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Il poeta nero numero uno James Brown

Lo hanno (si è) chiamato in tanti modi: il signor Dinamite, il più grande lavoratore del mondo dello spettacolo, il Fratello soul numero uno e infine il Padrino del soul. Ma la più suggestiva definizione di lui la diede Le Roi Jones mentre l’America bruciava e il nostro uomo alternativamente attizzava e spegneva incendi: più che il fratello soul, “il poeta nero numero uno”. Detto da uno che di poesia e di poeti se ne intende. Non si riferiva ovviamente alla qualità dei testi, che di norma sono stati minimali come gli spartiti che corredavano, ma al modo in cui quelle parole, unendosi a quelle musiche, divenivano qualcosa di infinitamente più grande, assumendo come è tipico del blues significati fra le righe più interessanti di ciò che esplicitamente dicono e andando a definire come a nessun altro è riuscito l’identità dell’Afroamericano del Novecento. Senza nemmeno volere. In azioni, parole, musica, James Brown è stato uno dei principali rivoluzionari del XX secolo ma non l’ha fatto apposta. L’individuo è in realtà quello che oggi diremmo un conservatore compassionevole, un povero cresciuto aspirando alla borghesia, non al sovvertimento del Sistema, ed è stata fino a un certo punto la sua stessa vita a dimostrare che quel sistema era aggredibile, migliorabile dall’interno. A patto di lavorare sodo. Se parliamo di politica e sociologia, così è se vi pare. Se invece parliamo di musica, e naturalmente parleremo più che altro di musica, James Brown è uno di quei pochi nomi, in qualunque ambito, di cui è impossibile sopravvalutare l’importanza, uno di quelli che senza di lui la storia sarebbe stata completamente diversa. Come ha giustamente annotato l’autore di The Death Of Rhythm & Blues, Nelson George, è stato un catalizzatore per tutte le generazioni successive di musicisti neri (non solo per i neri, dico io), ciascuno dei quali non è che un ramo dell’albero di cui lui costituisce le radici. In piccolo, piccolissimo per carità, James Brown è una delle ragioni per le quali accettai di occuparmi continuativamente di soul su queste pagine. Che diamine: è una delle ragioni per le quali continuo ad ascoltare musica, a scriverne, a essere quello che sono. Perché gli eroi hanno bisogno di gente che (sebbene indegnamente) ne canti le gesta e tutti noi (nel negarlo il punk sbagliava) abbiamo bisogno di eroi. James Brown per me lo è. Anche se le tristi vicende dei ’90 ne hanno crudelmente evidenziato tutta l’umana debolezza. Anche se non fu esattamente passione a primo incontro.

Mi piacque naturalmente alla follia in The Blues Brothers. Era Cleophus James il predicatore, annunciava “The day of the legends is in”, cantava il gospel The Old Landmark e lo schermo andava a fuoco. Bella partenza ma falsa. Disprezzavo, complessivamente, la disco, di cui costui veniva indicato come il massimo antesignano. Non capivo la no wave, che si diceva ─ e gli album dei Contortions, che rivaluterò soltanto a tre abbondanti lustri dagli eventi, lo confermavano ─ da lui influenzata. In ogni caso, i primi ’80 non erano un buon momento per fare la conoscenza del Padrino del soul, scadenti i suoi dischi di allora, per la più parte irreperibili i classici. Nel 1984 sottovalutai il duetto con Afrika Bambaataa Unity. L’anno dopo osservai Living In America scalare le classifiche, unico vero successo del decennio, discretamente schifato e per la mediocrità della canzone (non ho cambiato idea) e per il contesto cinematografico, la colonna sonora di Rocky IV, da cui proveniva. Però nel frattempo stava esplodendo l’hip hop. Pian piano me ne innamorai. James Brown era ovunque. Nel 1991 vedeva la luce “Star Time”, cofanetto quadruplo riccamente commentato, settantuno brani, cinque ore di musica e non un decimo di secondo da buttare. Per qualcuno è il più grande album di tutti i tempi. Per me è la raccolta ideale non solo per approcciarsi all’oggetto di questo esercizio devozionale ma per capire cosa vogliano dire soul, rhythm’n’blues, funk. Fu una folgorazione indimenticabile ed è l’antologia di black music definitiva.

James Brown nasce a Barnwell, South Carolina, il 3 maggio 1933 da una famiglia più che povera miserabile e per di più, per dirla elegantemente, disfunzionale. “Non avevo una vera madre e solo ogni tanto un genitore”, ricorderà. Ha quattro anni quando i suoi si separano e va ad abitare con il padre ad Augusta, Georgia, presto abbandonato pure da lui, che preferisce arruolarsi nell’esercito piuttosto che crescerlo, e tirato su da una sequela di parenti distratti fra cui una zia tenutaria di un bordello. Studia irregolarmente e con scarso profitto, lascia quindicenne e si sbatte per guadagnare qualche dollaro lustrando scarpe e spazzando pavimenti, raccogliendo cotone, lavando macchine e, premonizione di quanto lo attende, facendo il guitto per strada, cantando, ballando. Partecipa anche a competizioni per dilettanti e non di rado le vince. Da manuale che arrivino i guai con la legge. Nel 1949 viene sorpreso su un auto altrui e il giudice ha con lui la mano pesantissima, infliggendogli da un minimo di otto a un massimo di sedici anni ─ gli stessi che ha il reo! ─ di lavori forzati. Dispone inoltre, nemmeno si trovasse dinnanzi un mafioso, che i primi mesi vengano scontati in un istituto di massima sicurezza. Il ragazzo resterà dentro in realtà tre anni, per la più parte trascorsi nel non troppo rigido riformatorio di Toccoa, e come era accaduto decenni prima per Louis Armstrong sarà un’esperienza altamente formativa, una fortuna persino. Conosce là Bobby Byrd ed è la famiglia di costui a farsi garante per la libertà vigilata e a trovargli un lavoro in una fabbrica di automobili, la Lawson. Il giovanotto è diviso fra la passione per la musica e quella per lo sport. Sale per tre volte sul ring da peso gallo ma poi appende i guantoni al chiodo. Se la cava meglio con il baseball, dove avrebbe qualche possibilità di far carriera non ci si mettesse di mezzo un infortunio. Dio esiste.

Entra nei Gospel Starlighters dell’amico Bobby, quartetto localmente alquanto apprezzato che come tanti altri in quegli anni decide di passare dalla musica sacra a quella secolare e comincia a declinare doo wop e prodromi di errebì e rock’n’roll. Si ribattezzano prima Avons, quindi Flames, ed eleggono a loro principali idoli i Five Royales, Little Willie John (martire per il quale prima o poi spenderò superlativi, urla, furore e lacrime e di cui James Brown tesserà nel 1968 funebre elogio con il 33, uno dei suoi migliori e il più atipico, “Thinking About Little Willie John And A Few Nice Things”) e Hank Ballard e i suoi Midnighters. Hanno osservato questi ultimi fare impazzire una platea di ragazze ed esiste stimolo migliore per agognare la gloria? Al confine fra dilettantismo e professionismo hanno comunque già un manager, tal Barry Tremier, e registrano alcune facciate di cui si sono perse le tracce e che ne direbbe Indiana Jones di mettersi alla ricerca di quelle piuttosto che di cazzate come il Santo Graal? Una bella sera, siamo alla fine del 1954 o forse nei primi giorni del ’55, al Bill’s Rendezvous Club di Toccoa arriva Little Richard, non ancora personaggio di statura nazionale ma già un fenomeno nel Sud. Non annunciati né invitati, i Flames prendono possesso del palco nell’intervallo fra il primo e il secondo spettacolo e suscitano ovazioni fragorose ed eccitazione spasmodica. Little Richard si affaccia per scoprire la ragione di tutto quel casino. Il suo accompagnatore Fats Gonder pure. Si annota il nome del complesso e lo segnala al manager Clint Brantley. Quando questi perde Little Richard, decide di rifarsi occupandosi dei Flames. Li fa traslocare a Macon e in uno scantinato fa loro incidere il brano che dal vivo riscuote i maggiori consensi. Ballata pianistica prossima a un classicismo doo wop, Please Please Please è la rielaborazione non particolarmente ardita di un successo degli Orioles di tre anni prima, Baby Please Don’t Go. Gradevole eccome e però un’ombra, nulla più, di concerti in cui Brown è già mattatore: urla, grugnisce, salta, balla come un ossesso giocando con l’asta del microfono, buttandosi ginocchioni, sdraiandosi, strisciando, perché se lo fa Little Richard lui deve rifarlo moltiplicato. Pur così addomesticati i Flames sono graditi alle radio, che prendono a trasmettere il via via più scrocchiante acetato. Piace un sacco a Ralph Bass, che lo ascolta in un negozio di Atlanta, lavora per la King e ha seguito in studio gente come T-Bone Walker, Little Esther Phillips, Hank Ballard. Piace altrettanto a Don Robey della Duke Records di Houston e a Leonard Chess, che vorrebbe non limitare al solo blues di Chicago il catalogo dell’etichetta che da lui ha preso il nome. Un’offerta di Robey viene rigettata. Bass e Chess inscenano una gara non per modo di dire per approfittarne.

Prosegue per altre 20.971 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.52, settembre 2002. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.

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The Ballad Of Delaney & Bonnie

Delaney Bramlett e Bonnie Lynn O’Farrell, bianchi neri dentro, si conoscono a fine 1967 a Los Angeles. Lui, ventottenne, è passato dai Champs prima di approdare agli Shindogs. Lei, ventitreenne, è stata la prima Ikette non di colore. Tempo una settimana e hanno messo su famiglia e una band coi fiocchi che comprende Bobby Whitlock alle tastiere e l’eccezionale sezione ritmica formata da Carl Radle al basso e Jim Gordon alla batteria. Li mette sotto contratto la Stax. Inciso con la crema dei turnisti di Memphis, “Home” esce nel maggio 1969 ed è sapidissimo pasticcio di soul e rock, blues e gospel, errebì e funky cucinato alla maniera sudista. Sfortunatamente vende quasi nulla. Tutto finito? Macché. Li ingaggia la Elektra e nel giro di due mesi l’al pari esuberante “The Original” è nei negozi. George Harrison ascolta un test pressing, si entusiasma e li arruola nei ranghi della Apple. Peccato che l’accordo venga invalidato dal fatto che Delaney & Bonnie sono ancora a libro paga dell’etichetta di Jac Holzman, contratto sciolto quando Delaney minaccia di morte Holzman. Dall’avere due case discografiche la coppia passa ad averne nessuna. Tutto finito? Macché. Si fa avanti la Atlantic, firmano per la succursale ATCO ed entro fine anno si ritrovano in tour di spalla ai Blind Faith, supergruppo appena nato e già sull’orlo del dissolvimento. Ben più che con la sua band Eric Clapton si diverte a suonare con i Nostri, che schierano una formazione ampliata a dismisura da una sontuosa sezione fiati, da Rita Coolidge ai cori, da un altro mostro sacro quale Dave Mason dei Traffic alla terza (!) chitarra.

Con in scaletta (ad aprirla) un solo brano dai due lavori in studio, l’esplosivo rhythm’n’blues Things Get Better, “On Tour” viene registrato nella tappa inglese del 7 dicembre. Quando vedrà la luce nel marzo 1970 risulterà prematuro testamento più che cronaca, visto che Slowhand porterà Whitlock, Radle e Gordon nei Derek & The Dominos, Harrison se ne farà fiancheggiare in “All Things Must Pass”, Leon Russell metterà la sola ritmica al servizio del Joe Cocker di “Mad Dogs And Englishmen”. Dagli amici mi guardi Iddio! Consolazione non da poco tuttavia che, oltre a vendere parecchio al tempo, “On Tour” resti nella considerazione generale uno dei più bei live della storia del rock. E della black no? Valga come paradigma l’incrocio di chitarre hard, ritmica funk, fiati soul e voci da chiesa di Comin’ Home.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021.

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The Story Of Bo Diddley

In almeno metà dei suoi conclamati classici Ellas McDaniel ha infilato nel titolo il suo nome d’arte: Bo Diddley, Diddley Daddy, Hey Bo Diddley, The Story Of Bo Diddley, Bo’s Blues, Bo Diddley Is Loose. Deliri di onnipotenza alla Diego Armando Maradona, che parlava di sé in terza singolare? Niente affatto.

La pratica del “bragging”, la vanteria esagerata, fa parte della cultura afroamericana da quando era solamente afro. Era del blues ed è dell’hip hop. Tutte quelle storie con un protagonista che è l’artista stesso che sa cavarsela in ogni situazione, ha la favella più sciolta, le mani più svelte, le donne più belle perché al suo fascino nessuna sa resistere e lui ce l’ha più grosso di tutti, l’ego. Da Bo Diddley a Snoop Doggy Dog, si avvicendano le generazioni ma resta intatto nel nucleo uno stile che viene da lontano. Ma anche non fosse un frutto di questa tradizione Bo Diddley avrebbe ogni diritto di autoincensarsi: pochi hanno inciso come lui sulla storia della musica popolare del Novecento.

Più giovane di un paio di anni di quel Chuck Berry suo grande amico e rivale premiato dalle classifiche non quanto avrebbe meritato ma parecchio più di lui (incredibile a dirsi: un unico disco nei Top 20 generalisti americani a fronte di una manciata di titoli nella graduatoria R&B), il nostro eroe festeggerà il settantottesimo compleanno il prossimo 30 dicembre. Magari suonando dal vivo, visto che la sua attività concertistica è ancora piuttosto fitta e neppure limitata ai soli Stati Uniti. Sarà ad esempio in Finlandia, attrazione di spicco del “Pori Jazz Festival”, il 19 e 20 luglio e se qualche lettore dovesse capitare da quelle parti ci faccia sapere se è ormai da museo oppure no. Per certo non lo era, già sessantenne, alla rassegna romana del novembre 1988 dei “Giganti del Rock’n’Roll” (con James Brown, Ray Charles, Fats Domino, B.B. King, Jerry Lee Lewis e Little Richard). I convenuti lo ricordano in forma smagliante, unico forse fra i non molti sopravvissuti di quell’epoca a non fare la figura un po’ patetica del reperto archeologico. Un anno dopo usciva, rimediando recensioni mediamente positive oltre che reverenti, “Breaking Through The Bs”. Per la Triple X, nientemeno, un’etichetta devota prevalentemente al punk che griffava anche i successivi “This Should Not Be”, del 1992, e “Promises”, del ’94, anno in cui apriva alcuni spettacoli dei suoi discepoli prediletti, tali Rolling Stones. Quello che a oggi è l’ultimo lavoro in studio, “A Man Amongst Men”, vedeva la luce nel 1996 e (di nuovo: incredibile a dirsi) era la sua seconda uscita major di sempre, a venti tondi anni dalla prima.

Tuttavia: per quanto i suoi dischi dei tardi ’60 e dei tre decenni seguenti siano tutti come minimo dignitosi e il Nostro abbia sempre conservato sul palco una vitalità prodigiosa è però quanto produsse dall’incredibile esordio del 1955 ─ Bo Diddley su un lato, I’m A Man sull’altro ─ al giro di boa del decennio seguente che ha fatto incommensurabile l’influenza di Ellas McDaniel sull’evoluzione del rock. Fu il primo bluesman che piuttosto che elettrificare la musica del diavolo, aggiungendole dunque una sovrastruttura, fece dell’elettricità un suo elemento portante. Fu fra i primi e fra i rari musicisti in tale ambito a registrare in stereo e a sperimentare con le nuove tecniche di registrazione (altro che primitivo!). Fu uno dei numi titolari dei teppisti del blues britannici.

Prosegue per altre 4.830 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.623, giugno 2006. Bo Diddley nasceva novantaquattro anni fa. Ci lasciava, settantanovenne, il 2 giugno del 2008.

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Terry Callier – Di che colore è la musica?

Terry Callier è stato un perdente precoce. Sentite un po’. Quando nel 1964 entra in studio con un produttore di grido quale Samuel Charters per registrare un 33 giri per la Prestige, benché abbia appena ventun anni è già uno dei nomi più in vista di quella New York folk che è cresciuta intorno a Bob Dylan. Vi è arrivato un paio di anni prima dalla natia Chicago e nel suo primo concerto è stato spalla, proprio con Bob Dylan, di Ramblin’ Jack Elliot. I suoi amici si chiamano David Crosby, Dino Valenti, Fred Neil. Ha qualche affinità con quest’ultimo ma nel complesso il suo stile è invero peculiare: basti dire che sfoggia accenti che riscopriremo in Nick Drake e si fa accompagnare in sala, in scoperto omaggio all’Ornette Coleman di “Free Jazz”, da due contrabbassisti. È nero, ma si muove in un ambiente di bianchi quale il Village. Non c’entra né con la Stax né con la Motown e il suo blues, acustico e dolente, è antitetico a quello canonizzato proprio a Chicago da Muddy Waters ed elettrica compagnia.

“The New Folk Sound Of Terry Callier” rinnova il folk come promette il titolo e non esce (poi vi spiego) per un’etichetta jazz. È un UFO, una Luna Rosa con la melanina impazzita, a farla breve e chiara un disco da isola deserta. Personalissimo e addirittura rivoluzionario senza che il Nostro, che mette in fila quattro tradizionali sulla prima facciata e quattro cover sulla seconda, firmi nemmeno un pezzo. È l’interpretazione a fare inaudite queste otto canzoni, trepidi arabeschi di chitarre che sciacquano il flamenco nel Mississippi (It’s About Time) o fanno folk-jazz Bo Diddley (Promenade In Green), mentre la voce sa tanto più di campagne inglesi quanto più scende a Sud (Cotton Eyed Joe). Insopportabilmente/sublimemente triste in quel carpe diem più memento mori chiamato Johnny Be Gay If You Can Be, angelica (un angelo stanco di volare) in 900 Miles, ispida in I’m A Drifter, otto spastici minuti che stanno a Pete Seeger come la New Thing ayleriana al cool.

Uscisse, “The New Folk Sound Of Terry Callier”, farebbe probabilmente scalpore e gli “oh” e gli “ah” di meraviglia non si conterebbero. Accade invece l’inconcepibile: Charters sparisce in Messico portando con sé il master. Quando l’album vede la luce è già il 1968, il boom del folk è un lontano ricordo e nessuno se ne accorge. A momenti neppure lo stesso Terry Callier, che nel frattempo è tornato a Chicago e viene informato dal fratello, che ha visto la copertina in vetrina in un negozio. Non si scoraggia però. Entro l’anno pubblica un 45 giri su Chess, Look At Me Now, che vende pochissimo e oggi passa di mano a oltre 200.000 lire e nel settembre del 1969 rientra in studio di registrazione, con l’intenzione di realizzare un demo da mandare in giro per case discografiche. Alla regia ci sono Jeffrey Chouinard e George Edwards, chitarrista degli psichedelici H.P. Lovecraft, e le sedute fruttano sei canzoni magnifiche, questa volta tutte firmate da Callier.

Prosegue per altre 4.567 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999. Terry Callier ci lasciava il 27 ottobre 2012, sessantasettenne.

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It was 60 years ago today – James Brown “Live At The Apollo”

Doveste mai avere problemi di udito, non disperate per il futuro. Potrete sempre fare i discografici e difficilmente potrà andarvi meglio e insieme peggio che a Syd Nathan, boss fra metà ’50 e metà ’60 della King: uno dei più formidabili e fortunati cretini della storia dell’umanità. “La peggiore cagata che abbia mai ascoltato”, sentenziava nel 1956 riguardo a Please, Please, Please, 45 giri d’esordio dei Flames di James Brown da lui pubblicato solo per dimostrare a chi li aveva scritturati che di musica non capiva niente. Squisito ossimoro (una ballata dal passo sostenuto), il brano volava subito nei Top 10 della classifica R&B. Sei anni e innumerevoli successi dopo – una collana di classici bastante a definire i canoni di soul ed errebì, nessuno dei quali lo aveva convinto – il pervicace imbecille negava a Mr. Dynamite i soldi per registrare un live che documentasse uno spettacolo al top dell’efficacia e della popolarità. James Brown faceva allora da solo, affittando l’Apollo Theater di Harlem e mettendo su nastro una selezione mozzafiato della settima serata, che doveva poi purtroppo consegnare allo stesso Nathan. Fra i giovani americani sarà il secondo album più venduto del 1963, dopo “Surfin’ USA” dei Beach Boys.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. “Live At The Apollo” veniva immortalato la sera del 24 ottobre 1962.

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Steve Cropper – Bianco per caso

Tutto ciò che sapevo di Wilson Pickett è che era stato con i Falcons e aveva cantato il gospel. Mi procurai i suoi dischi e ascoltandone le parti da solista notai che invariabilmente, qualunque fosse il brano, arrivava un punto in cui parlava di come a mezzanotte avrebbe finalmente incontrato Gesù. Così mi dissi: bene, se è questo che ha in testa, è questo che devo scrivere per lui. Ecco da dove arriva l’idea, anche se non gli confessai mai che ero andato a sentirmi le sue vecchie cose spiritual. Cambiai soltanto le parole, da ‘waiting for Jesus in the midnight hour’ a ‘wait for your love in the midnight hour’, e vedi bene che è praticamente la stessa cosa. All’epoca l’ultima voga in fatto di balli era il jerk, arrivava da New York e come mosse era tipo la danza che fa il pugile sul ring. Noi eravamo in studio a lavorare su In The Midnight Hour, che ritmicamente si stava sviluppando in tutt’altro modo rispetto a come la conosci, ma Jerry Wexler era lì intorno che saltellava e ci diceva no, no, è questo il ritmo che dovete usare. Io e Al ci siamo detti ‘proviamo’ e non è che fosse una cosa inedita per noi. Una battuta è dove deve essere, due sono lievemente sfasate, appena in ritardo. Ci prendemmo bene a guardare Jerry che ballava e a seguirlo e quando riascoltammo il tutto ci piacque così tanto che decidemmo di non toccare più nulla.” (Steve Cropper)

Qualche sera fa, facendo zapping, mi sono imbattuto su Rai Doc in un documentario in due parti di un’ora cadauna intitolato Il treno del soul. O qualcosa del genere, già non ricordo più. Non importa. Quel che conta è che la prima metà era cominciata da forse dieci minuti e allora mi sono fermato lì, progressivamente sempre più furioso con la TV di stato che spende un sacco di soldi (era una sua produzione) per mandare apposta a Memphis una troupe, che fa uno splendido lavoro, e poi trasmette il tutto nottetempo e giusto su un canale vedibile solo da chi ha una parabola o il digitale terrestre. E progressivamente, avrete inteso, sempre più deliziato (perché non ho buttato dentro una cassetta? perché?). Comunque sia: a un certo punto salta fuori Keith Richards e mica faccio attenzione a quello che dice, nemmeno un po’, tanto sono affascinato dal reticolo di rughe che ha sul viso, faccia da indiano ottantenne. Mi ci perdo dentro (buono ’sto fumo, buono…). E poi sbuca Steve Cropper e chi potrebbe crederci che ha due anni e due mesi (meno tre giorni) più di Keef La Biffe? Ne compirà sessantatré il prossimo 21 ottobre e aveva certamente già passato i sessanta quando l’intervista è stata girata. Ma eccolo lì, ben piantato, coda di cavallo grigia e appena un filo di pancia da troppa coca (cola) e pollo fritto, un cinquantenne a guardarlo, nonostante abbia avuto (così rammento, vagamente) qualche problema di salute. Gentile e modesto, il pigro eloquio sudista che carezza le orecchie come le fusa di un felino torturato di coccole. E mi chiedo chi sia stato più importante fra lui e il Signore del Riff. Domanda oziosa? Risposta meno scontata di quanto non si potrebbe pensare sul subito, essendo costui l’uomo che ha messo la firma sotto classici del soul quali Green Onions, What A Fool I’ve Been, Can Your Monkey Do The Dog, Mr. Pitiful, Fa-Fa-Fa-Fa-Fa (Sad Song), Raise Your Hand, (Sittin’ On) The Dock Of The Bay, per non citarne che pochi fra i più famosi. Uno per il quale essere stato un quarto (e metà della metà più importante) di Booker T. & The M.G.’s è stato in fondo incidentale, così come l’avventura Blues Brothers. Il bianco che più ha dato alla soul music?

Prosegue per altre 6.681 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.74/75, luglio/agosto 2004. Steve Cropper compie oggi ottantun anni.

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Il vescovo Solomon Burke

L’uomo è indiscutibilmente un grande. L’uomo è anche grosso: pesava cento chili negli anni ’60 e oggi che è immerso in altri sessanta, i suoi, non meno favolosi pare sia vicino al quintale e mezzo. L’uomo crede fermamente in Dio, ma del Creatore e della Creazione ha sempre avuto una visione lontana da quella punitiva di certo cristianesimo: “Mi persi in quel versetto della Bibbia che dice ‘Crescete e moltiplicatevi’. Non andai avanti a leggere”. E difatti è diventato padre ventuno volte. Tale è la sua fede che è pastore di una congregazione. Fondata dalla nonna e da lui guidata, dacché era a malapena un adolescente, insieme a uno zio di sette anni più anziano, conta frequentatori a decine di migliaia e poco meno di duecento sedi. È la Casa di Dio per Tutta la Gente, dice orgogliosamente quando è serio, salvo poi scoppiare in un’omerica risata e ammettere che ─ in verità, in verità vi dico ─ è la chiesa dell’Ognuno Faccia i Suoi Comodi. Lo zio è defunto nel 1982, evento che ha evitato scismi, siccome non credeva (sto citando il solito Peter Guralnick) “nella guarigione attraverso i miracoli, nella libera interpretazione della Bibbia e nel vestire in modo informale”. Spiega il nostro uomo: “La mia concezione della religione è per tanti versi simile a quella che aveva lui, ma per altri assai diversa. Fondamentalmente, è guidata dalla stessa filosofia ma io ne do un’interpretazione più aperta e spettacolare: Dio, soldi e donne! Verità, amore, pace e sballo”. Se vi sembra la chiesa che avrebbe potuto frequentare John Belushi, siete nel giusto. Pensate ai Blues Brothers. Quali canzoni vi vengono in mente? Una è sicuramente Soul Man, l’altra è Everybody Needs Somebody To Love. Ebbene, fu il nostro uomo a portare per la prima volta in classifica quest’ultima. Era il 1964.

Il nostro uomo è iperattivo e ha sempre saputo curare i propri affari. Non pago dei proventi che gli derivano da diritti d’autore, uscite discografiche e concerti (e qualche spicciolo certo deve venirgli pure dal pulpito), gestisce da quarant’anni una fiorente impresa di pompe funebri (leggenda vuole che abbia ottenuto la licenza per corrispondenza). Che deve fare, del resto? Tiene famiglia e che famiglia. Appena terminato di registrare il brano che fu il suo primo grande successo per la Atlantic (Just Out Of Reach, pionieristico esempio di crossover che in quel 1961 si fece valere nella graduatoria country come in quelle pop e rhythm’n’blues), schizzò fuori dallo studio di New York senza nemmeno riascoltarlo e tornò a Philadelphia a guidare uno spazzaneve, lavoro pagato mica male in tempi di paralizzanti tormente: quattro dollari all’ora. All’apice della fama, arrotondava guadagni invero lauti vendendo spuntini e bevande agli artisti che dividevano con lui massacranti tour collettivi e lunghi viaggi in pullman. Ingaggiato all’Apollo di Harlem, pretese di avere la concessione per lo spaccio di popcorn durante i suoi spettacoli e, non avendola ottenuta, installò un chiosco davanti al teatro. Wilson Pickett riferisce che una volta caricò a tal punto l’automobile che doveva portarli da una data a un’altra di Bibbie, di cui fare commercio dopo il concerto, che tutte e quattro le gomme scoppiarono. Dal suo canto lui ─ formidabile affabulatore che le spara grosse e tutti a credere che siano palle, fin quando non salta fuori fior di testimoni ─ racconta di quella volta che il suo gruppo prese settemilacinquecento dollari per esibirsi a una festa (non glielo dissero prima) del Ku Klux Klan. E di quell’altra che fu James Brown a dargliene diecimila, non per cantare ma per ammirarlo in azione e riconoscere che era lui, il Padrino, il vero re del soul. “Solomon Burke non può cantare questa sera perché è stato detronizzato”, annunciava al pubblico che schiamazzava perché esigeva colui che, fra gli altri soprannomi, è noto come The Bishop, il Vescovo. E il nostro uomo, impassibile, dopo avere rifiutato di posare una corona sul capo dell’invidioso pretendente al trono: “Amico, voglio dirti una cosa. Mi è piaciuto molto vederti cantare, è stato splendido. Se hai un altro lavoretto così da farci fare domani, noi ci stiamo, e per soli ottomila dollari questa volta. Purché sia tutto come stasera”.

Il nostro uomo crede in Dio e Dio evidentemente crede in Lui, se no non gli avrebbe donato una voce così bella e duttile, capace di transitare da un canto tenorile al più profondo dei bassi e viceversa, nella stessa canzone se non nella stessa strofa, voce dalla dizione chiarissima di seta e di terra, di sesso e di spirito.

Prosegue per altre 6.297 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.58, marzo 2003. Il Vescovo ci lasciava il 10 ottobre 2010, settantenne.

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Kendrick Lamar – Mr. Morale & The Big Steppers (Top Dawg)

La faccenda, che poi sarebbe l’ego del titolare di “Mr. Morale & The Big Steppers”, sta forse sfuggendo di mano se sulla copertina del tuo nuovo album, atteso cinque anni, ti fai immortalare con in capo un facsimile di corona di spine, a mo’ di novello Gesù Cristo. Se fai di te stesso ─ siano gli inconvenienti dati dall’essere personaggio pubblico di prima grandezza, siano i rapporti con la tua famiglia ─ l’argomento più che centrale quasi unico di un doppio che consta di diciotto brani che assommano oltre settantatré minuti. E se delle diciotto tracce in questione la più memorabile è, ma in negativo, lo scambio di insulti fra te e una donna di We Cry Together mi sa che abbiamo un problema che va oltre l’approccio ombelicale del successore del già non del tutto convincente “Damn.” Per carità: se hai venduto settanta milioni di dischi nei soli Stati Uniti ramazzando cammin facendo anche quattordici Grammy, un Pulitzer (!) e una candidatura agli Oscar e “Time” ti ha inserito in una lista delle cento persone più influenti del mondo sei pure giustificato a pensare di essere il centro dell’universo e però…

Però se “Mr. Morale & The Big Steppers” risulta estenuante non è né per i testi (siamo onesti: chi si prenderà la briga di seguirli qui da noi?) e nemmeno per la durata. Il colossale “To Pimp A Butterfly” (2015) totalizzava sei minuti in più e ciò non gli ha impedito di imporsi come uno dei pochi indiscutibili capolavori della musica black ─ e non solo ─ di questo secolo. È che mentre quello faceva strage di stereotipi ed era musicalmente densissimo questo è slegato (poco hip hop e troppo errebì all’ingrosso), parte bene ma poi si perde e non ritrova un po’ di estro (il minimo sindacale per un campionissimo) che verso fondo corsa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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Il rapper Joe Tex

Nei lontani anni ’50, un’era che probabilmente a molti dei giovani acquirenti di dischi odierni pare remota come il Medio Evo, l’uomo conosciuto come il boss del blues era Big Joe Turner, un urlatore che trasmetteva un’eccitazione contagiosa ed ebbe una hit dopo l’altra con brani come Shake Rattle & Roll, Flip Flop & Fly e Corrine Corrina. Qualche tempo dopo il grande Ray Charles si affacciò alla ribalta, si prese il titolo e lo conservò a lungo, con classici quali I Got A Woman, What’d I Say, I Love Her So e tanti altri, troppo numerosi per elencarli qui e tutti scritti da lui stesso. Nei primi ’60 fu il turno del compianto Sam Cooke di diventare il boss, sbaragliando la concorrenza con canzoni come Chain Gang, Good News, Shake e Twistin’ The Night Away. Oggi che abbiamo superato metà decennio c’è un nuovo boss. Si chiama Joe Tex e si sta dimostrando degno degli illustri predecessori.

Scriveva così tal Bob Rolontz nelle note di copertina di quello che fu il secondo LP vero (non contando una raccolta frettolosamente assemblata dalla Checker per cavalcare l’onda) dell’uomo noto all’anagrafe della cittadina texana (Rogers) dove era nato l’8 agosto 1933 come Joseph Arrington Jr. e al resto del mondo come Joe Tex. Oggi, che sono passati da allora a momenti quattro decenni, per il curioso effetto prospettico dato dall’avere la musica “giovane” superato il mezzo secolo il 1966 ci pare più vicino di quanto non sembrasse il ’54 agli ascoltatori che portarono al secondo posto della graduatoria R&B, e al quinto di quella pop, Hold What You’ve Got, la canzone che aveva battezzato l’album prima di “The New Boss”, il debutto vero per il nostro uomo. Ma il suo nome è probabilmente meno familiare all’appassionato medio di quanto non fosse nel ’66 quello di Joe Turner, che del resto faceva ancora dischi, sebbene con successo calante, e avrebbe continuato a farne fino a un attimo prima di morire, settantaquattrenne nel 1985. Fosse vivo, Joe Tex settantaquattro anni non li avrebbe e al prossimo 13 agosto saranno ventidue dacché è scomparso. Fosse vivo, mi piace pensare, avrebbe entusiasmato i vecchi fans come le nuove generazioni con ritorni di fiamma prepotenti come quelli di un Solomon Burke o un Al Green. Invece se n’è andato troppo presto e in miseria, depredato dal fisco di ogni avere, lui che economicamente aveva sempre saputo gestirsi con una sapienza sconosciuta a quasi tutti gli altri passeggeri del treno del soul, lui che aveva avuto la fortuna rarissima di vedere coincidere le figure del discografico e del suo migliore amico. Un bianco, sapete? Invece se n’è andato troppo presto, lui che era stato soprannominato The Rapper, proprio mentre l’hip hop si faceva grande. E contrariamente a quel James Brown da cui molto fu imitato, e che molto a sua volta imitò, la nuova musica nera l’ha poco considerato, non riservandogli che di rado quell’omaggio definitivo che è il campionamento e dire che la materia prima sarebbe abbondantissima. Prima o poi la ricca vena aurifera verrà scoperta. Prima o poi succederà qualcosa e Joe Tex tornerà a essere considerato un colosso e non, al più, un simpatico minore. Mi piace pensarla così e offro il mio obolo.

Prosegue per altre 7.029 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.73, giugno 2004. Ricorre oggi il quarantesimo anniversario della scomparsa di Joe Tex. Non aveva che quarantasette anni.

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L’età aurea di Stevie Wonder

Non vi era alcuna ragione perché questo mese Scritti nell’Anima si occupasse di Stevland Judkins, ovvero Stevie Wonder. Non è uscito un nuovo album (l’ultimo in studio, “Conversation Peace”, è del ’95 e brutto quanto basta a non far bramare un successore), non è stato confezionato un cofanetto a riepilogo di una carriera comunque eccezionale (già fatto, nel ’99), non ha festeggiato un compleanno di quelli adatti alle celebrazioni (i suoi anni saranno cinquantaquattro il 13 maggio). Né c’erano altri anniversari in vista, siccome la scorsa estate mi sono fatto scappare l’occasione di cogliere a pretesto di un’apologia il trentennale dell’incidente automobilistico (no, simpaticoni: non guidava lui) che nella vicenda umana e artistica del Nostro segna uno spartiacque non dissimile da quello marcato per Dylan dalla caduta in moto del ’66. Non vi era alcuna ragione, se non che improvvisamente mi sono reso conto che dal settembre 2000 firmo una rubrica di musica nera e in tutto questo tempo (tolte casuali citazioni) non ho speso una parola per uno degli uomini che più hanno contribuito a formarne il canone. Mi è parso bizzarro. E poi, semplicemente, mi aveva colto la voglia di riascoltare lo Stevie Wonder già negli scaffali e mi urgeva una scusa per cacciare soldi per il mancante. A questo sono ridotto dopo due decenni di esercizio della professione di critico: per togliermi lo sfizio di metter su qualcosa per piacer mio e non per scriverne mi tocca… scriverne. Inventarmi un articolo. E chi poteva prevederlo? Ma non mi lamento, non potrei mentre il tredicenne Little Stevie invita il pubblico ad accompagnare battendo le mani Fingertips e mi viene da fare lo stesso, i piedi che partono come dotati di volontà loro, il primo sorriso che mi si affaccia sulle labbra dopo giorni quando non avrei proprio un cazzo da ridere, ma manco uno piccino così.

Non è però sullo Stevie Wonder enfant prodige del mendacemente titolato (visto che è del ’63) “12 Year Genius” che voglio diffondermi, non sulla stella bambina che collezionò numeri uno R&B e anche pop per tutti i ’60. Non che non fosse bravo, perbacco se lo era, però una puntata a Ray Charles l’ho già dedicata e insomma ci siamo capiti. Lo Stevie Wonder che mi interessa può essere raccontato dal giorno in cui compie ventun anni e quindi, per il sistema legale statunitense dell’epoca, diventa adulto. Non è particolare da poco: il passaggio alla maggiore età invalida i contratti e libera il soggetto da qualunque impegno assunto da minorenne. Chissà se ce l’ha presente Berry Gordy, padre padrone della Motown, quel giorno di maggio del 1971 in cui è anfitrione alla festa organizzata a Detroit per colui che è ancora il più giovane dei suoi talenti. Probabilmente non ci pensa. Che sia uno squalo, e dai denti affilatissimi, è fuori discussione, ma per il ragazzo prova un affetto genuino e, nei limiti della conduzione di una casa che è fabbrica di successi (l’accento va posto su “fabbrica” quanto su “successi”), lo ha sempre trattato bene. Little Stevie è uno di famiglia e in famiglia Gordy ha già chi ─ il cognato Marvin Gaye ─ lo sta stressando con smanie di indipendenza. Il giorno dopo torna a Los Angeles e in ufficio trova la lettera di un avvocato che lo informa di rappresentare l’ex-fanciullo e che costui intende ridiscutere gli accordi e ritiene di avanzare congrui crediti. Allibito alza il telefono. Risponde la moglie di Stevie, Syreeta Wright, già segretaria presso la Motown, e cade dalle nuvole. No che non sa niente della faccenda; sì, dev’essere un equivoco; Stevie è uscito ma appena torna ti chiama. Gordy aspetterà quella telefonata sei mesi. Ha trovato un pesce che intende mangiare, non essere mangiato, nemesi che deve parergli un incubo a occhi aperti.

Prosegue per altre 7.007 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.68, gennaio 2004. Il 6 agosto 1973 Stevie Wonder restava coinvolto un incidente stradale le cui conseguenze per qualche giorno facevano temere per la sua vita.

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