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La ambient-ethno-psichedelia dei primi Popol Vuh

Il 29 dicembre 2001 veniva improvvisamente e prematuramente (cinquantasettenne) a mancare Florian Fricke. Non se ne sarebbe parlato molto: da un certo punto di vista appropriatamente, siccome il compositore bavarese aveva sempre menato vita ritirata; da un altro fu una grande ingiustizia, giacché il corpus della sua opera risulta di eccezionale livello medio, con poche depressioni e in compenso diversi picchi e qualcuno vertiginoso. Da allora però giustizia è stata fatta, diffusa la consapevolezza che i suoi Popol Vuh, lungi dall’essere l’oleografica congrega hippie di certe superficiali rappresentazioni, del krautrock furono fra i giganti, peculiari quanto Kraftwerk e Can, Neu! e Faust, Cluster, Harmonia o Ash Ra Tempel, e altrettanto innovativi: pionieri dapprincipio di un’elettronica che, con splendida schizofrenia, da un lato guardava al futuro e dall’altro con etnico afflato si immergeva in arcaici passati; quindi declinatori di una versione insieme più rock e acustica del medesimo stile e verrebbe da dire precursori della new age, se l’etichetta non fosse diventata una parolaccia. Chiamiamolo rock “da camera”, allora. “Affenstunde” fu il debutto: formidabile esempio di inaudita ambient psichedelica innervata di suggestioni world, sogno acquatico che lascia stupefatti senza bisogno di stupefacenti.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Björk – Fossora (One Little Independent)

Il problema di Björk è che è Björk e in questo suo decimo album o nono (se incise dodicenne il formale esordio sedici anni dopo chiamava “Debut” il formale seguito che andava dietro ai trionfi artistici e commerciali con gli Sugarcubes) è ─ parole sue ─ al massimo della björkitudine. Il problema di Björk è che una volta raggiunta la perfezione, per quanto nella prodigiosa sequenza che da “Debut” nel 1993 portava nel 2001 a “Vespertine” passando nel ’95 per “Post” e nel ’97 per “Homogenic” non si riesca a mettersi d’accordo fra i cultori su dove ciò sia avvenuto, quale può essere il passo successivo? Che fai dopo che hai venduto milioni di dischi con il pop più idiosincratico di sempre e chiunque? Musica di inaudite commistioni ove convivono e si intersecano techno, soul e jazz, etnica ed elettronica, rock e neo-classica, downtempo e drum’n’bass e, sopra, quella voce che di per sé basterebbe a renderla inconfondibile. Puoi provare a ripeterti non ripetendoti, che è l’impresa più ardua, disperata persino e che pure in una certa misura all’artista islandese è riuscita. Lecito però, di fronte ad album sempre più algidi e cervellotici immersi in un universo totalmente autoreferenziale, interrogarsi se ne sia valsa la pena.

Sarà che ha al centro per un verso il ricordo della madre scomparsa e un altro l’essere madre a sua volta, ma in “Fossora” quantomeno cogli emozioni genuine, un palpitare di cuore sotto spartiti come sempre impeccabili. Più facile ammirarne allora la costruzione ardita, si tratti di una Atopos che intreccia gorgheggi e fiati dissonanti su una ritmica spastica o della polifonia reichiana di Mycelia, di una Freefall cameristico-sentimentale o di una traccia omonima dal fiabesco al technoide.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Beth Orton – Weather Alive (Partisan)

Si è sempre concessa con parsimonia Beth Orton: nove album in ventinove anni. Il che non basterebbe a rendere ogni sua uscita un evento non fosse che è sempre stata qualcosa di più e di diverso rispetto a una pur dotata cantautrice. È che l’artista inglese ha fatto da tramite fra mondi lontanissimi che anche grazie alla sua opera a un certo punto si trovarono a intersecarsi tanto strettamente che per quella musica inaudita si coniò un’etichetta: folktronica. E chi più di lei ─ collaboratrice di William Orbit e dei Chemical Brothers come di Terry Callier, allieva e amica di Bert Jansch che nel 2006 la voleva accanto a sé nell’ultimo dei suoi capolavori, “The Black Swan” – aveva le carte in regola per esserne designata a vessillifera? Però a un certo punto ─ era il 2012, il disco era “Sugaring Season” ─ sembrò che Beth avesse fatto una scelta di campo. Resta il suo album folk, visto che con “Kidsticks” nel 2016 effettuava un’inversione a u confezionando la sua opera insieme più sperimentale e maggiormente indirizzata al dancefloor. Per molti la meno convincente, benché vanti alcuni brani notevoli e in ogni caso si stia parlando di una il cui minimo sindacale surclassa la quasi totalità della concorrenza.

“Weather Alive” non va in una direzione né nell’altra e nemmeno media fra i predecessori. Composto su un piano malandato (strumento di cui la Orton ha una padronanza basica), assemblato con un quartetto di musicisti di area jazz, a volerlo proprio catalogare finirebbe alla voce fuori moda “downtempo”. Ma se talune tracce rimandano indubbiamente ai Portishead in altre si odono echi di Talk Talk, David Sylvian, Peter Gabriel. Di folk un accenno, di funk pure, il finale vira ambient. Beth Orton resta in movimento e unica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Musica facit saltus – Manuel Göttsching (9/9/1952-4/12/2022) dal krautrock alla techno

È da ieri, quando con otto giorni di ritardo si è diffusa la notizia della sua scomparsa, settantenne, che mi interrogo se ci sia stato un altro che come Manuel Göttsching sia riuscito a coprire l’arco impossibilmente ampio che dal blues (alla cui scuola crebbe) arrivò fino a house e techno (sulle quali esercitò un’influenza incommensurabile) passando per la psichedelia, per un rock che era post-punk ben prima che il punk stesso si palesasse, per una kosmische Musik sporta (anche) sulla ambient ben prima che Eno la teorizzasse. Se assumiamo, con Leibniz, che natura non facit saltus, l’intera vicenda artistica di questo chitarrista che fece suonare il suo strumento come nessuno mai, prima e dopo, dimostra invece l’opposto. E nondimeno una logica incontestabile nel continuo evolversi e una poetica affatto peculiare sottendono tutta la sua opera. È da ieri che mi chiedo a quanti altri protagonisti della musica del Novecento si possa più legittimamente applicare l’etichetta di “genio”. Non me ne sono venuti in mente molti.

Ash Ra Tempel Ash Ra Tempel (Ohr, 1971)

Protagonista principale della vicenda Ash Ra Tempel, nonché unico a traversarla dal principio alla fine, fu Manuel Göttsching, chitarrista di solida tecnica che una straordinaria inventiva ha quasi sempre salvato dalle tentazioni narcisistiche del virtuosismo fine a se stesso. Costui sul finire degli anni ’60 suonava nella Steeple Chase Bluesband, gruppo di Berlino dedito a una riscrittura lisergica della musica del diavolo che fu palestra anche per altri due futuri adepti del Tempio di Ash Ra: il bassista Hartmut Henke, che resterà in squadra fino a “Join Inn” compreso, e il batterista Wolfgang Müller, che rimarrà giusto il tempo necessario a scolpire la pietra miliare “Schwingungen”. Siccome un blues pur già poco canonico non bastava a soddisfarne gli slanci visionari, Göttsching pensò bene di andare a fare la sua cosa altrove. Con Henke al basso e Klaus Schulze, transfuga dai Tangerine Dream del grandioso “Electronic Meditation”, assiso dietro piatti e tamburi nacquero così gli Ash Ra Tempel. La loro vicenda si consumerà nel breve arco di tre anni generosi di album – ben cinque, tutti per la Ohr di Rolf-Urlich Kaiser – e intuizioni fulminanti.

Biglietto da visita sensazionale quello primo e omonimo. L’immagine egizia che campeggia sul davanti della lussuosa confezione promette il disvelarsi di verità a chi, aperta una copertina che si spalanca a mo’ di finestra, sappia addentrarsi nelle stanze cui quelle porte della percezione danno accesso. A mezzo secolo dacché fu eternata la musica che si leva dai solchi stupisce ancora. Suona moderna perché senza tempo, ma come quasi sempre è il caso con l’arte più innovativa non veniva dal nulla. Anzi! Le sue radici affondavano nella Detroit degli anni ’60, quella di MC5 e Stooges ma anche del jazz extraterrestre di Sun Ra, e nella Londra della prima ubriacatura lisergica. Nella psichedelia californiana. Naturalmente, visti i precedenti di Göttsching ed Henke, nel blues. La prima facciata è occupata dai 19’40” di Amboss, che parte con un incastro di cimbali e basso, diviene tellurica quando la batteria irrompe in scena con fare predatorio e magmatica quando la chitarra comincia a srotolare stordenti spirali di feedback. I 25’40” della Macchina dei Sogni, la Traummaschine, che monopolizza il secondo lato si porgono al contrario rilassanti: il Klaus lavora di congas, il Manuel di fino sulla sei corde, una misteriosa voce femminile evoca paradisi islamici. A dispetto della defezione pesante di Schulze, da lì a un anno con “Schwingungen” gli Ash Ra Tempel riusciranno addirittura a superarsi, ad andare oltre.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.281, ottobre 2021.

Ash Ra Tempel Schwingungen (Ohr, 1972)

Sembrò probabilmente faccenda da extraterrestri all’uscita l’omonimo debutto, datato 1971, degli Ash Ra Tempel: prendete la Detroit di Stooges ed MC5, impregnatela con il jazz saturnino di Sun Ra, ricordi di blues, cartoline di Londra in preda alla prima ubriacatura lisergica, intersecatela di sentieri felici quicksilveriani et voilà. Benché proveniente dal blues (ma aveva studiato pure chitarra classica e improvvisazione), il leader Manuel Göttsching piuttosto che un emulo di Clapton, o al limite di Hendrix, già vi si porgeva come un anticipatore del Keith Levine del “Metal Box”. Ancora di più in questo seguito, dove per ascoltare quegli a loro volta influentissimi P.I.L. – di sette anni posteriori! – non dovete che mettere su quella che era in origine la prima facciata: sono lì, in una Flowers Must Die che preconizza John Lydon persino nel titolo, laddove sul secondo lato Suche & Liebe adombra certi Pink Floyd. Quasi al pari interessanti, per non dire imperdibili, i successivi capitoli della saga dei Berlinesi, da “Seven Up”, in combutta con il guru psichedelico Timothy Leary, a “Starring Rosi”, passando per “Join Inn”. Fino all’avveniristico “Inventions For Electric Guitar”, del ’75 e di fatto l’esordio da solista di Göttsching. C’è chi vi ha individuato l’atto di nascita della techno.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Manuel Göttsching E2-E4 (Inteam, 1984)

Copertina (una scacchiera giallo smorto e marrone) di un rigore geometrico totale che non si potrebbe immaginare più distante dall’iconografia da antico Egitto che aveva caratterizzato tredici anni prima l’esordio degli Ash Ra Tempel, compagine fra le più immaginifiche del krautrock, figlia del blues e mamma dei P.I.L. Se però si scorre la discografia dei Berlinesi, fra l’altro compagni di lisergiche merende di Timothy Leary in “Seven Up”, arrivati a “Join Inn” ci si imbatte in un’altra scacchiera e i conti cominciano a tornare. Rimasto proprietario del marchio, il leader Manuel Göttsching ha già realizzato nel 1975 un incredibile LP in perfetta solitudine, “Inventions For Electric Guitar” (messo fuori con doppia attribuzione per ragioni meramente commerciali), in cui, se lo strumento è quello sovrano del rock, il suono e l’impatto sono già quelli della techno. Nove anni dopo (in realtà sei, essendo queste registrazioni dell’81) Göttsching bissa, facendo scontrare temi alati e ritmi spasmodici e in tal modo inventando, inconsapevole, l’ambient-house. Altri cinque anni ancora e mezzo mondo ballerà sulle note di Sueño latino, un’irresistibile robetta balneare “made in Italy” tutta costruita su un campionamento da “E2-E4”.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

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Panda Bear & Sonic Boom – Reset (Domino)

Che strana coppia! In origine un oceano e tredici anni separano Sonic Boom, nato Peter Kember nel 1965, da Noah Benjamin Lennox, classe 1978, in arte Panda Bear. Li accomunano l’amore per la psichedelia e l’essersi iscritti alla storia maggiore del rock: il britannico nei secondi ’80 dividendo con Jason Pierce la leadership degli Spacemen 3, l’americano capitanando negli ultimi due decenni insieme ad Avey Tare gli Animal Collective. Solo che dei primi Sonic Boom era l’anima noisy, dei secondi Panda Bear è quella melodica, colui che a un certo punto li ha trasformati da combo ultra-sperimentale in una sorta di Beach Boys per il XXI secolo. Ma… che dicevo dell’oceano? Prima di mettermi in cerca di notizie riguardo al per me sorprendente sodalizio ho dato una letta alle biografie dei due e li ho scoperti (lo sapevo, me n’ero dimenticato) entrambi degli espatriati. Dove? In Portogallo. Che già avessero collaborato ─ Sonic Boom a “Tomboy” e “Meets The Grim Reaper” di Panda Bear, Panda Bear a “All Things Being Equal” di Sonic Boom ─ mi era proprio sfuggito.

Lunga ma necessaria premessa per dire che se la grafica di copertina farebbe presupporre che a guidare la coppia nelle danze sia Kember l’ascolto rivela “Reset” opera prevalentemente nel solco del Lennox in fissa per Brian Wilson. Per certo mai Sonic Boom si era ritrovato coinvolto in un disco così godibile, irresistibilmente solare, pop.  Quali simbolici apici segnalerei un’esultante Gettin’ To The Point intessuta di chitarre flamencate, il neo-doo wop Edge Of The Edge e una tropicalista Whirlpool. Apprendere che l’opera più che suonata è il prodotto di certosine rielaborazioni di campionamenti di brani anni ’50 e ’60 aggiunge stupore e diletto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.446, ottobre 2022.

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Wovenhand – Silver Sash (Glitterhouse)

Ho quasi tutti gli album dei Wovenhand (con questo sono nove in studio in vent’anni, ma al lettore che volesse limitarsi a un titolo consiglierei uno strepitoso “Live At Roepaen”) e ne ho recensito diversi. Curiosamente, rileggendomi ho scoperto che di tutti conservavo un ricordo migliore rispetto a come ne scrissi. E non so spiegarmelo, se non con il fatto che su alcuni mi è capitato di tornarci ed evidentemente nel tempo sono cresciuti. Il che è un punto a favore dell’artista, no? Dico artista al singolare perché di fatto Wovenhand è il progetto solista di quel David Eugene Edwards che negli annali del rock è ricordato più che altro per i 16 Horsepower: vessilliferi dell’alt-country fra la seconda metà dell’ultimo decennio del Novecento e i primi anni ’00. Se ve li ricordate, e viceversa i Wovenhand non li avete mai frequentati o giusto all’inizio, scordateveli. Punti in comune, Edwards eccettuato, nessuno. Partiti da una psichedelia fra il gotico e lo sciamanico, con suggestivi influssi ethno di varia provenienza, ultimamente si erano orientati verso un post-punk parimenti fosco e tribale, spingendosi fino a lambire certo metal.

È un “ultimamente” relativo, giacché il predecessore di “Silver Sash”, “Star Treatment”, risaliva al 2016. Si riparte da lì, come chiarisce con gusto doom Tempel Timber e ribadisce con ritmica guerriera e chitarre squillanti Acacia. Però inoltrandosi in 32’39” tanto densi da parere il doppio nell’ordito si insinuano inedite trame elettroniche. In una Dead Dead Beat che richiama Suicide e Spacemen 3, a far da base alle minacciose slabbrature di The Lash, in una traccia omonima e conclusiva che fa catacombali i Depeche Mode. Stavolta con il voto mi tengo alto, per non sbagliare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.440, marzo 2022.

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Tre album fra i mille di Klaus Schulze (4/8/1947-26/4/2022)

Eccezionalmente prolifico, a Klaus Schulze sarebbe bastata in realtà una manciata di dischi per entrare nella storia della musica del Novecento con la straordinaria rilevanza che non si può non attribuirgli: gli esordi di Tangerine Dream e Ash Ra Tempel, la saga immaginata a sua insaputa dei Cosmic Jokers (un paio i capitoli imperdibili), le collaborazioni con Walter Wegmüller e Sergius Golowin e tre (o forse quattro) dei suoi primi cinque album da solista. Che alla fine fa comunque nove o dieci titoli e, insomma, sono mica pochi. Però tutti usciti fra il 1970 e il ’75.

Black Dance (Brain, 1974)

Come Konrad Schnitzler, Klaus Schulze soggiorna nei Tangerine Dream il tempo che ci va a congegnare “Electronic Meditation” e allo stesso modo, una volta lasciato solo alla guida dell’astronave berlinese Edgar Froese, si impegna brevemente in una seconda esperienza di gruppo, lui con gli Ash Ra Tempel (Schnitzler con i Kluster), contribuendo all’omonimo esordio e a “Join Inn”. Stufatosi di pestare su piatti e tamburi, acquista un synth, allestisce uno studio e in tre settimane eterna nel 1972 “Irrlicht”, fenomenale “sinfonia quadrifonica per orchestra e macchine elettroniche” e primo pannello di un trittico che in due anni va a completarsi con “Cyborg” e con questa “Danza Nera”, ballata da un essere deforme in un panorama alla Dalì che dire inquietante è un eufemismo. La musica è al pari sinistra e induce a un ossimoro: minimalismo barocco.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.31, estate 2009.

Mirage (Brain, 1977)

A un certo punto bisognerà tracciare una riga, perché d’accordo che più ci si immerge nell’oggi più si considera il passato, ma qualunque passato no. A un certo punto bisognerà tracciare una riga e va bene che il krautrock è stato, fino ai tardi ’90, sottovalutato, ma da qui a incensare qualunque album tedesco dei ’70 ne corre. A un certo punto bisognerà tracciare una riga e la ristampa dell’opera omnia di Klaus Schulze (decine di titoli; questo ha sulla costina uno “08”, ma fra quelli che mi sono arrivati c’è un inquietante “37”) pareva essere un’occasione propizia. E figurarsi quando, sfogliando il libretto, mi sono imbattuto in due colonne dedicate all’elenco della strumentazione! Il punk che è in me ha affilato i coltelli. Salvo poi riporli. Non è solo che Schulze alla lettura del libretto di cui sopra non pare affatto essere un vecchio trombone prog. Non è solo che avrà anche prodotto troppo ma, a parte essere stato fra i fondatori di Tangerine Dream e Ash Ra Tempel, ha comunque consegnato agli archivi due classici dell’elettronica più fantasiosa quali “Irrlicht” e “Black Dance”. Il fatto è che “Mirage”, uscito in un ’77 alternativo a quello che rammento, è una bella versione krauta di un Glass o un Reich. Un po’ opprimente ma del resto, racconta Schulze, fu composto mentre un suo fratello stava morendo.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.608, marzo 2005.

X (Brain, 1978)

Del tutto fuori sintonia rispetto ai tempi? Irrimediabilmente sorpassato? Si potrebbe certamente pensarlo di uno che nel 1978, anno di raccordo fra l’esplosione del punk e la fioritura della new wave, se ne usciva con un album per sintetizzatori e orchestra doppio e con un minutaggio (impossibilmente stipate le facciate e tanti saluti alla dinamica) praticamente da triplo. Roba sulla carta indigeribile, probabile riduzione a parodia del progressive degna dei peggiori eccessi di un Rick Wakeman o di Emerson Lake & Palmer. Solo che Klaus Schulze (illustri trascorsi con i primissimi Tangerine Dream e Ash Ra Tempel e poi, da solista, un paio di autentici classici dell’elettronica) aveva assai poco a che spartire con quello come con questi: altra classe, a parte che al punk guardava con grande (certamente non ricambiata) simpatia. “X” dovette parere allora obsoleto. A un ascolto odierno senza pregiudizi si svela come opera fuori dal tempo, di una grazia solenne che quasi mai scade nel tronfio e sa anzi regalare belle suggestioni in certi scorci d’archi (in particolare nella traccia aggiunta, che porta il tutto a quasi due ore e quaranta) di acceso romanticismo. Musica cinematografica, anche, e del resto in parte nacque proprio per commentare delle immagini. Alla resa dei conti una piacevole sorpresa.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.609, aprile 2005.

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Burial – Antidawn (Hyperdub)

Formalmente è dal 2007 che l’artista noto come Burial, figura tanto ammantata di mistero che all’epoca ne era ignota l’identità anagrafica (svelata l’anno dopo in un articolo su “The Independent”: è londinese, si chiama William Bevan; l’interessato si limitava a una laconica conferma e si manterrà defilatissimo, tanto che le sue interviste stanno sulle dita di due mani e qualcuna avanza), non pubblica un album e quello che dava alle stampe allora, “Untrue” (acclamato da Simon Reynolds come il più importante lavoro di elettronica del XXI secolo in un articolo divenuto celebre quasi quanto il disco stesso), era appena il secondo, dopo l’omonimo esordio dell’anno prima. Non che nel frattempo sia rimasto con le mani in mano: innumerevoli i singoli e gli EP, per fortuna dei cultori in larga parte raccolti nel 2012 in “Street Halo/Kindred” e tre anni fa nel monumentale (due ore e mezza!) “Tunes 2011-2019”. Pure “Antidawn” viene presentato come un EP, ma è solo un vezzo dell’artefice, forse un modo per togliersi di dosso la pressione del dovere infine dare un seguito alla pietra miliare di cui sopra: conta cinque lunghe tracce, dura quasi tre quarti d’ora, è a tutti gli effetti un album.

Il che rende complicato e a rischio il giudizio su un’opera che abita come le precedenti il mondo che Burial stesso ha creato e di cui non si contano i tentativi di imitazione. Non sorprende più, naturalmente; affascina ancora, immensamente. Come spesso succede con costui, non contiene alcunché di minimamente ballabile e quando una qualche ritmica si affaccia è storta e inafferrabile come le atmosfere gassose, fra malinconia e incubo incipiente, da cui emerge. È ambient, a voler proprio apporre un’etichetta, ma mai cullante sfondo alla Brian Eno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.440, marzo 2022.

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La dance astratta di Mira Calix (R.I.P.)

Se l’è meditato bene questo esordio sulla lunga distanza Mira Calix, al secolo Chantal Passamonte, sudafricana da tempo trapiantata in Gran Bretagna. Arrivò colà con un bel portfolio di fotografie nel 1991 e trovò subito lavoro da Gucci, salvo lasciarlo dopo sei mesi perché si annoiava e andare a fare la cameriera. Salvo poi pubblicare suoi scatti su “Esquire”. Salvo poi impiegarsi in un negozio di dischi a Soho e cominciare a fare la dj in giro per feste illegali e club sempre più prestigiosi. Salvo infine accasarsi presso la Warp, da dieci anni marchio leader nell’ambito dell’elettronica di consumo limitrofa a quella più sperimentale. Era il 1995 e da Londra Chantal si trasferiva prima a Manchester, quindi a Sheffield, la città dove la Warp ha sede. L’anno dopo, mentre l’attività come dj travalicava i confini britannici (ha messo dischi un po’ ovunque in giro per il mondo, Italia compresa), uscivano i suoi primi 12″. Roba strana anche per gli standard Warp, etichetta che dell’originalità da sempre fa una bandiera: techno scheletrica e narcolettica prossima alla musica industriale, jungle spastica e rarefatta, paesaggi ambient, sprazzi di una nuova musica da camera suonata da macchine in preda a turbamenti sentimentali. Roba buona.

Di questa roba buona troverete sedici esempi in “One On One”. Niente di ballabile: chi potrebbe danzare, per dire, quel delizioso congegno a orologeria che è Routine (The Dancing Bear)? Questa è musica da ascoltare comodamente seduti, con molta attenzione al gioco infinito di dettagli che si cela dietro disegni in apparenza semplicissimi. O sdraiati, perdendosi in sogni di dimensioni alternative.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.387, 7 marzo 2000. La Warp ha annunciato due giorni fa che Mira Calix non è più fra noi. Non aveva che cinquantun anni.

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I migliori album del 2021 (2): Damon Albarn – The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows (Transgressive)

I Blur non danno notizie dal 2015 ma, per quanto i due dischi pubblicati in questo secolo siano degne aggiunte a un catalogo eccezionale, un eventuale riaffacciarsi alla ribalta sarebbe più esercizio di vanità (scommessa sul settimo numero uno consecutivo nella classifica UK degli album) che un fare di improbabile urgenza creativa virtù: appartengono ai ’90, li rappresentano come pochi (in patria nessuno), riposino in pace. Sul progetto The Good, The Bad & The Queen potrebbe avere posto una pietra tombale ahinoi non metaforica la dipartita di Tony Allen. Con i Gorillaz ridotti sul serio a un cartone animato non ci resta che Damon Albarn, il cui primo vero lavoro da solista, “Everyday Robots“, era più datato (2014) dell’ultimo Blur. A giudicare dal secondo, possiamo felicemente farcelo bastare.

Chissà quanto sarebbe risultato diverso, senza la pandemia, “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”. Era stato pensato come pièce orchestrale ispirata dagli aspri paesaggi di quella Islanda che da un po’ di tempo (strano approdo per uno che cominciava a deviare dal Britpop innamorandosi riamato del Mali) il nostro uomo chiama casa, ma il covid ha fatto sparire l’orchestra. Sono rimasti i paesaggi e una quantità di strumentisti, qualcuno dei quali ha potuto offrire il suo apporto in presenza mentre altri hanno contribuito da remoto. Da remoto a remoto, si potrebbe dire. Il Damon demiurgo li ha usati come un pittore colori e pennelli, ivi compresi (mia impressione) i tre accreditati come co-autori di questa e quella traccia fino a giungere a un totale di nove su undici: Simon Tong e Mike Smith, collaboratori di lungo corso, e André de Ridder, uno importante nella classica e fra i non molti a proprio agio con le contaminazioni alto-basso. Magari perché persuaso che alto e basso possano talvolta confondersi fino a farsi indistinguibili, della qual cosa non ho ascoltato nel 2021 dimostrazione più eloquente di questo disco. Opera per un verso circolare, per un altro in perfetta e dunque non perfettibile progressione – da un brano inaugurale e omonimo la cui struttura emerge come da un sollevarsi di nebbia mattutina mantenendo tuttavia fino in fondo un che di impalpabile a Particles, ballata confidenziale in moviola con il pathos del Nick Cave odierno e la memorabilità dell’antico – e a cambiare un dettaglio, figurarsi la scaletta, se ne sciuperebbe irrimediabilmente la magia. L’unica, lontana eco di Blur risuona, dopo una The Cormorant che trasloca un redivivo Scott Walker nella Bristol dell’era aurea del downtempo, in Royal Morning Blue, che una ritmica fuori registro rispetto al resto rende sbarazzina appena prima che Combustion rimescoli tutto mandando in incongrua quanto sublime collisione Jon Hassel con dei Killing Joke (degli altri che l’Islanda la frequentarono) votati al free. Al netto di una Esja più Fennesz che Brian Eno, è l’unico episodio ansiogeno, e il più ispido, laddove giusto in mezzo ai due Daft Wader e il valzer Darkness To Light chiariscono quale sia il solo plausibile antecedente (chissà se un’ispirazione) di “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows”: “Rock Bottom” di Robert Wyatt. Da costui, non si fosse ritirato (da Leonard Cohen, non ci avesse lasciato), sarebbe bello ascoltare The Tower Of Montevideo, capolavoro dentro un capolavoro di jazz traslato in un Sudamerica dell’anima, altro che fiordi e geyser. Che resta? Il Satie svagato di Giraffe Trumpet Sea come introduzione all’Eno che ti aspetteresti di conseguenza ambient e invece no, è quello delle canzoni, di Polaris.

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire, cantava Battiato. Qui Albarn rovescia in riflessione intimista uno sguardo spalancato su orizzonti nei quali l’uomo si perde, microscopica, semi-invisibile macchia sullo smisurato foglio bianco dell’eternità.

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