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I migliori album del 2022 (15): Horsegirl – Versions Of Modern Performance (Matador)

In un mondo che sempre più velocemente va a ramengo tocca aggrapparsi alle poche buone nuove e una è che hanno ripreso a vendersi le chitarre elettriche e gli acquirenti sono giovani, spesso giovanissimi. Nel caso delle Horsegirl, da Chicago, giovanissime (ecco: un’altra ottima notizia è che cresce la presenza femminile nel rock). A malapena adolescenti Nora Cheng, Penelope Lowenstein e Gigi Reece (le prime due per l’appunto chitarra e voce, la terza alla batteria) quando nel 2019 pubblicavano in Rete il primo brano, oggi che esordiscono in lungo per un marchio storico dell’indie USA quale è la Matador due di loro si sono appena iscritte all’università e l’altra sta finendo il liceo. A sommarne le età non arrivano a pareggiare i sessantasei anni di Lee Ranaldo e nemmeno i sessanta di Steve Shelley, gli ex-Sonic Youth che si sono prestati con entusiasmo a dar loro una mano per due dei dodici brani (tre sono interludi strumentali, nessuna traccia arriva ai quattro minuti) che sfilano in “Versions Of Modern Performance”. Inciso presso l’Electrical Audio Studio di Steve Albini (anni sessanta pure lui quando leggerete queste righe) e con la produzione di John Agnello, un cv che occuperebbe tre colonne e basti dire che oltre che con i Sonic Youth stessi ha spesso lavorato con altri evidenti numi tutelari delle ragazze, i Dinosaur Jr. Si saranno emozionate?

Ci emozioniamo noi all’ascolto di un disco di travolgente freschezza che evidenzia come le artefici abbiano sì mandato a memoria le lezioni di My Bloody Valentine, Pavement e Yo La Tengo (ma pure Gang Of Four benché spesso il basso non ci sia e Stereolab pur mancando quasi sempre le tastiere), per poi però intrecciarle in un sound che è già solo loro. Giovani favolose.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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Saluti da Bruce Springsteen, Asbury Park, N.J.

In ‘Greetings From Asbury Park’ ho fatto venire fuori un numero incredibile di cose tutte in una volta. Un milione di cose in ogni canzone. Le avevo scritte in quindici minuti, mezz’ora. Non so da dove venissero. Su alcune ho lavorato per circa una settimana, ma la maggior parte erano dei lampi, una situazione di autentica energia. Scrivevo come in preda a una febbre. Non avevo un centesimo, un posto dove andare, niente da fare. Era inverno, faceva freddo e scrivevo.

“Greetings From Asbury Park” è figlio di un equivoco e due inesperienze. L’equivoco fu quello che indusse Hammond ─ che, ricordate, era il signore che aveva scoperto l’originale ─ a credere di avere fra le mani il primo “nuovo Dylan” che non fosse un falso allarme, il primo in grado di non uscire distrutto da un confronto con il Maestro. Non avendolo visto dal vivo con la E Street Band scorse in lui soltanto il folksinger, che è uno dei tanti aspetti di una personalità artistica multiforme ma certo non era allora il prevalente e non lo sarà che all’altezza di “The Ghost Of Tom Joad”, oltre vent’anni più tardi. Le inesperienze quelle di Appel, che dopo essersi inventato manager si inventò produttore e oltretutto tirando a risparmiare, e di Springsteen stesso che lo assecondò. E fu così che il disco d’esordio di colui che diverrà il rocker per antonomasia fu prodotto ─ con esiti pessimi al di là delle intenzioni: il gruppo è troppo sullo sfondo rispetto a una voce prevaricatrice, la batteria pare di cartone, il basso manca di profondità, il piano è poco brillante, il sassofono uno starnazzare abulico, la dinamica da demo ─ come se si fosse trattato di lanciare un cantautore. Esito: un flirt con il disastro. Eppure, stanno qui alcuni degli articoli migliori del catalogo del Nostro.

Uno dei più memorabili lo inaugura. Appel aveva portato in Columbia un nastro con le prime canzoni completate e il lavoro era piaciuto, ma gli era stato chiesto qualcosa di più immediato da pubblicare a 45 giri. Girò la richiesta a Springsteen, che scrisse Blinded By The Light e Spirit In The Night. Uscirono entrambe in quel formato, senza peraltro riscuotere alcun successo (riprese nel ’76 dalla Manfred Mann Earth’s Band saranno due brani da Top 10 e la prima addirittura un numero uno), e costituiscono, con Growin’ Up, For You e la già citata It’s Hard To Be A Saint In The City, la metà di “Greetings” degno prologo a una vicenda artistica unica nel rock americano degli ultimi tre decenni. Benché la produzione ignobile e un testo torrenziale dalla dizione confusa (man mano che i testi si faranno più lineari anche la pronuncia si farà più intelligibile) tentino di annegarne il piglio funk, Blinded By The Light ha l’agile vigoria tipica già allora dei gruppi di Springsteen. È gioiosa e guascona. Se gli allucinati flash che la aprono sono dylaniani fino alla parodia, i cinque fulminanti versi conclusivi (“Accecato dalla luce/Mamma mi ha sempre detto di non/fissare il sole/ma mamma è lì che sta/il divertimento”) sono difficili da immaginare cantati dal menestrello di Duluth. Così come quelli a proposito dell’alzarsi quando è richiesto di stare seduti e del trovare la chiave dell’universo nel motore di una vecchia auto parcheggiata in Growin’ Up, euforico inno di passaggio fra adolescenza e giovinezza scandito da un pianoforte che ha accenti boogie.

In Mary Queen Of Arkansas la E Street Band, scalpitante nei primi due brani nonostante la briglia sia tenuta da Appel cortissima, abbandona il proscenio. Restano una chitarra acustica e una voce dolente. L’atmosfera si rischiara con il vivace folk-rock di Does This Bus Stop At 82nd Street? e torna claustrofobica con il piano melò di Lost In The Flood, raggiunto solo piuttosto avanti dal resto del gruppo. È una canzone notevole più che altro per il testo, susseguirsi di istantanee dai bassifondi multietnici della Big Apple degne di un film di gangster di Scorsese o di De Palma. L’immagine del delinquentello ispanico ferito a morte da un poliziotto e il cui corpo “ha colpito la strada con un tonfo così bello” resta nella memoria assai più a lungo della melodia fragile che la accompagna.

Fragile fino all’inconsistenza è anche l’apertura della seconda facciata, The Angel, una ballata piano e voce con un tocco di violino non redentore, troppo “qualunque” pure per questo Springsteen incerto su cosa fare da grande. Da lì alla fine è però un crescendo. In For You, una Like A Rolling Stone depurata di ogni acredine, il folk-rock si sposa al suono che farà della E Street Band la macchina più rodata che abbia mai corso sulle autostrade del rock’n’roll. Spirit In The Night, esaltata ed esaltante celebrazione di amori e vagabondaggi adolescenziali, è uno dei brani più belli pubblicati dal Nostro e sarà per anni un punto fermo nelle variabilissime scalette dei concerti. It’s Hard To Be A Saint In The City, infine: sfrutta schemi blues ma non è blues, sa di giovane Dylan ma non è un’imitazione, è scarna ma arrangiata con una raffinatezza (quel piano rock’n’roll che si colora di jazz!) che anticipa gli album a venire. John Hammond la ascoltò solo chitarra e voce e se ne invaghì lo stesso perdutamente.

Un giorno ero al telefono con Appel e gli chiesi ‘Come sta andando il disco?’ E lui: ‘Non bene. Ne avremo vendute un ventimila copie’. E io: ‘Ventimila copie? È favoloso!’.

Tratto da Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.7, autunno 2002. Il primo album di Bruce Springsteen compie oggi cinquant’anni.

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Dry Cleaning – Stumpwork (4AD)

L’album con il quale i londinesi Dry Cleaning danno un seguito all’acclamato debutto datato aprile 2021 “New Long Leg” è abbastanza diverso da quello da far parlare di un’evoluzione e anche maturazione del quartetto, abbastanza simile da risultare rassicurante per chi già apprezzò il predecessore, troppo per conquistare nuovi cultori a Florence Shaw e soci. È che per chi non è di madrelingua la posizione che resta preminente nel missaggio della voce di costei (di grandissima lunga l’elemento di maggior spicco nella cifra stilistica del gruppo) rappresenta un intralcio rispetto all’apprezzamento pieno di spartiti pure interessanti, non banali. E se anche il tuo inglese è buono a sufficienza da consentirti di decifrare all’ascolto i torrenziali testi (o anche soltanto quanto basta da apprezzarli ─ e lo strameritano ─ leggendoli) sovente ti sorprendi a cercare di ignorare la voce e concentrarti su quanto sta sotto. A maggior ragione perché Florence praticamente mai canta, al più canticchia. Recita, invece. Un sempiterno monologare che all’inizio intriga, alla lunga stanca, alla fine ti fa pensare che sarebbe bello se i dischi dei Dry Cleaning venissero offerti in versione raddoppiata/sdoppiata. Le canzoni, che poi canzoni in senso tecnico non sono, su un primo CD o vinile, le sole basi strumentali sul secondo.

Tant’è. Concentrandosi molto si riesce a cogliere una maggiore varietà di atmosfere rispetto al debutto. Come uno scivolare (ma senza che sparisca del tutto dal quadro, anzi; vedasi una Conservative Hell joydivisioniana) dal post-punk al post-rock, nel contempo concedendosi ganci pop, scorci quasi psichedelici (la chitarra in scia a Tom Verlaine di Driver’s Story; Hot Penny Day), aperture cinematografiche.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Thomas Pynchon su vinile – Il solo e unico Van Dyke Parks

Sono dieci anni che Van Dyke Parks è uno dei miei idoli. ‘Song Cycle’ è il mio disco preferito in assoluto di sempre, niente di simile è stato realizzato in questo secolo. Ricordo di avere parlato con lui alcuni anni fa, al tempo in cui stavo cercando di ristampare i suoi primi 45 giri. Mi disse che all’epoca in cui si andava formando come musicista prendeva un sacco di droghe, troppe, e che se anche apprezzava il fatto che mi interessassi ai suoi primi lavori riteneva che quanto fa oggi sia migliore. Fu il suo modo da educato gentiluomo sudista di dirmi no.

Ipse dixit, in una recente, brevissima ma succosa, intervista al mensile britannico “Mojo”, Jim O’Rourke, guru per eccellenza dell’attuale avanguardia a stelle e strisce e santino personale dei più fra i lettori di questo giornale (e anche mio, lo ammetto). Curioso che fra i tanti recensori in sollucchero per la fastosità melodica di “Eureka” tutti abbiano citato Burt Bacharach, molti il Brian Wilson di “Pet Sounds” e il solo Andy Medhurst di “The Wire”, oltre all’ottimo David Sheppard, il predecessore più ovvio di quel disco. Ascoltando di seguito la trilogia classica di Van Dyke Parks e l’ultimo parto del compositore chicagoano lo stacco è inavvertibile: l’incredibile versione per basso funky e banda jazz peyotera del Canone in re maggiore di Johann Pachelbel sfuma senza soluzione di continuità, nonostante quasi un quarto di secolo separi le due incisioni, negli arpeggi chitarristici, nei fraseggi orchestrali, nel ritornello angelicato di Women Of The World. Curioso, dicevo, ma nemmeno tanto, dacché Parks è uno dei segreti meglio celati del pop e della musica colta dai ’60 in avanti. Alla sua scarsa notorietà ha contribuito, oltre alla peculiarità degli spartiti, una produzione discografica quanto mai parca, sette soli album in studio (più uno dal vivo) in oltre tre decenni, con una cesura di nove anni fra i primi tre e i secondi quattro.

Il Nostro pare preferire questi ultimi: “Jump!” (Warner Bros, 1984), “Tokyo Rose” (medesima etichetta, 1989), “Fisherman & His Wife” (Windham Hill, 1991; con Jodie Foster) e “Orange Crate Art” (di nuovo Warner, 1994; con Brian Wilson). Tappe mediamente interessanti del suo cammino su quell’idiosincratico sentiero adombrato dal titolo di una bella, ma terribilmente incompleta, antologia. Nondimeno opere di seconda schiera rispetto alle tre appena ristampate, con contorno risicato ma goloso di bonus tracks, dalla benemerita Ryko: “Song Cycle”, “Discover America” e “Clang Of The Yankee Reaper” (1968, 1972 e 1975; tutte su Warner in origine). Gemme di abbacinante splendore delle quali si stava smarrendo la memoria.

Ho giocato un ruolo in quel movimento musicale, molto creativo, che contraddistinse la California meridionale negli anni ’60. Ero là. Ho aspirato. E curiosamente lo ricordo ancora, io.” (Van Dyke Parks)

Nato ad Hattiesburg, Mississippi, il 3 gennaio 1943 ma cresciuto fra la Lousiana e il New Jersey, il Nostro ha un approccio precocissimo alla musica e allo showbiz. Studia piano, clarinetto e composizione e non ancora novenne ha modo di duettare con un dilettante (brillante, si dice) noto per ben altro: tale Albert Einstein, nientemeno. Decenne, è attore e cantante in uno sceneggiato televisivo della NBC. Due anni dopo è a Hollywood, per recitare in The Swan con Alec Guinness e Grace Kelly. Non lascerà più, se non per brevi periodi, la California.

Gli undici anni di gavetta che dal diploma al college lo porteranno al primo LP in proprio sono a tal punto densi di eventi che se ne potrebbe cavare un film. Si esibisce come cantante folk in duo con il fratello Carson. Suona il piano nella colonna sonora del disneyano Il libro della giungla e l’organo in “Fifth Dimension” dei Byrds. È chitarrista con i Brandwyne Singers. Pubblica alcuni singoli da solista per la MGM. Si inventa gli Harper’s Bizarre, battezza i Buffalo Springfield, collabora con Paul Revere & The Raiders e con le Mothers di Zappa. Firma per la Warner, della quale è ancora, trentadue anni dopo, l’eccentrica mascotte (nonostante i suoi dischi abbiano sempre venduto assai poco). Per limitarsi agli accadimenti principali… e ancora non ho riferito dei tre più memorabili.

Nel 1965 il giovane Parks conosce a una festa Brian Wilson. Il sodalizio subito fondato, cui porranno provvisoriamente fine i malumori degli altri Beach Boys e il drammatico degenerare della salute mentale di Brian, esercita un’enorme influenza sulla pietra miliare “Pet Sounds” e frutterà (non frutterà anzi) “Smile”, il più celebre album “perduto” della storia del rock. Nel 1966 è responsabile degli arrangiamenti del luminoso (quanto sottovalutato!) esordio di Tim Buckley. Nel 1967, sdraiato su un lettino per massaggi a fianco di Frank Sinatra, persuade Old Blue Eyes che Carson ha scritto una canzone che sarebbe perfetta per un duetto con la figlia Nancy. Somethin’ Stupid porterà il 33 giri che la contiene a vendere oltre un milione di copie (il successo più grande della carriera di Sinatra), regalando a The Voice una seconda giovinezza.

Prosegue per altre 6.987 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.12, maggio 1999. Van Dyke Parks festeggia oggi il suo ottantesimo compleanno.

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Yeah Yeah Yeahs – Cool It Down (Secretly Canadian)

Alla fine del tour che promuoveva nel 2013 “Mosquito”, loro quarto album e un numero 5 USA (in realtà con vendite inferiori a predecessori che nelle classifiche non erano saliti così in alto ma nei soli Stati Uniti avevano totalizzato un milione e mezzo di copie), gli Yeah Yeah Yeahs avevano annunciato una pausa. È durata parecchio e alcuni concerti nel 2016 per celebrare una ristampa dell’esordio del 2003 “Fever To Tell” (uno dei pochi classici veri del rock anni Zero) e la partecipazione nel 2017 al londinese “All Points Festival” non erano certo bastati ai cultori della band per fugare il timore che lo stop fosse definitivo. A maggior ragione, per via della molteplicità e varietà di impegni extracurriculari dei componenti il complesso e in particolare della carismatica cantante Karen O (due i suoi lavori solistici pubblicati nel frattempo), fonte insieme di consolazione e di cruccio. E invece…

E invece, senza che se ne avesse sentore fino all’uscita in giugno di Spitting Off The Edge Of The World, collaborazione con Perfume Genius che inaugura anche il disco con gioco di vuoti e pieni, turgidezze e struggimenti, Karen, Nick Zinner e Brian Chase sono tornati a declinare comunitariamente il loro art-rock spigoloso e seducente. Quintessenzialmente newyorkese e lo rimarcano il titolo del disco, preso da un brano dei Velvet Underground, e il campionamento delle ESG cui si appoggia la funkissima Fleez: con l’electro-pop Wolf, che la precede immediatamente, la traccia più epidermica di otto che sfilano in 32’40” senza nulla aggiungere ma nemmeno togliere allo status di un gruppo che sarebbe anche potuto non tornare e niente sarebbe cambiato nella valutazione della sua rilevanza. Però è tornato e si può esserne contenti.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Più grandi dei Beatles? Ascesa e caduta dei Led Zeppelin

Domenica 28 giugno 1970, Bath, seconda giornata del festival di “blues e musica progressiva”. In centocinquantamila sono calati sulla cittadina del Somerset attirati da un cast stellare: Jefferson Airplane e Hot Tuna, Frank Zappa, Moody Blues, Byrds, Santana, Dr. John, Country Joe. E Led Zeppelin, per i quali quel Mangiafuoco di Peter Grant ha ottenuto il posto più alto in cartellone, attrazione principale, ultimi ad andare in scena e del resto sono o non sono il gruppo che a Natale dell’anno prima ha scalzato i Beatles dalla vetta delle classifiche USA? “II” vi ha rimpiazzato “Abbey Road” e da allora ha continuato a vendere a ritmi incredibili. Primo pure nella graduatoria britannica e nondimeno al manager e ai suoi protetti pare di non essere stati affatto, fino a quel punto, profeti in casa. La stampa li ha bistrattati, se non ignorati, e di conseguenza persino fra quanti hanno comprato il disco, e magari li stanno ora aspettando, c’è ancora chi crede siano americani. Tempo che le cose cambino. Nella strategia di conquista del suolo patrio, lo sbarco a Bath ha un ruolo chiave: dopo, più nessuno dovrà/potrà ignorare chi siano i Led Zeppelin. E siccome un regno vale una messa per essere lì si è rinunciato a due date oltre Atlantico, esibizioni a Boston e New Haven che avrebbero fruttato la rispettabile cifra di un quarto di milione di dollari, si è premurato di far sapere in giro Grant.

È stata una tipica giornata inglese di inizio estate, con un sole anche cattivo a fare capolino fra gli scrosci di pioggia. Ma poi si è alzato un venticello che sta adesso spazzando via le ultime nubi e ci si avvicina al tramonto immersi in una luce stupenda. Stanno suonando i Flock, penultimi, e il pubblico mostra di gradire il loro errebì venato di jazz e dalle ardite aperture classicheggianti. Tant’è che l’esibizione sta prolungandosi oltre il previsto. Un problema per Peter Grant, il cui piano è che il Dirigibile si levi in volo nell’istante esatto in cui il sole scomparirà dietro l’orizzonte. A estremi mali, estremi rimedi. Ordina al braccio destro Richard Cole di staccare la corrente e costui provvede nel bel mezzo di un assolo di violino. Dopo di che, si catapulta sul palco e comincia personalmente a sloggiarne la strumentazione degli stupefatti chicagoani. Quando uno dei loro tecnici accenna una protesta, un cazzotto bene assestato da uno degli energumeni che fiancheggiano Grant tronca la discussione. E così Robert Plant, riccioluta chioma dorata spiovente ben oltre le spalle su una camicia blu a pois, può accostarsi al microfono al momento giusto e salutare la platea con un “è bellissimo essere qui, in un festival all’aperto dove non è successo niente di spiacevole”. Occhiolino a Page, che dal suo canto sfoggia un completino campagnolo, cappotto grigio e cappello da bifolco, e un urlo belluino si scaglia verso un cielo che va prendendo i colori di un crepuscolo wagneriano. Con immane clangore parte una turbinosa canzone nuova, scritta in Islanda una settimana prima. Si chiama Immigrant Song ed è una fantasia guerriera in cui gli Zeppelin fanno la parte di invasori vichinghi che saccheggiano, violentano, incendiano. Pace e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ’70.

Volo magico numero uno

Sempre carino il giochino del “what if” e in tempi giurassici per questa rivista (numero 2, estate 2001) ci si divertì a farlo con i R.E.M. (fra l’altro: all’altezza del capolavoro “Automatic For The People”, 1992, John Paul Jones si ritrovò a scrivere degli arrangiamenti per costoro). Vi va di giocarlo con i Led Zeppelin? Tanto per cominciare ci si può chiedere proprio quanta strada avrebbero percorso con una ragione sociale meno efficace di quella suggerita da Keith Moon quando, nel marzo 1967, per un attimo il batterista degli Who vagheggiò un supergruppo con John Paul Jones al basso e un fenomenale terzetto di chitarristi: Jimmy Page, Jeff Beck, Ron Wood. Page terrà a mente. Vi basti sapere che gli altri nomi considerati a suo tempo furono Mad Dogs (lo userà Joe Cocker) e un tremendo Whoopee Cushion. Converrete che non sarebbe stata la stessa cosa. Ci si può poi interrogare su quali differenti pieghe avrebbe preso la storia del rock se nell’ordine: Robert Plant, che ancora non conosceva Page, fosse entrato negli Slade (che ci pensarono su ma poi decisero che era troppo effeminato); Terry Reid non lo avesse suggerito a Page quando declinò il suo invito a raggiungerlo nei New Yardbirds; John Bonham avesse preferito la paghetta mica male (quaranta sterline alla settimana) che gli allungava il cantautore Tim Rose, oppure una delle contemporanee offerte di Joe Cocker o Chris Farlowe. Giacché la delicatissima alchimia non avrebbe potuto prodursi e immaginatevela l’evoluzione del rock senza questi quattro cavalieri dell’Apocalisse fatti per correre uno a fianco dell’altro. Oppure: cosa sarebbe successo se il Dirigibile si fosse schiantato al suolo prima di quanto non accadde. Molto prima: il 31 dicembre 1968 quando, diretta da Portland a Seattle nel pieno di una delle peggiori tormente di neve che si ricordino da quelle parti, per un nonnulla la macchina con Richard Cole al volante e a bordo Peter Grant e gli Zeppelin al completo non cadde in un burrone. Un po’ prima: nel marzo 1975, quando una squilibrata di nome Squeaky Fromme dopo avere pedinato per qualche tempo Page decise di sparare invece a Gerald Ford, allora presidente degli Stati Uniti. Mentre invece si può ragionevolmente ipotizzare che un finale meno repentino e drammatico della vicenda o addirittura un non finale ─ perché sì, con un Bonham non defunto li si può pensare tuttora in circolazione i Led Zeppelin, non diversamente da Stones o Aerosmith ─ sarebbero stati, se è di rilevanza storica che si parla, ininfluenti. Già fu un congedo discograficamente minore in maniera imbarazzante il loro e poteva entrare negli ’80 e uscirne vivo (in questo senso: propositivo) chi più di chiunque plasmò i ’70? Né vale osservare che nei ’90 Jimmy Page e Robert Plant hanno licenziato due album strepitosi e uno tutto di canzoni nuove. Fondamentali difatti per la loro riuscita l’entusiasmo del ritrovarsi, la freschezza data dal doversi riscoprire dopo non essersi frequentati per quasi tre lustri.

Logico e illogico che dalla trasmissione di “Unledded” su MTV nell’ottobre 1994, con conseguente record di ascolti, le voci di una reunion si siano rincorse più che mai e forse non è stata apprezzata abbastanza l’onestà intellettuale fuori dal comune che indusse i due a non usare (al di là del fatto che mancasse John Paul Jones) la riverita sigla. Tormentone destinato ad andare avanti chissà per quanto ancora. Eppure, al prossimo 7 di luglio saranno trascorsi venticinque anni dall’ultimo concerto degli Zeppelin (appropriatamente tenutosi in quel di Berlino) e al 25 settembre altrettanti dalla prematura scomparsa di John “Bonzo” Bonham. Il 14 luglio saranno invece venti da “Live Aid” e dai venti minuti in cui, in mondovisione, Plant, Page e Jones divisero una ribalta e tre canzoni, evento non paragonabile, per il sensazionale impatto che ebbe, all’introduzione nella “Rock And Roll Hall Of Fame”, una faccenda del ’95. Insomma: ricorrevano un sacco di anniversari, se proprio bisognava inventarsi delle scuse per parlare di uno dei gruppi più seminali di sempre.

Prosegue per altre 54.216 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.17, primavera 2005.

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Musica facit saltus – Manuel Göttsching (9/9/1952-4/12/2022) dal krautrock alla techno

È da ieri, quando con otto giorni di ritardo si è diffusa la notizia della sua scomparsa, settantenne, che mi interrogo se ci sia stato un altro che come Manuel Göttsching sia riuscito a coprire l’arco impossibilmente ampio che dal blues (alla cui scuola crebbe) arrivò fino a house e techno (sulle quali esercitò un’influenza incommensurabile) passando per la psichedelia, per un rock che era post-punk ben prima che il punk stesso si palesasse, per una kosmische Musik sporta (anche) sulla ambient ben prima che Eno la teorizzasse. Se assumiamo, con Leibniz, che natura non facit saltus, l’intera vicenda artistica di questo chitarrista che fece suonare il suo strumento come nessuno mai, prima e dopo, dimostra invece l’opposto. E nondimeno una logica incontestabile nel continuo evolversi e una poetica affatto peculiare sottendono tutta la sua opera. È da ieri che mi chiedo a quanti altri protagonisti della musica del Novecento si possa più legittimamente applicare l’etichetta di “genio”. Non me ne sono venuti in mente molti.

Ash Ra Tempel Ash Ra Tempel (Ohr, 1971)

Protagonista principale della vicenda Ash Ra Tempel, nonché unico a traversarla dal principio alla fine, fu Manuel Göttsching, chitarrista di solida tecnica che una straordinaria inventiva ha quasi sempre salvato dalle tentazioni narcisistiche del virtuosismo fine a se stesso. Costui sul finire degli anni ’60 suonava nella Steeple Chase Bluesband, gruppo di Berlino dedito a una riscrittura lisergica della musica del diavolo che fu palestra anche per altri due futuri adepti del Tempio di Ash Ra: il bassista Hartmut Henke, che resterà in squadra fino a “Join Inn” compreso, e il batterista Wolfgang Müller, che rimarrà giusto il tempo necessario a scolpire la pietra miliare “Schwingungen”. Siccome un blues pur già poco canonico non bastava a soddisfarne gli slanci visionari, Göttsching pensò bene di andare a fare la sua cosa altrove. Con Henke al basso e Klaus Schulze, transfuga dai Tangerine Dream del grandioso “Electronic Meditation”, assiso dietro piatti e tamburi nacquero così gli Ash Ra Tempel. La loro vicenda si consumerà nel breve arco di tre anni generosi di album – ben cinque, tutti per la Ohr di Rolf-Urlich Kaiser – e intuizioni fulminanti.

Biglietto da visita sensazionale quello primo e omonimo. L’immagine egizia che campeggia sul davanti della lussuosa confezione promette il disvelarsi di verità a chi, aperta una copertina che si spalanca a mo’ di finestra, sappia addentrarsi nelle stanze cui quelle porte della percezione danno accesso. A mezzo secolo dacché fu eternata la musica che si leva dai solchi stupisce ancora. Suona moderna perché senza tempo, ma come quasi sempre è il caso con l’arte più innovativa non veniva dal nulla. Anzi! Le sue radici affondavano nella Detroit degli anni ’60, quella di MC5 e Stooges ma anche del jazz extraterrestre di Sun Ra, e nella Londra della prima ubriacatura lisergica. Nella psichedelia californiana. Naturalmente, visti i precedenti di Göttsching ed Henke, nel blues. La prima facciata è occupata dai 19’40” di Amboss, che parte con un incastro di cimbali e basso, diviene tellurica quando la batteria irrompe in scena con fare predatorio e magmatica quando la chitarra comincia a srotolare stordenti spirali di feedback. I 25’40” della Macchina dei Sogni, la Traummaschine, che monopolizza il secondo lato si porgono al contrario rilassanti: il Klaus lavora di congas, il Manuel di fino sulla sei corde, una misteriosa voce femminile evoca paradisi islamici. A dispetto della defezione pesante di Schulze, da lì a un anno con “Schwingungen” gli Ash Ra Tempel riusciranno addirittura a superarsi, ad andare oltre.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.281, ottobre 2021.

Ash Ra Tempel Schwingungen (Ohr, 1972)

Sembrò probabilmente faccenda da extraterrestri all’uscita l’omonimo debutto, datato 1971, degli Ash Ra Tempel: prendete la Detroit di Stooges ed MC5, impregnatela con il jazz saturnino di Sun Ra, ricordi di blues, cartoline di Londra in preda alla prima ubriacatura lisergica, intersecatela di sentieri felici quicksilveriani et voilà. Benché proveniente dal blues (ma aveva studiato pure chitarra classica e improvvisazione), il leader Manuel Göttsching piuttosto che un emulo di Clapton, o al limite di Hendrix, già vi si porgeva come un anticipatore del Keith Levine del “Metal Box”. Ancora di più in questo seguito, dove per ascoltare quegli a loro volta influentissimi P.I.L. – di sette anni posteriori! – non dovete che mettere su quella che era in origine la prima facciata: sono lì, in una Flowers Must Die che preconizza John Lydon persino nel titolo, laddove sul secondo lato Suche & Liebe adombra certi Pink Floyd. Quasi al pari interessanti, per non dire imperdibili, i successivi capitoli della saga dei Berlinesi, da “Seven Up”, in combutta con il guru psichedelico Timothy Leary, a “Starring Rosi”, passando per “Join Inn”. Fino all’avveniristico “Inventions For Electric Guitar”, del ’75 e di fatto l’esordio da solista di Göttsching. C’è chi vi ha individuato l’atto di nascita della techno.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Manuel Göttsching E2-E4 (Inteam, 1984)

Copertina (una scacchiera giallo smorto e marrone) di un rigore geometrico totale che non si potrebbe immaginare più distante dall’iconografia da antico Egitto che aveva caratterizzato tredici anni prima l’esordio degli Ash Ra Tempel, compagine fra le più immaginifiche del krautrock, figlia del blues e mamma dei P.I.L. Se però si scorre la discografia dei Berlinesi, fra l’altro compagni di lisergiche merende di Timothy Leary in “Seven Up”, arrivati a “Join Inn” ci si imbatte in un’altra scacchiera e i conti cominciano a tornare. Rimasto proprietario del marchio, il leader Manuel Göttsching ha già realizzato nel 1975 un incredibile LP in perfetta solitudine, “Inventions For Electric Guitar” (messo fuori con doppia attribuzione per ragioni meramente commerciali), in cui, se lo strumento è quello sovrano del rock, il suono e l’impatto sono già quelli della techno. Nove anni dopo (in realtà sei, essendo queste registrazioni dell’81) Göttsching bissa, facendo scontrare temi alati e ritmi spasmodici e in tal modo inventando, inconsapevole, l’ambient-house. Altri cinque anni ancora e mezzo mondo ballerà sulle note di Sueño latino, un’irresistibile robetta balneare “made in Italy” tutta costruita su un campionamento da “E2-E4”.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

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Jimi Hendrix – Il negro bianco

Un giorno lo faranno un film ─ cioè: uno serio ─ su Jimi Hendrix e, dovendone decidere l’incipit, lo sceneggiatore avrà l’imbarazzo della scelta. Potrebbe optare per il sensazionalismo e partire dalle undici e ventisette di quella tragica mattina del 18 settembre 1970. Chiamata nove minuti prima, un’ambulanza si ferma davanti al londinese Cumberland Hotel. Orribile lo spettacolo che si presenta ai barellieri e ai due poliziotti sopraggiunti un attimo dopo: riverso sul letto di una stanza la cui porta trovano spalancata giace il corpo di un giovane nero, o che c’è da supporre nero visto il colorito cinereo. Il volto è coperto di vomito, ma la maggior parte di quanto ha rigurgitato l’ha respirata ed è questo che gli è stato fatale. Ecco, dovesse iniziare così ─ siamo d’accordo? ─ come un sol uomo ci alzeremmo e ce ne andremmo via. Vorrebbe dire che il regista è Oliver Stone e abbiamo già dato. Ci sono tanti altri momenti da cui partire per raccontare la vicenda di chi prese possesso di un rock non ancora maggiorenne e lo rivoltò, come nessuno aveva nemmeno fantasticato si potesse fare. Uno talmente rivoluzionario da non avere avuto, in quarant’anni, eredi veri. Uno che tuttora fa categoria a sé.

Si potrebbe ad esempio coglierlo nell’attimo in cui, sul palco di Monterey la sera del 18 giugno 1967, incendia il suo strumento dopo avere incendiato il cuore di un paese dal quale nove mesi prima se n’era dovuto andare, per cercare fortuna altrove, per non essere più un cittadino di serie B. Un posto dove era troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri. Oppure si potrebbe indugiare sui suoi occhi che scrutano la spianata ingombra di rifiuti di Woodstock alle nove di mattina del 18 agosto 1969, venticinquemila gli spettatori superstiti degli oltre quattrocentomila che erano arrivati a bivaccarvi nei tre giorni precedenti. Si godranno, quegli sballati già reduci, i venti minuti più epifanici ─ in particolare i 3’43” di una Star Spangled Banner incastonata fra la Voodoo Child e la Purple Haze più incandescenti di sempre ─ della storia della musica tutta del Novecento. O ancora si potrebbe scegliere qualche istante di prima della gloria e immortalare Icaro mentre attacca piume iridescenti su ali che si riveleranno di cera. Mentre compra la sua prima chitarra elettrica. Mentre, militare della 101a Divisione Aviotrasportata, si lancia dal portellone di un aereo e nel volo coglie immagini di ciò che sarà. O si rivede mentre piange, con il dolore e la frustrazione che si possono provare soltanto a quindici anni, perché stanno seppellendo sua madre e lui non c’è.

Però a ben pensarci c’è un solo modo giusto per cominciare un racconto con protagonista James Marshall Hendrix. Bisogna seguirlo in quelle ventiquattro ore pazzesche in cui, perfetto sconosciuto appena sceso dal Boeing Pan Am della tratta John F. Kennedy-Heathrow, trovò in un colpo le entrature per i più elitari circoli musicali londinesi e l’unico amore genuino della sua vita adulta. Se consultate un’enciclopedia, ci troverete scritto che Jimi Hendrix nacque il 27 novembre 1942. Balle. La vera data è un’altra: 24 settembre 1966. Quel giorno il mondo si capovolse.

L’Hendrix che arriva a Londra sottobraccio a Chas Chandler, fino a un attimo prima bassista degli Animals riciclatosi manager con l’ambizione di essere subito rampante, è un Signor Nessuno con come bagaglio una Stratocaster e una borsa con dentro un cambio di vestiti, un barattolo di crema per l’acne e… a ventitré anni si può essere un po’ vanitosi, no?… il set di bigodini rosa che usa per arricciare la folta capigliatura. In tasca ha quaranta dollari e la dice lunga su che vita abbia menato fino a quel punto che sia stato un amico, il batterista Charley Otis, a prestarglieli. Lui non li aveva e dire che è musicista di professione sin dal ’63. E con che razza di curriculum! Ha transitato brevemente nei gruppi di Carla Thomas, Tommy Tucker, Slim Harpo, Jerry Butler, Marion James, Chuck Jackson, Solomon Burke, Otis Redding, Curtis Mayfield, Bobby Womack. È stato per periodi più lunghi con gli Isley Brothers, Little Richard e i popolarissimi Joey Dee & The Starliters. Ha lavorato da turnista, mettendo fra il resto un decisivo zampino nella canzone, Mercy, Mercy, che ha regalato a Don Covay le classifiche e un posticino negli annali del soul. E nondimeno non solo non è riuscito ad accantonare un soldo bucato ma fa ancora una fatica tremenda, con quello che guadagna, a fare due pasti al giorno e pagare l’affitto di una topaia in cui dormire. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato alla follia di tentare una rapina e gli è andata bene che è riuscito a scappare, visto che se l’avessero preso automaticamente si sarebbe ritrovato sul groppone pure quell’antica condanna a due anni per furto d’auto evitata arruolandosi nell’esercito. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato all’indegnità di ─ ecco, qualcosa che gli va bene c’è: a dispetto di statura bassa, corporatura esile e brufoli, per il gentil sesso è già un magnete ─ farsi mantenere da delle giovani prostitute. Forse ha anche vagheggiato di fare il magnaccia, ma appena per un attimo: è suonando che vuole diventare ricco e vendicare un’infanzia e un’adolescenza trascorse fra stenti e abbandoni. E poiché non sono i soldi facili che gli interessano, bensì conquistare con la sua arte la fama, non ci ha pensato un istante a rifiutare chi lo tentava con le lusinghe dello spaccio. È un sognatore che già troppe volte ha sbattuto la faccia contro la realtà e non si fa illusioni. Ha chiesto sia al batterista dei suoi Blue Flames, Danny Taylor, che a Billy Cox, un bassista conosciuto sotto le armi, di accompagnarlo nel viaggio inglese e ai loro cortesi rifiuti ha replicato allegramente con un “be’, andrò a fare la fame laggiù, allora”. Ha posto a Chandler come conditio sine qua non per intraprendere un’avventura che gli pare una mattana che gli presenti uno dei suoi idoli, Eric Clapton. Chandler ha promesso e manterrà in fretta: quegli otto giorni dopo essere sbarcato in Inghilterra, Jimi dividerà un palco con i Cream e spaccherà il bianchissimo culetto al povero Eric. Un uomo che i suoi fans chiamavano Dio veniva fatto riprecipitare sulla terra da un essere che dovette sembrargli un marziano.

Prosegue per altre 48.203 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007. Fosse ancora fra noi, Jimi Hendrix compirebbe oggi ottant’anni.

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L’uomo che visse tre volte (R.I.P. Wilko Johnson, 12/7/1947-21/11/2022)

Da chitarrista dei Dr. Feelgood, la band che più di qualunque altra della scena del pub rock contribuì ad aprire la strada al punk, fu la più improbabile (per i tempi) delle rockstar. Ebbe poi un’onesta carriera da solista che sembrò essere giunta al capolinea, insieme alla sua vita, quando nel gennaio 2013 gli diagnosticarono un tumore in fase terminale. Ops! Si erano (in parte) sbagliati. Gli ultimi anni dell’artista Wilko Johnson sono stati gloriosi quasi quanto quelli di una giovinezza ruggente.

Stupidity (Dr. Feelgood; United Artists, 1976)

“Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”: non paia blasfemo citare l’evangelista Marco, che a sua volta citava il profeta Isaia, che a sua volta metteva insieme due profezie di Malachia, per fare un parallelo con il ruolo che ebbero i Dr. Feelgood nell’aprire la via al punk. Se non altro perché non si fa altro che citare ulteriormente, Nick Hasted dell’“Independent”, che recensendo la trionfale prima proiezione (con l’intera sala in piedi a salutarne i titoli di coda con un applauso interminabile) di Oil City Confidential, il documentario sui Dr. Feelgood firmato nel 2009 da Julien Temple, scriveva dei nostri eroi dicendoli i facenti funzione di Giovanni Battista rispetto ai Messia del punk. Paragone ardito quanto ineccepibile.

È lungo e scandito da centinaia di concerti il percorso che porterà il quartetto di Canvey Island – nella formazione classica che schiera Lee Brilleaux a voce, armonica e chitarra, Wilko Johnson all’altra sei corde, John B. Sparks al basso e John Martin (soprannominato The Big Figure) alla batteria – a celebrare il massimo trionfo del pub rock piazzando questo album, il suo terzo e (viene da dire: naturalmente) un live, in vetta alla graduatoria dei più venduti nel Regno Unito nel settembre 1976. Solo per poi venire eclissato da quel punk cui aveva fatto da battistrada e gli stessi Dr. Feelgood, dopo avere quasi replicato nel maggio ’77 con “Sneakin’ Suspicion”, un buon numero 10, gradualmente retrocederanno dai teatri a quel circuito di bar e club spesso infimi che li aveva cresciuti a partire dal 1971 e che avevano fatto crescere, ultimo guizzo di gloria mercantile un singolo nei Top 10 datato 1979. Irrimediabilmente superati dai tempi ma in compenso nella Storia e culto che resiste tenace. Preceduto a 45 giri nel novembre ’74 dal rozzo quanto orecchiabile errebì Roxette, “Down By The Jetty” è nel gennaio 1975 il sospiratissimo esordio a 33, collezione di rhythm’n’blues bianco in stile primi Pretty Things, i più grezzi, cui si alternano blues e rock’n’roll altrettanto contundenti. Non vede manco da lontano le classifiche a differenza di un seguito – “Malpractice”, ottobre stesso anno e nei Top 20 – messo insieme un po’ frettolosamente e a testimoniarlo è che ove nel predecessore Wilko Johnson firmava larga parte della scaletta (fra i rifacimenti notevole una Boom Boom, da John Lee Hooker, rifatta in stile Animals) qui quasi metà del programma è di cover (formidabile in ogni caso, per quanto picchia duro, almeno Riot In Cell Block No.9). Ma è “Stupidity” (ove gli “originali” di nuovo prevalgono solo di misura, sette a sei) il bignamino perfetto di un sound ruggente e scartavetrato, alcolico e anfetaminico. “Grida”, Lee Brilleaux, ma tutt’altro che in un metaforico deserto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.261, febbraio 2020.

I Keep It To Myself/The Best Of (Chess, 2017)

È la prima metà del titolo a dichiarare la singolarità dell’operazione: lì il titolare svela che le venticinque tracce raccolte in “I Keep It To Myself” (divise su due CD per una complessiva ora e mezza di ascolto) se l’era tenute per sé. Non è dato sapere per quale ragione. Forse mancava l’etichetta giusta cui affidare queste registrazioni, bastanti a confezionare un paio di album, e che bella cosa che i nastri, incisi fra il 2008 e il 2012, vedano la luce per la casa di Chicago: marchio storico per antonomasia del blues elettrico nonché indirizzo cui si domiciliarono nomi cruciali del rhythm’n’blues primevo e, parlando di rock’n’roll, tal Chuck Berry. Tutti numi tutelari per quei Dr. Feelgood che a metà ’70 prepararono il terreno per il punk con quell’esplosiva miscela che prendeva il nome di pub rock. Nei loro primi quattro, formidabili LP di Wilko Johnson non c’è “solo” la chitarra ma anche la firma in calce alla totalità del repertorio autografo.

Restano i suoi anni migliori, lo sa e qualche cavallo di battaglia ogni tanto lo recupera: qui una Roxette reggata, una She Does It Right alla nitroglicerina, una Back In The Night devotissima a Chuck, il malevolo blues Sneaking Suspicion, l’indiavolato errebì Twenty Yards Behind. Se ho ben contato ci sono poi altri quattro pezzi che al cultore dovrebbero essere familiari e sono quelli finiti nel 2014 sull’eccellente “Going Back Home”, Roger Daltrey degli Who alla voce. Ricorderete: registrato dopo un tour che sul serio doveva essere “d’addio”, visto che a Johnson era stato diagnosticato un tumore in fase terminale. Colpo di scena! La diagnosi era parzialmente errata e il vecchio filibustiere si appresta a soffiare su settanta candeline. Auguri, ma di cuore.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 388, giugno 2017.

Blow Your Mind (Chess, 2018)

Quando nel 2013 Wilko Johnson annunciava di essere al tour di addio non era di un congedo dalle scene che si trattava, ma dal mondo: gli era stato appena diagnosticato un tumore al pancreas in fase terminale e, in luogo di sottoporsi a una chemioterapia che avrebbe solo rimandato di poco l’inevitabile, aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi mesi come molta parte dei precedenti quarant’anni, ossia suonando dal vivo. Erano concerti affollati come mai dall’epoca ruggente di quei Dr. Feelgood di cui era stato chitarrista dal ’71 al ’77, alfieri di un pub rock che spalancò la porta al punk, clamorosamente primi nel 1976 in Gran Bretagna con il live “Stupidity”. E, per quanto potessero essere logicamente commosse, le platee ancora di più erano esilarate da spettacoli di una vitalità travolgente. Ritrovata, si potrebbe dire. Costretto ad annullare le ultime due date perché non più in grado di affrontare il palco, si prendeva una settimana in studio per incidere un ultimo album, il formidabile “Going Back Home”, con Roger Daltrey alla voce. Dando per scontato che non avrebbe vissuto abbastanza da vederlo pubblicato.

E quattro anni dopo dà alle stampe il successore “vero”, dopo il brillante doppio scavo negli archivi “I Keep It To Myself”. Giacché si dà il fortunato caso che la diagnosi di cui sopra fosse in parte errata, e che un’operazione di undici ore durante la quale gli è stato rimosso di tutto e di più lo abbia rimesso in piedi. Quasi settantunenne ha realizzato un disco dei suoi più coesi e ispirati, da un’iniziale Beauty in scia alla classica Sneaking Suspicion al rovinoso rock’n’roll a suggello Slamming. Passando per l’ustionante blues Marijuana, una Tell Me One More Thing fra Ian Dury e Bo Diddley, una cooderiana (circa “Bop Till You Drop”) Lament.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.401, settembre 2018.

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Ben Harper – Bloodline Maintenance (Chrysalis)

Se il sedicesimo album di Ben Harper fosse un film (concorrerà magari ai Grammy: il nostro uomo in una carriera quasi trentennale già se n’è portati a casa tre) il basso potrebbe ricevere una candidatura agli Oscar nella categoria “migliore attore non protagonista”. Davvero: a memoria non ricordo un altro suo disco in cui sin dal primo passaggio mi sia capitato di notare come il suddetto strumento giochi un ruolo di quasi pari importanza rispetto a voce e chitarra. E vabbé, ho pensato, Juan Nelson è sempre stato un gran manico. Salvo ricordarmi un attimo dopo che costui, con Harper quasi da subito (dal tour del primo disco e in studio dal secondo; spesso seconda voce, talvolta co-autore) ci ha lasciati lo scorso anno. Salvo apprendere che in “Bloodline Maintenance” il titolare ha fatto quasi tutto da sé, suonando oltre alla chitarra e alla lap steel, batteria, percussioni varie e appunto il basso. Soli apporti esterni un corista, due voci femminili e (riluce particolarmente in un’atmosferica Problem Child, che sorprendentemente potrebbe arrivare dal repertorio dei Morphine) il fiatista jazz Geoff Burke. E davvero non riesco a immaginare come Harper avrebbe potuto omaggiare meglio l’amico scomparso.

È il suo lavoro più succinto di sempre (undici tracce ma giusto trentadue minuti) e in tutti i sensi uno dei più sobri, i testi quale nato come conversazione con il padre defunto, quale come riflessione su un paese di cui il razzismo plasma ancora l’identità. Da tanti incroci fra soul e blues che rimandano come non mai a Curtis Mayfield (e un po’ a Bill Withers come a Terry Callier) si staccano il secco funk con wah wah We Need To Talk About It e la sferragliante Knew The Day Was Comin’.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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