
“This Ain’t My Time” recita il titolo della corposa ed economica (due CD al prezzo di uno) raccolta dei Barracudas uscita da poche settimane per i tipi della Castle. Dice molto sul complesso che fu di Robin Wills e Jeremy Gluck e messo a fianco di quello di un 45 giri del 1980, I Wish It Could Be 1965 Again, quasi tutto. Frugo nel mio archivio cartaceo e ne estraggo un pezzo che pubblicai riguardo a costoro nel lontano ’85. Vi rinvengo la citazione di una stroncatura di due anni prima sul “Melody Maker”: “Dubito che ci si ricorderà di loro nel 1998 come eroi di culto”, concludeva l’articolista. Azzarderei che abbia avuto torto. Se indubbiamente siamo davvero chiesuola ristretta a rammentarne le rock’n’rollistiche gesta, nondimeno non dobbiamo nemmeno essere pochissimi se seguitano a uscire raccolte (“Through The Mists Of Time” è di appena tre anni fa) e la discografia postuma di questi signori è ormai il doppio di quella che allinearono in vita. Né tutti reduci che ricomprano in digitale ciò che avevano consumato in analogico. Ho piacere a cercare di fare qualche nuovo proselito: perdenti tre lustri in ritardo sull’epoca loro – sul serio avrebbero potuto avere una chance soltanto nel 1965 e dunque il rimpianto di avere sbagliato decennio era assolutamente giustificato -, i Barracudas sono un gruppo cui ho voluto bene. Se gli ascolti a migliaia susseguitisi da allora hanno enormemente ampliato i miei orizzonti facendomeli ridimensionare (loro stessi sarebbero d’accordo) al ruolo di Flamin’ Groovies minori, il tornare a frequentarli per un pomeriggio me li ha restituiti epigoni, sì, però frizzanti proprio come li ricordavo. Paradossalmente ma non troppo, il loro essere creatura anacronistica li ha preservati dalle ingiurie del tempo.
È il singolo che la Zonophone scelse come biglietto da visita per “Drop Out With The Barracudas”, I Can’t Pretend (come dei Byrds all’anfetamina o dei Ramones con propensioni jingle-jangle, fate voi), ad aprire una scaletta che segue solo all’incirca l’ordine cronologico. Era già il quarto 45 giri per la succursale della EMI (sarà l’ultimo) dei ragazzi e prima ce n’era stato uno per la fantomatica Cells, finanziato in realtà da un benemerito fan. L’accoppiata I Want My Woody Back/Subway Surfin’ arriva quattro tracce dopo, acerbo e fresco dilagare di chitarre surf aromatizzate ’77, però datato giugno ’79, non fuori tempo massimo ma più o meno. La band si era formata – con un’altra ragione sociale, R.A.F., acronimo per Rock And Folk oppure Rock And Fan, secondo l’estro – nel gennaio 1978, quando Wills, inglese ma nativo di Ginevra, aveva convocato a Londra il canadese Gluck, conosciuto un anno prima. Chitarrista il primo, cantante il secondo, saranno l’unica presenza costante nella vicenda Barracudas e vi/mi risparmio quindi il lungo elenco dei comprimari con la sola, onorevolissima eccezione dell’americano Chris Wilson, che aggiungerà una seconda chitarra e un’eccellente vena compositiva alla vigilia delle registrazioni del secondo LP. Veniva – guarda tu il caso – dalle fila dei maestri Flamin’ Groovies. Del trittico di sette pollici fra I Want My Woody Back e I Can’t Pretend la collezione Castle recupera tutti i lati A e due dei quattro retri: è ancora surf-punk che si sta tuttavia spostando verso dei mezzi ’60 alimentati a beat e folk-rock, chitarre scampanellanti, ritmi squadrati e melodie di buon popappiglio. Primo singolo per la EMI, che vedeva nei Barracudas una possibile novelty (si ricrederà presto), Summer Fun violava nell’estate 1980 i Top 40 britannici, impresa che non avrà mai seguito.
“Drop Out With The Barracudas” risale al febbraio dell’anno dopo. 33 giri caruccio ma che un po’ patisce l’essere scisso fra un passato surf e un futuro moderatamente psichedelico e più che altro garage-folk. Valgono di più – nel caso voleste cercare i vecchi reperti vinilitici piuttosto che accontentarvi di un’antologia che comunque li rappresenta adeguatamente – i successivi “Mean Time” (gennaio 1983) e “Endeavour To Persevere” (febbraio 1984), entrambi editi (nemo propheta in patria) dalla francese Closer, con in mezzo un semiclandestino, registrato orrendamente ma spumeggiante, “Live 1983”, su Coyote. All’ingrosso: più aggressivo il primo, più delicato il secondo, sostanzialmente un album di ballate dalla produzione fiacca quanto è brillante l’ispirazione. Vale di più, riascoltato oggi, anche “Wait For Everything”, frutto del rinnovarsi del sodalizio Wills/Gluck nel 1991, a sette anni da uno scioglimento determinato dall’incapacità di muovere un numero accettabile di copie per LP su qualunque mercato fuor da quello francese. “This Ain’t My Time” riprende da lì mezza dozzina di brani e non si notano cesure né temporali né qualitative.
Un difetto va imputato a codesta antologia: sorvola o quasi sulle numerose cover registrate dal gruppo, riproponendo giusto la bacharachiana, in versione devota ai Love, My Little Red Book. Peccato. Si sarebbe potuta tracciare una bella mappa, congiungendo i puntini fra (naturalmente) Barracuda degli Standells e I Ain’t No Miracle Worker di Brogues e Chocolate Watchband (in Italia dei Corvi), come fra You Were On My Mind di Barry McGuire (celebre dalle nostre parte grazie all’Equipe 84) e una Codeine memore soprattutto dei Charlatans, fra il classico di Leon Rosselson (frequentato pure da Billy Bragg) World Turned Upside Down, la You’re Gonna Miss Me dei 13th Floor Elevators e (naturalmente bis) la Slow Death dei Flamin’ Groovies. Chiusura di cerchio e missione compiuta. Certi fallimenti sono più gloriosi dei trionfi.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.463, 20 novembre 2001.
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