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The Story Of Bo Diddley

In almeno metà dei suoi conclamati classici Ellas McDaniel ha infilato nel titolo il suo nome d’arte: Bo Diddley, Diddley Daddy, Hey Bo Diddley, The Story Of Bo Diddley, Bo’s Blues, Bo Diddley Is Loose. Deliri di onnipotenza alla Diego Armando Maradona, che parlava di sé in terza singolare? Niente affatto.

La pratica del “bragging”, la vanteria esagerata, fa parte della cultura afroamericana da quando era solamente afro. Era del blues ed è dell’hip hop. Tutte quelle storie con un protagonista che è l’artista stesso che sa cavarsela in ogni situazione, ha la favella più sciolta, le mani più svelte, le donne più belle perché al suo fascino nessuna sa resistere e lui ce l’ha più grosso di tutti, l’ego. Da Bo Diddley a Snoop Doggy Dog, si avvicendano le generazioni ma resta intatto nel nucleo uno stile che viene da lontano. Ma anche non fosse un frutto di questa tradizione Bo Diddley avrebbe ogni diritto di autoincensarsi: pochi hanno inciso come lui sulla storia della musica popolare del Novecento.

Più giovane di un paio di anni di quel Chuck Berry suo grande amico e rivale premiato dalle classifiche non quanto avrebbe meritato ma parecchio più di lui (incredibile a dirsi: un unico disco nei Top 20 generalisti americani a fronte di una manciata di titoli nella graduatoria R&B), il nostro eroe festeggerà il settantottesimo compleanno il prossimo 30 dicembre. Magari suonando dal vivo, visto che la sua attività concertistica è ancora piuttosto fitta e neppure limitata ai soli Stati Uniti. Sarà ad esempio in Finlandia, attrazione di spicco del “Pori Jazz Festival”, il 19 e 20 luglio e se qualche lettore dovesse capitare da quelle parti ci faccia sapere se è ormai da museo oppure no. Per certo non lo era, già sessantenne, alla rassegna romana del novembre 1988 dei “Giganti del Rock’n’Roll” (con James Brown, Ray Charles, Fats Domino, B.B. King, Jerry Lee Lewis e Little Richard). I convenuti lo ricordano in forma smagliante, unico forse fra i non molti sopravvissuti di quell’epoca a non fare la figura un po’ patetica del reperto archeologico. Un anno dopo usciva, rimediando recensioni mediamente positive oltre che reverenti, “Breaking Through The Bs”. Per la Triple X, nientemeno, un’etichetta devota prevalentemente al punk che griffava anche i successivi “This Should Not Be”, del 1992, e “Promises”, del ’94, anno in cui apriva alcuni spettacoli dei suoi discepoli prediletti, tali Rolling Stones. Quello che a oggi è l’ultimo lavoro in studio, “A Man Amongst Men”, vedeva la luce nel 1996 e (di nuovo: incredibile a dirsi) era la sua seconda uscita major di sempre, a venti tondi anni dalla prima.

Tuttavia: per quanto i suoi dischi dei tardi ’60 e dei tre decenni seguenti siano tutti come minimo dignitosi e il Nostro abbia sempre conservato sul palco una vitalità prodigiosa è però quanto produsse dall’incredibile esordio del 1955 ─ Bo Diddley su un lato, I’m A Man sull’altro ─ al giro di boa del decennio seguente che ha fatto incommensurabile l’influenza di Ellas McDaniel sull’evoluzione del rock. Fu il primo bluesman che piuttosto che elettrificare la musica del diavolo, aggiungendole dunque una sovrastruttura, fece dell’elettricità un suo elemento portante. Fu fra i primi e fra i rari musicisti in tale ambito a registrare in stereo e a sperimentare con le nuove tecniche di registrazione (altro che primitivo!). Fu uno dei numi titolari dei teppisti del blues britannici.

Prosegue per altre 4.830 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.623, giugno 2006. Bo Diddley nasceva novantaquattro anni fa. Ci lasciava, settantanovenne, il 2 giugno del 2008.

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Little Richard ─ Il Re e La Regina del rock’n’roll

Se “Blow Up” è stato puntuale nel suo appuntamento con l’edicola e voi eravate lì ad attenderlo, ci sono buone possibilità che leggiate queste righe il 5 dicembre 2001, giorno in cui il signor Richard Wayne Penniman, meglio noto come Little Richard, compirà sessantanove anni. Con la medesima affettuosa perfidia che spinse nell’85 il “New Musical Express” a intitolare una delle sue ultime interviste importanti The King & Queen Of Rock’n’Roll, ho pensato che fosse il compleanno più appropriato da festeggiare per colui che, oltre ad avere plasmato in maniera determinante Beatles, Creedence Clearwater Revival, Bruce Springsteen e Prince, ha introdotto il sesso nella trimurti “sesso e droga e rock’n’roll”. Del terzo elemento spero che anche i più sprovveduti fra voi sappiano che fu uno degli inventori. L’architetto, preferisce chiamarsi lui. Con il secondo ha avuto rapporti intensi, alternando a lungo nella sua vita i periodi in cui si faceva di sostanze assortite con altri in cui ha preferito farsi di domineiddio. Il suo ultimo album non antologico risale all’ormai lontano 1992 ed è a questo punto ragionevole ipotizzare che non ne ascolteremo altri. Parata di canzoni per bambini rivisitate alla sua maniera, “Shake It All About” usciva nientemeno che per i tipi della Disney, imprimatur di rispettabilità amerikana su una carriera esordita fra la parata di spostati di un medicine show quasi fuori tempo massimo. Era il 1947.

New Deal e secondo conflitto mondiale non sono stati del tutto bastanti a fare emergere la Georgia dalle disperanti sabbie mobili della Grande Depressione. Scampoli di Ottocento vi sopravvivono e fra essi spettacolini itineranti in cui truffaldini marpioni spacciano unguenti atti a guarire ogni malanno all’ignorante platea di astanti, non ancora abituata a farsi rifilare le stesse fregature dalla TV. Fra una vendita e l’altra vengono offerti numeri sia comici che musicali e il quindicenne Richard Wayne, il più piccolo della compagnia e dunque Little Richard, intrattiene il pubblico cantando soprattutto i gospel che babbo gli insegnò, collaudati in battaglie in chiesa con gli agguerriti Penniman Singers, papà, mammà e quasi una dozzina fra fratelli e sorelle. Non proprio un’infanzia felice la sua. Un braccio e una gamba più corti di compagno e compagna gli hanno regalato il crudele dileggio dei coetanei nella nativa Macon (la stessa città che crescerà Otis Redding) e gli atteggiamenti effeminati sopraggiunti allo scoccare della pubertà altri lazzi, scudisciate da parte del padre (severo avventista del settimo giorno) e le interessate attenzioni dei maschioni bianchi frequentanti i bassifondi locali. Ergo: si scappa di casa. Il crepuscolo del decennio lo sorprende ad Atlanta, nel quartiere gay, dove vestito e truccato da donna sciorina indifferentemente vaudeville e primitivo errebì. Lo nota un blues shouter di nome Billy Wright. Aspetto non esattamente sobrio pure costui e grande presenza scenica, sarà non solo un’influenza importante sul ragazzo ma pure il suo primo sponsor, procurandogli un contratto con la RCA e prestandogli il suo gruppo per la seduta in sala di incisione che frutterà nell’ottobre ’51 il singolo Every Hour/Taxi Blues. Piuttosto ben venduto, sebbene soltanto a livello locale. Altre facciate gli vanno dietro nei mesi seguenti, con impatto decrescente. Nel 1952 Riccardino vagabonda assai ma è proprio a Macon che ha modo di conoscere tale S.Q. Reeder. Non vi dice niente? Provo con il nome d’arte: Esquerita. Spettacolare acconciatura da madama francese del XVIII secolo, abbigliamento non meno vistoso e dita che corrono frenetiche sui tasti del piano. Una fiammeggiante star nella vita, prima ancora che le vendite discografiche lo decretino tale. Il giovane Richard osserva e prende nota.  È di quelle fatidiche settimane un riavvicinamento con il padre che la morte prematura di costui, assassinato durante una rissa, impedisce che diventi completa riappacificazione. Colmo di rimorsi e sentendo il dovere di contribuire al bilancio famigliare in crisi, Little Richard si ritira per la prima di innumerevoli volte dalle scene. Dura pochi mesi. Troppo forte il richiamo della ribalta. A fine anno possiamo trovarlo ospite fisso al Tijuana Club di New Orleans.

New Orleans! Santa Bagascia di un Nuovo Mondo dal cuore in realtà antichissimo. Là in Congo Square, centro di una città meticcia con cattolici e latini prevalenti su protestanti e anglosassoni (unico caso in Nordamerica), gli schiavi hanno ballato danze d’estasi sul rollare di tamburi ancestrali. Là Marie Laveau ha tramato i suoi incantesimi vudù. Là, nel quartiere a luci rosse, il jazz ha avuto la sua culla. Dove, se non là, poteva sbocciare la musica più bastarda di tutte, il rock’n’roll?

Prosegue per altre 5.846 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.43, dicembre 2001. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita di Richard Wayne Penniman, in arte Little Richard.

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L’uomo che visse tre volte (R.I.P. Wilko Johnson, 12/7/1947-21/11/2022)

Da chitarrista dei Dr. Feelgood, la band che più di qualunque altra della scena del pub rock contribuì ad aprire la strada al punk, fu la più improbabile (per i tempi) delle rockstar. Ebbe poi un’onesta carriera da solista che sembrò essere giunta al capolinea, insieme alla sua vita, quando nel gennaio 2013 gli diagnosticarono un tumore in fase terminale. Ops! Si erano (in parte) sbagliati. Gli ultimi anni dell’artista Wilko Johnson sono stati gloriosi quasi quanto quelli di una giovinezza ruggente.

Stupidity (Dr. Feelgood; United Artists, 1976)

“Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”: non paia blasfemo citare l’evangelista Marco, che a sua volta citava il profeta Isaia, che a sua volta metteva insieme due profezie di Malachia, per fare un parallelo con il ruolo che ebbero i Dr. Feelgood nell’aprire la via al punk. Se non altro perché non si fa altro che citare ulteriormente, Nick Hasted dell’“Independent”, che recensendo la trionfale prima proiezione (con l’intera sala in piedi a salutarne i titoli di coda con un applauso interminabile) di Oil City Confidential, il documentario sui Dr. Feelgood firmato nel 2009 da Julien Temple, scriveva dei nostri eroi dicendoli i facenti funzione di Giovanni Battista rispetto ai Messia del punk. Paragone ardito quanto ineccepibile.

È lungo e scandito da centinaia di concerti il percorso che porterà il quartetto di Canvey Island – nella formazione classica che schiera Lee Brilleaux a voce, armonica e chitarra, Wilko Johnson all’altra sei corde, John B. Sparks al basso e John Martin (soprannominato The Big Figure) alla batteria – a celebrare il massimo trionfo del pub rock piazzando questo album, il suo terzo e (viene da dire: naturalmente) un live, in vetta alla graduatoria dei più venduti nel Regno Unito nel settembre 1976. Solo per poi venire eclissato da quel punk cui aveva fatto da battistrada e gli stessi Dr. Feelgood, dopo avere quasi replicato nel maggio ’77 con “Sneakin’ Suspicion”, un buon numero 10, gradualmente retrocederanno dai teatri a quel circuito di bar e club spesso infimi che li aveva cresciuti a partire dal 1971 e che avevano fatto crescere, ultimo guizzo di gloria mercantile un singolo nei Top 10 datato 1979. Irrimediabilmente superati dai tempi ma in compenso nella Storia e culto che resiste tenace. Preceduto a 45 giri nel novembre ’74 dal rozzo quanto orecchiabile errebì Roxette, “Down By The Jetty” è nel gennaio 1975 il sospiratissimo esordio a 33, collezione di rhythm’n’blues bianco in stile primi Pretty Things, i più grezzi, cui si alternano blues e rock’n’roll altrettanto contundenti. Non vede manco da lontano le classifiche a differenza di un seguito – “Malpractice”, ottobre stesso anno e nei Top 20 – messo insieme un po’ frettolosamente e a testimoniarlo è che ove nel predecessore Wilko Johnson firmava larga parte della scaletta (fra i rifacimenti notevole una Boom Boom, da John Lee Hooker, rifatta in stile Animals) qui quasi metà del programma è di cover (formidabile in ogni caso, per quanto picchia duro, almeno Riot In Cell Block No.9). Ma è “Stupidity” (ove gli “originali” di nuovo prevalgono solo di misura, sette a sei) il bignamino perfetto di un sound ruggente e scartavetrato, alcolico e anfetaminico. “Grida”, Lee Brilleaux, ma tutt’altro che in un metaforico deserto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.261, febbraio 2020.

I Keep It To Myself/The Best Of (Chess, 2017)

È la prima metà del titolo a dichiarare la singolarità dell’operazione: lì il titolare svela che le venticinque tracce raccolte in “I Keep It To Myself” (divise su due CD per una complessiva ora e mezza di ascolto) se l’era tenute per sé. Non è dato sapere per quale ragione. Forse mancava l’etichetta giusta cui affidare queste registrazioni, bastanti a confezionare un paio di album, e che bella cosa che i nastri, incisi fra il 2008 e il 2012, vedano la luce per la casa di Chicago: marchio storico per antonomasia del blues elettrico nonché indirizzo cui si domiciliarono nomi cruciali del rhythm’n’blues primevo e, parlando di rock’n’roll, tal Chuck Berry. Tutti numi tutelari per quei Dr. Feelgood che a metà ’70 prepararono il terreno per il punk con quell’esplosiva miscela che prendeva il nome di pub rock. Nei loro primi quattro, formidabili LP di Wilko Johnson non c’è “solo” la chitarra ma anche la firma in calce alla totalità del repertorio autografo.

Restano i suoi anni migliori, lo sa e qualche cavallo di battaglia ogni tanto lo recupera: qui una Roxette reggata, una She Does It Right alla nitroglicerina, una Back In The Night devotissima a Chuck, il malevolo blues Sneaking Suspicion, l’indiavolato errebì Twenty Yards Behind. Se ho ben contato ci sono poi altri quattro pezzi che al cultore dovrebbero essere familiari e sono quelli finiti nel 2014 sull’eccellente “Going Back Home”, Roger Daltrey degli Who alla voce. Ricorderete: registrato dopo un tour che sul serio doveva essere “d’addio”, visto che a Johnson era stato diagnosticato un tumore in fase terminale. Colpo di scena! La diagnosi era parzialmente errata e il vecchio filibustiere si appresta a soffiare su settanta candeline. Auguri, ma di cuore.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 388, giugno 2017.

Blow Your Mind (Chess, 2018)

Quando nel 2013 Wilko Johnson annunciava di essere al tour di addio non era di un congedo dalle scene che si trattava, ma dal mondo: gli era stato appena diagnosticato un tumore al pancreas in fase terminale e, in luogo di sottoporsi a una chemioterapia che avrebbe solo rimandato di poco l’inevitabile, aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi mesi come molta parte dei precedenti quarant’anni, ossia suonando dal vivo. Erano concerti affollati come mai dall’epoca ruggente di quei Dr. Feelgood di cui era stato chitarrista dal ’71 al ’77, alfieri di un pub rock che spalancò la porta al punk, clamorosamente primi nel 1976 in Gran Bretagna con il live “Stupidity”. E, per quanto potessero essere logicamente commosse, le platee ancora di più erano esilarate da spettacoli di una vitalità travolgente. Ritrovata, si potrebbe dire. Costretto ad annullare le ultime due date perché non più in grado di affrontare il palco, si prendeva una settimana in studio per incidere un ultimo album, il formidabile “Going Back Home”, con Roger Daltrey alla voce. Dando per scontato che non avrebbe vissuto abbastanza da vederlo pubblicato.

E quattro anni dopo dà alle stampe il successore “vero”, dopo il brillante doppio scavo negli archivi “I Keep It To Myself”. Giacché si dà il fortunato caso che la diagnosi di cui sopra fosse in parte errata, e che un’operazione di undici ore durante la quale gli è stato rimosso di tutto e di più lo abbia rimesso in piedi. Quasi settantunenne ha realizzato un disco dei suoi più coesi e ispirati, da un’iniziale Beauty in scia alla classica Sneaking Suspicion al rovinoso rock’n’roll a suggello Slamming. Passando per l’ustionante blues Marijuana, una Tell Me One More Thing fra Ian Dury e Bo Diddley, una cooderiana (circa “Bop Till You Drop”) Lament.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.401, settembre 2018.

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Dan Sartain – Arise, Dan Sartain, Arise! (One Little Independent)

A volte la vita fa davvero schifo. Devi recensire l’ottavo album di uno che adori sin da quando scrivesti di un terzo che era però come fosse il primo, giacché nel 2006 con “Vs. The Serpientes” l’autore entrava nel mondo della discografia ufficiale dopo due autoproduzioni, e dovresti esserne felice. Tanto più perché lo si attendeva dal 2016 ma anche no, sapendo che Sartain, arresosi all’impossibilità di campare di musica, aveva aperto una bottega di barbiere in quella Birmingham. Alabama, in cui era nato il 13 agosto 1982. Dovresti esserne contento visto che come tutti i precedenti è lavoro di vaglia e godibilissimo. Come quelli, da sistemare idealmente nella parte di libreria che ospita Tav Falco e Cramps, Billy Childish nelle sue innumerevoli incarnazioni, Gun Club e Oblivians, ’68 Comeback, Rocket From The Crypt, White Stripes… Si parte con il surf guerriero You Can’t Go Home No More e da lì al festoso rock’n’roll, Daddy’s Coming Home, con cui si congeda il disco non registra una battuta a vuoto in altre undici tracce in cui dal garage passa al power pop, da quello allo psychobilly, un punk 100% Ramones va dietro a una ballata che potrebbe venire dallo studio della Sun al tempo in cui lo frequentava Elvis, una sferragliante filastrocca anticipa un country al galoppo in cui spiazzando sfrigola un synth. Che gran ritorno insomma, che bello potersene occupare.

Solo che Dan Sartain è morto lo scorso 20 marzo. Si ignora di cosa ma per certo (tanti gli indizi in tal senso) ha inciso quest’album sapendo di avere i giorni contati. Tornate sul titolo dell’ultimo pezzo: è il saluto a una bambina, la figlia, che chi sta cantando sa che non vedrà crescere. La vita fa schifo e per qualcuno è troppo breve.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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Wonderful Wanda (Jackson) – La regina del rockabilly

Bellissimi lineamenti Wanda Jackson, ancora oggi che l’età è di quelle che, avendo a che fare con una piacente signora, non si svelano più, e sotto la gonna due palle grosse così. Immaginate… Se Jerry Lee Lewis fosse stato un chitarrista. Se Elvis fosse stato tenebroso come Roy Orbison e punk come Eddie Cochran. Se Gene Vincent fosse stato uno del Johnny Burnette Trio. Se tutti costoro messi insieme fossero nati donna, ebbene, si sarebbero chiamati Wanda Jackson: la Queen Of Rockabilly, la Fujiyama Mama che per prima fece impazzire per il rock’n’roll – pensate un po’ – i giapponesi, per sette settimane consecutive in ginocchio davanti a lei durante un tour che è poco dire epocale, AD 1957. Nel decennio seguente i tedeschi, se possibile, la adoreranno ancora di più e con questo non si vuole adombrare che non sia stata profetessa in patria, tutt’altro. Fra alti e qualche basso, e soprattutto negli anni dal 1956 al 1963 coperti dalla travolgente e stipatissima (trentacinque brani, ottanta minuti) raccolta su Bear Family “Wanda Rocks”, la popolarità di Wanda fu grande. Né verrà dimenticata.

Nata in Oklahoma ma cresciuta in California, ottima chitarrista e cantante dalla voce sofferta e singolarmente matura per l’età, ma che nondimeno conserva un tono sbarazzino, Wanda LaVonne Jackson – giovanissima – ha un suo programma radio alla KLPR di Bakersfield. Capita di ascoltarla ad Hank Thompson, valente artista country sulla cresta dell’onda in quel momento, che subito offre alla girl un posto nei suoi Brazos Valley Boys. È il 1953. L’anno dopo la Capitol respinge un demo non perché non sia convinta delle doti della ragazza ma soltanto perché è ancora minorenne. La catturerà allo scoccare della maggiore età e nel frattempo è la Decca, che non si pone problemi al riguardo, a contare i dollaroni che quell’estate frutta il duetto con Bill Gray You Can’t Have My Love. Terminata la scuola da quella brava ragazza che è, a dispetto degli ammiccamenti e della grinta di performance infuocate, dall’11 ottobre 1955 sarà fra gli ospiti dell’“Elvis Presley Jamboree” e nulla potrà più fermarla.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.19, autunno 2005. La Regina del Rockabilly compie oggi ottantaquattro anni.

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L’allegra ciurma di Commander Cody (in memoria di George Frayne, 19/7/1944-26/9/2021)

Formatisi nel Michigan nel 1967, Commander Cody (al secolo George Frayne) e i suoi Lost Planet Airmen (sigla prelevata da una serie che include classici del cinema di serie D quali Zombies Of The Stratosphere) devono trasferirsi a San Francisco per rimediare infine, nel 1971, un contratto (appropriatamente con un’etichetta, la Paramount, diramazione di un noto studio di Hollywood). L’esordio con il singolo Hot Rod Lincoln è in compenso col botto, visto che il brano entra nei Top 10 di “Billboard”. A dare sostanza alla fama del gruppo più che i comunque apprezzabili “Lost In The Ozone”, “Hot Licks, Cold Steel & Truckers’ Favorites” e “Country Casanova” provvedono concerti allegri e incandescenti in cui western swing ed errebì, blues e rockabilly, honky tonk e boogie si fondono indissolubilmente. Che nei ragazzi batta un cuore texano è evidente e non è quindi un caso che lo stato della Stella Solitaria li adotti con entusiasmo. Registrato nel novembre 1973 agli Armadillo World Headquarters di Austin e pubblicato nel marzo dell’anno dopo “Live From Deep In The Heart Of Texas” è memorabile in toto, a partire dalla copertina.

Scritto per Rock: 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012, ma poi escluso dalla lista finale. Il Comandante ci ha lasciati ieri, settantasettenne.

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Elvis Presley – Una storia americana

Qui è dove l’anima di un uomo non muore mai.” (Sam Phillips, a proposito del suo amore per la musica nera)

Elvis era un eroe per i più/ma non ha mai voluto dire un cazzo per me/Era un razzista quel fottuto/fatto e finito/Vadano a fare in culo lui e John Wayne.” (Public Enemy, Fight The Power)

C’è stato un tempo in cui anche per me Elvis non voleva dire un cazzo. Quindicenne, da poco scottato dalla fiamma della musica e ignaro che le ustioni mi avrebbero segnato per il resto della vita, appresi con un’alzata di spalle della sua dipartita da un Tiggì di ora di pranzo. Roba da vecchi, pensai. Mi impressionò all’incirca quanto avrebbe potuto impressionarmi la morte di uno dei suoi imitatori italiani, un Bobby Solo o un Little Tony qualunque. Così continuai a mangiare e subito dopo mi immersi di nuovo nel vento e nel sole di una vacanza siciliana noiosa come possono esserlo soltanto le vacanze trascorse, da adolescente, in famiglia e presso parenti, ma del cui scorrere di giorni perlopiù uguali l’uno all’altro ho tuttavia conservato ricordi sorprendentemente numerosi. Scorci di natura domestica eppure selvatica. Lo stormire degli ulivi in una campagna riarsa. L’odore del mare. Resse e risse di ormoni in subbuglio alla vista di carne giovane e abbronzata disinvoltamente esposta in spiaggia. Guardare e non toccare. E poi rammento, come fosse ieri, lo speaker che annuncia che Elvis non è più. Possibile? Eppure lui davvero non rappresentava nulla per me, non avevo mai sentito un suo disco, era un sorpassato. Ma qualcosa mi si scavò nella memoria, forse un presagio dell’esistenza che l’amore per la musica mi avrebbe regalato o per meglio dire inflitto.

Ho comprato il mio primo album di Elvis a inizio 1983, da un mercante torinese di vinili di seconda mano all’anticipo alla stragrande sui tempi, visto che molto prima che il carrozzone delle fiere del disco raro si avviasse usava praticare prezzi discretamente esosi. “Ma come!”, protestai indignato, “mi fa pagare un usato e in serie economica come se fosse nuovo e a prezzo pieno?” “Guarda che l’hanno messo fuori catalogo e non lo si vede più mica tanto. Comunque lascialo pure lì, che è roba che appena metto fuori va subito via.” Naturalmente, non mi sognai neppure di lasciarlo.  Mi separai mugugnando da qualche banconota da mille e me lo portai a casa. Avevo appena scritto quello che sarebbe stato il mio primo articolo pubblicato (ancora ne ero all’oscuro) e grazie a una mia naturale inclinazione per la storia (sempre stata la mia materia preferita) e all’insegnamento dei Clash, che con “London Calling” e “Sandinista!” mi avevano spalancato universi, oltre che un entusiasta dell’attualità del rock stavo cominciando a diventare uno studioso del suo passato anche remoto. Mi piacevano fra l’altro parecchio all’epoca gli Stray Cats (ehi! là fuori! qualcuno se li ricorda gli Stray Cats?) e avvertivo l’incongruenza dell’avere negli scaffali materiali neo-rockabilly, o i Cramps, e poco o nulla delle fondamenta del rock’n’roll. E poi era un bell’inizio (sono un tipo metodico, io) partire proprio da dove tutto era cominciato, vale a dire dalle prime sedute di registrazione di Elvis Presley per Sam Phillips. Diciannove anni dopo la “Sun Collection” continua a essere, e sempre sarà, uno dei miei dischi da isola deserta. Pur essendomi da allora passate per le mani stampe, pure in vinile, più belle, non ho mai cambiato la mia copia RCA Linea Tre (una delle prime serie economiche in Italia, così detta perché dapprincipio aveva un prezzo imposto di 3.000 lire). E se anche un giorno dovessi cedere alla tentazione di un CD con l’integrale delle incisioni di Elvis per l’etichetta di Memphis la terrei con me, non solo come memento della giovinezza che fu ma perché convinto che le edizioni allargate pubblicate in seguito non abbiano in realtà aggiunto niente e forse sottratto qualcosa alla perfezione di quelle cinque facciate più cinque, con resto di cinque più un doppione per la RCA già famelica. Il contorno sono sfizi da filologo e vizi da guardone. È lì, sappiamo che c’è, ma non ne abbiamo davvero bisogno. Di quelle quindici canzoni sì.

Le sto riascoltando proprio adesso, brividi ed elettricità sulla spina dorsale come sempre. La voce di Elvis singultante e calorosa, innocente e teneramente istrionica e Scotty Moore e Bill Black che ci danno dentro, chitarra e contrabbasso al trotto in lande con già molto di familiare al tempo, nondimeno inesplorate. Perché, come capirono subito i due Phillips (Sam il discografico e Dewey il dj, che mandò in onda un acetato di That’s Alright Mama l’8 luglio 1954, tre giorni dopo la registrazione), non era musica né bianca né nera, non country, non pop, ma un mondo nuovo. Quasi tutto quello che posseggo del nostro uomo è stato comprato fra l’83 e l’86. Diverse antologie da trentadue successi per volta e senza sovrapposizioni, l’ultimo LP in studio degno di nota (un “Elvis Country” del 1971), minutaglie. Non sorprenda la mancanza degli album i cui titoli potete rintracciare in qualunque enciclopedia. Fui presto consapevole che, tralasciando la gran messe di colonne sonore che sanno solo intermittentemente offrire momenti di grazia, Presley ragionò sempre in termini di singola canzone, di 45 giri, mai di 33. Per comprare allora compilazioni d’epoca con gli inevitabili riempitivi, tanto valeva e vale procurarsi antologie concepite in seguito (la stessa “Sun Collection” vide la luce a un ventennio dal periodo che documenta) e dunque con meno cadute. Appiccicato al muro da That’s Alright Mama e compagnia blues e hillybilleggiante, apprezzai quasi altrettanto le prime cose per la RCA, pur percependone la natura già in qualche misura addomesticata, e con mio grande stupore mi scoprii non meno colpito da talune incisioni dei tardi ’60 e persino dei primi ’70. Sarebbe dovuto essere (era) l’Elvis appesantito nel fisico e ottenebrato nello spirito che si avviava a una morte grottesca come i suoi ultimi anni di dischi, sempre più raffazzonati, e concerti, alla fine imbarazzanti persino per un fandom che l’aveva elevato a figura cristologica. Ciò nonostante nel fragore della caduta si avvertivano con chiarezza echi e qualcosa di più delle glorie trascorse.

Non è stato però che nel 1988 che ho iniziato a capire sul serio cosa abbia rappresentato Elvis al suo apparire per l’America, grazie a un surrogato di macchina del tempo in forma di festival cinematografico, in quel di Firenze. Seduto nel buio di una sala, mi feci ipnotizzare da immagini del 1956 di una forza a tal punto stravolgente da scoprirmi schiacciato alla poltroncina, le mani strette convulsamente ai braccioli, gli occhi sgranati. Erano spezzoni di concerti e apparizioni televisive e mai in vita mia avevo visto qualcosa di altrettanto… non primitivo, no… primordiale. Adrenalina pura. Quintessenza di sesso. Paragonabile solo, per esperienza personale, ai Cramps che osservai nel 1980 fare infuriare fino ai tentativi di linciaggio un intero Palasport in attesa dei Police. Medesima la carica selvaggia, con però un quarto di secolo di rock in mezzo e l’ulteriore differenza che Lux Interior me l’ero visto a pochi metri in carne, ossa e sudore ed Elvis stava su uno schermo in sbiadite immagini in bianco e nero. Pensai all’effetto che doveva avere fatto a chi lo aveva allora guardato in TV e la mia mente vacillò. Cercai di immaginare cosa potesse avere significato per chi aveva assistito a qualcuno dei suoi fulminanti concerti (venti minuti, al massimo mezz’ora la media dell’epoca) e non ce la feci.

Prosegue per altre 39.374 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per La prima volta su “Extra”, n.5, primavera 2002. Elvis ci lasciava quarantaquattro anni fa. Ne aveva quarantadue.

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Quando Dave Edmunds inventò il pub rock

Talento precoce quello di Dave Edmunds, da Cardiff e classe 1944, che forma un duo con il fratello maggiore Geoff appena decenne. Formidabile coincidenza: siamo nell’anno convenzionalmente indicato come quello di nascita del rock’n’roll, tenuto a battesimo in luglio dalle prime incisioni per la Sun di Elvis Presley. A quei suoni che arrivano da oltre Atlantico il ragazzino si appassiona subito e sarà l’amore di una vita, senza mai un tradimento vero, giusto (di più a breve) un’innocente quanto fruttuosa scappatella. Dopo una lunga teoria di complessini amatoriali il giovane Edmunds dà vita nel 1961 ai Raiders, trio rockabilly e dunque già fuori moda in un mondo che ha perso Buddy Holly e Eddie Cochran e ancora ignora che a breve tali Beatles lo cambieranno per sempre. Diversamente da quegli Stray Cats che il Nostro scoprirà e produrrà due tondi decenni dopo, i Raiders vengono ignorati. Passa un lustro e per una volta Dave Edmunds si ritrova in sintonia con il suo tempo. È epoca fra il tanto resto di British Blues ed è in quel filone che si inseriscono i Love Sculpture. “Blues Helping”, del dicembre 1968, è esordio gradevole quanto scolastico. Il botto arriva quando un singolo non presente sull’album, una curiosa versione rock (Keith Emerson prenderà nota) della Sabre Dance del compositore russo Aram Khachaturian, scala la graduatoria UK fino al numero 5. È un successo cui la band non sopravviverà, trascinandosi stancamente fino al gennaio 1970, quando il mediocre “Forms & Feelings” invece che rilanciarla la affosserà. Mors loro vita sua, in novembre Edmunds debutta da solista a 45 giri e per la prima (resterà l’unica) volta guarda tutti dall’alto nella classifica del Regno Unito (e anche in quella irlandese; in Germania è terzo, negli USA quarto). Non è un pezzo suo, I Hear You Knocking. Fra i più classici esempi di New Orleans Sound, l’ha scritto una quindicina di anni prima Dave Bartholomew ed è già stato una hit nella versione di Smiley Lewis.

Dice qualcuno che per Edmunds la storia del rock si ferma al ’63, ma un po’ esagera. Tant’è che in un esordio in lungo da solista (“Rockpile”, su Regal Zonophone, 1972) tutto di cover eccetto lo squillante rock-blues Hell Of A Pain per il congedo ci si affida a uno stentoreo Outlaw Blues, in una versione più lunga di due minuti di quella inclusa da Bob Dylan nel 1965 in “Bringing It All Back Home”, e il secondo lato si apre con la festosa Dance Dance Dance, regalata appena l’anno prima da Neil Young ai Crazy Horse. Addirittura: qui, sulla prima facciata, la It Ain’t Easy che David Bowie includerà solo l’anno dopo in “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust”. Ma scordatevelo, un Dave Edmunds in lustrini. Il resto è schietto rock’n’roll, con non una ma due riprese da Chuck Berry. Roba da pub, insomma.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.261, febbraio 2020. Dave Edmunds compie oggi settantasette anni.

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Su “London Calling”, che usciva quarant’anni fa

A un certo punto degli anni ‘90, non ricordo esattamente quando ma presumo all’inizio, i critici di “Rolling Stone” decisero di votare “the best album of the 80’s”. Finirono bizzarramente per individuarlo in “London Calling”, lavoro pubblicato ancora nel 1979, sebbene verso la fine. A rappresentare un decennio veniva dunque designata un’opera uscita in quello precedente, errore non solo cronologico ma prospettico, siccome il doppio dei Clash non riflette le tendenze al crossover e al superamento del rock emerse negli ‘80 (pietra di paragone “Remain In Light” dei Talking Heads) quanto un’ansia catalogatoria volta a definire, in luogo che a ridefinire, il canone del rock’n’roll. Come campione di quel decennio (e pure dei ’90!) avrebbero potuto benissimo scegliere, invece, il triplo “Sandinista!”, pubblicato esattamente un anno dopo (e quindi, a essere pignoli, anch’esso ancora un disco degli anni ’70, come del resto “Remain In Light”): ingombrante, ineguale (le ultime due facciate sono superflue) e tuttavia esemplare di una voglia irresistibile di andare oltre il rock e certamente oltre (la distinzione non è questione di lana caprina: rivolgersi per delucidazioni a Keith Richards) il rock’n’roll. Logico, inevitabile – pena il reazionario tornare indietro di cui si renderanno colpevoli i Clash senza Mick Jones dell’ignobile “Cut The Crap” – passo successivo a un album che è un perfetto riassunto del primo quarto di secolo di vita del rock.

Suscitò scandalo, “London Calling”, fra i punkettari che avevano preso sul serio il niente Elvis o Rolling Stones nel 1977 e non avevano compreso che la rivoluzione indotta dal punk stava tutta nell’atteggiamento mentale piuttosto che nella musica, che come ben sapevano i Clash al massimo aggiornava, magari mischiandoli, stili già largamente metabolizzati, dal garage di metà ’60 ispirato dai primi Who e Kinks al pub rock, passando per Stooges ed MC5. Tutt’altro che innovativa, quindi, e destinata a mostrare il suo volto passatista non appena rinchiusa, violandone lo spirito per rispettarne la lettera, nel carcere del purismo. Per aprire le porte del quale chi invece di quello spirito si era imbevuto si trovò fondamentalmente a scegliere fra due opzioni: l’incremento esponenziale di velocità e durezza che genererà l’hardcore; lo sganciamento dalla tradizione del rock’n’roll attuato recuperando materiali ad essa estranei come il dub, il krautrock e l’elettronica, che verrà rubricato alla voce new wave. I Clash, con “Sandinista!”, opteranno per una terza via: consci del fatto che il rock, oltre a essere musica popolare, non è che una delle tante musiche popolari, lo dissolveranno in un calderone di influenze quanto mai eterogenee. Non prima di averlo celebrato come mai a nessuno è riuscito con “London Calling”.

Album immenso al di là dello straordinario livello di scrittura e persino al di là della  magistrale enciclopedizzazione che attua di molto di quanto accaduto da Elvis in avanti, sciorinando rockabilly (Brand New Cadillac) e soul (Train In Vain), beat (I’m Not Down) e musica latina (Spanish Bombs), reggae (The Guns Of Brixton, Lover’s Rock, Revolution Rock) e ska (Rudie Can’t Fail, Wrong ‘Em Boyo), avvicinando New Orleans (Jimmy Jazz), la Detroit del ’69 (la title track, Four Horsemen) e la Londra del ‘77 (Hateful, Clampdown, Death Or Glory, Koka Kola). Ma non è per questo – non solo, almeno – che è l’album che sottrarrei alla distruzione dovendone scegliere uno solo per spiegare alle generazioni future cosa fu il rock e perché, nonostante i suoi limiti artistici e culturali, fu importante. È che a vent’anni dall’uscita trasmette ancora (figuratevi cosa fu ascoltarlo allora) una tensione ideale fortissima, una fede nella forza redentrice della musica che nel mondo odierno (post-rock, sul serio) non è più possibile provare. Retorici, i Clash? Utopici, piuttosto. Sognatori e innocenti. Gli ultimi legittimati dai tempi a esserlo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.17, ottobre 1999.

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Stray Cats – 40 (Surfdog)

Fa una strana impressione al Vostro affezionato ritrovarsi a scrivere di un disco nuovo degli Stray Cats nel 2019. Per due ragioni. La prima è che quando nel 1983 decisi di intraprendere la carriera del critico musicale (ah, avessi saputo cosa mi attendeva!) uno dei primissimi articoli che firmai era una monografia dedicata al trio composto, allora come oggi, dal chitarrista Brian Setzer, dal contrabbassista Lee Rocker e dal batterista Slim Jim Phantom. All’epoca all’apice del successo visto che nell’estate precedente era andato al numero 2 delle classifiche USA, con un’antologia che raccoglieva il meglio dei primi due LP, usciti invece solo in Europa. La seconda è che questo è il primo lavoro in studio (il nono in tutto) che costoro pubblicano insieme dal 1993, ossia da tre anni prima che partisse la mia collaborazione più lunga di sempre, quella al giornale che avete fra le mani. Sì, mi è capitato di scrivere di loro (o di qualche album da solista di Brian Setzer) ma trattavasi di materiali di archivio. E insomma lo confesso: a “40” mi sono accostato con una certa emozione.

Naturalmente spazzata via sin dalle prime battute di Cat Fight (Over A Dog Like Me), rockabilly da manuale di spettacolare irruenza cui – apparente ossimoro – donano grande eleganza fraseggi e assoli di Setzer, che era già un grandissimo chitarrista poco più che maggiorenne, figuratevi ora. Sono gli Stray Cats di sempre, gli anni cui allude il titolo fortunatamente passati invano. O no? Perché in “40” riescono anche a sorprendere in un paio di episodi, uscendo dal recinto del ruspante rock’n’roll da primordi del genere che siamo soliti associare loro: con una Cry Danger fra surf e garage; soprattutto, con il Morricone western Desperado. Che questa rimpatriata porti o meno altri frutti, bentornati.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 412, settembre 2019.

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