Dodici anni, sette album e una major dopo quel “The Big Come Up” che vedeva la luce per un’etichetta minuscola (la Alive) e suscitava clamore bastante a farli promuovere subito a una un po’ meno minuscola (la Fat Possum), due equivoci incredibilmente sono ancora parecchio diffusi, perlomeno fra un certo tipo di pubblico, riguardo ai Black Keys: che siano “come gli White Stripes” e, sostanzialmente, dei puristi del blues. Quando a smentire il primo ci stanno appunto sette album e il secondo che già nel debutto Dan Auerbach e Patrick Carney coverizzassero sì Junior Kimbrough, ma anche i Beatles. Facile pronosticare che a quel pubblico lì “Turn Blue” non piacerà per nulla, che farà magari gridare anche al tradimento e tanto di più dopo il retro-soul alla nitroglicerina di “El Camino”. Comincerà a schifarlo sin da una Weight Of Love che già solo con il suo durare quasi sette minuti si ricava un posto a sé nel catalogo della casa, figurarsi con un suonare più Jonathan Wilson che Jon Spencer, la chitarra che più che R.L. Burnside echeggia David Gilmour, e chissà se ce la farà mai ad arrivare al disomogeneo ma in qualche modo coeso trittico che conduce al congedo da Rolling Stones superputtani di Gotta Get Away: prima una Waiting On Words che potrebbe confondersi in un disco degli Air; quindi una 10 Lovers da Lenny Kravitz col synth (OK, questa non persuade del tutto nemmeno a me); infine una In Our Prime che è una piccola Across The Universe per gli anni ’10, quarantacinque dopo la prima. Facile che si fermi già, se non a una traccia omonima che ricolloca Cocaine in un contesto spaced out, a una Fever danzerina, martellante. Abominio!
Peggio per quel pubblico lì. Io invece penso che, pur con qualche inciampo, “Turn Blue” sia un grande album e, insieme, assolutamente coerente con la storia precedente del duo di Akron e un suo interessante sviluppo. Il mondo gira, i Black Keys non stanno fermi.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.193, giugno 2014.