
All’inizio della loro carriera per i maligni gli Interpol erano una cover band dei Joy Division che aveva avuto la fortuna di rinvenire chissà dove un gruzzoletto di inediti di Ian Curtis e soci e con quelli aveva messo insieme un album, “Turn On The Bright Lights”. Bello, eh? Ma esageratamente derivativo e passatista. Né giovava alla causa del gruppo newyorkese che il tour promozionale del disco, che toccava pure l’Italia, ne evidenziasse un’algidità che sapeva di alterigia e una sostanziale incapacità di tenere il palco (parrebbe che la situazione non sia migliorata con gli anni). In realtà quell’album, che in ogni caso da subito trovava più estimatori che detrattori, non era così appiattito sul modello di cui sopra, certamente si rifaceva alla new wave primigenia ma mischiando varie influenze con sensibilità sufficientemente peculiare e moderna e, soprattutto, era ben articolato e poteva contare su grandi canzoni. Se non si può dire che il tempo (ricorre quest’anno il ventennale dall’uscita) abbia fatto giustizia è solo perché da lungi è ritenuto un classico e spesso lo si ritrova in liste sufficientemente corpose dei capolavori che hanno segnato la storia del rock. Meritatamente.
Il problema è che da lì è stata tutta discesa. Dapprincipio lenta e, siccome si partiva comunque da molto in alto, almeno “Antics” (2004) e “Our Love To Admire” (2007) restano dischi consigliabili. Poi basta. “The Other Side Of Make-Believe” comincia bene, con una Toni dal suadente allo sferzante, ma subito si perde, ritrovandosi giusto in una Renegade Hearts leggera ma incisiva e nell’occhieggiare ai Japan di Big Shot City. Oggi gli Interpol suonano come una cover band… degli Interpol, con un repertorio di scarti.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.