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I ritornelli tristi di Sandy Denny

Basta ritornelli tristi, No More Sad Refrains, cantava nel 1977 Sandy Denny (un blues, ovviamente) in “Rendezvous”, non sapendo che era un congedo. Sarebbe morta un anno dopo. Vivono i suoi dischi, quelli solistici appena ristampati con cospicue aggiunte.

Non era un anniversario di quelli che si prestano a celebrazioni, ventisette allo scorso 21 aprile gli anni trascorsi dacché Alexandra Elene MacLean Denny non è più di questa terra, cinque meno di quelli che passò fra noi, e non era dunque come nel 1998 quando della dipartita ricorreva il ventennale. Quella stessa Island che nel 1978 le aveva chiuso la porta in faccia, negandole un rinnovo di contratto, la ricordava con “Gold Dust”, commovente testimonianza dell’ultimo concerto, il 27 novembre ’77, pregevole a dispetto di una scaletta un po’ così. Ma da allora di colei di cui l’amico Marc Ellington disse che “poteva fare sembrare Janis Joplin, al confronto, una specie di Madre Teresa” non si è più smesso di parlare. Occasioni propizie le riedizioni allargate del catalogo dei Fairport Convention “storici”, e dunque anche dei quattro album con Sandy in squadra, e quindi, nel 2004, la pubblicazione del monumentale “A Boxful Of Treasures”, quintuplo con registrazioni live, demo e altre rarità che della ragazza offre un formidabile ritratto d’artista alternativo – o per meglio dire integrativo – rispetto a quello più noto. In un certo qual senso, si può però affermare che pure il ritorno nei negozi, con scalette significativamente allargate, di “The North Star Grassman And The Ravens”, “Sandy”, “Like An Old Fashioned Waltz” e “Rendezvous” faccia sì che della Denny si precisino meglio i contorni: non solo una rinnovatrice dell’idioma folk in terra di Albione, tant’è che negli ultimi due di folk quasi non ce n’è. E se resta indiscutibile che sia questa una Sandy Denny “minore”, se raffrontata a quella delle prove di gruppo, nondimeno così minore non fu e insomma qui ci sono le prove.

Ai Fairport enormi dei primi quattro LP e in particolare del secondo, terzo e quarto, pubblicati in un 1969 tragico e magico insieme, ho dedicato due pagine due anni e due mesi fa (n. 525, 18 marzo 2003) e a quell’articolo rimando. Qui riparto da lì, da “Liege & Lief”, “equivalente inglese di ‘Music From Big Pink’ della Band” all’indomani della cui pubblicazione Sandy lasciava, cogliendo tutti di sorpresa anche per i modi. Semplicemente, non si presentava all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portarla a Copenhagen per un concerto. Sarebbe stata fatta salire a forza sul successivo, ubriaca, ma il divorzio era ormai consumato. Il più grande amico all’interno del gruppo, il chitarrista Richard Thompson, la prese con filosofia – “Forse è un bene. Le donne sono spesso umorali e chissà che non sia meglio avere una formazione tutta maschile.” – ma a posteriori pare evidente che i Fairport Convention unici e cruciali siano stati esclusivamente quelli con la Denny, gli altri al più un gruppo buono, anche ottimo, ma non speciale. Beffardo con loro il destino, siccome era quanto qualche mese prima aveva probabilmente salvato la vita alla cantante ad allontanarla. Ricorderà il lettore l’incidente automobilistico nel quale, il 12 maggio 1969, perivano il batterista Martin Lamble e la compagna di Thompson, Jeannie Franklyn. Sul furgone che portava il complesso a casa dopo uno spettacolo a Birmingham, Sandy avrebbe dovuto sedere dove era seduta costei, non fosse che aveva preferito viaggiare con il suo bello, Trevor Lucas, imponente australiano dalla dirompente personalità e all’epoca chitarrista degli Eclection. Ed era giusto la voglia di stare vicino a Lucas a spingere Sandy Denny – donna in apparenza forte, solare, e nell’intimo fragilissima: come Janis – a indurla ad abbandonare i Fairport. Era stata con loro diciotto mesi appena ed era bastato per inventare una via britannica al folk-rock.

Prosegue per altre 4.154 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.610, maggio 2005. Ricorre oggi il quarantacinquesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

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I migliori album del 2022 (8): Hurray For The Riff Raff – Life On Earth (Nonesuch)

Lunga la strada che ha portato la statunitense di origini portoricane Alynda Segarra dai due album che si autoproduceva fra il 2008 e il 2010 all’omonimo debutto su Loose Music, che rappresentava nel 2011 il suo ingresso nella discografia ufficiale e nel quale sistemava una scelta di pezzi dai lavori precedenti. E da quello per tramite di ulteriori quattro album a questo, che marca l’inizio di una collaborazione con un’etichetta di enorme prestigio quale la Nonesuch. Percorso affrontato con fierezza e coerenza e nel contempo scansando il pericolo che la sua musica potesse farsi cliché, aggiornandola e arricchendola costantemente ma senza mai perdere il filo del discorso. Sicché qualcosa di indefinibile ma palpabile collega quel “Look Out Mama” che nel 2012 qualcuno descriveva come “una reliquia prebellica che The Band avrebbe potuto ascoltare su un grammofono mentre stava incidendo il primo LP” a “Life On Earth”. Non solo una meraviglia di disco ma quello che potrebbe rendere l’artista di New Orleans una star.

“Nature punk”, lo definisce lei. Del punk conserva invero l’essenziale, lo spirito, ma non aderisce mai alla lettera e se un brano come Precious Cargo non è distante da certi Clash è a “Sandinista!” che rimanda, non a White Riot. Del folk d’antan permangono tracce in un brano omonimo che è delizioso valzer al rallentatore e qui e là in una melodia, una progressione di accordi ma è allora folk-rock, in una Rhododendron con passo alla Roadrunner o in Saga, dove è della prima Chrissie Hynde che si colgono echi. Altre due rispetto a queste pur splendide sono però le canzoni candidate alle classifiche: la schiettamente techno-pop Pierced Arrows; Pointed At The Sun, ballata viceversa gonfia di chitarre indie.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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I migliori album del 2022 (9): Wilco – Cruel Country (dBpm)

Chiudere un cerchio dopo ventisette anni se non dopo trentadue. Tornare dove tutto era iniziato, ossia più che ad “A.M”, l’album che per gli Wilco di Jeff Tweedy inaugurava nel 1995 una discografia giunta al dodicesimo capitolo in studio, a quel “No Depression” che nel ’90 avviava il viaggio breve degli Uncle Tupelo di Jeff Tweedy e Jay Farrar: capolavoro nel quale da allora si individua l’atto fondativo dell’alt-country e che ha prodotto epigoni in numero incalcolabile. Doppio per ora solo sulla carta (sarà edito sia in CD ─ forse singolo? una durata che ammonta a 77’04” lo permetterebbe ─ che in vinile quando i problemi di approvvigionamento che affliggono il secondo formato consentiranno un’uscita in contemporanea), “Cruel Country” ha ridestato l’interesse per un progetto che da tempo andava avvitandosi su se stesso, dopo aver prodotto almeno una cinquina di album giganteschi, già al solo annuncio del titolo. Possibile che dopo tutto quanto fatto per distaccarsi da quell’etichetta là ─ alt-country ─ inventandosi un sound inaudito sconfinante nel post-rock Tweedy e soci volessero rivisitare i luoghi da cui erano partiti?

In realtà è così e non è così. Nel percorso che da una Absolutely Sweet Marie sedata chiamata I Am My Mother porta a una The Plains con vistose scorie “post-” gli Wilco declinano sì country-rock (la title track, la ballata Please Be Wrong), quando non schietto country (A Lifetime To Find, Country Song Upside Down), ma pure folk (Ambulance) e folk-rock (All Across The World), non lesinano le consuete melodie beatlesiane (versante Lennon: Hints, Hearts Hard To Find) né momenti da college radio (The Empty Condor, Bird Without A Tail) che fu. A rendere eccezionale “Cruel Country”, decretandolo la loro prova migliore da “Sky Blue Sky” (lontano 2007), sono il livello della scrittura (più byrdsiana dei Byrds, Tired Of Taking It Out On You è quanto di più istantaneamente memorabile ci abbia regalato Jeff Tweedy da molti anni a questa parte) e la rilassata intensità di incisioni catturate perlopiù dal vivo in studio, con pochissime integrazioni a posteriori.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022. “Cruel Country” sarà infine disponibile, sia in CD che in vinile (entrambi doppi), a partire da venerdì di questa settimana.

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Terry Callier – Di che colore è la musica?

Terry Callier è stato un perdente precoce. Sentite un po’. Quando nel 1964 entra in studio con un produttore di grido quale Samuel Charters per registrare un 33 giri per la Prestige, benché abbia appena ventun anni è già uno dei nomi più in vista di quella New York folk che è cresciuta intorno a Bob Dylan. Vi è arrivato un paio di anni prima dalla natia Chicago e nel suo primo concerto è stato spalla, proprio con Bob Dylan, di Ramblin’ Jack Elliot. I suoi amici si chiamano David Crosby, Dino Valenti, Fred Neil. Ha qualche affinità con quest’ultimo ma nel complesso il suo stile è invero peculiare: basti dire che sfoggia accenti che riscopriremo in Nick Drake e si fa accompagnare in sala, in scoperto omaggio all’Ornette Coleman di “Free Jazz”, da due contrabbassisti. È nero, ma si muove in un ambiente di bianchi quale il Village. Non c’entra né con la Stax né con la Motown e il suo blues, acustico e dolente, è antitetico a quello canonizzato proprio a Chicago da Muddy Waters ed elettrica compagnia.

“The New Folk Sound Of Terry Callier” rinnova il folk come promette il titolo e non esce (poi vi spiego) per un’etichetta jazz. È un UFO, una Luna Rosa con la melanina impazzita, a farla breve e chiara un disco da isola deserta. Personalissimo e addirittura rivoluzionario senza che il Nostro, che mette in fila quattro tradizionali sulla prima facciata e quattro cover sulla seconda, firmi nemmeno un pezzo. È l’interpretazione a fare inaudite queste otto canzoni, trepidi arabeschi di chitarre che sciacquano il flamenco nel Mississippi (It’s About Time) o fanno folk-jazz Bo Diddley (Promenade In Green), mentre la voce sa tanto più di campagne inglesi quanto più scende a Sud (Cotton Eyed Joe). Insopportabilmente/sublimemente triste in quel carpe diem più memento mori chiamato Johnny Be Gay If You Can Be, angelica (un angelo stanco di volare) in 900 Miles, ispida in I’m A Drifter, otto spastici minuti che stanno a Pete Seeger come la New Thing ayleriana al cool.

Uscisse, “The New Folk Sound Of Terry Callier”, farebbe probabilmente scalpore e gli “oh” e gli “ah” di meraviglia non si conterebbero. Accade invece l’inconcepibile: Charters sparisce in Messico portando con sé il master. Quando l’album vede la luce è già il 1968, il boom del folk è un lontano ricordo e nessuno se ne accorge. A momenti neppure lo stesso Terry Callier, che nel frattempo è tornato a Chicago e viene informato dal fratello, che ha visto la copertina in vetrina in un negozio. Non si scoraggia però. Entro l’anno pubblica un 45 giri su Chess, Look At Me Now, che vende pochissimo e oggi passa di mano a oltre 200.000 lire e nel settembre del 1969 rientra in studio di registrazione, con l’intenzione di realizzare un demo da mandare in giro per case discografiche. Alla regia ci sono Jeffrey Chouinard e George Edwards, chitarrista degli psichedelici H.P. Lovecraft, e le sedute fruttano sei canzoni magnifiche, questa volta tutte firmate da Callier.

Prosegue per altre 4.567 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999. Terry Callier ci lasciava il 27 ottobre 2012, sessantasettenne.

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Wilco – Cruel Country (dBpm)

Chiudere un cerchio dopo ventisette anni se non dopo trentadue. Tornare dove tutto era iniziato, ossia più che ad “A.M”, l’album che per gli Wilco di Jeff Tweedy inaugurava nel 1995 una discografia giunta al dodicesimo capitolo in studio, a quel “No Depression” che nel ’90 avviava il viaggio breve degli Uncle Tupelo di Jeff Tweedy e Jay Farrar: capolavoro nel quale da allora si individua l’atto fondativo dell’alt-country e che ha prodotto epigoni in numero incalcolabile. Doppio per ora solo sulla carta (sarà edito sia in CD ─ forse singolo? una durata che ammonta a 77’04” lo permetterebbe ─ che in vinile quando i problemi di approvvigionamento che affliggono il secondo formato consentiranno un’uscita in contemporanea), “Cruel Country” ha ridestato l’interesse per un progetto che da tempo andava avvitandosi su se stesso, dopo aver prodotto almeno una cinquina di album giganteschi, già al solo annuncio del titolo. Possibile che dopo tutto quanto fatto per distaccarsi da quell’etichetta là ─ alt-country ─ inventandosi un sound inaudito sconfinante nel post-rock Tweedy e soci volessero rivisitare i luoghi da cui erano partiti?

In realtà è così e non è così. Nel percorso che da una Absolutely Sweet Marie sedata chiamata I Am My Mother porta a una The Plains con vistose scorie “post-” gli Wilco declinano sì country-rock, quando non schietto country, ma pure folk e folk-rock, non lesinano le consuete melodie beatlesiane (versante Lennon) né momenti da college radio che fu. A rendere eccezionale “Cruel Country”, decretandolo la loro prova migliore da “Sky Blue Sky” (lontano 2007), sono il livello della scrittura e la rilassata intensità di incisioni catturate perlopiù dal vivo in studio, con pochissime integrazioni a posteriori.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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John Doe – Fables In A Foreign Land (Fat Possum)

Sempre pensato, da quando vidi per la prima volta gli X in foto, che con quella sua bella faccia da onest’uomo americano John Doe sarebbe stato perfetto per il cinema. Che un John Ford qualche decennio prima non avrebbe esitato a includerlo nel cast di un suo western. Deve aver fatto la stessa impressione a tanti: comprensiva anche di varie serie TV, la filmografia dell’uomo nato John Nommensen Duchac sessantanove anni fa è chilometrica. Persino più di una discografia pure assai cospicua giacché oltre alla band sunnominata, una delle più grandi dell’era artisticamente aurea del punk USA, comprende Knitters, Flesh Eaters e una carriera da solista di cui quest’album (primo per la sempre più in auge Fat Possum) è il tredicesimo capitolo in studio. Atteso sette anni ma che gli vuoi dire a uno che nel frattempo ha pubblicato due libri e un disco (splendido) con i riformati X, suonato parecchio dal vivo e aggiunto al curriculum attorale un ruolo di primo piano in All Creatures Here Below?

Di “Fables In A Foreign Land” stupisce più che altro il titolo: come sarebbe a dire “terra straniera” quando il disegno che ne adorna la splendida copertina ritrae un cowboy di schiena, incamminato verso nuove avventure con a fianco il suo cavallo? Immagine quanto mai iconica e, a proposito, il disco prima si chiamava “The Westerner”. E quali “favole”? Schizzi assolutamente realistici invece, per quanto ambientati in un indefinito passato. La distanza che apparentemente separa questi tredici brani pencolanti più verso il folk o il folk-rock che il country, tolte un paio di deviazioni in area tex-mex e rockabilly, dal sound scorticato e ipercinetico degli X in realtà in spirito si annulla. Identica è l’onesta dell’approccio. Si torna lì: all’onestà.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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Kings Of Convenience – Quando “quiet” era il “new loud”

Chissà se l’idea di chiamare “Quiet Is The New Loud” un secondo album che era quasi come fosse il primo (incredibilmente, il vero esordio non è nemmeno citato nella scheda che Wikipedia dedica al duo) venne a Erlend Øye o a Eirik Glambek Bøe. In scaletta un brano omonimo non c’è e i ragazzi (venticinque anni entrambi all’epoca) non ritennero di rimediare a posteriori. Chissà se avrebbero se no attirato l’attenzione della stampa inglese, fomentandone a tal punto l’entusiasmo che provò a inventarsi una scena che non c’era (frugo nella memoria e negli archivi e di gruppi degni di nota ne trovo tre: Turin Brakes e Stairsailor, che debuttavano in lungo quello stesso anno, e It’s Jo And Danny, che provarono a mettersi in scia quando erano stati in realtà i primi ad affacciarsi alla ribalta). È che un titolo così geniale avrebbe potuto inventarlo giusto un giornalista del “New Musical Express” con un futuro da pubblicitario di grido. È che dopo gli anni del grunge e del Britpop, dell’alt-rock e del post-rock, una musica principalmente di chitarre acustiche e armonie vocali pareva perfetta per un secolo che si affacciava alla storia potendo ancora (per pochissimo: fino all’11 settembre) fantasticare di essere altra cosa, e migliore, rispetto al precedente. “Il silenzio è il nuovo rumore”, si potrebbe provare a rendere, ma non rende. Sia come sia: tutti pazzi per i Kings Of Convenience nella primavera del 2001 e a riascoltarla oltre vent’anni dopo quella dozzina di canzoni fa ancora una formidabile figura. Di “nuovo” non regalava in realtà e naturalmente nulla, come chiunque minimamente avvertito e con magari in casa i dischi dei Belle And Sebastian oltre a quelli di Simon & Garfunkel e Nick Drake già allora sapeva, ma che scrittura! Che è quello che conta nel pop. Quello, e il sentimento.

Mica facile arrivare a conquistare le classifiche ─ in verità più nel resto d’Europa che le britanniche, anche se buttale via sessantamila copie ─ partendo da Bergen, che dopo Oslo è la seconda città della Norvegia ma vi sfido a puntare un indice verso una carta geografica e dire “è lì”. Lì dove copie ne bastano venticinquemila per appendere in casa un disco d’oro ed è difficile ai limiti dell’impossibile, proprio per le dimensioni ridotte del mercato (metà degli abitanti della Lombardia e un costo della vita proporzionato a una ricchezza che sconfina nell’opulenza), fare dell’essere musicisti più di un hobby. A meno, appunto, di partire. Erlend ed Eirik mandavano in avanscoperta prima dei demo, quindi tre singoli “made in Norway” e credevano di avere trovato l’America dove l’America è quando nel 2000 la Kindercore (di Athens, Georgia; vi diranno qualcosa nomi come Pylon e B-52’s, R.E.M. e Of Montreal) si offriva di pubblicare un CD di fatto antologico visto che quasi tutti i brani che raduna erano già apparsi sul trio di 7” di cui sopra. Copertina di rara bruttezza, “Kings Of Convenience” non merita l’elevato esborso (mentre scrivo c’è chi su Discogs prova a venderlo a quei duecento euro) necessario oggi per procurarselo. Le canzoni ci sono già, ben sei su dieci verranno ripresentate (e fa metà esatta del programma) in “Quiet Is The New Loud”, la magia ancora no. Quella che nella nuova versione di Winning A Battle, Losing The War si accende davvero, dopo che le chitarre da felpate si sono fatte guizzanti, quando a un minuto o poco più dalla fine entra la batteria. Che nella successiva, festosa a dispetto del titolo Toxic Girl è presente sin dalle prime battute. La batteria. Quella che fece tutta la differenza di questo mondo quando Tom Wilson decise nel 1965, senza manco avvisare gli interpreti, di aggiungerla a The Sound Of Silence e un brano passato del tutto inosservato l’anno prima rendeva Simon & Garfunkel (sempre i più citati quando si scrive dei Kings Of Convenience) delle superstar a loro insaputa, dalla sera alla mattina. Ciò che nel… come dire?… primo debutto era appena un bocciolo in questo secondo fiorisce grazie a poche quanto sapienti aggiunte: lì uno sbuffo di tromba, là un fremito di violoncello, un piano a ricamare, una batteria discreta ma decisa, una chitarra che abbandona il folk per avventurarsi nel jazz o azzardarsi brazileira. Come, l’ultima che ho detto, nella squisita Singing Softly To Me, in Leaning Against The Wall, in una The Girl From Back Then che è John Martyn alle prese con Antônio Carlos Jobim. Laddove Failure è un Nick Drake euforico come mai fu e Parallel Lines un Paul Simon al contrario più desolato che semplicemente malinconico. Non è saudade qui, piuttosto spleen, capite a me.

La notte è più buia subito prima dell’alba e nel 2001 nessuno avrebbe potuto garantire che per il vinile il sole sarebbe sorto ancora. Di “Quiet Is The New Loud” stamparono pochissime copie ed è a ragione di ciò che oggi per una in condizioni accettabili il prezzo si aggira sui settanta euro e una intonsa può arrivare a costare più del doppio. Risulta allora particolarmente gradita (ma il lettore interessato si affretti, per certo non ne hanno tirate di più) una riedizione arrivata nei negozi sotto Natale, griffata sempre Source, distribuita dalla Universal e con un prezzo di listino di eurelli 28. Tale e quale a “Riot On An Empty Street”, che in origine vedeva la luce nel 2004 e del predecessore forniva replica fors’anche più ispirata, tanto che in molti ritengono (sono d’accordo) sia questo e non quell’altro il capolavoro della coppia. Si presenta con una luminosissima (di nuovo: il titolo depista) Homesick che non potrebbe essere più Simon & Garfunkel nemmeno se fosse di Simon & Garfunkel, si congeda con una meditabonda The Build-Up che il featuring di Leslie Feist fa un po’ Suzanne Vega, in mezzo dispensa meraviglie come la pianistica e incalzante Misread, il valzer Stay Out Of Trouble, una Sorry Or Please dove Nick Drake incontra Paul Simon e una Live Long che in mano ad Al Stewart nell’Anno del Gatto avrebbe spopolato. Sistemata fra una I’d Rather Dance With You invero ballabile e una Surprise Ice rarefatta e quasi luttuosa. Nota di colore: più che in qualunque altro paese era da noi che l’album faceva strage di cuori, scalando le classifiche fino alla terza posizione. Quanto è vero che “amor ch’a nullo amato amar perdona”: dal 2012 Erlend Øye vive in Italia, a Siracusa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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Kurt Vile – (Watch My Moves) (Verve)

Chi si somiglia si piglia ma a somigliarsi troppo il rischio è di lasciarsi presto. È il caso di Adam Granduciel e Kurt Vile, che fondavano i War On Drugs con l’idea magnifica di mediare My Bloody Valentine e “Highway 61 Revisited”, declinando un rock fragoroso quanto melodico che però alla lunga si farà più che altro magniloquente, ricreazione di anni ’80 in fissa per Bruce Springsteen. Ma questo in tempi più recenti e già all’altezza del secondo album (2008) della band di Philadelphia Vile non era più co-leader ma un ospite e poi basta. Separazione amichevole, detto en passant. Commercialmente non c’è stata gara: i War On Drugs decollavano proprio con il primo lavoro post-Vile e i loro dischi hanno da allora venduto il decuplo di quelli di un ex- che nondimeno con il nono album in studio (contandone uno con Courtney Barnett) approda a un’etichetta non solo prestigiosa ma in area major. A sua lode: come i War On Drugs che passavano dalla Secretly Canadian alla Atlantic, senza sottostare a compromesso alcuno.

A proposito di Springsteen: qui Vile coverizza aggiungendoci un tocco acidulo l’oscura (uno scarto di “Born In The U.S.A.”) Wages Of Sin. A proposito di un altro tratto in comune con Granduciel: “(Watch My Moves)” ne conferma la logorrea, quindici brani uno dei quali è però un siparietto ambient sotto il minuto per 73’44” e fate voi la media. Si astiene da svolte adombrate dal delizioso girotondo pianistico alla Robyn Hitchcock della traccia inaugurale Goin On A Plane Today e da una seconda, Flyin (Like A Fast Train), molto Beck su beat hip hop ed è un peccato. Soprattutto perché canzoni come la byrdsiana Jesus On A Wire, una scintillante Say The World in cui cita i Talking Heads o lo shuffle loureediano Stuffed Leopard lo confermano autore di vaglia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Jensen McRae – Are You Happy Now (The Orchard)

Abbiamo una nuova Tracy Chapman? Che manco era nata quando l’originale collezionava dischi di platino, ancora doveva compiere nove anni quando colei il cui nome resterà legato per sempre alla canzone che ne inaugurava nell’88 l’omonimo esordio (Talkin’ ’Bout A Revolution, ovviamente) dava alle stampe quello che è a oggi il suo ultimo lavoro (“Our Bright Future”) e, per curiosa coincidenza, pubblica il primo album a ventiquattro, stessa età che aveva l’evidente modello quando era lei a debuttare in lungo. Oddio… modello… Alle nostre orecchie le similitudini sono lampanti, ma che Jensen McRae volutamente intenda porsi in quel solco non è da darsi per scontato. Appartiene a un’altra e lontanissima generazione e se a qualcuna si ispira è alla di poco più “anziana” Phoebe Bridgers. Però i classici ─ Dylan, Joni Mitchell, Carole King, James Taylor ─ li ha studiati eccome e in “Are You Happy Now” sono influenze che si sentono, laddove di altre ─ Stevie Wonder, Alicia Keys ─ per ora non si coglie nulla. In futuro chissà. Chissà chissà, visto che la giovane artista californiana pur con garbo nelle poche interviste circolate finora esprime un po’ di fastidio per il fatto di sentirsi vista come un animale raro, una ragazza di colore che suona e canta brani folk invece che soul o r&b.

Folk ma spesso di grande pop appeal e “Are You Happy Now” ne piazza subito uno, Starting To Get To You, dal potenziale clamoroso (ne esibiscono appena meno Take It Easy e Good Legs e forse persino di più una latineggiante e con ritmica molto presente With The Lights On). Sconcerta che un’opera talmente pensata in forma di album da contenere tre interludi a separare/collegare le altre dodici tracce sia per ora disponibile solo in download.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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Hurray For The Riff Raff – Life On Earth (Nonesuch)

Lunga la strada che ha portato la statunitense di origini portoricane Alynda Segarra dai due album che si autoproduceva fra il 2008 e il 2010 all’omonimo debutto su Loose Music, che rappresentava nel 2011 il suo ingresso nella discografia ufficiale e nel quale sistemava una scelta di pezzi dai lavori precedenti. E da quello per tramite di ulteriori quattro album a questo, che marca l’inizio di una collaborazione con un’etichetta di enorme prestigio quale la Nonesuch. Percorso affrontato con fierezza e coerenza e nel contempo scansando il pericolo che la sua musica potesse farsi cliché, aggiornandola e arricchendola costantemente ma senza mai perdere il filo del discorso. Sicché qualcosa di indefinibile ma palpabile collega quel “Look Out Mama” che nel 2012 qualcuno descriveva come “una reliquia prebellica che The Band avrebbe potuto ascoltare su un grammofono mentre stava incidendo il primo LP” a “Life On Earth”. Non solo una meraviglia di disco ma quello che potrebbe rendere l’artista di New Orleans una star.

“Nature punk”, lo definisce lei. Del punk conserva invero l’essenziale, lo spirito, ma non aderisce mai alla lettera e se un brano come Precious Cargo non è distante da certi Clash è a “Sandinista!” che rimanda, non a White Riot. Del folk d’antan permangono tracce in un brano omonimo che è delizioso valzer al rallentatore e qui e là in una melodia, una progressione di accordi ma è allora folk-rock, in una Rhododendron con passo alla Roadrunner o in Saga, dove è della prima Chrissie Hynde che si colgono echi. Altre due rispetto a queste pur splendide sono però le canzoni candidate alle classifiche: la schiettamente techno-pop Pierced Arrows; Pointed At The Sun, ballata viceversa gonfia di chitarre indie.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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