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Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Pur avendo ottenuto buoni risultati in una prima carriera solistica che lo vedeva pubblicare fra il ’90 e il ’96 quattro lavori in studio, per certo Robert Forster avrebbe fatto volentieri a meno di intraprenderne nel 2008 una seconda che ne ha fruttato con questo altrettanti. È che si metteva in proprio quando quei magnifici Smiths-prima-degli Smiths che furono i Go-Betweens si scioglievano, giustamente offesi dall’indifferenza del mondo (fa oggi sorridere agro che a un dato punto molti fra i loro pochi cultori li accusassero di essersi “commercializzati”: era appena uscito l’album con cui sembrò chiudersi la loro vicenda, “16 Lovers Lane”, un numero 48 nella natia Australia, 81 nel Regno Unito). E ci si rimetteva quando il sodalizio con Grant McLennan (li dissero i Lennon/McCartney del pop chitarristico degli anni ’80: esagerando un po’, non troppo; in linea di massima Robert era John), felicissimamente rinnovato nel 2000, tragicamente si scioglieva di nuovo e per sempre nel 2006, causa dipartita per infarto a soli quarantott’anni dell’amico e socio. Ne avrebbe fatto a meno, ma visto che è andata come è andata vale come consolazione che il superstite ogni tanto ci regali una manciata di canzoni nuove. Mai troppo distanti dalle vette olimpiche toccate in una giovinezza costellata di classici.

“The Candle And The Flame” ne mette in fila nove, le migliori verso metà programma: una Pale Blue Eyes sbarazzina chiamata It’s Only Poison, la ballata country a due voci I Don’t Do Drugs I Do Time, una Always da Modern Lovers prima maniera. Inaugura con giocosa grinta She’s A Fighter. Apprendere che è dedica alla moglie (nonché partner pure artistica) Karin Bäumler, alle prese con seri problemi di salute, prima spiazza, poi commuove.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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I ritornelli tristi di Sandy Denny

Basta ritornelli tristi, No More Sad Refrains, cantava nel 1977 Sandy Denny (un blues, ovviamente) in “Rendezvous”, non sapendo che era un congedo. Sarebbe morta un anno dopo. Vivono i suoi dischi, quelli solistici appena ristampati con cospicue aggiunte.

Non era un anniversario di quelli che si prestano a celebrazioni, ventisette allo scorso 21 aprile gli anni trascorsi dacché Alexandra Elene MacLean Denny non è più di questa terra, cinque meno di quelli che passò fra noi, e non era dunque come nel 1998 quando della dipartita ricorreva il ventennale. Quella stessa Island che nel 1978 le aveva chiuso la porta in faccia, negandole un rinnovo di contratto, la ricordava con “Gold Dust”, commovente testimonianza dell’ultimo concerto, il 27 novembre ’77, pregevole a dispetto di una scaletta un po’ così. Ma da allora di colei di cui l’amico Marc Ellington disse che “poteva fare sembrare Janis Joplin, al confronto, una specie di Madre Teresa” non si è più smesso di parlare. Occasioni propizie le riedizioni allargate del catalogo dei Fairport Convention “storici”, e dunque anche dei quattro album con Sandy in squadra, e quindi, nel 2004, la pubblicazione del monumentale “A Boxful Of Treasures”, quintuplo con registrazioni live, demo e altre rarità che della ragazza offre un formidabile ritratto d’artista alternativo – o per meglio dire integrativo – rispetto a quello più noto. In un certo qual senso, si può però affermare che pure il ritorno nei negozi, con scalette significativamente allargate, di “The North Star Grassman And The Ravens”, “Sandy”, “Like An Old Fashioned Waltz” e “Rendezvous” faccia sì che della Denny si precisino meglio i contorni: non solo una rinnovatrice dell’idioma folk in terra di Albione, tant’è che negli ultimi due di folk quasi non ce n’è. E se resta indiscutibile che sia questa una Sandy Denny “minore”, se raffrontata a quella delle prove di gruppo, nondimeno così minore non fu e insomma qui ci sono le prove.

Ai Fairport enormi dei primi quattro LP e in particolare del secondo, terzo e quarto, pubblicati in un 1969 tragico e magico insieme, ho dedicato due pagine due anni e due mesi fa (n. 525, 18 marzo 2003) e a quell’articolo rimando. Qui riparto da lì, da “Liege & Lief”, “equivalente inglese di ‘Music From Big Pink’ della Band” all’indomani della cui pubblicazione Sandy lasciava, cogliendo tutti di sorpresa anche per i modi. Semplicemente, non si presentava all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portarla a Copenhagen per un concerto. Sarebbe stata fatta salire a forza sul successivo, ubriaca, ma il divorzio era ormai consumato. Il più grande amico all’interno del gruppo, il chitarrista Richard Thompson, la prese con filosofia – “Forse è un bene. Le donne sono spesso umorali e chissà che non sia meglio avere una formazione tutta maschile.” – ma a posteriori pare evidente che i Fairport Convention unici e cruciali siano stati esclusivamente quelli con la Denny, gli altri al più un gruppo buono, anche ottimo, ma non speciale. Beffardo con loro il destino, siccome era quanto qualche mese prima aveva probabilmente salvato la vita alla cantante ad allontanarla. Ricorderà il lettore l’incidente automobilistico nel quale, il 12 maggio 1969, perivano il batterista Martin Lamble e la compagna di Thompson, Jeannie Franklyn. Sul furgone che portava il complesso a casa dopo uno spettacolo a Birmingham, Sandy avrebbe dovuto sedere dove era seduta costei, non fosse che aveva preferito viaggiare con il suo bello, Trevor Lucas, imponente australiano dalla dirompente personalità e all’epoca chitarrista degli Eclection. Ed era giusto la voglia di stare vicino a Lucas a spingere Sandy Denny – donna in apparenza forte, solare, e nell’intimo fragilissima: come Janis – a indurla ad abbandonare i Fairport. Era stata con loro diciotto mesi appena ed era bastato per inventare una via britannica al folk-rock.

Prosegue per altre 4.154 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.610, maggio 2005. Ricorre oggi il quarantacinquesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

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Belle And Sebastian – Late Developers (Matador)

Gruppo per quasi venti peraltro splendidi anni piuttosto prevedibile gli scozzesi Belle And Sebastian, sin dacché “Tigermilk” nel 1996 delineava un canone di istantanea riconoscibilità. Elementi fondanti i Love di “Forever Changes” e i Velvet del terzo LP, Byrds, Smiths e Go-Betweens, Nick Drake, certa Motown, la Sarah. Naturalmente quella Postcard che tre lustri prima si era scelta negli anni ’60 gli stessi numi tutelari. Era la quintessenza del pop da cameretta e a fare la differenza era la qualità della scrittura: stellare. Sempre. E importava poco allora o nulla che i dischi si somigliassero un po’ tutti. Un’unica volta, ed era il 2002, i nostri eroi erano usciti dal seminato ma non faceva testo, siccome “Storytelling” nasceva come colonna sonora. Tutto ciò fino al 2015, quando “Girls In Peacetime Want To Dance” spiazzava muovendosi in massima parte fra, appunto, dance e new wave e sistemando giusto in apertura e chiusura quei due o tre brani che si sarebbero potuti confondere negli album prima. Mossa coraggiosa, disco divertente ma non granché a fuoco, un filo irrisolto.

Non contando “Days Of The Bagnold Summer” (un’altra colonna sonora), “A Bit Of Previous” gli dava un seguito soltanto nel 2022 stupendo di nuovo, stavolta con robuste iniezioni di synth-pop, e di nuovo lasciando perplessi. “Late Developers” arriva nei negozi appena otto mesi dopo. Che ne sembri il fratello gemello pare ovvio, inevitabile una volta appreso che le sue undici canzoni provengono dalle stesse sedute. Lavoro ancora più slegato, che si rifà indifferentemente a Donovan come ai Pet Shop Boys, ai Thin Lizzy o ai Miracles. Si giunge alla penultima traccia prima di riconoscere i Belle And Sebastian tanto amati. Il trucco c’è: è un pezzo scritto nel 1994.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.

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Il canto libero di Lucio Battisti

Sono passati quarant’anni e un numero imprecisato di mesi ─ le tante biografie non riescono a mettersi d’accordo sulla data del debutto in proprio: era l’aprile del ’66 oppure il luglio? ─ dacché Lucio Battisti esordiva a 45 giri. Etichetta Ricordi, copertina ammiccante a Dylan anche se probabilmente al tempo se ne accorsero in dieci, a riascoltarlo oggi Per una lira/Dolce di giorno non pare questa gran cosa. Sono due bittarelli con un sentore di soul freschi e graziosi ma in fondo non così diversi da tante produzioni coeve, a parte che i testi osano qualcosa di più in malizia. E un po’ scandalizzarono difatti: la prima nella versione byrdsiana e più lenta dei Ribelli, cui l’aveva girata Celentano dopo che i due autori invano avevano provato a convincerlo a inciderla lui; la seconda in quella dei Dik Dik, che la sistemarono sul retro di un successone chiamato Sognando la California. Poche migliaia viceversa gli esemplari andati via (forse addirittura poche centinaia) del singolo di Lucio e dunque niente per un’epoca in cui i dischi si vendevano eccome, altro che oggi. Per darvi un’idea: quando nel 1968 l’Equipe 84 totalizzerà mezzo milione di copie di Nel cuore, nell’anima si griderà al fallimento, quasi al disastro, visto che il 45 giri prima, 29 settembre, era arrivato a superare il milione. Ehi! Due pezzi di Battisti/Mogol i suddetti, che all’altezza del glorioso “insuccesso” di Vandelli e soci ne avevano già piazzato un’altra mezza dozzina a una piccola folla di interpreti ottenendo puntualmente riscontri commerciali importanti. Se il Battisti autore sembrava già inarrestabile e una miniera d’oro per l’industria, stentava a decollare il cantante: ritirato il secondo sette pollici, centomila copie vendute del terzo (poca roba, avrete inteso), nemmeno entrato in classifica il quarto, di modesto impatto il quinto benché supportato da una partecipazione a Sanremo. La svolta era segnata nella primavera del 1969 dal sesto, Acqua azzurra, acqua chiara sul lato A, Dieci ragazze sul retro, un terzo posto e quasi cinque mesi di permanenza in graduatoria. A quel punto la rivoluzione inscenata nella musica italiana da Battisti e Mogol era in pieno essere. Durerà dieci abbondanti anni ancora. Per dieci abbondanti anni non ci sarà praticamente settimana senza almeno una canzone della coppia di Re Mida in classifica, cantata da Lucio Battisti oppure no. E a distanza di due decenni e mezzo ancora, adesso che quando vendi diecimila copie di qualcosa nel Bel Paese i discografici si sfregano le mani tutti soddisfatti e stappano bottiglie, annualmente di dischi di Battisti se ne vendono in media un trecentomila. Fa quasi mille al giorno. Ne avete minimo uno in casa pure voi. Tiratelo fuori. Suonatelo. Ecco, potete scommettere che in questo preciso istante altri stanno facendo la stessa cosa. Non ci si libererà mai da quei due, grazie a dio.

Io vivrò senza te

Naturalmente ricordo benissimo il modo in cui Lucio Battisti uscì dalla mia ─ dalla nostra ─ vita. Lo smarrimento che mi colse quando alle tredici del 9 settembre 1998, accesa la TV per guardare uno dei principali TG nazionali, mi trovai davanti uno schermo nero con giusto una scritta di saluto a campeggiare e sotto le note di Emozioni. Mi pare che la mandarono per intero, quattro minuti e quarantaquattro secondi senza una parola dello speaker, una cosa mai vista e insomma anche uscendo di scena il Lucio da Poggio Bustone riusciva a essere inaudito. Si fossero fermati lì! A quello straordinario pezzo di televisione indimenticabile di suo. Si fossero limitati a dare la notizia, che arrivava inattesa nonostante si fosse capito che, per uscire da un eremitaggio durato oltre tre lustri ed entrare in un ospedale pubblico, qualcosa di serio l’artista reatino doveva averlo. Sin dal 29 agosto gli inviati delle televisioni erano accampati davanti al San Paolo di Milano e voci incontrollabili si rincorrevano senza che nulla di ufficiale venisse detto. Poi un comunicato stampa, venticinque parole. Si fossero fermati lì! A un servizio di cinque minuti, di dieci, magari a un’edizione del telegiornale dedicata integralmente alla notizia, per poi spegnere le luci e fare calare un rispettoso silenzio su una persona che dello stare in silenzio, lasciando che a parlare fossero le canzoni, aveva fatto uno stile di vita. E invece no. Si avviava sgangherato il carrozzone delle celebrazioni pelose con aggrappati individui di ogni risma. Facevano a botte per una comparsata sotto i riflettori illustri nullità e fra esse, puntuali, quanti sul nostro uomo non avevano mai esitato a spalar maldicenze. Era tutta una gara al “io che lo conoscevo bene”, “io che senza di me”, “io… io… io…”: miserabili accattoni di polvere di stelle. Partiva il karaoke e vai con le dieci ragazze che per me potranno bastare. Un programma via l’altro e l’auditel impazzita con numeri da finale di coppa del mondo di calcio, perché poi la gente ─ quella vera ─ a Lucio voleva bene sul serio e, pur schifato, non potevi fare a meno di guardare. Fino e oltre alle esequie, avvenute il 12 in presenza di quelle venti persone che avevano diritto di stare lì, soltanto gli affetti intimi, i più cari. Fino e oltre a quel primo 29 settembre senza Battisti, con le auto della polizia di ronda intorno a un cimitero sotto assedio, mentre altre volanti facevano il possibile per impedire che nella villa al Dosso da lungi loro ritiro privilegiato il riservatissimo lutto della donna che gli era stata accanto per quasi tre decenni venisse disturbato.

Non ricordo invece come fu che ci entrò Lucio Battisti, nella mia vita. In verità mi sembra ci sia sempre stato e che fosse dappertutto, con quelle canzoni così orecchiabili che le poteva cantare un bambino e difatti le cantavo a squarciagola con gli altri e mi pareva di capirle, più o meno. Perché oltre il cancello della colonia estiva l’uomo che passava con il carretto e gridava “Gelati!” c’era e, allo stesso modo, all’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri e io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli. Però mi piace pensare che anche all’altezza dei miei nove, dieci, undici anni qualcosa mi lasciasse perplesso, mi facesse riflettere. Come potevano le malinconie (dolcissime poi!) correre nelle praterie? Che ci azzeccavano i tarli con la mente? E si sono mai visti appassire dei fiori stampati su un vestito? Le canzoni degli altri non ti facevano arrovellare così. Poi è arrivata l’adolescenza e Battisti era immancabile nei pomeriggi tristissimi passati facendo tappezzeria alle feste di altri e altre, chiedendomi perché mi avessero invitato e soprattutto perché ci fossi andato, che tanto non c’era niente da fare, io con quella tipa lì non sarei mai riuscito a spiccicare una parola. Una consolazione che ci fosse lui a inframmezzare una se no mortale colonna sonora rigorosamente a base di Baglioni e Bee Gees, Sorrenti e “Dark Side Of The Moon”. Mi sarebbe piaciuto di più ascoltare quegli altri di Pink Floyd, quelli di “The Piper At The Gates Of Dawn”, che però sembrava garbassero solo a me, oppure Bob Marley ma da noi se lo filavano ancora in pochi. I Clash o Lou Reed, appena scoperti, erano fuori discussione. Però, dai, Battisti non era malaccio in fondo. Anche quei pezzi lì con la cassa in quattro da discoteca e che però se paragonati ai successi dance che imperversavano avevano una fluidità tutta loro, e un’italianità, e non sapevano di plastica, e che belle le parole, sempre. Si mormora che Battisti sia fascista. Lo fosse, dovrei cambiare stazione (dura trovarne una che non lo manda mai) ogni volta che lo trasmettono alla radio e fargli propaganda contro? Ma in fondo a dirlo sono i medesimi che hanno dato del nazista a Lou Reed, dimenticandosi che è ebreo, portando a prove i capelli corti e ossigenati e i Ray-Ban, e mi sa proprio che non è vero. Se lo è me ne frego. Ecco, mi sono appena fatto una battuta da solo, posso sgattaiolare via senza salutare e in ogni caso non se ne accorgerà nessuno.

Eppure credo di essere arrivato ai trent’anni senza avere un disco di Lucio Battisti. È che mi sembrava di conoscerli già tutti a memoria ed era un’ottima scusa per non comprarli. Tanto erano solo canzonette, no? Non so come mai a un certo punto ho cominciato a mettermeli in casa uno dopo l’altro. Forse per nostalgia di un tempo, remoto come un sogno, in cui la sottilissima linea che separa l’essere un giovane promettente da un fallito di mezza età era lontana all’orizzonte. Forse perché, essendomi conquistato del rock tutto o quasi lo scibile imprescindibile, potevo cominciare, fra questa e quella esplorazione dei suoi perimetri esterni, a togliermi qualche sfizio. È stato allora con qualcosa di assai simile allo sbalordimento che ho iniziato a rendermi conto di quanto fossero complesse e geniali nella loro costruzione le canzonette di cui sopra, piene di deviazioni subitanee e intarsi, modernissime. Istantanee nel loro porgersi e tuttavia al centesimo ascolto differenti da come erano apparse al novantanovesimo. Degne di essere pronunciate nello stesso respiro affamato di ineffabile con cui esali la litania Ray Davies, Brian Wilson, Arthur Lee, Bob Dylan, Lennon/McCartney, Burt Bacharach, Phil Spector.

Prosegue per altre 60.345 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.23, autunno 2006. Fosse ancora fra noi, Lucio Battisti compirebbe oggi ottant’anni.

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Il suono degli anni ’60 (ovvero: di quando l’America si innamorò dei Beatles)

Si potrebbe ad esempio partire da una data che per l’Occidente segna un punto di demarcazione rilevante come quello messo dagli attentati dell’11 settembre 2001. Il 22 novembre 1963 a Dallas viene assassinato John Fitzgerald Kennedy. Non è la prima volta che mani omicide colgono la vita di un presidente americano, ma questo è il XX secolo e c’è la diretta televisiva che moltiplica esponenzialmente l’emozione. Per tutto ciò che Kennedy aveva simboleggiato ─ la presa del potere da parte di una generazione giovane e per di più rappresentata da un membro di una minoranza; la ventata di aria fresca, l’ondata di ottimismo e cambiamenti che avevano accompagnato il suo insediamento e fino a quel momento il mandato ─, la sua morte violenta infligge alla psiche della nazione ferite le cui cicatrici sono tutt’oggi visibili. C’è un “prima” e c’è un “dopo” e nel dopo l’idea del Sogno Americano appassisce. È come se gli anni ’60, che da quasi tutti i punti di vista nemmeno sono iniziati se non per il calendario, morissero in culla. E morirebbero, non fosse che… Quello stesso 22 novembre i quattro di Liverpool pubblicano il loro secondo LP, “With The Beatles”, che in Gran Bretagna va subito in classifica al numero uno rilevando il debutto “Please Please Me”, che quella posizione occupava sin dall’uscita, nel marzo precedente (insieme, i due album tennero il primo posto per cinquantuno settimane consecutive). Direte voi: d’accordo, un interessante caso, ma pur sempre un caso. Niente affatto. Negli Stati Uniti i Beatles sono lungi dal rappresentare il fenomeno di costume che già sono in patria, un po’ perché da poco alla ribalta, un po’ perché non li hanno ancora visitati, un po’ perché la loro etichetta americana (al momento la Vee Jay; da qui in poi sarà la Capitol) non ha forza distributiva adeguata e infine l’era della comunicazione globale modello MTV è lontana due decenni. Ma un paese gettato nel lutto dagli spari di Dallas si scopre confortato dalle loro solari, apparentemente innocue canzoncine e li abbraccia con entusiasmo. Quando il 7 febbraio 1964 i quattro giovincelli vi pongono piede per la prima volta…

Pensate agli anni ’60: quale il suono che vi viene in mente? Il frizzante beat e poi la raffinata psichedelia frammista a vaudeville dei Beatles stessi, il ruggente errebì bianco dei Rolling Stones, il Bob Dylan di Blowin’ In The Wind o quello di Like A Rolling Stone, il jingle-jangle dei Byrds, le ballate soul di Otis Redding, il distorto ululare della chitarra di Jimi Hendrix? O ancora Janis Joplin che canta il blues, o i ritratti di decadenza dei Velvet Underground ma in questo caso è una memoria falsa, elaborata a posteriori, ché dei Velvet in vita pochissimi si accorsero. Tutto vero, tutto giusto, tutto bello. Però è un altro, secondo me, il suono-simbolo del decennio favoloso per antonomasia e non è musica, ma un urlo, l’urlo altissimo, immortalato in tele- e cinegiornali che da allora capita di continuo di rivedere, che sortì dalle gole dei cinquemila ragazzi e soprattutto ragazzine che quel fatidico 7 febbraio (avanguardia dei settantatré milioni che due sere dopo li seguiranno all’“Ed Sullivan Show”) accolsero la discesa dei Beatles dalla scaletta del volo PA-101 della Pan-Am, atterrato all’aeroporto di New York che già si chiamava Kennedy.

Domanda ─ Vi è piaciuto questo benvenuto?

Ringo ─ Così, questa è l’America. Sembrano tutti pazzi.

Domanda ─ Vi spaventa la folla che vi viene incontro urlando?

John ─ A Dallas più che altrove.

Domanda ─ Cosa fareste se i fans superassero lo sbarramento della polizia?

George ─ Moriremmo ridendo.

Rifletto sugli anni ’60 e quello che vedo sono le bocche spalancate di quelle ragazzette, i poliziotti che le soccorrono quando svengono in intere comitive, altri che le placcano quando superano gli sbarramenti. Può sembrare stupidità. A me pare un’innocenza meravigliosa, irripetibile. In quelle immagini scorgo la fine del più lungo dopoguerra conosciuto dall’umanità e, nonostante la più parte siano in bianco e nero, un mondo che improvvisamente diventa a colori. È un grido di liberazione, è il detonatore di tutto quanto gli anni ’60 saranno in positivo. Dopo, più nulla lo stesso. È il suono di una rivoluzione. Se poi qualcuno vi dirà che in fondo quelle dei Beatles erano più o meno solo canzonette, lasciatelo parlare. Siamo in democrazia: essere imbecilli è un diritto.

Tratto da Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.10, estate 2003.

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David Crosby Was Love (14/8/1941-18/1/2023)

If I Could Only Remember My Name (Atlantic, 1971)

Sconcerta che uno dei capisaldi della musica del Novecento venisse accolto con toni irridenti da un gigante dello scrivere di rock quale Lester Bangs e massacrato da un altro, Robert Christgau. Mentre viceversa fa sorridere che nel 2010 nientemeno che “L’Osservatore Romano” lo abbia incluso in una lista dei dieci migliori album pop di sempre (secondo, dietro “Revolver” dei Beatles). Vi avrà per certo colto, l’organo della Santa Sede, l’empito spirituale che traversa per intero un disco figlio per l’artefice di un momento egualmente esaltante e disperante: campione di vendite con “Déjà Vu”, storico esordio di CSN&Y, nel momento in cui ci metteva mano e nello stesso tempo distrutto dalla morte qualche mese prima della fidanzata Christine Hinton. Gli stava vicino in tutti i sensi in studio una folla solidale di colleghi e soprattutto intimi: oltre a Nash e Young e a Joni Mitchell, membri di Grateful Dead, Jefferson Airplane e Santana. Apogeo e contestualmente congedo di/per un’epoca della musica e della cultura giovanili, affresco corale e insieme personalissimo diario che si cimenta nell’impresa di provare a esprimere l’inesprimibile e quanto è significativo allora che due brani siano sì cantati, ma senza parole.

Music Is Love, asserisce ontologicamente la prima di nove immortali tracce, estatico incipit per un viaggio che prosegue con la cavalcata elettrica di Cowboy Move e approda alla liturgia di voci di I’d Swear There Was Somebody There, passando fra il resto per una Traction In The Rain buckleyana. Questa riedizione per il cinquantennale saggiamente non strafà, aggiungendo una bonus già edita e un disco di demo, versioni alternative e scarti che solo uno stato di grazia supremo fece scartare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 437, dicembre 2021.

CPR (Samson, 1998)

Una sigla anonima come ragione sociale, una copertina che non dà indicazioni su cosa si ascolterà e oltretutto bruttina assai: poco da stupirsi se nel 1998 “CPR” si vendeva in quantitativi modesti e presumibilmente perlopiù a chi aveva avuto occasione di ascoltare il gruppo nel tour che lo aveva preceduto invece di seguirlo. Stupisce di più, ma non tanto per quante copie ne circolano a due spiccioli nei negozi che trattano usato, offerte e fuori catalogo, che non fosse mai stato riedito. Provvede, peraltro senza integrarlo con uno straccio di bonus quando con l’aggiunta dell’autoprodotto e dello stesso anno “Live At Cuesta College” avrebbe potuto confezionare una “Deluxe” coi fiocchi, lo stesso marchio (Samson) che lo dava alle stampe in origine.

Va bene lo stesso, perché ci offre il destro di riascoltarlo con orecchie tornate vergini e dargli il giusto peso nella straordinaria quanto tormentata vicenda artistica di David Crosby: lui la “C” dell’acronimo, laddove la “P” sta per Jeff Pevar, chitarrista sublime, e la “R” per James Raymond, gran tastierista, produttore, arrangiatore, soprattutto figlio perduto dello stesso Crosby, che lo dava in adozione e lo ritrovava decenni dopo e con lui instaurava miracolosamente un felicissimo sodalizio, sia umano che artistico, che tuttora dona frutti succosi. Questo era il primo, disco di autentica rinascita per Crosby dopo troppi anni sprecati fra droghe e mattane e funestati da disgrazie assortite e gravi problemi di salute. Una seconda (terza?) insperata vita prendeva le mosse da questi undici raffinatissimi quadri di cantautorato da Laurel Canyon rivisitato in chiave jazz-rock, con l’occasionale tocco latineggiante, il piccolo strappo funk e a volare altissime sulle sontuose basi armonie vocali degne di quell’altro trio là con David Crosby, quello più famoso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020.

Sky Trails (BMG, 2017)

La matematica impressiona: ventidue anni, dal ’71 al ’93, per iscrivere tre titoli alla voce “discografia da solista”, e facendo oltretutto deprecare a tutti che il capolavoro “If I Could Only Remember My Name” avesse avuto successori tanto inconsistenti; tre appena, dal 2014 di “Croz”, cui nel 2016 dava un seguito “Lighthouse”, per raddoppiarla. Ma a certificare che a settantasei anni David Crosby vive un rinascimento che nessuno avrebbe potuto prevedere nei decenni bui in cui diede tristissimo spettacolo di sé, rotolando rovinosamente per la china della tossicodipendenza, non sono i numeri bensì la consistenza del nuovo album: in proprio il suo migliore di sempre naturalmente eccettuato l’epocale, insuperabile esordio; e anche contando i progetti collaborativi per rinvenire nel catalogo un articolo di livello paragonabile tocca tornare parecchio indietro. Al 1977 di “CSN”, ultimo momento ricordabile della gentile epopea principiata nel ’69 con “Crosby, Stills & Nash”. O, minimo, al 2001 di “Just Like Gravity”, capitolo conclusivo del romanzo breve CPR e forse l’unico altro Crosby quasi indispensabile dell’ultimo quarantennio. E a proposito di CPR…

In “Sky Trails” Jeff Pevar (gradito ritorno) c’è, ma quel che più conta c’è pure James Raymond, il figlio musicista che David ritrovava nell’anno più difficile della sua vita, quel 1994 in cui doveva sottoporsi a un trapianto di fegato andato meravigliosamente bene. Raymond co-firma diversi brani ed è l’autore unico di She’s Got To Be Somewhere, una gemma di elegantissimo funk alla Steely Dan. Splendido modo di iniziare un disco che ha nella Joni Mitchell che si innamorava del jazz (anche coverizzata, con una bella resa di Amelia) il referente principale e per il minoritario resto dispensa folk da manuale Laurel Canyon.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.393, novembre 2017.

For Free (BMG, 2021)

Davvero: non si sa se essere più furiosi con David Crosby per i decenni in cui si buttò via abusando di alcool, eroina, cocaina e quant’altro (ineffabilmente, oggi che in California è legale commercializza con il suo nome una marijuana che gli intenditori considerano fra le migliori sulla piazza) o essere più felici, per lui e per noi, che incredibilmente sia riuscito a sopravvivere a quegli anni folli e ai successivi e gravissimi problemi di salute che l’hanno afflitto come strascico degli stravizi. Che, ancora più incredibilmente, stia vivendo da un decennio in qua (ma prodromi di rinascita si erano manifestati già all’incrocio fra il secolo vecchio e l’attuale con il progetto CPR) una luminosissima… quarta giovinezza.

Per il suo ottantesimo compleanno il vecchio Croz si è regalato, con qualche settimana di anticipo, un album che è sorta di gemello (solo, più conciso: se i brani in scaletta in entrambi sono dieci quello superava i cinquanta minuti, questo non arriva a trentotto) del precedente (2017) “Sky Trails”. Per dire: anche qui il programma comprende una cover dell’amica di sempre Joni Mitchell (tocca stavolta a una pianistica For Free, che ha pure l’onore di intitolare il disco). Anche qui ci sono brani di impronta Steely Dan e curiosamente lo è di più Ships In The Night che non Rodriguez For A Night, cui Donald Fagen ha offerto il proprio apporto compositivo. E il resto sono meraviglie da un Laurel Canyon dell’anima: su tutte una I Think che potrebbe giungerci dai primi due LP in trio con Crosby e Nash e una Shot At Me che sarebbe potuta stare su “If I Could Only Remember My Name”. Addirittura. L’unico cruccio è che il tempo inevitabilmente, inesorabilmente scorre.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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I migliori album del 2022 (13): Regina Spektor – Home, Before And After (Sire)

Non solo l’ottavo album di Regina Spektor è quello che si è fatto attendere più a lungo ─ sei anni: quanti impiegò a pubblicare i primi quattro ─ ma almeno tre delle sue dieci canzoni sono da una vita in repertorio: Becoming All Alone (echi di Janis Ian) dal 2014; Raindrops (una delizia di girotondo pianistico) e Loveology (ballata orchestrale fra il solenne, il solare e lo stralunato) addirittura da prima che “Begin To Hope” nel 2006 la promuovesse allo stardom  in forza di un programma di rara perfezione e di uno dei singoli più geniali e irresistibili dell’ultimo paio di decenni, o della storia del pop intera. Best seller ma soprattutto long seller, Fidelity, visto che nelle classifiche USA non saliva più in alto di un modesto numero 51 ma a un anno dall’uscita aveva venduto mezzo milione di copie, entro tre settecentomila. Quanto sarà orgoglioso Nick Hornby del fatto che Regina la scrisse mentre guardava in TV l’adattamento cinematografico di… ahem… High Fidelity? Regina di cuori, vien da dire con gioco di parole troppo facile apprendendo sbalorditi che quel vecchiaccio di Robert Christgau, uno che sulla stroncatura non argomentata ha costruito sin dal ’67 molta della sua discutibile fama, ha speso per “Home, Before And After” un rarissimo “A-” e parole al miele.

Non saranno più i tempi in cui una allora ventenne fresca di studi al conservatorio, pazza per Billie Holiday e iscritta alla scuola del cosiddetto anti-folk scriveva una canzone alla settimana, ma che ne scriva una all’anno ci basta fintanto che la qualità resterà questa: uniformemente stratosferica. Si tratti di una Up The Mountain fra Björk e Kate Bush, di una Sugarman da prestare a St. Vincent o una What Might’ve Been pronta per Broadway. Per dire.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Thomas Pynchon su vinile – Il solo e unico Van Dyke Parks

Sono dieci anni che Van Dyke Parks è uno dei miei idoli. ‘Song Cycle’ è il mio disco preferito in assoluto di sempre, niente di simile è stato realizzato in questo secolo. Ricordo di avere parlato con lui alcuni anni fa, al tempo in cui stavo cercando di ristampare i suoi primi 45 giri. Mi disse che all’epoca in cui si andava formando come musicista prendeva un sacco di droghe, troppe, e che se anche apprezzava il fatto che mi interessassi ai suoi primi lavori riteneva che quanto fa oggi sia migliore. Fu il suo modo da educato gentiluomo sudista di dirmi no.

Ipse dixit, in una recente, brevissima ma succosa, intervista al mensile britannico “Mojo”, Jim O’Rourke, guru per eccellenza dell’attuale avanguardia a stelle e strisce e santino personale dei più fra i lettori di questo giornale (e anche mio, lo ammetto). Curioso che fra i tanti recensori in sollucchero per la fastosità melodica di “Eureka” tutti abbiano citato Burt Bacharach, molti il Brian Wilson di “Pet Sounds” e il solo Andy Medhurst di “The Wire”, oltre all’ottimo David Sheppard, il predecessore più ovvio di quel disco. Ascoltando di seguito la trilogia classica di Van Dyke Parks e l’ultimo parto del compositore chicagoano lo stacco è inavvertibile: l’incredibile versione per basso funky e banda jazz peyotera del Canone in re maggiore di Johann Pachelbel sfuma senza soluzione di continuità, nonostante quasi un quarto di secolo separi le due incisioni, negli arpeggi chitarristici, nei fraseggi orchestrali, nel ritornello angelicato di Women Of The World. Curioso, dicevo, ma nemmeno tanto, dacché Parks è uno dei segreti meglio celati del pop e della musica colta dai ’60 in avanti. Alla sua scarsa notorietà ha contribuito, oltre alla peculiarità degli spartiti, una produzione discografica quanto mai parca, sette soli album in studio (più uno dal vivo) in oltre tre decenni, con una cesura di nove anni fra i primi tre e i secondi quattro.

Il Nostro pare preferire questi ultimi: “Jump!” (Warner Bros, 1984), “Tokyo Rose” (medesima etichetta, 1989), “Fisherman & His Wife” (Windham Hill, 1991; con Jodie Foster) e “Orange Crate Art” (di nuovo Warner, 1994; con Brian Wilson). Tappe mediamente interessanti del suo cammino su quell’idiosincratico sentiero adombrato dal titolo di una bella, ma terribilmente incompleta, antologia. Nondimeno opere di seconda schiera rispetto alle tre appena ristampate, con contorno risicato ma goloso di bonus tracks, dalla benemerita Ryko: “Song Cycle”, “Discover America” e “Clang Of The Yankee Reaper” (1968, 1972 e 1975; tutte su Warner in origine). Gemme di abbacinante splendore delle quali si stava smarrendo la memoria.

Ho giocato un ruolo in quel movimento musicale, molto creativo, che contraddistinse la California meridionale negli anni ’60. Ero là. Ho aspirato. E curiosamente lo ricordo ancora, io.” (Van Dyke Parks)

Nato ad Hattiesburg, Mississippi, il 3 gennaio 1943 ma cresciuto fra la Lousiana e il New Jersey, il Nostro ha un approccio precocissimo alla musica e allo showbiz. Studia piano, clarinetto e composizione e non ancora novenne ha modo di duettare con un dilettante (brillante, si dice) noto per ben altro: tale Albert Einstein, nientemeno. Decenne, è attore e cantante in uno sceneggiato televisivo della NBC. Due anni dopo è a Hollywood, per recitare in The Swan con Alec Guinness e Grace Kelly. Non lascerà più, se non per brevi periodi, la California.

Gli undici anni di gavetta che dal diploma al college lo porteranno al primo LP in proprio sono a tal punto densi di eventi che se ne potrebbe cavare un film. Si esibisce come cantante folk in duo con il fratello Carson. Suona il piano nella colonna sonora del disneyano Il libro della giungla e l’organo in “Fifth Dimension” dei Byrds. È chitarrista con i Brandwyne Singers. Pubblica alcuni singoli da solista per la MGM. Si inventa gli Harper’s Bizarre, battezza i Buffalo Springfield, collabora con Paul Revere & The Raiders e con le Mothers di Zappa. Firma per la Warner, della quale è ancora, trentadue anni dopo, l’eccentrica mascotte (nonostante i suoi dischi abbiano sempre venduto assai poco). Per limitarsi agli accadimenti principali… e ancora non ho riferito dei tre più memorabili.

Nel 1965 il giovane Parks conosce a una festa Brian Wilson. Il sodalizio subito fondato, cui porranno provvisoriamente fine i malumori degli altri Beach Boys e il drammatico degenerare della salute mentale di Brian, esercita un’enorme influenza sulla pietra miliare “Pet Sounds” e frutterà (non frutterà anzi) “Smile”, il più celebre album “perduto” della storia del rock. Nel 1966 è responsabile degli arrangiamenti del luminoso (quanto sottovalutato!) esordio di Tim Buckley. Nel 1967, sdraiato su un lettino per massaggi a fianco di Frank Sinatra, persuade Old Blue Eyes che Carson ha scritto una canzone che sarebbe perfetta per un duetto con la figlia Nancy. Somethin’ Stupid porterà il 33 giri che la contiene a vendere oltre un milione di copie (il successo più grande della carriera di Sinatra), regalando a The Voice una seconda giovinezza.

Prosegue per altre 6.987 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.12, maggio 1999. Van Dyke Parks festeggia oggi il suo ottantesimo compleanno.

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Björk – Fossora (One Little Independent)

Il problema di Björk è che è Björk e in questo suo decimo album o nono (se incise dodicenne il formale esordio sedici anni dopo chiamava “Debut” il formale seguito che andava dietro ai trionfi artistici e commerciali con gli Sugarcubes) è ─ parole sue ─ al massimo della björkitudine. Il problema di Björk è che una volta raggiunta la perfezione, per quanto nella prodigiosa sequenza che da “Debut” nel 1993 portava nel 2001 a “Vespertine” passando nel ’95 per “Post” e nel ’97 per “Homogenic” non si riesca a mettersi d’accordo fra i cultori su dove ciò sia avvenuto, quale può essere il passo successivo? Che fai dopo che hai venduto milioni di dischi con il pop più idiosincratico di sempre e chiunque? Musica di inaudite commistioni ove convivono e si intersecano techno, soul e jazz, etnica ed elettronica, rock e neo-classica, downtempo e drum’n’bass e, sopra, quella voce che di per sé basterebbe a renderla inconfondibile. Puoi provare a ripeterti non ripetendoti, che è l’impresa più ardua, disperata persino e che pure in una certa misura all’artista islandese è riuscita. Lecito però, di fronte ad album sempre più algidi e cervellotici immersi in un universo totalmente autoreferenziale, interrogarsi se ne sia valsa la pena.

Sarà che ha al centro per un verso il ricordo della madre scomparsa e un altro l’essere madre a sua volta, ma in “Fossora” quantomeno cogli emozioni genuine, un palpitare di cuore sotto spartiti come sempre impeccabili. Più facile ammirarne allora la costruzione ardita, si tratti di una Atopos che intreccia gorgheggi e fiati dissonanti su una ritmica spastica o della polifonia reichiana di Mycelia, di una Freefall cameristico-sentimentale o di una traccia omonima dal fiabesco al technoide.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Panda Bear & Sonic Boom – Reset (Domino)

Che strana coppia! In origine un oceano e tredici anni separano Sonic Boom, nato Peter Kember nel 1965, da Noah Benjamin Lennox, classe 1978, in arte Panda Bear. Li accomunano l’amore per la psichedelia e l’essersi iscritti alla storia maggiore del rock: il britannico nei secondi ’80 dividendo con Jason Pierce la leadership degli Spacemen 3, l’americano capitanando negli ultimi due decenni insieme ad Avey Tare gli Animal Collective. Solo che dei primi Sonic Boom era l’anima noisy, dei secondi Panda Bear è quella melodica, colui che a un certo punto li ha trasformati da combo ultra-sperimentale in una sorta di Beach Boys per il XXI secolo. Ma… che dicevo dell’oceano? Prima di mettermi in cerca di notizie riguardo al per me sorprendente sodalizio ho dato una letta alle biografie dei due e li ho scoperti (lo sapevo, me n’ero dimenticato) entrambi degli espatriati. Dove? In Portogallo. Che già avessero collaborato ─ Sonic Boom a “Tomboy” e “Meets The Grim Reaper” di Panda Bear, Panda Bear a “All Things Being Equal” di Sonic Boom ─ mi era proprio sfuggito.

Lunga ma necessaria premessa per dire che se la grafica di copertina farebbe presupporre che a guidare la coppia nelle danze sia Kember l’ascolto rivela “Reset” opera prevalentemente nel solco del Lennox in fissa per Brian Wilson. Per certo mai Sonic Boom si era ritrovato coinvolto in un disco così godibile, irresistibilmente solare, pop.  Quali simbolici apici segnalerei un’esultante Gettin’ To The Point intessuta di chitarre flamencate, il neo-doo wop Edge Of The Edge e una tropicalista Whirlpool. Apprendere che l’opera più che suonata è il prodotto di certosine rielaborazioni di campionamenti di brani anni ’50 e ’60 aggiunge stupore e diletto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.446, ottobre 2022.

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