank Zappa, Moody Blues, Byrds, Santana, Dr. John, Country Joe. E Led Zeppelin, per i quali quel Mangiafuoco di Peter Grant ha ottenuto il posto più alto in cartellone, attrazione principale, ultimi ad andare in scena e del resto sono o non sono il gruppo che a Natale dell’anno prima ha scalzato i Beatles dalla vetta delle classifiche USA? “II” vi ha rimpiazzato “Abbey Road” e da allora ha continuato a vendere a ritmi incredibili. Primo pure nella graduatoria britannica e nondimeno al manager e ai suoi protetti pare di non essere stati affatto, fino a quel punto, profeti in casa. La stampa li ha bistrattati, se non ignorati, e di conseguenza persino fra quanti hanno comprato il disco, e magari li stanno ora aspettando, c’è ancora chi crede siano americani. Tempo che le cose cambino. Nella strategia di conquista del suolo patrio, lo sbarco a Bath ha un ruolo chiave: dopo, più nessuno dovrà/potrà ignorare chi siano i Led Zeppelin. E siccome un regno vale una messa per essere lì si è rinunciato a due date oltre Atlantico, esibizioni a Boston e New Haven che avrebbero fruttato la rispettabile cifra di un quarto di milione di dollari, si è premurato di far sapere in giro Grant.

È stata una tipica giornata inglese di inizio estate, con un sole anche cattivo a fare capolino fra gli scrosci di pioggia. Ma poi si è alzato un venticello che sta adesso spazzando via le ultime nubi e ci si avvicina al tramonto immersi in una luce stupenda. Stanno suonando i Flock, penultimi, e il pubblico mostra di gradire il loro errebì venato di jazz e dalle ardite aperture classicheggianti. Tant’è che l’esibizione sta prolungandosi oltre il previsto. Un problema per Peter Grant, il cui piano è che il Dirigibile si levi in volo nell’istante esatto in cui il sole scomparirà dietro l’orizzonte. A estremi mali, estremi rimedi. Ordina al braccio destro Richard Cole di staccare la corrente e costui provvede nel bel mezzo di un assolo di violino. Dopo di che, si catapulta sul palco e comincia personalmente a sloggiarne la strumentazione degli stupefatti chicagoani. Quando uno dei loro tecnici accenna una protesta, un cazzotto bene assestato da uno degli energumeni che fiancheggiano Grant tronca la discussione. E così Robert Plant, riccioluta chioma dorata spiovente ben oltre le spalle su una camicia blu a pois, può accostarsi al microfono al momento giusto e salutare la platea con un “è bellissimo essere qui, in un festival all’aperto dove non è successo niente di spiacevole”. Occhiolino a Page, che dal suo canto sfoggia un completino campagnolo, cappotto grigio e cappello da bifolco, e un urlo belluino si scaglia verso un cielo che va prendendo i colori di un crepuscolo wagneriano. Con immane clangore parte una turbinosa canzone nuova, scritta in Islanda una settimana prima. Si chiama Immigrant Song ed è una fantasia guerriera in cui gli Zeppelin fanno la parte di invasori vichinghi che saccheggiano, violentano, incendiano. Pace e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ’70.

Volo magico numero uno

Sempre carino il giochino del “what if” e in tempi giurassici per questa rivista (numero 2, estate 2001) ci si divertì a farlo con i R.E.M. (fra l’altro: all’altezza del capolavoro “Automatic For The People”, 1992, John Paul Jones si ritrovò a scrivere degli arrangiamenti per costoro). Vi va di giocarlo con i Led Zeppelin? Tanto per cominciare ci si può chiedere proprio quanta strada avrebbero percorso con una ragione sociale meno efficace di quella suggerita da Keith Moon quando, nel marzo 1967, per un attimo il batterista degli Who vagheggiò un supergruppo con John Paul Jones al basso e un fenomenale terzetto di chitarristi: Jimmy Page, Jeff Beck, Ron Wood. Page terrà a mente. Vi basti sapere che gli altri nomi considerati a suo tempo furono Mad Dogs (lo userà Joe Cocker) e un tremendo Whoopee Cushion. Converrete che non sarebbe stata la stessa cosa. Ci si può poi interrogare su quali differenti pieghe avrebbe preso la storia del rock se nell’ordine: Robert Plant, che ancora non conosceva Page, fosse entrato negli Slade (che ci pensarono su ma poi decisero che era troppo effeminato); Terry Reid non lo avesse suggerito a Page quando declinò il suo invito a raggiungerlo nei New Yardbirds; John Bonham avesse preferito la paghetta mica male (quaranta sterline alla settimana) che gli allungava il cantautore Tim Rose, oppure una delle contemporanee offerte di Joe Cocker o Chris Farlowe. Giacché la delicatissima alchimia non avrebbe potuto prodursi e immaginatevela l’evoluzione del rock senza questi quattro cavalieri dell’Apocalisse fatti per correre uno a fianco dell’altro. Oppure: cosa sarebbe successo se il Dirigibile si fosse schiantato al suolo prima di quanto non accadde. Molto prima: il 31 dicembre 1968 quando, diretta da Portland a Seattle nel pieno di una delle peggiori tormente di neve che si ricordino da quelle parti, per un nonnulla la macchina con Richard Cole al volante e a bordo Peter Grant e gli Zeppelin al completo non cadde in un burrone. Un po’ prima: nel marzo 1975, quando una squilibrata di nome Squeaky Fromme dopo avere pedinato per qualche tempo Page decise di sparare invece a Gerald Ford, allora presidente degli Stati Uniti. Mentre invece si può ragionevolmente ipotizzare che un finale meno repentino e drammatico della vicenda o addirittura un non finale ─ perché sì, con un Bonham non defunto li si può pensare tuttora in circolazione i Led Zeppelin, non diversamente da Stones o Aerosmith ─ sarebbero stati, se è di rilevanza storica che si parla, ininfluenti. Già fu un congedo discograficamente minore in maniera imbarazzante il loro e poteva entrare negli ’80 e uscirne vivo (in questo senso: propositivo) chi più di chiunque plasmò i ’70? Né vale osservare che nei ’90 Jimmy Page e Robert Plant hanno licenziato due album strepitosi e uno tutto di canzoni nuove. Fondamentali difatti per la loro riuscita l’entusiasmo del ritrovarsi, la freschezza data dal doversi riscoprire dopo non essersi frequentati per quasi tre lustri.

Logico e illogico che dalla trasmissione di “Unledded” su MTV nell’ottobre 1994, con conseguente record di ascolti, le voci di una reunion si siano rincorse più che mai e forse non è stata apprezzata abbastanza l’onestà intellettuale fuori dal comune che indusse i due a non usare (al di là del fatto che mancasse John Paul Jones) la riverita sigla. Tormentone destinato ad andare avanti chissà per quanto ancora. Eppure, al prossimo 7 di luglio saranno trascorsi venticinque anni dall’ultimo concerto degli Zeppelin (appropriatamente tenutosi in quel di Berlino) e al 25 settembre altrettanti dalla prematura scomparsa di John “Bonzo” Bonham. Il 14 luglio saranno invece venti da “Live Aid” e dai venti minuti in cui, in mondovisione, Plant, Page e Jones divisero una ribalta e tre canzoni, evento non paragonabile, per il sensazionale impatto che ebbe, all’introduzione nella “Rock And Roll Hall Of Fame”, una faccenda del ’95. Insomma: ricorrevano un sacco di anniversari, se proprio bisognava inventarsi delle scuse per parlare di uno dei gruppi più seminali di sempre.

Prosegue per altre 54.216 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.17, primavera 2005.

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The Story Of Bo Diddley

In almeno metà dei suoi conclamati classici Ellas McDaniel ha infilato nel titolo il suo nome d’arte: Bo Diddley, Diddley Daddy, Hey Bo Diddley, The Story Of Bo Diddley, Bo’s Blues, Bo Diddley Is Loose. Deliri di onnipotenza alla Diego Armando Maradona, che parlava di sé in terza singolare? Niente affatto.

La pratica del “bragging”, la vanteria esagerata, fa parte della cultura afroamericana da quando era solamente afro. Era del blues ed è dell’hip hop. Tutte quelle storie con un protagonista che è l’artista stesso che sa cavarsela in ogni situazione, ha la favella più sciolta, le mani più svelte, le donne più belle perché al suo fascino nessuna sa resistere e lui ce l’ha più grosso di tutti, l’ego. Da Bo Diddley a Snoop Doggy Dog, si avvicendano le generazioni ma resta intatto nel nucleo uno stile che viene da lontano. Ma anche non fosse un frutto di questa tradizione Bo Diddley avrebbe ogni diritto di autoincensarsi: pochi hanno inciso come lui sulla storia della musica popolare del Novecento.

Più giovane di un paio di anni di quel Chuck Berry suo grande amico e rivale premiato dalle classifiche non quanto avrebbe meritato ma parecchio più di lui (incredibile a dirsi: un unico disco nei Top 20 generalisti americani a fronte di una manciata di titoli nella graduatoria R&B), il nostro eroe festeggerà il settantottesimo compleanno il prossimo 30 dicembre. Magari suonando dal vivo, visto che la sua attività concertistica è ancora piuttosto fitta e neppure limitata ai soli Stati Uniti. Sarà ad esempio in Finlandia, attrazione di spicco del “Pori Jazz Festival”, il 19 e 20 luglio e se qualche lettore dovesse capitare da quelle parti ci faccia sapere se è ormai da museo oppure no. Per certo non lo era, già sessantenne, alla rassegna romana del novembre 1988 dei “Giganti del Rock’n’Roll” (con James Brown, Ray Charles, Fats Domino, B.B. King, Jerry Lee Lewis e Little Richard). I convenuti lo ricordano in forma smagliante, unico forse fra i non molti sopravvissuti di quell’epoca a non fare la figura un po’ patetica del reperto archeologico. Un anno dopo usciva, rimediando recensioni mediamente positive oltre che reverenti, “Breaking Through The Bs”. Per la Triple X, nientemeno, un’etichetta devota prevalentemente al punk che griffava anche i successivi “This Should Not Be”, del 1992, e “Promises”, del ’94, anno in cui apriva alcuni spettacoli dei suoi discepoli prediletti, tali Rolling Stones. Quello che a oggi è l’ultimo lavoro in studio, “A Man Amongst Men”, vedeva la luce nel 1996 e (di nuovo: incredibile a dirsi) era la sua seconda uscita major di sempre, a venti tondi anni dalla prima.

Tuttavia: per quanto i suoi dischi dei tardi ’60 e dei tre decenni seguenti siano tutti come minimo dignitosi e il Nostro abbia sempre conservato sul palco una vitalità prodigiosa è però quanto produsse dall’incredibile esordio del 1955 ─ Bo Diddley su un lato, I’m A Man sull’altro ─ al giro di boa del decennio seguente che ha fatto incommensurabile l’influenza di Ellas McDaniel sull’evoluzione del rock. Fu il primo bluesman che piuttosto che elettrificare la musica del diavolo, aggiungendole dunque una sovrastruttura, fece dell’elettricità un suo elemento portante. Fu fra i primi e fra i rari musicisti in tale ambito a registrare in stereo e a sperimentare con le nuove tecniche di registrazione (altro che primitivo!). Fu uno dei numi titolari dei teppisti del blues britannici.

Prosegue per altre 4.830 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.623, giugno 2006. Bo Diddley nasceva novantaquattro anni fa. Ci lasciava, settantanovenne, il 2 giugno del 2008.

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L’uomo che visse tre volte (R.I.P. Wilko Johnson, 12/7/1947-21/11/2022)

Da chitarrista dei Dr. Feelgood, la band che più di qualunque altra della scena del pub rock contribuì ad aprire la strada al punk, fu la più improbabile (per i tempi) delle rockstar. Ebbe poi un’onesta carriera da solista che sembrò essere giunta al capolinea, insieme alla sua vita, quando nel gennaio 2013 gli diagnosticarono un tumore in fase terminale. Ops! Si erano (in parte) sbagliati. Gli ultimi anni dell’artista Wilko Johnson sono stati gloriosi quasi quanto quelli di una giovinezza ruggente.

Stupidity (Dr. Feelgood; United Artists, 1976)

“Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”: non paia blasfemo citare l’evangelista Marco, che a sua volta citava il profeta Isaia, che a sua volta metteva insieme due profezie di Malachia, per fare un parallelo con il ruolo che ebbero i Dr. Feelgood nell’aprire la via al punk. Se non altro perché non si fa altro che citare ulteriormente, Nick Hasted dell’“Independent”, che recensendo la trionfale prima proiezione (con l’intera sala in piedi a salutarne i titoli di coda con un applauso interminabile) di Oil City Confidential, il documentario sui Dr. Feelgood firmato nel 2009 da Julien Temple, scriveva dei nostri eroi dicendoli i facenti funzione di Giovanni Battista rispetto ai Messia del punk. Paragone ardito quanto ineccepibile.

È lungo e scandito da centinaia di concerti il percorso che porterà il quartetto di Canvey Island – nella formazione classica che schiera Lee Brilleaux a voce, armonica e chitarra, Wilko Johnson all’altra sei corde, John B. Sparks al basso e John Martin (soprannominato The Big Figure) alla batteria – a celebrare il massimo trionfo del pub rock piazzando questo album, il suo terzo e (viene da dire: naturalmente) un live, in vetta alla graduatoria dei più venduti nel Regno Unito nel settembre 1976. Solo per poi venire eclissato da quel punk cui aveva fatto da battistrada e gli stessi Dr. Feelgood, dopo avere quasi replicato nel maggio ’77 con “Sneakin’ Suspicion”, un buon numero 10, gradualmente retrocederanno dai teatri a quel circuito di bar e club spesso infimi che li aveva cresciuti a partire dal 1971 e che avevano fatto crescere, ultimo guizzo di gloria mercantile un singolo nei Top 10 datato 1979. Irrimediabilmente superati dai tempi ma in compenso nella Storia e culto che resiste tenace. Preceduto a 45 giri nel novembre ’74 dal rozzo quanto orecchiabile errebì Roxette, “Down By The Jetty” è nel gennaio 1975 il sospiratissimo esordio a 33, collezione di rhythm’n’blues bianco in stile primi Pretty Things, i più grezzi, cui si alternano blues e rock’n’roll altrettanto contundenti. Non vede manco da lontano le classifiche a differenza di un seguito – “Malpractice”, ottobre stesso anno e nei Top 20 – messo insieme un po’ frettolosamente e a testimoniarlo è che ove nel predecessore Wilko Johnson firmava larga parte della scaletta (fra i rifacimenti notevole una Boom Boom, da John Lee Hooker, rifatta in stile Animals) qui quasi metà del programma è di cover (formidabile in ogni caso, per quanto picchia duro, almeno Riot In Cell Block No.9). Ma è “Stupidity” (ove gli “originali” di nuovo prevalgono solo di misura, sette a sei) il bignamino perfetto di un sound ruggente e scartavetrato, alcolico e anfetaminico. “Grida”, Lee Brilleaux, ma tutt’altro che in un metaforico deserto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.261, febbraio 2020.

I Keep It To Myself/The Best Of (Chess, 2017)

È la prima metà del titolo a dichiarare la singolarità dell’operazione: lì il titolare svela che le venticinque tracce raccolte in “I Keep It To Myself” (divise su due CD per una complessiva ora e mezza di ascolto) se l’era tenute per sé. Non è dato sapere per quale ragione. Forse mancava l’etichetta giusta cui affidare queste registrazioni, bastanti a confezionare un paio di album, e che bella cosa che i nastri, incisi fra il 2008 e il 2012, vedano la luce per la casa di Chicago: marchio storico per antonomasia del blues elettrico nonché indirizzo cui si domiciliarono nomi cruciali del rhythm’n’blues primevo e, parlando di rock’n’roll, tal Chuck Berry. Tutti numi tutelari per quei Dr. Feelgood che a metà ’70 prepararono il terreno per il punk con quell’esplosiva miscela che prendeva il nome di pub rock. Nei loro primi quattro, formidabili LP di Wilko Johnson non c’è “solo” la chitarra ma anche la firma in calce alla totalità del repertorio autografo.

Restano i suoi anni migliori, lo sa e qualche cavallo di battaglia ogni tanto lo recupera: qui una Roxette reggata, una She Does It Right alla nitroglicerina, una Back In The Night devotissima a Chuck, il malevolo blues Sneaking Suspicion, l’indiavolato errebì Twenty Yards Behind. Se ho ben contato ci sono poi altri quattro pezzi che al cultore dovrebbero essere familiari e sono quelli finiti nel 2014 sull’eccellente “Going Back Home”, Roger Daltrey degli Who alla voce. Ricorderete: registrato dopo un tour che sul serio doveva essere “d’addio”, visto che a Johnson era stato diagnosticato un tumore in fase terminale. Colpo di scena! La diagnosi era parzialmente errata e il vecchio filibustiere si appresta a soffiare su settanta candeline. Auguri, ma di cuore.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 388, giugno 2017.

Blow Your Mind (Chess, 2018)

Quando nel 2013 Wilko Johnson annunciava di essere al tour di addio non era di un congedo dalle scene che si trattava, ma dal mondo: gli era stato appena diagnosticato un tumore al pancreas in fase terminale e, in luogo di sottoporsi a una chemioterapia che avrebbe solo rimandato di poco l’inevitabile, aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi mesi come molta parte dei precedenti quarant’anni, ossia suonando dal vivo. Erano concerti affollati come mai dall’epoca ruggente di quei Dr. Feelgood di cui era stato chitarrista dal ’71 al ’77, alfieri di un pub rock che spalancò la porta al punk, clamorosamente primi nel 1976 in Gran Bretagna con il live “Stupidity”. E, per quanto potessero essere logicamente commosse, le platee ancora di più erano esilarate da spettacoli di una vitalità travolgente. Ritrovata, si potrebbe dire. Costretto ad annullare le ultime due date perché non più in grado di affrontare il palco, si prendeva una settimana in studio per incidere un ultimo album, il formidabile “Going Back Home”, con Roger Daltrey alla voce. Dando per scontato che non avrebbe vissuto abbastanza da vederlo pubblicato.

E quattro anni dopo dà alle stampe il successore “vero”, dopo il brillante doppio scavo negli archivi “I Keep It To Myself”. Giacché si dà il fortunato caso che la diagnosi di cui sopra fosse in parte errata, e che un’operazione di undici ore durante la quale gli è stato rimosso di tutto e di più lo abbia rimesso in piedi. Quasi settantunenne ha realizzato un disco dei suoi più coesi e ispirati, da un’iniziale Beauty in scia alla classica Sneaking Suspicion al rovinoso rock’n’roll a suggello Slamming. Passando per l’ustionante blues Marijuana, una Tell Me One More Thing fra Ian Dury e Bo Diddley, una cooderiana (circa “Bop Till You Drop”) Lament.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.401, settembre 2018.

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