La notizia è – sarebbe – che sono usciti due box degli Hawkwind. Peccato che celebrino due decenni durante i quali il gruppo, pur restando dignitoso, ha cessato di essere rilevante. La non-notizia allora è un’altra: gli Hawkwind si apprestano a festeggiare i loro primi quarant’anni. Incredibile ma vero.

Incredibile ma vero, al dio del rock (che ultimamente si sta facendo bestemmiare come non mai) piacendo, è che – a parte il povero Bob Calvert, che ci lasciava quarantatreenne nell’agosto ’88 – ci arrivino in condizioni smaglianti per dei signori in prevalenza più prossimi ai settanta che ai sessanta e che hanno vissuto una vita spericolata come nessuno mai. I due principali protagonisti della saga, il chitarrista Dave Brock e il sassofonista Nik Turner, si sono da tempo ritirati in campagna e immaginarseli agricoltori a menare un’esistenza scandita dai cicli della luce e delle stagioni è una visione surreale. Stiamo parlando di una delle band più quintessenzialmente metropolitane di sempre. Stiamo parlando dei compagni di merende di… state a sentire come il bassista Lemmy Kilmister racconta dell’approccio a un concerto londinese rimasto epocale, quello durante il quale furono incise le piste strumentali (la voce poi sostituita in studio) del singolo Silver Machine, un numero 3 nelle classifiche UK nel luglio 1972 e rimasto la più grande hit dei nostri squinternati eroi.
“Io e Dikmik (Davies, il tastierista; NdA) eravamo pieni di dexedrina fino agli occhi, in piedi da quattro giorni e quattro notti e allora si cominciava a essere nervosi. Bisognava fare questo spettacolo e avevamo bisogno di calmarci. Così buttiamo giù del Mandrax, ma dopo un po’ ci piglia la noia e allora ci fumiamo un paio di cannoni di nero. Arriviamo alla Roundhouse e salta fuori dell’altro nero. Ci spariamo quell’altra decina di spinelli belli carichi a testa. Siamo di nuovo schizzati come bestie e per rilassarci caliamo altro Mandrax, tre pillole ciascuno. È stato a quel punto che ci hanno portato della coca… Cazzo, delle borse piene di coca. Be’, l’abbiamo assaggiata, naturale. Bussano al camerino per dirci che è ora di andare in scena e a quel punto ho il corpo talmente irrigidito da essere come paralizzato. Gli faccio: ‘Ehi, Dikmik! Non riesco più a muovermi!’. E lui: ‘Neanch’io! Figo, eh?”
Pensate che quel concerto, registrazione di Silver Machine a parte, fu un disastro? Niente affatto. Chi c’era lo magnifica come un trionfo e, se credete siano ricordi falsati dalle sostanze assunte non solo dal gruppo ma più o meno dall’intera platea, in assenza di una macchina del tempo potete andare a toccare con orecchio il fenomenale “Space Ritual”, doppio live datato ’73, inequivocabile testimonianza di come una compagine per il resto sommamente disfunzionale messa su un palco riuscisse invariabilmente, in qualche pazzesco modo, a funzionare alla perfezione. Eccellenti in studio, trascendentali dal vivo: almeno in questo il ricorrente paragone con i Grateful Dead tiene. “Potevamo diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Brock nel 1999, concedendosi a “Mojo”. Furono invece i papà dei Sex Pistols.
Prosegue per altre 7.584 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.656, marzo 2009. “Space Ritual” vedeva la luce cinquanta esatti anni fa.