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Feel Like Being A Silver Machine – Hawkwind, 1970-1977

La notizia è – sarebbe – che sono usciti due box degli Hawkwind. Peccato che celebrino due decenni durante i quali il gruppo, pur restando dignitoso, ha cessato di essere rilevante. La non-notizia allora è un’altra: gli Hawkwind si apprestano a festeggiare i loro primi quarant’anni. Incredibile ma vero.

Incredibile ma vero, al dio del rock (che ultimamente si sta facendo bestemmiare come non mai) piacendo, è che – a parte il povero Bob Calvert, che ci lasciava quarantatreenne nell’agosto ’88 – ci arrivino in condizioni smaglianti per dei signori in prevalenza più prossimi ai settanta che ai sessanta e che hanno vissuto una vita spericolata come nessuno mai. I due principali protagonisti della saga, il chitarrista Dave Brock e il sassofonista Nik Turner, si sono da tempo ritirati in campagna e immaginarseli agricoltori a menare un’esistenza scandita dai cicli della luce e delle stagioni è una visione surreale. Stiamo parlando di una delle band più quintessenzialmente metropolitane di sempre. Stiamo parlando dei compagni di merende di… state a sentire come il bassista Lemmy Kilmister racconta dell’approccio a un concerto londinese rimasto epocale, quello durante il quale furono incise le piste strumentali (la voce poi sostituita in studio) del singolo Silver Machine, un numero 3 nelle classifiche UK nel luglio 1972 e rimasto la più grande hit dei nostri squinternati eroi.

Io e Dikmik (Davies, il tastierista; NdA) eravamo pieni di dexedrina fino agli occhi, in piedi da quattro giorni e quattro notti e allora si cominciava a essere nervosi. Bisognava fare questo spettacolo e avevamo bisogno di calmarci. Così buttiamo giù del Mandrax, ma dopo un po’ ci piglia la noia e allora ci fumiamo un paio di cannoni di nero. Arriviamo alla Roundhouse e salta fuori dell’altro nero. Ci spariamo quell’altra decina di spinelli belli carichi a testa. Siamo di nuovo schizzati come bestie e per rilassarci caliamo altro Mandrax, tre pillole ciascuno. È stato a quel punto che ci hanno portato della coca… Cazzo, delle borse piene di coca. Be’, l’abbiamo assaggiata, naturale. Bussano al camerino per dirci che è ora di andare in scena e a quel punto ho il corpo talmente irrigidito da essere come paralizzato. Gli faccio: ‘Ehi, Dikmik! Non riesco più a muovermi!’. E lui: ‘Neanch’io! Figo, eh?

Pensate che quel concerto, registrazione di Silver Machine a parte, fu un disastro? Niente affatto. Chi c’era lo magnifica come un trionfo e, se credete siano ricordi falsati dalle sostanze assunte non solo dal gruppo ma più o meno dall’intera platea, in assenza di una macchina del tempo potete andare a toccare con orecchio il fenomenale “Space Ritual”, doppio live datato ’73, inequivocabile testimonianza di come una compagine per il resto sommamente disfunzionale messa su un palco riuscisse invariabilmente, in qualche pazzesco modo, a funzionare alla perfezione. Eccellenti in studio, trascendentali dal vivo: almeno in questo il ricorrente paragone con i Grateful Dead tiene. “Potevamo diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Brock nel 1999, concedendosi a “Mojo”. Furono invece i papà dei Sex Pistols.

Prosegue per altre 7.584 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.656, marzo 2009. “Space Ritual” vedeva la luce cinquanta esatti anni fa.

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I migliori album del 2022 (10): The Black Angels – Wilderness Of Mirrors (Partisan)

Il gruppo che meglio ha trasposto il verbo psichedelico nel XXI secolo? Questi texani devoti a Roky Erickson come ai Velvet Underground, da una cui canzone prendevano il nome e nel 2017 il titolo di un album, il quinto, “Death Song”. Anche ora che si è aggiunto un sesto resta il più fosco e minaccioso in discografia, tensione che non mollava per quasi intero il suo svolgimento, dando requie giusto nella conclusiva Life Song: estatico space rock dalla malinconia sorridente, se l’ossimoro è concesso. “Wilderness Of Mirrors” riparte da lì, con una Without A Trace intessuta di chitarre elettriche trillanti e tamburi tribali, animatamente torpida (altro ossimoro) e stupefatta. Grandioso incipit per un’opera che nel solco dei predecessori continua a dilatare i tempi. Sono 57’49”, praticamente la stessa durata del debutto del 2006 “Passover”, 58’48”, che nel 2008 nel monumentale in ogni senso “Directions To See A Ghost” diventavano 70’25” (quasi ottanta nella versione triplo LP). Laddove nel 2010 “Phosphene Dream” con i suoi 36’11” oltretutto alquanto pop pareva al confronto una bagatella e nel 2013 “Indigo Meadow” nei suoi 45’44” mostrava qualche lieve appannamento. Per una prima volta rimasta unica un che di formulaico. “Death Song”, 48’42”, riportava in quota la band.

Sarà parso ozioso al lettore questo minuzioso dettagliare i minutaggi. Non lo è. La musica dei Black Angels trae giovamento dagli svolgimenti lunghi, non nel singolo brano ma nell’articolarsi di un discorso che qui risulta chiaramente distinto in tre parti: una prima di impianto garagista (zenit toccato in Empires Falling, chitarre dal ruvido all’ustionante su ritmica dal frenetico al motoristico); una seconda folk-psych (ai Love in combutta con Nancy Sinatra di Firefly e colti da empiti arabeggianti di Make It Known risponde il raga-rock quicksilveriano di The River); una terza che sintetizza alternando un macinare inesausto (Icon rimanda alla new wave guerriera dei dimenticati Theatre Of Hate) a sprazzi cinematicamente cinematografici (la morriconiana Vermillion Eyes, una Suffocation con tracce di Procol Harum). Immaginifici e magnifici.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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La ambient-ethno-psichedelia dei primi Popol Vuh

Il 29 dicembre 2001 veniva improvvisamente e prematuramente (cinquantasettenne) a mancare Florian Fricke. Non se ne sarebbe parlato molto: da un certo punto di vista appropriatamente, siccome il compositore bavarese aveva sempre menato vita ritirata; da un altro fu una grande ingiustizia, giacché il corpus della sua opera risulta di eccezionale livello medio, con poche depressioni e in compenso diversi picchi e qualcuno vertiginoso. Da allora però giustizia è stata fatta, diffusa la consapevolezza che i suoi Popol Vuh, lungi dall’essere l’oleografica congrega hippie di certe superficiali rappresentazioni, del krautrock furono fra i giganti, peculiari quanto Kraftwerk e Can, Neu! e Faust, Cluster, Harmonia o Ash Ra Tempel, e altrettanto innovativi: pionieri dapprincipio di un’elettronica che, con splendida schizofrenia, da un lato guardava al futuro e dall’altro con etnico afflato si immergeva in arcaici passati; quindi declinatori di una versione insieme più rock e acustica del medesimo stile e verrebbe da dire precursori della new age, se l’etichetta non fosse diventata una parolaccia. Chiamiamolo rock “da camera”, allora. “Affenstunde” fu il debutto: formidabile esempio di inaudita ambient psichedelica innervata di suggestioni world, sogno acquatico che lascia stupefatti senza bisogno di stupefacenti.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Musica facit saltus – Manuel Göttsching (9/9/1952-4/12/2022) dal krautrock alla techno

È da ieri, quando con otto giorni di ritardo si è diffusa la notizia della sua scomparsa, settantenne, che mi interrogo se ci sia stato un altro che come Manuel Göttsching sia riuscito a coprire l’arco impossibilmente ampio che dal blues (alla cui scuola crebbe) arrivò fino a house e techno (sulle quali esercitò un’influenza incommensurabile) passando per la psichedelia, per un rock che era post-punk ben prima che il punk stesso si palesasse, per una kosmische Musik sporta (anche) sulla ambient ben prima che Eno la teorizzasse. Se assumiamo, con Leibniz, che natura non facit saltus, l’intera vicenda artistica di questo chitarrista che fece suonare il suo strumento come nessuno mai, prima e dopo, dimostra invece l’opposto. E nondimeno una logica incontestabile nel continuo evolversi e una poetica affatto peculiare sottendono tutta la sua opera. È da ieri che mi chiedo a quanti altri protagonisti della musica del Novecento si possa più legittimamente applicare l’etichetta di “genio”. Non me ne sono venuti in mente molti.

Ash Ra Tempel Ash Ra Tempel (Ohr, 1971)

Protagonista principale della vicenda Ash Ra Tempel, nonché unico a traversarla dal principio alla fine, fu Manuel Göttsching, chitarrista di solida tecnica che una straordinaria inventiva ha quasi sempre salvato dalle tentazioni narcisistiche del virtuosismo fine a se stesso. Costui sul finire degli anni ’60 suonava nella Steeple Chase Bluesband, gruppo di Berlino dedito a una riscrittura lisergica della musica del diavolo che fu palestra anche per altri due futuri adepti del Tempio di Ash Ra: il bassista Hartmut Henke, che resterà in squadra fino a “Join Inn” compreso, e il batterista Wolfgang Müller, che rimarrà giusto il tempo necessario a scolpire la pietra miliare “Schwingungen”. Siccome un blues pur già poco canonico non bastava a soddisfarne gli slanci visionari, Göttsching pensò bene di andare a fare la sua cosa altrove. Con Henke al basso e Klaus Schulze, transfuga dai Tangerine Dream del grandioso “Electronic Meditation”, assiso dietro piatti e tamburi nacquero così gli Ash Ra Tempel. La loro vicenda si consumerà nel breve arco di tre anni generosi di album – ben cinque, tutti per la Ohr di Rolf-Urlich Kaiser – e intuizioni fulminanti.

Biglietto da visita sensazionale quello primo e omonimo. L’immagine egizia che campeggia sul davanti della lussuosa confezione promette il disvelarsi di verità a chi, aperta una copertina che si spalanca a mo’ di finestra, sappia addentrarsi nelle stanze cui quelle porte della percezione danno accesso. A mezzo secolo dacché fu eternata la musica che si leva dai solchi stupisce ancora. Suona moderna perché senza tempo, ma come quasi sempre è il caso con l’arte più innovativa non veniva dal nulla. Anzi! Le sue radici affondavano nella Detroit degli anni ’60, quella di MC5 e Stooges ma anche del jazz extraterrestre di Sun Ra, e nella Londra della prima ubriacatura lisergica. Nella psichedelia californiana. Naturalmente, visti i precedenti di Göttsching ed Henke, nel blues. La prima facciata è occupata dai 19’40” di Amboss, che parte con un incastro di cimbali e basso, diviene tellurica quando la batteria irrompe in scena con fare predatorio e magmatica quando la chitarra comincia a srotolare stordenti spirali di feedback. I 25’40” della Macchina dei Sogni, la Traummaschine, che monopolizza il secondo lato si porgono al contrario rilassanti: il Klaus lavora di congas, il Manuel di fino sulla sei corde, una misteriosa voce femminile evoca paradisi islamici. A dispetto della defezione pesante di Schulze, da lì a un anno con “Schwingungen” gli Ash Ra Tempel riusciranno addirittura a superarsi, ad andare oltre.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.281, ottobre 2021.

Ash Ra Tempel Schwingungen (Ohr, 1972)

Sembrò probabilmente faccenda da extraterrestri all’uscita l’omonimo debutto, datato 1971, degli Ash Ra Tempel: prendete la Detroit di Stooges ed MC5, impregnatela con il jazz saturnino di Sun Ra, ricordi di blues, cartoline di Londra in preda alla prima ubriacatura lisergica, intersecatela di sentieri felici quicksilveriani et voilà. Benché proveniente dal blues (ma aveva studiato pure chitarra classica e improvvisazione), il leader Manuel Göttsching piuttosto che un emulo di Clapton, o al limite di Hendrix, già vi si porgeva come un anticipatore del Keith Levine del “Metal Box”. Ancora di più in questo seguito, dove per ascoltare quegli a loro volta influentissimi P.I.L. – di sette anni posteriori! – non dovete che mettere su quella che era in origine la prima facciata: sono lì, in una Flowers Must Die che preconizza John Lydon persino nel titolo, laddove sul secondo lato Suche & Liebe adombra certi Pink Floyd. Quasi al pari interessanti, per non dire imperdibili, i successivi capitoli della saga dei Berlinesi, da “Seven Up”, in combutta con il guru psichedelico Timothy Leary, a “Starring Rosi”, passando per “Join Inn”. Fino all’avveniristico “Inventions For Electric Guitar”, del ’75 e di fatto l’esordio da solista di Göttsching. C’è chi vi ha individuato l’atto di nascita della techno.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Manuel Göttsching E2-E4 (Inteam, 1984)

Copertina (una scacchiera giallo smorto e marrone) di un rigore geometrico totale che non si potrebbe immaginare più distante dall’iconografia da antico Egitto che aveva caratterizzato tredici anni prima l’esordio degli Ash Ra Tempel, compagine fra le più immaginifiche del krautrock, figlia del blues e mamma dei P.I.L. Se però si scorre la discografia dei Berlinesi, fra l’altro compagni di lisergiche merende di Timothy Leary in “Seven Up”, arrivati a “Join Inn” ci si imbatte in un’altra scacchiera e i conti cominciano a tornare. Rimasto proprietario del marchio, il leader Manuel Göttsching ha già realizzato nel 1975 un incredibile LP in perfetta solitudine, “Inventions For Electric Guitar” (messo fuori con doppia attribuzione per ragioni meramente commerciali), in cui, se lo strumento è quello sovrano del rock, il suono e l’impatto sono già quelli della techno. Nove anni dopo (in realtà sei, essendo queste registrazioni dell’81) Göttsching bissa, facendo scontrare temi alati e ritmi spasmodici e in tal modo inventando, inconsapevole, l’ambient-house. Altri cinque anni ancora e mezzo mondo ballerà sulle note di Sueño latino, un’irresistibile robetta balneare “made in Italy” tutta costruita su un campionamento da “E2-E4”.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

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Misunderstood (per Tony Hill)

Uno dei più grandi chitarristi della storia del rock se n’è andato venerdì scorso nell’indifferenza generale. Non un articolo, non un trafiletto a ricordarlo. Giusto qualche post su Facebook.

The Misunderstood Before The Dream Faded (Cherry Red, 1982; antologia)

Una delle mille ragioni che abbiamo per idolatrare John Peel è questa: senza di lui i Misunderstood avrebbero avuto ancora meno della poca fortuna che ebbero e si sarebbero forse persi senza lasciare traccia alcuna. Era il 1966 quando le strade del gruppo e del dj (che non aveva ancora assunto il nome d’arte con il quale diverrà celebre e dunque girava come John Ravenscroft) si incrociavano. Acceso di sacro fuoco dalla ultraelettrica (con tanto di feedback come nei ’60 oseranno giusto i Velvet) e acidissima interpretazione del blues inscenata dai nostri eroi, Peel li convinceva a trasferirsi dalla California a Londra e tanto brigava che la Fontana si interessava a loro. Veniva registrato un demo con sei brani, due uscivano a 45 giri (il secondo per l’ensemble dopo uno pubblicato in patria) e i Misundestood – presenza scenica micidiale – divenivano dei beniamini del pubblico del Marquee. Attimo fuggente dopo il quale tutto andrà a ramengo. Restano due album postumi (il secondo è “Golden Glass”, uno Stood Still dell’84) a documentarne la grandezza ammannendo martellamenti selvaggi (Children Of The Sun, la feroce My Mind, una I’m Not Talking degna di Beefheart), spastiche dilatazioni (Who Do You Love) e ogni tanto un incantesimo alato (I Can’t Take You To The Sun) o uno scherzo (il gioioso beat Like I Do).

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.15, autunno 2004.

High Tide Sea Shanties (Liberty, 1969)

Immancabilmente citati fra i padri fondatori dell’hard come fra i massimi esponenti di una psichedelia disposta a farsi laterale rispetto al suo stesso essere – costituzionalmente – eccentrica, i britannici High Tide del cantante e chitarrista Tony Hill e del violinista Simon House altrettanto sacrosantamente finiscono per figurare in ogni trattazione che si rispetti del progressive. Questione oltre che di suono – compatto eppure articolato, in qualche inspiegabile maniera gradevole una volta violatane l’apparente impenetrabilità – di attitudine, di disponibilità a osare quanto all’epoca era inaudito e che di rado sarà replicato con efficacia e intensità paragonabili. “Sea Shanties” e il successivo di un anno “High Tide” restano fra gli esempi più memorabili di sempre di gotico in musica.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Jimi Hendrix – Il negro bianco

Un giorno lo faranno un film ─ cioè: uno serio ─ su Jimi Hendrix e, dovendone decidere l’incipit, lo sceneggiatore avrà l’imbarazzo della scelta. Potrebbe optare per il sensazionalismo e partire dalle undici e ventisette di quella tragica mattina del 18 settembre 1970. Chiamata nove minuti prima, un’ambulanza si ferma davanti al londinese Cumberland Hotel. Orribile lo spettacolo che si presenta ai barellieri e ai due poliziotti sopraggiunti un attimo dopo: riverso sul letto di una stanza la cui porta trovano spalancata giace il corpo di un giovane nero, o che c’è da supporre nero visto il colorito cinereo. Il volto è coperto di vomito, ma la maggior parte di quanto ha rigurgitato l’ha respirata ed è questo che gli è stato fatale. Ecco, dovesse iniziare così ─ siamo d’accordo? ─ come un sol uomo ci alzeremmo e ce ne andremmo via. Vorrebbe dire che il regista è Oliver Stone e abbiamo già dato. Ci sono tanti altri momenti da cui partire per raccontare la vicenda di chi prese possesso di un rock non ancora maggiorenne e lo rivoltò, come nessuno aveva nemmeno fantasticato si potesse fare. Uno talmente rivoluzionario da non avere avuto, in quarant’anni, eredi veri. Uno che tuttora fa categoria a sé.

Si potrebbe ad esempio coglierlo nell’attimo in cui, sul palco di Monterey la sera del 18 giugno 1967, incendia il suo strumento dopo avere incendiato il cuore di un paese dal quale nove mesi prima se n’era dovuto andare, per cercare fortuna altrove, per non essere più un cittadino di serie B. Un posto dove era troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri. Oppure si potrebbe indugiare sui suoi occhi che scrutano la spianata ingombra di rifiuti di Woodstock alle nove di mattina del 18 agosto 1969, venticinquemila gli spettatori superstiti degli oltre quattrocentomila che erano arrivati a bivaccarvi nei tre giorni precedenti. Si godranno, quegli sballati già reduci, i venti minuti più epifanici ─ in particolare i 3’43” di una Star Spangled Banner incastonata fra la Voodoo Child e la Purple Haze più incandescenti di sempre ─ della storia della musica tutta del Novecento. O ancora si potrebbe scegliere qualche istante di prima della gloria e immortalare Icaro mentre attacca piume iridescenti su ali che si riveleranno di cera. Mentre compra la sua prima chitarra elettrica. Mentre, militare della 101a Divisione Aviotrasportata, si lancia dal portellone di un aereo e nel volo coglie immagini di ciò che sarà. O si rivede mentre piange, con il dolore e la frustrazione che si possono provare soltanto a quindici anni, perché stanno seppellendo sua madre e lui non c’è.

Però a ben pensarci c’è un solo modo giusto per cominciare un racconto con protagonista James Marshall Hendrix. Bisogna seguirlo in quelle ventiquattro ore pazzesche in cui, perfetto sconosciuto appena sceso dal Boeing Pan Am della tratta John F. Kennedy-Heathrow, trovò in un colpo le entrature per i più elitari circoli musicali londinesi e l’unico amore genuino della sua vita adulta. Se consultate un’enciclopedia, ci troverete scritto che Jimi Hendrix nacque il 27 novembre 1942. Balle. La vera data è un’altra: 24 settembre 1966. Quel giorno il mondo si capovolse.

L’Hendrix che arriva a Londra sottobraccio a Chas Chandler, fino a un attimo prima bassista degli Animals riciclatosi manager con l’ambizione di essere subito rampante, è un Signor Nessuno con come bagaglio una Stratocaster e una borsa con dentro un cambio di vestiti, un barattolo di crema per l’acne e… a ventitré anni si può essere un po’ vanitosi, no?… il set di bigodini rosa che usa per arricciare la folta capigliatura. In tasca ha quaranta dollari e la dice lunga su che vita abbia menato fino a quel punto che sia stato un amico, il batterista Charley Otis, a prestarglieli. Lui non li aveva e dire che è musicista di professione sin dal ’63. E con che razza di curriculum! Ha transitato brevemente nei gruppi di Carla Thomas, Tommy Tucker, Slim Harpo, Jerry Butler, Marion James, Chuck Jackson, Solomon Burke, Otis Redding, Curtis Mayfield, Bobby Womack. È stato per periodi più lunghi con gli Isley Brothers, Little Richard e i popolarissimi Joey Dee & The Starliters. Ha lavorato da turnista, mettendo fra il resto un decisivo zampino nella canzone, Mercy, Mercy, che ha regalato a Don Covay le classifiche e un posticino negli annali del soul. E nondimeno non solo non è riuscito ad accantonare un soldo bucato ma fa ancora una fatica tremenda, con quello che guadagna, a fare due pasti al giorno e pagare l’affitto di una topaia in cui dormire. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato alla follia di tentare una rapina e gli è andata bene che è riuscito a scappare, visto che se l’avessero preso automaticamente si sarebbe ritrovato sul groppone pure quell’antica condanna a due anni per furto d’auto evitata arruolandosi nell’esercito. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato all’indegnità di ─ ecco, qualcosa che gli va bene c’è: a dispetto di statura bassa, corporatura esile e brufoli, per il gentil sesso è già un magnete ─ farsi mantenere da delle giovani prostitute. Forse ha anche vagheggiato di fare il magnaccia, ma appena per un attimo: è suonando che vuole diventare ricco e vendicare un’infanzia e un’adolescenza trascorse fra stenti e abbandoni. E poiché non sono i soldi facili che gli interessano, bensì conquistare con la sua arte la fama, non ci ha pensato un istante a rifiutare chi lo tentava con le lusinghe dello spaccio. È un sognatore che già troppe volte ha sbattuto la faccia contro la realtà e non si fa illusioni. Ha chiesto sia al batterista dei suoi Blue Flames, Danny Taylor, che a Billy Cox, un bassista conosciuto sotto le armi, di accompagnarlo nel viaggio inglese e ai loro cortesi rifiuti ha replicato allegramente con un “be’, andrò a fare la fame laggiù, allora”. Ha posto a Chandler come conditio sine qua non per intraprendere un’avventura che gli pare una mattana che gli presenti uno dei suoi idoli, Eric Clapton. Chandler ha promesso e manterrà in fretta: quegli otto giorni dopo essere sbarcato in Inghilterra, Jimi dividerà un palco con i Cream e spaccherà il bianchissimo culetto al povero Eric. Un uomo che i suoi fans chiamavano Dio veniva fatto riprecipitare sulla terra da un essere che dovette sembrargli un marziano.

Prosegue per altre 48.203 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007. Fosse ancora fra noi, Jimi Hendrix compirebbe oggi ottant’anni.

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Quando l’astronave Hawkwind entrò in orbita (per Nik Turner, 26/8/1940-10/11/2022)

“Saremmo potuti diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Dave Brock concedendosi a “Mojo” in occasione dei festeggiamenti per il trentennale di una band la cui complicata epopea il cantante, chitarrista e tastierista è stato l’unico a traversare per intero. Quindici ulteriori anni dopo l’astronave Hawkwind è ancora in volo, gli avvicendamenti nell’equipaggio continuano, ma in plancia di comando continua a sedere il capitano di sempre. Difficile credere che abbia mai davvero rimpianto ciò che sarebbe potuto essere (dopo che il singolo Silver Machine andò nel luglio ’72 al numero 3 delle classifiche britanniche) e invece non fu (dopo che nell’estate successiva toccò ritirare dai negozi Urban Guerilla per la sfortunata concomitanza fra il suo affacciarsi nei Top 40, appena uscito, e un’ondata di attentati dell’IRA). Non sono mai diventati come i Pink Floyd, gli Hawkwind, ma rappresenta ben più che un premio di consolazione l’essersi guadagnati un posto di assoluto rilievo nella storia del rock con la sequela pressoché perfetta dei primi otto LP: insieme, un ponte fra l’era della psichedelia e quella del punk e il luogo in cui quel mutaforma chiamato space rock assumeva la sua estetica più classica, iniettando dosi massicce di acido lisergico, anfetamine e immaginario SF nel giovane corpo dell’hard.

Nell’omonimo esordio a 33 giri dell’agosto ’70 tutto ciò è a malapena accennato. È nel successivo (ottobre 1971) “In Search Of Space” che il tipico suono Hawkwind sboccia, all’improvviso – nel paradigmatico assalto di You Shouldn’t Do That – e subito definito sin nei dettagli: basso singolarmente melodico e batteria dritta a propellere le esplorazioni di uno spazio profondo non solo interiore inscenate dalla chitarra di Brock e dai marchingegni elettronici manipolati da Dikmik Davies e Del Dettmar. Mentre il sax di Nik Turner ruggisce, creando ulteriori straniamenti. Se in You Know You’re Only Dreaming i Pink Floyd si metamorfizzano nei Black Sabbath, Master Of The Universe disvela quella disposizione geniale all’innodia che in Silver Machine troverà una sublimazione somma. Prima di una seconda metà di programma in cui gli psichedelici prendono il sopravvento sugli eccitanti e davanti alle porte del cosmo si disegnano trame elettroacustiche. “Doremi Fasol Latido” (novembre 1972) perfezionerà la formula, ma è qui che prende a delinearsi un canone straordinariamente influente.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.196, settembre 2014.

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Kula Shaker – 1st Congregational Church Of Eternal Love (And Free Hugs) (Strange F.O.L.K.)

Nell’era aurea dei Kula Shaker, che vide il quintetto londinese conquistare la vetta dalla classifica degli album più venduti in Gran Bretagna con l’esordio del ’96 “K” e quasi replicare nel ’99 con “Peasants, Pigs And Astronauts” (piazzando fra l’uno e l’altro sei singoli nella Top 10) non ero un fan del gruppo del chitarrista Crispian Mills. La sua psichedelia orientaleggiante con tocchi di Britpop ad ammodernarla appena avrebbe avuto tutto per piacermi e invece non mi piaceva per niente: la trovavo oleografica, caricaturale. Mai avuto una passione nemmeno per i concept, per quanto alcuni abbiano fatto la storia del rock. Non avrei comunque fatto salti di gioia vedendomi assegnare una recensione dei Kula Shaker, men che meno allora apprendendo che il quarto lavoro licenziato dalla band in una seconda vita iniziata nel 2004 è per l’appunto un concept. E allorché scorrendone i crediti ho notato che Mills, che sarebbe stato in ogni caso quello talentuoso, è co-autore di una sola delle venti tracce, la leadership ora nelle mani del bassista e cantante Alonza Bevan, mi sono preparato al peggio. Figurarsi quando all’ascolto sono sbucati vari interludi spoken, che detesto!

E però… Già quel primo passaggio mi ha spiazzato favorevolmente, non come assieme ma in forza di alcune canzoni ben più che di onesto mestiere: l’hard zeppeliniano Whatever It Is, il country-blues Love In Separation, il pastiche dylaniano Where Have All The Brave Knights Gone?, una pinkfloydiana The Once And Future King, il raga After The Fall Pt.2 & 3. Quando al terzo o quarto giro sono scoppiato a ridere durante una parte parlata mi sono arreso all’evidenza: i Kula Shaker hanno pubblicato un gran bel disco. Il loro migliore. Nel 2022.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Spiritualized – Everything Was Beautiful (Bella Union)

Se hai fatto la storia del rock sei un grande con un grande problema: ogni tuo album verrà contestualizzato in un canone con apici ineguagliabili, per ogni brano che scrivi si assumerà a paragone il catalogo cui si aggiunge. Puoi fartene sopraffare ed era quanto accadeva a Jason Pierce ─ con Sonic Boom in quegli Spacemen 3 che nei secondi ’80 si inventavano un’inaudita psichedelia post-punk; e poi artefice nel ’97 con gli Spiritualized di “Ladies And Gentlemen… We Are Floating In Space” di una sorta di nuovo, fragoroso “Pet Sounds” ─ all’altezza del precedente “And Nothing Hurt”. Ottimo disco dalla cui lavorazione usciva però a tal punto stremato da dichiarare che sarebbe stato il suo ultimo.  Sempre a sentir lui (lo conferma che mentre quello lo si era atteso sei anni per il seguito ne sono bastati quattro) a “Everything Was Beautiful” si è approcciato con meno fisime da perfezionista e si parla di uno la cui ossessione per il dettaglio è leggendaria. Si vede che l’età (o saranno stati certi inciampi della vita) gli ha portato saggezza.

Il nono album in trent’anni degli Spiritualized non è certo il primo da procurarsi ma è quello cui riesce il miracolo di sintetizzare in sette pezzi e quarantaquattro minuti netti un sound cui concorrono il doo wop (chiara influenza nella traccia iniziale e migliore, Always Together With You, in transito dall’estatico al solenne, all’euforico) come i Suicide e molto di quanto sta in mezzo. Benvenuti, nel caso, in un universo in cui ha un senso che una canzone chiamata Let It Bleed (For Iggy) sia in debito più che con gli Stooges con la Motown, laddove ad aleggiare sulla conclusiva I’m Coming Home Again è lo spirito di Dr. John, che della compagnia fu parte pure in carne e ossa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Da “Gris-Gris” a “Gumbo” – Una breve indagine su Dr. John, The Night Tripper

Stroncato da un infarto Dr. John, al secolo Malcolm John Rebennack Jr, ci lasciava il 6 giugno 2019. Anziano ma non troppo, settantasettenne, e in ogni caso e per quanto fosse “pulito” da trent’anni un miracolo sia arrivato alla terza età uno che si trascinò un serio problema di dipendenza dall’eroina per quasi altrettanto tempo e dunque dacché era appena un ragazzo. Problema che in gioventù gli costò un paio di anni nelle patrie galere, quando già nella “sua” New Orleans era uno dei nomi di spicco della scena cittadina. Però: è morto da vivo, che visto che tutti dobbiamo andarcene è il miglior modo per farlo. Fulgida seconda giovinezza, il suo XXI secolo è stato scandito da una marea di dischi e fra essi alcuni dei migliori di una vicenda principiata nel 1959 con la hit locale Storm Warning: si segnalano nel folto novero splendide raccolte tributo a Duke Ellington, Johnny Mercer e Louis Armstrong e poi “N’Awlinz: Dis Dat Or D’Udda”, diviso fra standard e composizioni autografe, e soprattutto “Locked Down”. AD 2012. L’ultimo capolavoro, strepitoso nel riassumere un suono e una carriera, perfetta chiusura di cerchio rispetto agli album di cui state per leggere. Dopo di che ci sarà tempo per un Ultimo Valzer, “The Musical Mojo of Dr. John: Celebrating Mac and His Music” (registrato nel 2014, pubblicato nel 2016), per chi all’Ultimo Valzer originale, quello di The Band, aveva partecipato con una memorabile Such A Night.

All’esordio a 33 giri “Gris-Gris” Dr.John (The Night Tripper, aggiunge l’oscura e un po’ inquietante copertina) approda dopo lunga e tumultuosa gavetta dalla quale si potrebbe trarre un film se non una serie TV. Appassionatosi inevitabilmente alla musica, essendo il padre un patito di jazz proprietario di un emporio in cui vende anche dischi e avendo fratelli, cugini, zii e zie che si dilettano a suonare, ha scelto come strumento la chitarra ma ha dovuto ripiegare prima sul basso e poi sul pianoforte dopo che in una rissa scoppiata in un club in cui stava esibendosi qualcuno ha estratto una pistola, ferendolo all’anulare della sinistra. È il 1960 e il giovanotto oltre al piccolo successo summenzionato ha già in cv un altro brano (Lights Out) che ha scalato le classifiche regionali sebbene nell’interpretazione del rocker Jerry Byrne, la militanza in diverse band, un impiego da produttore alla Ace ottenuto quando ancora frequentava un liceo gestito da gesuiti che, venuti a sapere che un allievo frequentava locali malfamati e, non bastasse, una cerchia di amicizie in massima parte di colore, procedevano tosto a espellerlo. Ignorando, gli ingenui, che già integrava i guadagni da musicista gestendo, nella più gloriosa tradizione dei bassifondi di Crescent City, un bordello e trafficando in sostanze stupefacenti. Ne era viceversa a conoscenza la polizia, scattavano le manette e al rilascio dal carcere nel 1965 il giovanotto scopriva che del sottobosco di bar che gli aveva in precedenza dato in vari modi da vivere il comune aveva nel frattempo fatto piazza pulita. Si trasferiva a Los Angeles e in breve diveniva uno dei turnisti più ricercati (dei suoi servigi usufruivano da Sonny & Cher a Frank Zappa passando per i Canned Heat) nella Mecca dell’industria discografica USA. Nell’ordine delle cose che qualcuno gli offrisse un contratto da solista ed era la ATCO, per cui vedranno la luce tutti gli album qui affrontati. “Gris-Gris”, allora. Originalissimo ─ inaudito, addirittura ─ persino in un anno, il 1968, che in opere originalissime e inaudite non lesinò. Ovvero: il rhythm’n’blues di New Orleans approcciato con uno spirito che trascende la psichedelia facendosi rito vudù. Sciamanico e licantropo, dal bluesaccio, Gris-Gris Gumbo Ya Ya, che lo inaugura beefheartiano e con un uso dell’eco che strabiliantemente anticipa tecniche che saranno del dub, a una I Walk On Guilded Splinters in cui già abita Tom Waits e non il cantore confidenziale di notti in night e hotel di infimo ordine della prima, romantica parte di carriera bensì quello che con “Swordfishtrombones” ─ mancano quindici anni! ─ svolterà astratto, spigoloso, mercuriale. Debutto pazzesco, che indifferentemente mette in fila una Danse Kalinda Ba Doom profumata di Africa e Mediterraneo e una Mama Roux da Little Feat (che ancora non esistono) sversi, che al weird folk di Croker Courtbullion fa andar dietro il festoso errebì Jump Sturdy. Il successivo di un anno “Babylon” lascerebbe altrettanto a bocca aperta, sin dal talking-free jazz della traccia iniziale e omonima, se solo non dovesse fare i conti con cotanto predecessore. Ma nella sua follia c’è molto metodo e ne è parte il percorrere sentieri nuovi, si tratti di un’ipotesi di Sly & The Family Experience chiamata Black Widow Spider o di una zappiana non soltanto nel titolo The Lonesome Guitar Strangler, che procede a strappi fra Nord Africa e India prima di citare inopinatamente i Cream e precipitare Henry Mancini in un trip lisergico. In mezzo, tanto soul, del gospel pagano e un country-funk, The Patriotic Flag Waver, con coro di voci bianche e alla fine insertino di America The Beautiful. Da non crederci e ci sta che nel 1970 “Remedies” segni un po’ il passo e tuttavia i minacciosi 17’35” del suggello Angola Anthem bastano a giustificarne l’acquisto. Si torna in quota già prima che l’anno finisca con “The Sun, Moon & Herbs”, magico ma stavolta è per lo più magia bianca, benevola, fra parate da marching band e pigri rhythm’n’blues, almeno fino al caotico finale di Pots On Flyo… e a una Zu Zu Mamou che è ellingtoniana prima di farsi letargica e orrorosa. Il terreno è pronto per “Gumbo”, del 1972 e per la giurisprudenza “il” disco di Dr. John da avere. Qui si concorda, ma a patto che a questa collezione spumeggiante e solare di classici di Crescent City, omaggio del Nostro, che firma giusto un pezzo su dodici, al magistero blues e proto-rock’n’roll di Professor Longhair, si aggiunga “Gris-Gris”.

Fuori catalogo da tempo immemore “Remedies”, il vinilomane di “Gris-Gris” e “The Sun, Moon & Herbs” ha a disposizione stampe Speakers Corner del 2018 e 2020. Di “Babylon” è fresca una riedizione su Music On Vinyl, stesso marchio che si appresta a riportare nei negozi “Gumbo” in una tiratura color turchese limitata a 1.500 copie.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.420, maggio/giugno 2020. Dr. John ci lasciava tre anni fa.

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