Archivi tag: indie

Interpol – The Other Side Of Make-Believe (Matador)

All’inizio della loro carriera per i maligni gli Interpol erano una cover band dei Joy Division che aveva avuto la fortuna di rinvenire chissà dove un gruzzoletto di inediti di Ian Curtis e soci e con quelli aveva messo insieme un album, “Turn On The Bright Lights”. Bello, eh? Ma esageratamente derivativo e passatista. Né giovava alla causa del gruppo newyorkese che il tour promozionale del disco, che toccava pure l’Italia, ne evidenziasse un’algidità che sapeva di alterigia e una sostanziale incapacità di tenere il palco (parrebbe che la situazione non sia migliorata con gli anni). In realtà quell’album, che in ogni caso da subito trovava più estimatori che detrattori, non era così appiattito sul modello di cui sopra, certamente si rifaceva alla new wave primigenia ma mischiando varie influenze con sensibilità sufficientemente peculiare e moderna e, soprattutto, era ben articolato e poteva contare su grandi canzoni. Se non si può dire che il tempo (ricorre quest’anno il ventennale dall’uscita) abbia fatto giustizia è solo perché da lungi è ritenuto un classico e spesso lo si ritrova in liste sufficientemente corpose dei capolavori che hanno segnato la storia del rock. Meritatamente.

Il problema è che da lì è stata tutta discesa. Dapprincipio lenta e, siccome si partiva comunque da molto in alto, almeno “Antics” (2004) e “Our Love To Admire” (2007) restano dischi consigliabili. Poi basta. “The Other Side Of Make-Believe” comincia bene, con una Toni dal suadente allo sferzante, ma subito si perde, ritrovandosi giusto in una Renegade Hearts leggera ma incisiva e nell’occhieggiare ai Japan di Big Shot City. Oggi gli Interpol suonano come una cover band… degli Interpol, con un repertorio di scarti.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Ghost Power – Ghost Power (Duophonic Super 45s)

C’erano una volta i franco-britannici Stereolab e a dire il vero ci sarebbero di nuovo, ma da quando si sono rimessi insieme nel 2019 non hanno pubblicato nulla che non venisse dagli archivi: fra i gruppi di area post-rock uno dei più geniali e di sicuro (sensibilità pop spiccatissima) il più accessibile. E c’erano una volta pure i più sperimentali Dymaxion, americani, che pubblicarono giusto una manciata di singoli e il cui unico album (in realtà un’antologia) nel Regno Unito vedeva la luce su Duophonic, vale a dire per l’etichetta degli Stereolab. Era allora, nel 2000, che il co-leader dei primi, Tim Gane, e Jeremy Novak dei secondi stringevano un rapporto amicale. Per farlo diventare sodalizio artistico hanno atteso il 2020, quando lavorando il primo a Berlino e il secondo nella sua New York hanno cominciato a scambiarsi via Internet idee e parti strumentali. Offrivano subito un assaggio del potenziale della collaborazione con un 7” cui danno ora più cospicuo seguito con un album che ne riprende entrambe le facciate e aggiunge otto tracce inedite.

Non fosse che gli mancano la parola (è solo strumentale) e Lætitia Sadier, “Ghost Power” potrebbe essere il disco che dagli Stereolab riformati abbiamo finora aspettato invano: fantastico pastiche di pop, krautrock, kosmische musik, colonne sonore, new wave, 39’36” di cui però ben 15’05” occupati dall’odissea “deep in the outer space” di Astral Melancholy Suite. Per arrivarci passerete da genialate come Inchwork (gli Wire alle prese con una melodia di limpidezza kraftwerkiana), Grimalkin (John Barry e i Tangerine Dream che musicano insieme un capitolo di Star Wars) e Vertical Section (novella Popcorn, anche se non se ne accorgerà nessuno).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Kurt Vile – (Watch My Moves) (Verve)

Chi si somiglia si piglia ma a somigliarsi troppo il rischio è di lasciarsi presto. È il caso di Adam Granduciel e Kurt Vile, che fondavano i War On Drugs con l’idea magnifica di mediare My Bloody Valentine e “Highway 61 Revisited”, declinando un rock fragoroso quanto melodico che però alla lunga si farà più che altro magniloquente, ricreazione di anni ’80 in fissa per Bruce Springsteen. Ma questo in tempi più recenti e già all’altezza del secondo album (2008) della band di Philadelphia Vile non era più co-leader ma un ospite e poi basta. Separazione amichevole, detto en passant. Commercialmente non c’è stata gara: i War On Drugs decollavano proprio con il primo lavoro post-Vile e i loro dischi hanno da allora venduto il decuplo di quelli di un ex- che nondimeno con il nono album in studio (contandone uno con Courtney Barnett) approda a un’etichetta non solo prestigiosa ma in area major. A sua lode: come i War On Drugs che passavano dalla Secretly Canadian alla Atlantic, senza sottostare a compromesso alcuno.

A proposito di Springsteen: qui Vile coverizza aggiungendoci un tocco acidulo l’oscura (uno scarto di “Born In The U.S.A.”) Wages Of Sin. A proposito di un altro tratto in comune con Granduciel: “(Watch My Moves)” ne conferma la logorrea, quindici brani uno dei quali è però un siparietto ambient sotto il minuto per 73’44” e fate voi la media. Si astiene da svolte adombrate dal delizioso girotondo pianistico alla Robyn Hitchcock della traccia inaugurale Goin On A Plane Today e da una seconda, Flyin (Like A Fast Train), molto Beck su beat hip hop ed è un peccato. Soprattutto perché canzoni come la byrdsiana Jesus On A Wire, una scintillante Say The World in cui cita i Talking Heads o lo shuffle loureediano Stuffed Leopard lo confermano autore di vaglia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Aldous Harding – Warm Chris (4AD)

Adolescente saggia la neozelandese Hannah Top, che con in casa un esempio di come la musica sia passione da cui pochi riescono a trarre sostentamento dopo avere partecipato a un album di mamma Lorina, apprezzata cantante folk, decideva che avrebbe fatto la veterinaria. Era il 2003, aveva tredici anni. Ma possono stare insieme il sostantivo “adolescente” e l’aggettivo “saggia”? Da lì a due anni scriveva le prime canzoni. A instradarla sulla via della musica come professione sarà Anika Moa, nome che a noi dice nulla ma agli antipodi è una star, un sacco di dischi all’attivo e non bastasse personaggio televisivo. Vedeva Hannah esibirsi per strada e prontamente le chiedeva di farle da spalla in un tour. Il seguito è vicenda nota: ribattezzatasi Aldous e assunto il cognome della madre la protagonista di questa storia pubblicava il primo e omonimo album nel 2014. Solo in patria all’inizio e tuttavia attirava abbastanza attenzioni fuori da procurarle un contratto nientemeno che con la 4AD, fortunato sodalizio avviato nel 2017 con “Party” e consolidato nel 2019 con “Designer”.

Terzo lavoro per la griffe britannica, terzo prodotto da John Parish, “Warm Chris” conferma in Aldous Harding una delle più dotate fra le cantautrici odierne. Sempre riconoscibile ma inafferrabile, capace una volta di più di scansare ogni cliché in dieci tracce coniuganti leggerezza e profondità con una varietà di accenti rimarchevole. Fra un’iniziale Ennui molto Stereolab e i Velvet richiamati dal congedo Leathery Whip, fra il Beck apocrifo di Tick Tock e l’accoratamente favolistica She’ll Be Coming Round The Mountain a farsi notare è soprattutto Fever (che no, non è una cover di quell’altra, strafamosa): esultantemente fra seduzione e sentimento.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

The Boo Radleys – Keep On With Falling (BooSTR)

Sulla carta è tutto sbagliato. Perché ci sta che una band che ha fatto la storia del rock nel lontano ultimo decennio dello scorso secolo torni insieme e a tal riguardo si possono fare diversi esempi di rimpatriate dagli esiti eccellenti: Ride e Slowdive, per limitarsi a due nomi e restando in Gran Bretagna e a all’interno di una scena, quella dello shoegaze, della quale i Boo Radleys furono fra gli esponenti di punta. Ma… riformarsi senza Martin Carr che non solo ne era il leader ma ne firmò il 99% del repertorio? È come immaginarsi dei Talking Heads che danno alle stampe un album nuovo e David Byrne non c’è. Una follia, sulla carta. E invece…

E invece ad ascoltare il primo lavoro in studio dei Boo Radleys (settimo in tutto) pubblicato a ventiquattro anni da “Kingsize” senza sapere dell’assenza di Carr (al sottoscritto è successo: l’ho scoperto quando ho cominciato a cercare informazioni prima di fargli fare un secondo giro) si tira un sospiro di sollievo: naturalmente non avvicina le vette olimpiche del capolavoro del 1993 “Giant Steps”, è godibile ma non irresistibile quanto quel “Wake Up” che nel ’95 era un numero 1 UK, e però vale almeno gli ultimi due dischi della formazione storica e pure l’acerbo debutto del ’90 “Ichabod And I”. Dei due grandi album summenzionati prova a fare sinossi, inclinando un po’ più verso il secondo: declinando allora un pop estroso, con armonie vocali spumeggianti, arrangiamenti orchestrali importanti, accostamenti di stili spericolati. Sono 100% Boo Radleys canzoni come I Say A Lot Of Things (riff rock, fiati errebì, archi bacharachiani e un accenno di reggae), Here She Comes Again (John Lennon in botta dub), Alone Together (Stereolab e Oasis in collisione).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me (City Slang)

Che bello potersi entusiasmare per un semi-esordio (pubblicato nel dicembre 2020, con i suoi sei brani per complessivi trenta minuti “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine” in altri decenni sarebbe stato considerato debutto in lungo) quale è questo dei King Hannah, duo domiciliato a Liverpool formato dalla cantante e chitarrista gallese Hannah Merrick e dal chitarrista Craig Whittle. È che trasmette una freschezza che sconfina nell’innocenza che inevitabilmente intenerisce. È che la scaletta è benissimo congegnata, con due interludi che sono in realtà introduzioni ai brani in cui sfumano e le dieci canzoni vere che lo compongono che alternano sapientemente atmosfere ed emozioni creando un fluire armonioso. Spostane una e non è che verrebbe giù tutto ma ecco, pur restando un ottimo album “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” non sembrerebbe più il piccolo miracolo che è. Giacché i dettagli sono parte integrante della grandezza. Sempre.

A non essere un dettaglio è come mettendo a nudo i loro cuori ragazza e ragazzo risultino disarmanti anche per il più cinico dei navigatori di lungo corso dei mari del pop. Il che fa sì che l’elenco delle influenze non si trasformi nel solito argomento del “tutto già sentito”. Perché no, perché persino nell’omaggio smaccato ai Portishead di “Dummy” di Foolius Caesar i King Hannah riescono a essere unici. Lo sono a maggior ragione quando squadernano il blocchetto degli appunti: distillando doom dalla prima PJ Harvey in A Well Made Woman, evocando lo Springsteen devoto ai Suicide in Big Big Baby, gettando un ponte fra il Neil Young di On The Beach e quello di Cortez The Killer in The Moods That I Get In, giocando nella traccia omonima lui a far Nick Cave, lei Kylie Minogue.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Hurray For The Riff Raff – Life On Earth (Nonesuch)

Lunga la strada che ha portato la statunitense di origini portoricane Alynda Segarra dai due album che si autoproduceva fra il 2008 e il 2010 all’omonimo debutto su Loose Music, che rappresentava nel 2011 il suo ingresso nella discografia ufficiale e nel quale sistemava una scelta di pezzi dai lavori precedenti. E da quello per tramite di ulteriori quattro album a questo, che marca l’inizio di una collaborazione con un’etichetta di enorme prestigio quale la Nonesuch. Percorso affrontato con fierezza e coerenza e nel contempo scansando il pericolo che la sua musica potesse farsi cliché, aggiornandola e arricchendola costantemente ma senza mai perdere il filo del discorso. Sicché qualcosa di indefinibile ma palpabile collega quel “Look Out Mama” che nel 2012 qualcuno descriveva come “una reliquia prebellica che The Band avrebbe potuto ascoltare su un grammofono mentre stava incidendo il primo LP” a “Life On Earth”. Non solo una meraviglia di disco ma quello che potrebbe rendere l’artista di New Orleans una star.

“Nature punk”, lo definisce lei. Del punk conserva invero l’essenziale, lo spirito, ma non aderisce mai alla lettera e se un brano come Precious Cargo non è distante da certi Clash è a “Sandinista!” che rimanda, non a White Riot. Del folk d’antan permangono tracce in un brano omonimo che è delizioso valzer al rallentatore e qui e là in una melodia, una progressione di accordi ma è allora folk-rock, in una Rhododendron con passo alla Roadrunner o in Saga, dove è della prima Chrissie Hynde che si colgono echi. Altre due rispetto a queste pur splendide sono però le canzoni candidate alle classifiche: la schiettamente techno-pop Pierced Arrows; Pointed At The Sun, ballata viceversa gonfia di chitarre indie.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

The Jazz Butcher – The Highest In The Land (Tapete)

Non c’è niente da fare e succede presto, dopo che il jazzetto carico di swing Melanie Hargreaves’ Father’s Jaguar aveva illuso che si potesse provare ad affrontare “The Highest In The Land” come fosse semplicemente un altro album (sebbene atteso dieci anni e appena il terzo nel nuovo secolo quando fra l’83 e il ’95 ne aveva dati alle stampe dieci e in più una marea di singoli, EP e live) di Patrick Huntrods, meglio noto come Pat Fish e, soprattutto, Jazz Butcher: nella briosa ─ e però introdotta e suggellata da un soffiar di vento ─ Time a un certo punto si constata che “il tempo sta finendo”. Il cuore perde un battito, il ciglio si inumidisce. Aveva sconfitto il cancro, il nostro uomo, ma il suo stato di salute restava precario e così la morte che lo ha colto nel sonno il 5 ottobre scorso, il sessantaquattresimo compleanno alle viste, ha sorpreso dolorosamente chi giusto due sere prima avrebbe voluto assistere a un suo spettacolo da remoto annullato all’ultimo ma, eccetto per le modalità, non lui. La consapevolezza della propria caducità informa gran parte di un disco che saluta, e un groppo di nuovo chiude la gola, con un valzer dolcissimo chiamato Goodnight Sweetheart.

Ma a chi vive tocca testimoniare per chi non c’è più ed è mero rendere giustizia a chi non ha mai pubblicato un capolavoro ma parimenti neppure un album men che buono affermare con forza che la commozione non regala mezzo voto al più degno dei congedi per uno dei grandi eccentrici (più versante Robyn Hitchcock che Julian Cope, per limitarsi ai coevi) del pop-rock britannico. A un altro delizioso campionario di blues e ballate, beat, folk elettrico alla maniera di Dylan e stavolta non del vaudeville ma un’incursione magistrale in area lounge.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Yard Act – The Overload (Island)

Se il tuo cantante di cognome fa Smith e più che cantare declama non puoi proprio evitare che tutti ti accostino a Mark E. e ai suoi Fall. E se sei di Leeds e fra gli elementi che ti caratterizzano figurano chitarra ritmica spigolosa e basso funky i paragoni comunque inevitabili ai Gang Of Four li attiri come mosche al miele. Il lettore sgamato starà sbuffando (il recensore sbanda rendendosi conto che sono vent’anni, dall’esordio degli Interpol, che ’sta storia va avanti): ecco l’ennesimo gruppo che si richiama al post-punk, provando al più a rimescolare sonorità tutte già sentite fra il ’77 e l’82; se no adagiandosi pari pari su uno o due modelli. Quantomeno gli Yard Act ricadono nella prima categoria. E poi hanno le canzoni, che fa la differenza quando sai che tutto è stato detto, che sta quasi per intero nei testi lo spazio che può ritagliarsi la contemporaneità, essendo il poco resto la capacità di accostare e integrare elementi di epoche e origini diverse.

Giovani ma non giovanissimi (Edward Smith era nei Post War Glamour Girls, il bassista Ryan Needham nei Menace Beach), gli Yard Act hanno dalla loro scrittura solida e una grinta che entusiasma. Pure una storia straordinaria se si considera che sono la prima band a emergere in era di lockdown e non potendo quindi contare sui concerti: strada aperta da quattro singoli poi raccolti nell’EP “Dark Days”, pronti e via “The Overload” è andato al numero 2 UK. Bastano le prime due tracce, una omonima un po’ Beastie Boys, una Dead Horse che cita gli Sham 69 nel testo e i primi Cure con una linea di chitarra arabeggiante, per far pronosticare che dureranno; la conclusiva 100% Endurance, quasi una Common People per questi anni ’20, che sapranno evolversi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.440, marzo 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Beach House – Once Twice Melody (Sub Pop)

Il 10 novembre i Beach House hanno infine cominciato a dare un seguito a “7”, che usciva nel maggio 2018, con un EP di quattro canzoni solo in streaming e download, tallonato l’8 dicembre da un altro mini sempre di quattro tracce e diffuso con la medesima modalità. Tattica astuta per rendere spasmodica l’attesa per “Once Twice Melody” e per intanto fare in modo che se ne metabolizzasse la prima metà ─ da non crederci: la meno corposa ─ del monumentale programma: gli otto brani già svelati sistemati sul primo CD (o LP), altri dieci sul secondo, a totalizzare la lunghezza monstre di 84’28”. Come dire che il duo formato dalla cantante e tastierista Victoria Legrand e dal multistrumentista Alex Scally per un verso è ben conscio di come Internet abbia cambiato profondamente i meccanismi sia di distribuzione che di fruizione della musica e per un altro non se ne cura. Che si pubblichi un’opera di simile consistenza in un tempo in cui l’attenzione di tanti per la qualunque non supera la durata di un video su Tik Tok è di per sé ammirevole.

Poi però ti tocca l’ascolto, una giornata intera per familiarizzarci il minimo sindacale, e ti spazientisci. Fatto è che, avessero ben scelto e si fossero contenuti nei tre quarti d’ora di quasi tutti gli album prima, i Beach House avrebbero infine confezionato il capolavoro che è nelle loro corde ma finora non si è mai concretizzato. Che senso ha che una canzone cla-mo-ro-sa (meglio anche del brillante techno-pop della traccia inaugurale e omonima) come Hurts To Love sia la sedicesima? Nessuno. Peccato, perché qui costoro in certi frangenti si approssimano come non mai a un ideale di dream pop in bilico fra Mazzy Star e My Bloody Valentine (i primi), Cocteau Twins e Depeche Mode.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni