Archivi tag: garage

I migliori album del 2022 (10): The Black Angels – Wilderness Of Mirrors (Partisan)

Il gruppo che meglio ha trasposto il verbo psichedelico nel XXI secolo? Questi texani devoti a Roky Erickson come ai Velvet Underground, da una cui canzone prendevano il nome e nel 2017 il titolo di un album, il quinto, “Death Song”. Anche ora che si è aggiunto un sesto resta il più fosco e minaccioso in discografia, tensione che non mollava per quasi intero il suo svolgimento, dando requie giusto nella conclusiva Life Song: estatico space rock dalla malinconia sorridente, se l’ossimoro è concesso. “Wilderness Of Mirrors” riparte da lì, con una Without A Trace intessuta di chitarre elettriche trillanti e tamburi tribali, animatamente torpida (altro ossimoro) e stupefatta. Grandioso incipit per un’opera che nel solco dei predecessori continua a dilatare i tempi. Sono 57’49”, praticamente la stessa durata del debutto del 2006 “Passover”, 58’48”, che nel 2008 nel monumentale in ogni senso “Directions To See A Ghost” diventavano 70’25” (quasi ottanta nella versione triplo LP). Laddove nel 2010 “Phosphene Dream” con i suoi 36’11” oltretutto alquanto pop pareva al confronto una bagatella e nel 2013 “Indigo Meadow” nei suoi 45’44” mostrava qualche lieve appannamento. Per una prima volta rimasta unica un che di formulaico. “Death Song”, 48’42”, riportava in quota la band.

Sarà parso ozioso al lettore questo minuzioso dettagliare i minutaggi. Non lo è. La musica dei Black Angels trae giovamento dagli svolgimenti lunghi, non nel singolo brano ma nell’articolarsi di un discorso che qui risulta chiaramente distinto in tre parti: una prima di impianto garagista (zenit toccato in Empires Falling, chitarre dal ruvido all’ustionante su ritmica dal frenetico al motoristico); una seconda folk-psych (ai Love in combutta con Nancy Sinatra di Firefly e colti da empiti arabeggianti di Make It Known risponde il raga-rock quicksilveriano di The River); una terza che sintetizza alternando un macinare inesausto (Icon rimanda alla new wave guerriera dei dimenticati Theatre Of Hate) a sprazzi cinematicamente cinematografici (la morriconiana Vermillion Eyes, una Suffocation con tracce di Procol Harum). Immaginifici e magnifici.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, dischi dell'anno, recensioni

Dan Sartain – Arise, Dan Sartain, Arise! (One Little Independent)

A volte la vita fa davvero schifo. Devi recensire l’ottavo album di uno che adori sin da quando scrivesti di un terzo che era però come fosse il primo, giacché nel 2006 con “Vs. The Serpientes” l’autore entrava nel mondo della discografia ufficiale dopo due autoproduzioni, e dovresti esserne felice. Tanto più perché lo si attendeva dal 2016 ma anche no, sapendo che Sartain, arresosi all’impossibilità di campare di musica, aveva aperto una bottega di barbiere in quella Birmingham. Alabama, in cui era nato il 13 agosto 1982. Dovresti esserne contento visto che come tutti i precedenti è lavoro di vaglia e godibilissimo. Come quelli, da sistemare idealmente nella parte di libreria che ospita Tav Falco e Cramps, Billy Childish nelle sue innumerevoli incarnazioni, Gun Club e Oblivians, ’68 Comeback, Rocket From The Crypt, White Stripes… Si parte con il surf guerriero You Can’t Go Home No More e da lì al festoso rock’n’roll, Daddy’s Coming Home, con cui si congeda il disco non registra una battuta a vuoto in altre undici tracce in cui dal garage passa al power pop, da quello allo psychobilly, un punk 100% Ramones va dietro a una ballata che potrebbe venire dallo studio della Sun al tempo in cui lo frequentava Elvis, una sferragliante filastrocca anticipa un country al galoppo in cui spiazzando sfrigola un synth. Che gran ritorno insomma, che bello potersene occupare.

Solo che Dan Sartain è morto lo scorso 20 marzo. Si ignora di cosa ma per certo (tanti gli indizi in tal senso) ha inciso quest’album sapendo di avere i giorni contati. Tornate sul titolo dell’ultimo pezzo: è il saluto a una bambina, la figlia, che chi sta cantando sa che non vedrà crescere. La vita fa schifo e per qualcuno è troppo breve.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

1 Commento

Archiviato in anniversari, archivi, recensioni

Fuzztones – NYC (Cleopatra)

Non fossero i tempi quelli che sono il consiglio sarebbe di non farvi sfuggire i Fuzztones se dovessero passare dalle vostre parti: lo stagionato Rudi Protrudi e i suoi variabili e invariabilmente più giovani soci/socie sanno ancora regalare divertimento ed emozioni e non necessariamente solo a chi negli ’80 si prese una sbandata per quella scena che celebrava un altro decennio, i ’60, che oggi appare paradossalmente meno lontano di quanto non sembrasse allora. Essendo purtroppo i tempi quelli che sono, passare da un quarantennale a una quarantena è un attimo. Il 2020 avrebbe dovuto essere un anno di celebrazioni per la band, ufficialmente fondata nel 1980 anche se non arrivò a esordire discograficamente che nell’84. Erano in programma un libro fotografico, una raccolta di classici (che poi sono perlopiù brani di altri sui quali la Protrudi & Co. ha impresso il suo marchio), un nuovo album in studio a ben nove anni da “Preaching To The Perverted” e ovviamente tanti, tantissimi concerti.

Giusto “NYC” è sopravvissuto di tutto ciò ed è anche per gustarsele dal vivo queste quindici cover che omaggiano la Big Apple, percorso che da Sinatra giunge a Patti Smith, che non si vede l’ora di tornare alla normalità. Fatto è che, con l’eccezione del debutto “Lysergic Emanations”, i Fuzztones in studio mai hanno saputo avvicinare il proprio formidabile live act. Complice una produzione non all’altezza, queste versioni paiono per la maggior parte poca e smorta cosa (Dancing Barefoot imbarazzante per quanto è piatta). Discrete eccezioni: una 53rd & 3rd memore di quanto i Ramones amassero i Byrds; una Skin Flowers che gira garage-pop i Fugs; una Babylon e una You Gotta Lose che riprendono rispettivamente New York Dolls e Richard Hell senza far danni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.426, dicembre 2020.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

La Heavy Music del giovane Bob Seger

Bob Seger è in una relazione complicata con il suo passato remoto e non da oggi, che gli anni sono settantatré e la salute vacilla, tant’è che il tour che doveva promuovere l’ultimo e orrendo “I Knew You When” durava poche date prima di venire interrotto. Sta per riprendere, dovrebbe concludersi in maggio, sarà l’addio alle scene. Ma dicevo: l’uomo che fra il ’75 e l’84 contese a Springsteen il primato in materia di rock “blue collar” (“Against The Wind” andava al numero 1 USA a inizio 1980, “The River” capeggerà la graduatoria a fine anno; entrambi sono certificati quintuplo platino) ha rimosso quasi tutto quanto precedette l’exploit, artistico prima che commerciale (non entrava nemmeno nei Top 100, le vendite rilevanti le ha accumulate dopo), di “Beautiful Loser”, 1975. Dei sette LP che lo precedettero solo “Smokin O.P.’s” è in catalogo, tre sono stati ripubblicati un’unica volta in digitale e mai più ristampati e tre addirittura mai hanno goduto di una riedizione ufficiale in CD. E questo non per problemi con le case discografiche ma per volere dell’autore e dire che del lotto fanno parte lavori notevoli, se non capolavori, quali “Ramblin’ Gamblin’ Man” (1969), “Mongrel” (1970), “Seven” (1974).

Figurarsi l’opinione che può avere il nostro uomo della manciata di singoli che pubblicava fra il ’66 e il ’67, poco più che ventenne, per la Cameo. Non c’è lui dietro questa “Heavy Music” che è che la prima raccolta ad antologizzarli, ma perlomeno non l’ha bloccata. Dovrebbe essere più indulgente con se stesso, divertirsi come ci divertiamo noi con l’esilarante proto-punk già alla MC5 della traccia omonima, il garage all’LSD East Side Story, una formidabile mimesi di Dylan chiamata Persecution Smith, parodie di Beach Boys e James Brown come Florida Time e Sock It To Me Santa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.403, ottobre 2018. L’artista compie oggi settantaquattro anni.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, archivi

La Rivoluzione cattiva e favolosa dei Q65

Se dei primi Pretty Things si può dire che erano degli Stones più “cattivi”, di questo gruppo proveniente dall’Aia (la Liverpool olandese) si potrebbe affermare che dei Pretty Things stessi fu una versione più selvatica ed esplosiva: immaginate. E siccome sarebbe insano limitarsi a fare lavorare una fantasia sovraeccitata per toccare con orecchio procuratevi quest’album, datato 1966 e il primo dei ragazzi. Possibilmente nella versione digitale (Decca, 1988) che ai dodici brani del programma primigenio aggiunge sei essenziali bonus e più essenziali delle altre l’incantato folk-rock World Of Birds, una I Despise You di formidabile malevolenza e lo scodinzolante errebì You’re The Victor. Favolosi addendi a un disco colossale, dal lamento di The Life I Live al Willie Dixon pazzamente dilatato (mai così acido; dopo quello sulfureo di Spoonful) di Bring It On Home.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti 2012. Ho appena appreso da Facebook che Joop Roelofs, che dei Q65 fu la chitarra ritmica, non è più fra noi. Ma per quanto mi riguarda c’è ancora e sempre ci sarà.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, coccodrilli

Once They Were Voodoo Children: i primi Not Moving

Prima ancora di ascoltarli, e addirittura senza nemmeno bisogno di vederli in foto, in chi fortunatamente o sfortunatamente già c’era, e già amava il rock’n’roll, i Not Moving suscitavano un brivido di eccitazione solo a leggere i titoli di quel primo EP 7” dato alle stampe nel 1982. Uno dei pezzi era una cover dei Surfaris, Wipe Out, e il semplice scoprire che in Italia qualcun altro li conoscesse, i Surfaris, era di suo fantastico. Un altro brano si chiamava Baron Samedi e il sospetto e anzi la certezza che l’ispirazione non arrivasse da Tex bastava a sentirsi parte, con ragazze e ragazzi di Piacenza, del medesimo sotterraneissimo culto. Tutti quanti bambini Vudù, chiaro. Benché registrato con il culo (e sia detto senza offesa per il culo stesso), “Strange Dolls” andava anche oltre le attese e così, un tot di mesi dopo, il fratello minore “Movin’ Over”. Ma quando mai aveva potuto vantarlo, il Bel Paese, un gruppo simile? Un incrocio fra Gun Club e Banshees, gli X e i Cramps, con nel DNA gli Stones così come Howlin’ Wolf o i Doors e l’intera genìa oscura dei “Pebbles”. Erano new wave, i Not Moving. Però erano punk, però erano surf, però erano garage, però erano… new wave. Però!

Storia raccontata da altri di recente su queste stesse pagine e “Light/Dark”, raccolta con tutti gli EP e i mini pubblicati fra l’82 e l’87 (e a postilla il primo demo), vale per colmare i buchi nella narrazione. Imperdibile per chi non c’era. Sfortunatamente per lui.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.684/685, luglio/agosto 2011.

3 commenti

Archiviato in archivi

The Sick Rose – Someplace Better (Area Pirata)

Ma davvero sono passati sette anni dacché i Sick Rose pubblicavano il predecessore di “Someplace Better”? D’altra parte quello si chiamava “No Need For Speed” ed era titolo che alludeva non al passo medio delle undici tracce ivi incluse, bensì al fatto che quel disco a sua volta si fosse fatto attendere un lustro. E – d’altra parte 2 – che devi fare se, essendo nato in un posto dove il rock’n’roll è sempre stato faccenda più minoritaria della sinistra radicale, non hai mai avuto la possibilità di farne, oltre che uno stile di vita, un modo di guadagnarsela la vita? Te la guadagni altrimenti e la musica si fa hobby da coltivare quando si riesce a inventarsene il tempo. Nei loro verdi anni – fra metà ’80 e inizio ’90 – i ragazzi furono dapprima una delle band più esplosive, a livello mondiale, del Sixties revival e poi un al pari eccelso esempio di rock non meno dinamitardo ma più devoto ai Flamin’ Groovies o agli MC5 che non al garage-punk alla “Nuggets”. Tornavano in pista, dopo qualcosa più che una pausa di riflessione, solo nel 2006 con “Blastin’ Out”, loro quinto album in studio raccolte escluse, e da allora la parola d’ordine è “power pop”.

Dopo due lavori prodotti da Dom Mariani (Stems, DM3, Datura) per questo nuovo il gruppo del cantante Luca Re e del chitarrista Diego Mese si è affidato a Ken Stringfellow (Posies, Big Star, R.E.M.) e di nuovo si è rivelata una scelta felice. D’altra parte 3: aveva del gran bel materiale da tirare a lucido costui. Nove pezzi di scintillante pop-rock in egual misura orecchiabile ed energico, in scia a eroi più o meno di culto (Shoes, 20/20) o di successo (Raspberries, Knack), e in coda un inatteso ritorno alle origini, con una Nobody di travolgente innodia e il vorticoso quasi-surf della traccia che suggella e battezza.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.398, maggio 2018.

3 commenti

Archiviato in archivi, recensioni

I migliori album del 2017 (8): The Black Angels – Death Song (Partisan)

La band che meglio ha trasposto il verbo psichedelico nel XXI secolo? Voto per questi texani, da Austin, devoti a Roky Erickson come ai Velvet Underground, da una cui canzone prendevano il nome nel 2004. Incredibile che siano arrivati al quinto album prima di citarla nel titolo dello stesso e però un senso ce l’ha: è il più fosco e minaccioso dei loro lavori. Tensione che non molla un secondo per oltre quaranta minuti, raggiungendo un apice nel penultimo brano, una Death March caotica e satura di riverberi, per poi infine dare requie con i 6’29” conclusivi di Life Song: estatico space rock dalla malinconia sorridente, se l’ossimoro è concesso.

È l’approdo di un viaggio che l’ascoltatore casuale troverà forse difficile, intimidente, laddove il cultore di vecchia data potrebbe persino lamentarne la brevità, avendo in testa e nel cuore i 70’25” (il CD; il triplo vinile aggiunge addirittura tre tracce) del colossale in ogni senso “Directions To See A Ghost”, del 2008. Dopo il quale il gruppo ha chiaramente avuto un problema: doversi confrontare con un capolavoro. Si sviava abilmente l’attenzione nel 2010 con il comunque brillante “Phosphene Dream”, dimezzando i tempi e contemporaneamente incrementando un appeal quasi “pop”, fra l’altro pescando il jolly di un brano usato per la pubblicità di un’auto. Nel 2013 “Indigo Meadow” mostrava però un qualche pur lieve appannamento, per la prima volta un che di formulaico. Qualunque dubbio preventivo sul successore subito spazzato dai vortici ossianici di Currency, “Death Song” sistema zampate da antologia con una Half Believing che sono i Black Heart Procession se fossero stati gli Spacemen 3, con una Comanche Moon che riffeggia feroce, con la rivisitazione Primal Scream dei 13th Floor Elevators di I Dreamt.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.388, giugno 2017.

3 commenti

Archiviato in archivi, dischi dell'anno, recensioni

I Wish It Could Be 1985 Again: i gloriosi fallimenti dei Barracudas

The Barracudas

“This Ain’t My Time” recita il titolo della corposa ed economica (due CD al prezzo di uno) raccolta dei Barracudas uscita da poche settimane per i tipi della Castle. Dice molto sul complesso che fu di Robin Wills e Jeremy Gluck e messo a fianco di quello di un 45 giri del 1980, I Wish It Could Be 1965 Again, quasi tutto. Frugo nel mio archivio cartaceo e ne estraggo un pezzo che pubblicai riguardo a costoro nel lontano ’85. Vi rinvengo la citazione di una stroncatura di due anni prima sul “Melody Maker”: “Dubito che ci si ricorderà di loro nel 1998 come eroi di culto”, concludeva l’articolista. Azzarderei che abbia avuto torto. Se indubbiamente siamo davvero chiesuola ristretta a rammentarne le rock’n’rollistiche gesta, nondimeno non dobbiamo nemmeno essere pochissimi se seguitano a uscire raccolte (“Through The Mists Of Time” è di appena tre anni fa) e la discografia postuma di questi signori è ormai il doppio di quella che allinearono in vita. Né tutti reduci che ricomprano in digitale ciò che avevano consumato in analogico. Ho piacere a cercare di fare qualche nuovo proselito: perdenti tre lustri in ritardo sull’epoca loro – sul serio avrebbero potuto avere una chance soltanto nel 1965 e dunque il rimpianto di avere sbagliato decennio era assolutamente giustificato -, i Barracudas sono un gruppo cui ho voluto bene. Se gli ascolti a migliaia susseguitisi da allora hanno enormemente ampliato i miei orizzonti facendomeli ridimensionare (loro stessi sarebbero d’accordo) al ruolo di Flamin’ Groovies minori, il tornare a frequentarli per un pomeriggio me li ha restituiti epigoni, sì, però frizzanti proprio come li ricordavo. Paradossalmente ma non troppo, il loro essere creatura anacronistica li ha preservati dalle ingiurie del tempo.

È il singolo che la Zonophone scelse come biglietto da visita per “Drop Out With The Barracudas”, I Can’t Pretend (come dei Byrds all’anfetamina o dei Ramones con propensioni jingle-jangle, fate voi), ad aprire una scaletta che segue solo all’incirca l’ordine cronologico. Era già il quarto 45 giri per la succursale della EMI (sarà l’ultimo) dei ragazzi e prima ce n’era stato uno per la fantomatica Cells, finanziato in realtà da un benemerito fan. L’accoppiata I Want My Woody Back/Subway Surfin’ arriva quattro tracce dopo, acerbo e fresco dilagare di chitarre surf aromatizzate ’77, però datato giugno ’79, non fuori tempo massimo ma più o meno. La band si era formata – con un’altra ragione sociale, R.A.F., acronimo per Rock And Folk oppure Rock And Fan, secondo l’estro – nel gennaio 1978, quando Wills, inglese ma nativo di Ginevra, aveva convocato a Londra il canadese Gluck, conosciuto un anno prima. Chitarrista il primo, cantante il secondo, saranno l’unica presenza costante nella vicenda Barracudas e vi/mi risparmio quindi il lungo elenco dei comprimari con la sola, onorevolissima eccezione dell’americano Chris Wilson, che aggiungerà una seconda chitarra e un’eccellente vena compositiva alla vigilia delle registrazioni del secondo LP. Veniva – guarda tu il caso – dalle fila dei maestri Flamin’ Groovies. Del trittico di sette pollici fra I Want My Woody Back e I Can’t Pretend la collezione Castle recupera tutti i lati A e due dei quattro retri: è ancora surf-punk che si sta tuttavia spostando verso dei mezzi ’60 alimentati a beat e folk-rock, chitarre scampanellanti, ritmi squadrati e melodie di buon popappiglio. Primo singolo per la EMI, che vedeva nei Barracudas una possibile novelty (si ricrederà presto), Summer Fun violava nell’estate 1980 i Top 40 britannici, impresa che non avrà mai seguito.

“Drop Out With The Barracudas” risale al febbraio dell’anno dopo. 33 giri caruccio ma che un po’ patisce l’essere scisso fra un passato surf e un futuro moderatamente psichedelico e più che altro garage-folk. Valgono di più – nel caso voleste cercare i vecchi reperti vinilitici piuttosto che accontentarvi di un’antologia che comunque li rappresenta adeguatamente – i successivi “Mean Time” (gennaio 1983) e “Endeavour To Persevere” (febbraio 1984), entrambi editi (nemo propheta in patria) dalla francese Closer, con in mezzo un semiclandestino, registrato orrendamente ma spumeggiante, “Live 1983”, su Coyote. All’ingrosso: più aggressivo il primo, più delicato il secondo, sostanzialmente un album di ballate dalla produzione fiacca quanto è brillante l’ispirazione. Vale di più, riascoltato oggi, anche “Wait For Everything”, frutto del rinnovarsi del sodalizio Wills/Gluck nel 1991, a sette anni da uno scioglimento determinato dall’incapacità di muovere un numero accettabile di copie per LP su qualunque mercato fuor da quello francese. “This Ain’t My Time” riprende da lì mezza dozzina di brani e non si notano cesure né temporali né qualitative.

Un difetto va imputato a codesta antologia: sorvola o quasi sulle numerose cover registrate dal gruppo, riproponendo giusto la bacharachiana, in versione devota ai Love, My Little Red Book. Peccato. Si sarebbe potuta tracciare una bella mappa, congiungendo i puntini fra (naturalmente) Barracuda degli Standells e I Ain’t No Miracle Worker di Brogues e Chocolate Watchband (in Italia dei Corvi), come fra You Were On My Mind di Barry McGuire (celebre dalle nostre parte grazie all’Equipe 84) e una Codeine memore soprattutto dei Charlatans, fra il classico di Leon Rosselson (frequentato pure da Billy Bragg) World Turned Upside Down, la You’re Gonna Miss Me dei 13th Floor Elevators e (naturalmente bis) la Slow Death dei Flamin’ Groovies. Chiusura di cerchio e missione compiuta. Certi fallimenti sono più gloriosi dei trionfi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.463, 20 novembre 2001.

2 commenti

Archiviato in archivi

Allah-Las – Worship The Sun (Innovative Leisure)

Allah-Las - Worship The Sun

I miei anni ’60 sono stati gli anni ’80. Cominciavano nel 1984, quando i R.E.M. pubblicavano “Reckoning”, i Dream Syndicate “Medicine Show”, gli Smiths esordivano a 33 giri (perché sì, si esordiva ancora “a 33 giri”) e nello scaffale delle offerte di Rock & Folk raccattavo a due lire i volumi 9 e 10 di “Pebbles” e li mandavo a memoria. Naturalmente e per quanto con tanti buchi nelle discografie avevo già in casa un bel po’ di anni ’60 – i Velvet, i Doors, i Byrds, gli Stooges, i Jefferson, Hendrix, i Beatles, gli Stones, i primi Pink Floyd – ma era allora che mi rendevo conto che quel decennio (quel mezzo decennio) in realtà aveva offerto tanto di più e che valeva la pena di esplorarlo approfonditamente (trent’anni dopo non ho ancora smesso). Era il Paisley Underground a farmi arrendere all’evidenza che il punk non era stato un Anno Zero prima del quale solo Lou e Iggy. Ed era grazie al Paisley e alla concomitante voga neo-garage se la prima seria ondata di ristampe (se era su Edsel si acquistava: punto) riportava nella disponibilità degli appassionati dischi di cui in precedenza si era al massimo favoleggiato, dai Moby Grape e dai Kaleidoscope in giù. Andava tutto di pari passo. Compravi i Plasticland e di conseguenza i Pretty Things perché i primi si dichiaravano devoti dei secondi e – toh! – i secondi li avevano appena riediti. Partivi dai Chesterfield Kings e arrivavi alla Chocolate Watch Band, i Nomads ti facevano scoprire gli Standells e così via. I miei anni ’60 sono stati gli anni ’80 e negli anni ’80 un gruppo come gli Allah-Las mi avrebbe cambiato la vita.

Più californiani di una tavola da surf, più losangeleni dell’insegna di Hollywood, gli Allah-Las si sono letteralmente formati dentro un negozio di dischi (tre di loro lavoravano da Amoeba) e che certi dischi se li siano studiati per bene è evidente dai loro, di dischi. L’omonimo debutto in lungo, una faccenda di due anni fa, prometteva e “Worship The Sun” mantiene anche più di quanto fosse lecito aspettarsi. E se volete chiamarli revivalisti fate pure, ma prima puntate l’unica traccia non autografa di questo nuovo album, la tredicesima di quattordici, e ditemi se riletta da loro l’oscura No Werewolf – che fu dei Frantics: 1960, addirittura – non sa di krautrock quasi più che di surf. Revivalisti? Non più di quanto non lo siano Jonathan Wilson o i TV On The Radio (o non lo fosse LCD Soundsystem) e parecchio meno, per dire, delle Savages. Gli Allah-Las sono innamorati degli anni ’60 (e degli ’80) ma rifuggono la copia conforme, smontano, mischiano e riassemblano con gusto, estro e joie de vivre. Nell’attesa di scrivere grandi canzoni per intanto sanno già regalarne di deliziose. Come una De vida voz che trapianta la chitarra di Johnny Marr sul corpo dei Love ed è incipit da innamoramento subitaneo. Se Artifact rimanda con una certa spudoratezza al classico della Chocolate Watch Band Are You Gonna Be There e da Every Girl ti aspetteresti che spunti la voce del giovane Jagger, Buffalo Nickel incrocia gli Zombies con i Beach Boys e 501-405 mischia dna Dylan e Barrett. Se Nothing To Hide evoca i Turtles Yemeni Jade rimanda ai Felt e Follow You Down potrebbe confondersi in un ideale “Best” dei Brian Jonestown Massacre. La gemma più lucente è Better Than Mine, che sono i Byrds country forse meglio di quanto i Byrds country non siano mai stati. Negli anni ’80 un gruppo come gli Allah-Las mi avrebbe cambiato la vita. Oggi mi fa contento di esserci ancora, di respirare musica, di vivere per la musica. E a culo tutto il resto.

12 commenti

Archiviato in recensioni