
È mai esistita una band più “di culto” dei Magma? Questione non solo di numeri, per quanto siano sempre stati modesti tolto il quinquennio inaugurato dalla pubblicazione dell’album, che era il terzo in studio e vedeva la luce nel 1973, riguardo al quale fra gli esegeti si registra una quasi unanimità di consensi: il loro capolavoro. È che il gruppo fondato nel 1969 dal batterista Christian Vander e tuttora attivo (conta poco con quale formazione incida o suoni dal vivo, essendo passati da quelle parti nei decenni e sin dall’inizio della sua storia musicisti a decine; se ci sono Christian e la ex-moglie Stella sono i Magma: punto) non soltanto si inventò un mondo alternativo, in questo simile a illustri alieni afroamericani quali Sun Ra e George Clinton, ma addirittura creò una lingua sua propria (da cui l’unicità) per raccontare le vicende là ambientate. Ed è immaginabile culto più devoto di quello i cui adepti studiandone i testi ─ impenetrabili e nondimeno puntualmente riportati nelle confezioni dei dischi ─ sono riusciti a ricostruire una grammatica, un vocabolario? E questo benché Vander, che dice il linguaggio kobaïano “puramente fonetico, con assonanze con vari idiomi slavi e germanici” ammonisca che, sebbene sia costruzione dotata di senso e regole, risulta non traducibile “parola per parola”. Tant’è.
Dal lontano 2003 sono fra i responsabili di questa rubrica e forse mai lo spazio pur ampio di un’intera pagina mi era parso così insufficiente allo scopo che si prefigge, che è quello di tracciare per tramite di uno o più LP da poco riediti un ritratto bastantemente preciso dell’opera di un solista o una band, idealmente istigando il lettore a non fermarsi a quello o a quegli. Devo correre. Ci provo. Nato a Parigi il 21 febbraio 1948, Christian Vander è figlio d’arte ma adottivo e ad adottarlo è stato Maurice Vanderschueren, pianista jazz di gran livello e fama. È un padre giovanissimo (è del 1929), radici ben salde nella tradizione del genere (ha suonato con Djiango Reinhardt) ma svelto ad abbracciare il bebop e le sue evoluzioni (si ritrovava così a fiancheggiare Kenny Clarke e Johnny Griffin) a trasmettere al ragazzo la passione per la musica. Christian come strumento non sceglie però né quello paterno né il sax dell’idolo John Coltrane e non è jazz bensì rhythm’n’blues lo stile che pratica con i primi complessini amatoriali. Lo affascinano poi sia la musica classica che un rock che si va facendo adulto proprio nel mentre pure lui entra nella maggiore età. A giudicare dalla ragione sociale del primo gruppo serio cui dà vita ─ Uniweria Zekt Magma Composedra Arguezdra: per fortuna quasi subito abbreviata come sapete ─ probabile abbia già in testa l’idea meravigliosa di una musica che superi in audacia la psichedelia dominante e il progressive incombente, fondendoli e nel contempo infondendovi elementi sia di jazz che della tradizione colta (né gli è estranea una certa temperie avanguardistica) europea. I tempi sono quelli che sono: aperti. La Philips ingaggia Vander e sodali per due album e quando a fronte di vendite insoddisfacenti non rinnoverà il contratto il dipartimento francese della Vertigo provvederà prontamente a rilevarlo. In “Magma” (1970) e “1001° centigrades” (’71), il nostro uomo comincia a narrare la saga che ha portato ai giorni nostri di un gruppo di terrestri che, in fuga da un pianeta reso invivibile da una catastrofe ecologica, ne scopre e raggiunge uno abitabile ma disabitato in una lontana galassia. Il novello eden non sarà più tale quando, generazioni dopo, altri coloni atterreranno su Kobaïa e fatalmente fra loro e i discendenti dei primi incomprensioni e contrasti sfoceranno presto in guerra aperta, siccome il sostantivo “paradiso” e l’aggettivo “terrestre” giusto nella Bibbia possono stare insieme e per qualche pagina appena prima che finisca male. Sono dischi di freschezza e spessore apprezzabili ma non originalissimi, in particolare un debutto di derivazione zappiana laddove il seguito se nella seconda facciata si limita a echeggiare i coevi Soft Machine jazz-rock nella prima adombra invece la rivoluzione che incombe con bruschi cambi di tempo e una densità strumentale inaudita. È qui che inizia a prendere forma un canone di cui qualcuno darà molto dopo una definizione geniale quanto, al suo meglio, il peculiarissimo sound della band: brutal prog. In negativo: c’è già l’enfasi tipica dei Magma, non ancora la fluidità. In positivo: in spartiti notevolmente complicati, nemmeno un sospetto di virtuosismo fine a se stesso. Da lì a due anni “Mekanïk Destruktïẁ Kommandöh” rappresenterà salto quantico, con le sue sette tracce che sfumano una nell’altra con afflato nel contempo liturgico in forza di un onnipresente coro chiaramente devozionale ─ il modello non potrebbe essere più lontano dal gospel: il Carl Orff dei Carmina Burana ─ e wagneriano. Si può provare a descriverlo con un ossimoro: un muro di suono in moto perpetuo, sospinto da un motore i cui ingranaggi sono costituiti da fanfare di ottoni e una ritmica implacabile, voci dal solenne al guizzante e chitarre scintillanti, pianoforti in loop e punteggiature e lamate d’organo, fra saliscendi vertiginosi, intrecci foschi di bordoni e brevi (r)accordi estatici. Da simili apici olimpicamente ultramondani non si potrà che scendere ma lo si farà con intelligenza, avendo inteso come replicare tale e quale sarebbe non soltanto impossibile ma insensato. Nemmeno nel successivo (1974; a separare i due dischi la colonna sonora “Ẁurdah Ïtah”, formalmente debutto da solista del leader) “Köhntarkösz” si proverà a offrire copia conforme, conservando l’effetto da trance ma smussando gli spigoli e alleggerendo le atmosfere.
Quasi in contemporanea con l’uscita di questo numero di “AR” l’olandese Music On Vinyl riporterà nei negozi proprio “Köhntarkösz”. La stessa etichetta ha già provveduto in febbraio a rimettere in circolazione il predecessore in una tiratura limitata a duemila copie numerate con copertina apribile e rifinita in lamina di rame. Buona cosa che non per questo il prezzo sia esoso, anzi. Pessima che pure il vinile sia colorato, moda deleteria cui pure i marchi più seri si stanno sciaguratamente piegando.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.