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Il brutal prog dei Magma

È mai esistita una band più “di culto” dei Magma? Questione non solo di numeri, per quanto siano sempre stati modesti tolto il quinquennio inaugurato dalla pubblicazione dell’album, che era il terzo in studio e vedeva la luce nel 1973, riguardo al quale fra gli esegeti si registra una quasi unanimità di consensi: il loro capolavoro. È che il gruppo fondato nel 1969 dal batterista Christian Vander e tuttora attivo (conta poco con quale formazione incida o suoni dal vivo, essendo passati da quelle parti nei decenni e sin dall’inizio della sua storia musicisti a decine; se ci sono Christian e la ex-moglie Stella sono i Magma: punto) non soltanto si inventò un mondo alternativo, in questo simile a illustri alieni afroamericani quali Sun Ra e George Clinton, ma addirittura creò una lingua sua propria (da cui l’unicità) per raccontare le vicende là ambientate. Ed è immaginabile culto più devoto di quello i cui adepti studiandone i testi ─ impenetrabili e nondimeno puntualmente riportati nelle confezioni dei dischi ─ sono riusciti a ricostruire una grammatica, un vocabolario? E questo benché Vander, che dice il linguaggio kobaïano “puramente fonetico, con assonanze con vari idiomi slavi e germanici” ammonisca che, sebbene sia costruzione dotata di senso e regole, risulta non traducibile “parola per parola”. Tant’è.

Dal lontano 2003 sono fra i responsabili di questa rubrica e forse mai lo spazio pur ampio di un’intera pagina mi era parso così insufficiente allo scopo che si prefigge, che è quello di tracciare per tramite di uno o più LP da poco riediti un ritratto bastantemente preciso dell’opera di un solista o una band, idealmente istigando il lettore a non fermarsi a quello o a quegli. Devo correre. Ci provo. Nato a Parigi il 21 febbraio 1948, Christian Vander è figlio d’arte ma adottivo e ad adottarlo è stato Maurice Vanderschueren, pianista jazz di gran livello e fama. È un padre giovanissimo (è del 1929), radici ben salde nella tradizione del genere (ha suonato con Djiango Reinhardt) ma svelto ad abbracciare il bebop e le sue evoluzioni (si ritrovava così a fiancheggiare Kenny Clarke e Johnny Griffin) a trasmettere al ragazzo la passione per la musica. Christian come strumento non sceglie però né quello paterno né il sax dell’idolo John Coltrane e non è jazz bensì rhythm’n’blues lo stile che pratica con i primi complessini amatoriali. Lo affascinano poi sia la musica classica che un rock che si va facendo adulto proprio nel mentre pure lui entra nella maggiore età. A giudicare dalla ragione sociale del primo gruppo serio cui dà vita ─ Uniweria Zekt Magma Composedra Arguezdra: per fortuna quasi subito abbreviata come sapete ─ probabile abbia già in testa l’idea meravigliosa di una musica che superi in audacia la psichedelia dominante e il progressive incombente, fondendoli e nel contempo infondendovi elementi sia di jazz che della tradizione colta (né gli è estranea una certa temperie avanguardistica) europea. I tempi sono quelli che sono: aperti. La Philips ingaggia Vander e sodali per due album e quando a fronte di vendite insoddisfacenti non rinnoverà il contratto il dipartimento francese della Vertigo provvederà prontamente a rilevarlo. In “Magma” (1970) e “1001° centigrades” (’71), il nostro uomo comincia a narrare la saga che ha portato ai giorni nostri di un gruppo di terrestri che, in fuga da un pianeta reso invivibile da una catastrofe ecologica, ne scopre e raggiunge uno abitabile ma disabitato in una lontana galassia. Il novello eden non sarà più tale quando, generazioni dopo, altri coloni atterreranno su Kobaïa e fatalmente fra loro e i discendenti dei primi incomprensioni e contrasti sfoceranno presto in guerra aperta, siccome il sostantivo “paradiso” e l’aggettivo “terrestre” giusto nella Bibbia possono stare insieme e per qualche pagina appena prima che finisca male. Sono dischi di freschezza e spessore apprezzabili ma non originalissimi, in particolare un debutto di derivazione zappiana laddove il seguito se nella seconda facciata si limita a echeggiare i coevi Soft Machine jazz-rock nella prima adombra invece la rivoluzione che incombe con bruschi cambi di tempo e una densità strumentale inaudita. È qui che inizia a prendere forma un canone di cui qualcuno darà molto dopo una definizione geniale quanto, al suo meglio, il peculiarissimo sound della band: brutal prog. In negativo: c’è già l’enfasi tipica dei Magma, non ancora la fluidità. In positivo: in spartiti notevolmente complicati, nemmeno un sospetto di virtuosismo fine a se stesso. Da lì a due anni “Mekanïk Destruktïẁ Kommandöh” rappresenterà salto quantico, con le sue sette tracce che sfumano una nell’altra con afflato nel contempo liturgico in forza di un onnipresente coro chiaramente devozionale ─ il modello non potrebbe essere più lontano dal gospel: il Carl Orff dei Carmina Burana ─ e wagneriano. Si può provare a descriverlo con un ossimoro: un muro di suono in moto perpetuo, sospinto da un motore i cui ingranaggi sono costituiti da fanfare di ottoni e una ritmica implacabile, voci dal solenne al guizzante e chitarre scintillanti, pianoforti in loop e punteggiature e lamate d’organo, fra saliscendi vertiginosi, intrecci foschi di bordoni e brevi (r)accordi estatici. Da simili apici olimpicamente ultramondani non si potrà che scendere ma lo si farà con intelligenza, avendo inteso come replicare tale e quale sarebbe non soltanto impossibile ma insensato. Nemmeno nel successivo (1974; a separare i due dischi la colonna sonora “Ẁurdah Ïtah”, formalmente debutto da solista del leader) “Köhntarkösz” si proverà a offrire copia conforme, conservando l’effetto da trance ma smussando gli spigoli e alleggerendo le atmosfere.

Quasi in contemporanea con l’uscita di questo numero di “AR” l’olandese Music On Vinyl riporterà nei negozi proprio “Köhntarkösz”. La stessa etichetta ha già provveduto in febbraio a rimettere in circolazione il predecessore in una tiratura limitata a duemila copie numerate con copertina apribile e rifinita in lamina di rame. Buona cosa che non per questo il prezzo sia esoso, anzi. Pessima che pure il vinile sia colorato, moda deleteria cui pure i marchi più seri si stanno sciaguratamente piegando.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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Il cielo era il limite – Quando gli Young Gods erano la migliore live band al mondo

Dagli Swans gli Young Gods prendono il nome e il batterista Roli Mosimann, svizzero come loro e che con loro si ricicla da produttore, diventando di fatto il quarto componente di quello che viene da chiamare un power trio benché strumentalmente sia un duo. È tuttavia talmente dirompente la presenza scenica del cantante Franz Treichler e creano un tale muro di suono Cesare Pizzi al campionatore e Frank Bagnoud alle percussioni che sì, ai Giovani Dei la qualifica suddetta ben si attaglia. Sembrano anzi per il frastuono che producono ben più di tre. Crescita ed evoluzione del gruppo sono rapide. Se nell’omonimo esordio dell’87 l’influenza degli Swans è ancora palpabile, nell’89 in “L’eau rouge” l’idea di coniugare la visceralità di punk e metal con il senso di grandiosità e l’incisività melodica della classica è già perfettamente a fuoco. L’anno dopo “Play Kurt Weil” esibisce il lirismo e la raffinatezza che non ti attenderesti da quelli che la stampa (in Gran Bretagna e negli USA i Nostri hanno trovato orecchie aperte e accoglienze entusiastiche) ha etichettato “electro-noise terrorists”.

Formazione a quel punto quasi completamente cambiata, con Alain Monod a tastiere e synth e Urs Hiestand alla batteria alle spalle di chi, spesso paragonato a Iggy Pop, è ora ritenuto un nuovo Jim Morrison, da lì ad ancora un anno gli Young Gods confezionano con “T.V. Sky” il loro capolavoro e un esempio senza eguali di metal moderno, capace di tenere assieme ZZ Top e Doors, Stooges e Guns N’Roses. Senza usare nemmeno una chitarra! Questa riedizione per il trentennale aggiunge al CD quattro remix e integra ulteriormente il doppio LP con quattro incisioni dal vivo di quella che nei mesi in cui portò in tour il disco fu la migliore live band al mondo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.

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Dell’artista bifronte – Su John Cale

Scrivo queste righe alla fine di una settimana che ha visto John Cale protagonista di una manciata di date italiane in perfetta solitudine, seduto dinnanzi al piano o più raramente con una chitarra fra le mani. Null’altro fra lui e una ventina di splendide canzoni per la maggior parte vecchie quasi vent’anni oppure più ancora. La situazione ideale per ascoltare al meglio questo signore che da qui a pochissimo, accadrà il 9 marzo, compirà cinquantanove anni. Un’età giunti alla quale è in genere poco dignitoso roccare e rollare. Potrebbe osservare qualcuno che Lou Reed, antico compare del nostro uomo, compirà gli stessi anni sette giorni prima e tale problema non se l’è ancora posto. Osservazione giusta ma sbagliata. Benché il loro pur breve sodalizio sia stato fra i più fruttuosi e forse il più influente della storia del rock, i due non hanno granché in comune e anche a motivo di ciò le loro collaborazioni sono sempre durate poco, non soltanto perché entrambi sono prime donne. Diversa la formazione musicale, innanzitutto: se Lou si innamorava ragazzino del rock’n’roll e faceva subito i conti, da ghost writer per gruppi improbabili, con le sue strutture elementari, era un’infatuazione per Paganini a fare accostare John alla musica. Seguivano la frequentazione con il compositore Cornelius Cardew e la borsa di studio che gli consentiva di lasciare il natio Galles e andare a perfezionarsi presso il conservatorio di Tanglewood, Boston. Da lì, era la fine del 1963, si trasferiva a New York, aggregandosi immediatamente al Theatre Of Eternal Music di La Monte Young, formazione chiave per la scuola minimalista, tuttavia (per le egocentriche fisime del leader) pochissimo documentata a tutt’oggi discograficamente. Era la ripetitività di tali spartiti (intreccio di estenuanti bordoni), in fondo non dissimile da quella del rock più grezzo, a creare un terreno comune sul quale Cale e Reed, conosciutisi poco dopo l’arrivo del primo nella Grande Mela, poterono incontrarsi e dare vita alla creatura Velvet Underground.

Fisiologico che il rapporto si consumasse in fretta: al di là delle guerre di ego, il primo premeva per orientare la band verso musiche sperimentali, oltre l’epopea di frastuono e furore di Sister Ray; il secondo per raccontare il suo Grande Romanzo Americano con fulminanti paragrafi di due o tre elastici accordi.

Non dirò altro dei Velvet. Non è questa la sede e confido che anche il più inesperto fra i lettori sia edotto al riguardo quanto basta. Quello che mi preme sottolineare qui è che se Lou Reed è, come dichiara il titolo di un suo celeberrimo live, il rock’n’roll animal per antonomasia, al contrario per John Cale il rock è (stato) un qualcosa che ha imparato ma che non gli è mai appartenuto totalmente. Non una faccenda di istinto, insomma. Ecco perché, se a Lou Reed si può perdonare di suonare ancora Sweet Jane (se ne può persino essere felici), di un John Cale rockista non si avverte più da tantissimo – da quando diede alle stampe l’inquietante e meraviglioso “Music For A New Society”, AD 1982 – il bisogno. Ben superiori sono i risultati quando si esprime in una forma che ha più in comune, per dire, con Rimsky Korsakov che con Chuck Berry.

Da subito scissa fra afflato neoclassico ed elettricità la vicenda solistica del Nostro. Defenestrato dai Velvet nel ’68, si prendeva una biennale vacanza di lavoro dedicandosi alla produzione dell’ex-compagna di banda Nico e dell’epocale debutto degli Stooges (altro esempio di opposti che si attraggono), confezionando quindi nel 1970, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, ben due 33 giri. Usciva prima quello registrato per secondo e che dunque le discografie inevitabilmente indicano come debutto, vale a dire “Vintage Violence”.

Prosegue per altre 6.568 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.430, 20 febbraio 2001. John Cale compie oggi ottantun anni. Li ha festeggiati in anticipo pubblicando lo scorso 20 gennaio “Mercy”, suo diciassettesimo album in studio collaborazioni e colonne sonore escluse. Incredibilmente, uno dei suoi più belli di sempre.

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I migliori album del 2022 (1): Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune) / black midi – Hellfire (Rough Trade)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi finora dal rock britannico dell’attuale decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui, l’essere tutti giovanissimi, dallo scorso autunno una campagna concertistica americana che ha visto curiosamente i primi fare da spalla ai secondi nonostante vendano molto di più e, da ormai un anno, sfortunatamente pure questo: che mentre i black midi avevano perso il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road annunciavano l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood il 31 gennaio, vale a dire quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse al numero 3 della classifica UK, migliorando di una posizione il piazzamento dell’esordio “For The First Time”. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma presumibilmente destinata a pesare di più, visto che della band autorialmente e per la voce riconoscibilissima costui era il fulcro. Delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un congedo (anche no, visto che nel tour negli USA hanno suonato solo brani inediti e nulla ─ nulla! ─ dai due album con Wood) ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Il 19 luglio 2022 a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei Fantastici Tre e non più Quattro danno d’altronde testimonianza, e non per la prima volta, anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nel terzo di dieci brani, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”? A riascoltarli è un’influenza che, sebbene in misura minore, si coglie pure in predecessori ─ “Schlagenheim” (2019) e “Cavalcade” (2021) ─ per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, Van Der Graaf Generator, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

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Björk – Fossora (One Little Independent)

Il problema di Björk è che è Björk e in questo suo decimo album o nono (se incise dodicenne il formale esordio sedici anni dopo chiamava “Debut” il formale seguito che andava dietro ai trionfi artistici e commerciali con gli Sugarcubes) è ─ parole sue ─ al massimo della björkitudine. Il problema di Björk è che una volta raggiunta la perfezione, per quanto nella prodigiosa sequenza che da “Debut” nel 1993 portava nel 2001 a “Vespertine” passando nel ’95 per “Post” e nel ’97 per “Homogenic” non si riesca a mettersi d’accordo fra i cultori su dove ciò sia avvenuto, quale può essere il passo successivo? Che fai dopo che hai venduto milioni di dischi con il pop più idiosincratico di sempre e chiunque? Musica di inaudite commistioni ove convivono e si intersecano techno, soul e jazz, etnica ed elettronica, rock e neo-classica, downtempo e drum’n’bass e, sopra, quella voce che di per sé basterebbe a renderla inconfondibile. Puoi provare a ripeterti non ripetendoti, che è l’impresa più ardua, disperata persino e che pure in una certa misura all’artista islandese è riuscita. Lecito però, di fronte ad album sempre più algidi e cervellotici immersi in un universo totalmente autoreferenziale, interrogarsi se ne sia valsa la pena.

Sarà che ha al centro per un verso il ricordo della madre scomparsa e un altro l’essere madre a sua volta, ma in “Fossora” quantomeno cogli emozioni genuine, un palpitare di cuore sotto spartiti come sempre impeccabili. Più facile ammirarne allora la costruzione ardita, si tratti di una Atopos che intreccia gorgheggi e fiati dissonanti su una ritmica spastica o della polifonia reichiana di Mycelia, di una Freefall cameristico-sentimentale o di una traccia omonima dal fiabesco al technoide.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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black midi – Hellfire (Rough Trade)

Lo scorso 19 luglio a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione incredibilmente quanto involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei nostri giovani eroi danno d’altronde testimonianza (non per la prima volta) anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nella terza di dieci tracce, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”?

A riascoltarli, è un’influenza che sebbene in misura minore si coglie pure in predecessori per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, VDGG, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Slint, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Ghost Power – Ghost Power (Duophonic Super 45s)

C’erano una volta i franco-britannici Stereolab e a dire il vero ci sarebbero di nuovo, ma da quando si sono rimessi insieme nel 2019 non hanno pubblicato nulla che non venisse dagli archivi: fra i gruppi di area post-rock uno dei più geniali e di sicuro (sensibilità pop spiccatissima) il più accessibile. E c’erano una volta pure i più sperimentali Dymaxion, americani, che pubblicarono giusto una manciata di singoli e il cui unico album (in realtà un’antologia) nel Regno Unito vedeva la luce su Duophonic, vale a dire per l’etichetta degli Stereolab. Era allora, nel 2000, che il co-leader dei primi, Tim Gane, e Jeremy Novak dei secondi stringevano un rapporto amicale. Per farlo diventare sodalizio artistico hanno atteso il 2020, quando lavorando il primo a Berlino e il secondo nella sua New York hanno cominciato a scambiarsi via Internet idee e parti strumentali. Offrivano subito un assaggio del potenziale della collaborazione con un 7” cui danno ora più cospicuo seguito con un album che ne riprende entrambe le facciate e aggiunge otto tracce inedite.

Non fosse che gli mancano la parola (è solo strumentale) e Lætitia Sadier, “Ghost Power” potrebbe essere il disco che dagli Stereolab riformati abbiamo finora aspettato invano: fantastico pastiche di pop, krautrock, kosmische musik, colonne sonore, new wave, 39’36” di cui però ben 15’05” occupati dall’odissea “deep in the outer space” di Astral Melancholy Suite. Per arrivarci passerete da genialate come Inchwork (gli Wire alle prese con una melodia di limpidezza kraftwerkiana), Grimalkin (John Barry e i Tangerine Dream che musicano insieme un capitolo di Star Wars) e Vertical Section (novella Popcorn, anche se non se ne accorgerà nessuno).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Jesus Built Their Hot Rod – L’estremismo al potere dei Ministry

Di solito si parte puri e si emerge – o si resta a galla, o ci si prova – cedendo alle tentazioni di Mammona. Esattamente inverso il paradossale percorso seguito dai Ministry di Allen Jourgensen e Paul Barker, che esordiscono nel 1983 direttamente su una grossa etichetta, la Arista, con un album francamente orrendo, “With Sympathy” (lo rinnegheranno), a base di scipiti techno-funkettini. Un disastro anche commerciale da cui impiegano parecchio a riprendersi. Dal ritorno, nel 1986, con “Twitch” (una produzione di Adrian Sherwood) in avanti la loro musica si farà gradualmente più ostica, dinamitarda miscela in un frullatore impazzito di metal ed elettronica, new wave, noise, industrial. Ogni disco è più feroce del predecessore, ogni disco vende di più. Fino all’apoteosi artistica e di vendite di “Psalm 69”. Strani tempi i primi anni ’90.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. “Psalm 69” usciva, su Sire, trent’anni fa a oggi.

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Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico per autore i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi dal rock britannico all’incrocio fra lo scorso e il nuovo decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui (in “Cavalcade”, l’ultimo black midi, un paio di brani che potrebbero confondersi in “Ants From Up There”), l’essere tutti giovanissimi, l’avere gli uni e gli altri due lavori in studio all’attivo e ora sfortunatamente anche questo: che mentre i black midi perdevano il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road hanno annunciato l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse, migliorando di una posizione il piazzamento di “For The First Time”, al numero 3 della classifica UK. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma purtroppo destinata a pesare molto di più, visto che della band, autorialmente e per la voce riconoscibilissima, Wood era il fulcro.

Ulteriormente delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un prematuro congedo ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.440, marzo 2022.

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Burial – Antidawn (Hyperdub)

Formalmente è dal 2007 che l’artista noto come Burial, figura tanto ammantata di mistero che all’epoca ne era ignota l’identità anagrafica (svelata l’anno dopo in un articolo su “The Independent”: è londinese, si chiama William Bevan; l’interessato si limitava a una laconica conferma e si manterrà defilatissimo, tanto che le sue interviste stanno sulle dita di due mani e qualcuna avanza), non pubblica un album e quello che dava alle stampe allora, “Untrue” (acclamato da Simon Reynolds come il più importante lavoro di elettronica del XXI secolo in un articolo divenuto celebre quasi quanto il disco stesso), era appena il secondo, dopo l’omonimo esordio dell’anno prima. Non che nel frattempo sia rimasto con le mani in mano: innumerevoli i singoli e gli EP, per fortuna dei cultori in larga parte raccolti nel 2012 in “Street Halo/Kindred” e tre anni fa nel monumentale (due ore e mezza!) “Tunes 2011-2019”. Pure “Antidawn” viene presentato come un EP, ma è solo un vezzo dell’artefice, forse un modo per togliersi di dosso la pressione del dovere infine dare un seguito alla pietra miliare di cui sopra: conta cinque lunghe tracce, dura quasi tre quarti d’ora, è a tutti gli effetti un album.

Il che rende complicato e a rischio il giudizio su un’opera che abita come le precedenti il mondo che Burial stesso ha creato e di cui non si contano i tentativi di imitazione. Non sorprende più, naturalmente; affascina ancora, immensamente. Come spesso succede con costui, non contiene alcunché di minimamente ballabile e quando una qualche ritmica si affaccia è storta e inafferrabile come le atmosfere gassose, fra malinconia e incubo incipiente, da cui emerge. È ambient, a voler proprio apporre un’etichetta, ma mai cullante sfondo alla Brian Eno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.440, marzo 2022.

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