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For His Pleasure – Il primo Bryan Ferry

Sulla copertina di quello che fu il suo secondo LP in proprio Bryan Ferry è immortalato, una piscina alle spalle, in giacca crema, camicia bianca e papillon nero, orologio presumibilmente d’oro ma di disegno sobrio al polso sinistro, l’altra mano in tasca, e una sigaretta fumata fino al filtro fra indice e medio: epitome somma di eleganza (Peter York lo dirà degno di venire esposto alla Tate Gallery, essendo di per sé un oggetto d’arte) sul sottile confine fra il classico e il dandy cui si è mantenuto da allora fedele. Cambiando al massimo il colore di completi sempre inappuntabili, magari una cravatta in luogo del farfallino. Lo diresti tutto fuorché una rockstar. Un uomo di affari. Un lord, quando suo padre lavorava in un allevamento di cavalli. Ma signori si nasce e il nostro uomo (dal 2011 Cavaliere dell’Impero Britannico) lo nacque. Era il 26 settembre 1945. In un’epoca in cui il cosiddetto “ascensore sociale” funzionava cominciava a elevarsi dalle umili origini studiando economia. Non vedeva però per sé un futuro da contabile e si iscriveva allora a Belle Arti. Non arriverà a laurearsi, se non nel 2014 quando verrà insignito honoris causa di un dottorato in musica, e nondimeno semini venivano gettati mentre la passione per il rock’n’roll, incontrato undicenne grazie a Bill Haley, prendeva a permeargli la vita, e daranno frutti.

È dal 2003 che scrivo di ristampe in vinile per questa rivista ed è una ben sfortunata coincidenza che non mi sia mai capitato di occuparmi dei Roxy Music. Non dispero. Per intanto do per scontato che chi mi legge sia conscio di quanto furono rivoluzionari per il rock, con un infiltrarlo di istanze avanguardistiche che se di per sé non era una novità (dopo la psichedelia, i Velvet e Zappa, in piena era progressive) lo diventava nel momento in cui le suddette si accompagnavano a una spiccatissima sensibilità pop. Faceva il resto un vestiario oltraggioso sintonizzato sulla voga impazzante del glam e il gruppo conquistava in men che non si dica le classifiche patrie: decimo con l’omonimo album d’esordio del giugno 1972, quarto con il seguito del marzo ’73 “For Your Pleasure”, primo con “Stranded”, pubblicato nel novembre di quel medesimo anno e nel frattempo i nostri eroi avevano colto anche due hit a 45 giri con dei brani non contenuti nei 33 (Virginia Plain e Pyjamarama, un numero 4 e 10). Non ci si crede: ventisei giorni prima di “Stranded” è arrivato nei negozi il debutto da solista del cantante. Commercialmente (oltretutto li griffa la stessa etichetta, la Island) non ha nessun senso. Eppure venderà benissimo, scalando la graduatoria UK degli album fino alla quinta piazza. Artisticamente, in apparenza ancora meno. Pur autore fino a quel punto dell’intero repertorio dei Roxy, dopo “For Your Pleasure” Ferry ha defenestrato Brian Eno, percepito come un concorrente a una leadership divenuta così dittatoriale, per quanto in “Stranded” abbia concesso al chitarrista Phil Manzanera e al sassofonista Andy Mackay il contentino di co-firmare due pezzi. A che pro dare alle stampe giusto in quel momento un 33 giri a suo nome in cui paradossalmente mette invece solo la voce e la scelta delle tredici tracce? E già: come il coevo “Pin Ups” di David Bowie “These Foolish Things” è una collezione di cover. Che è come dire, in entrambi i casi, di lettere d’amore. La ragion d’essere del disco è il suo porgersi come dichiarazione di poetica di chi, facendosi interprete, svela le sue radici d’autore, sistemando in apertura una straordinaria resa infiltrata di gospel di A Hard Rain’s A-Gonna Fall di Dylan, in chiusura una traccia omonima che è la canzone più vetusta di tutte essendo del ’36 (già vecchia quando Nat King Cole se ne appropriava nel ’57) e in mezzo dai Beach Boys di Don’t Worry Baby ai Beatles un filo anneriti di You Won’t See Me, avendo prima affrontato con adeguata malevolenza gli Stones di Sympathy For The Devil. All’educazione sentimentale del Nostro hanno contribuito il rock’n’roll di Don’t Ever Change (Crickets) e Baby I Don’t Care (Elvis) come il pop adolescenziale marca Phil Spector di I Love How You Love Me (Paris Sisters) e quello black scuola Motown di The Tracks Of My Tears (Miracles) e Loving You Is Sweeter Than Ever (Four Tops). Che sia una faccenda di… be’… cuore è certificato irrefutabilmente da Piece Of My Heart, che era stata l’unico successo della Franklin minore, Erma, prima che Janis Joplin la sequestrasse e che, lasciando cadere per un attimo la maschera di coolness, trasuda più soul di quanto dovrebbe essere lecito per un gentiluomo bianco e per di più inglese.

Edito nel luglio 1974, quattro mesi prima di “Country Life” dei Roxy, “Another Time, Another Place” è replica al pari fortunata e anzi di più (nelle classifiche britanniche sale fino alla quarta posizione) e ispirata, scaletta perfettamente congegnata a dispetto della gran varietà di materiali affrontati. Si noti come all’inizio del primo lato la confidenziale Smoke Gets In Your Eyes (che tutti conoscono dai Platters) appoggiandosi a una scansione blues si ponga in perfetta continuità con il classico soul-pop di Dobie Gray The ‘In’ Crowd che, irrobustito nelle parti chitarristiche, si svela più che sospetta ispirazione per i Rolling Stones di Under My Thumb. Come ad aprire il secondo all’inno alla gioia di Sam Cooke (What A) Wonderful World replichi l’agro congedo da un amore del Bob Dylan di It Ain’t Me Babe. Ancora da applausi: il Willie Nelson riletto Al Green di Funny How Time Slips Away, il Kris Kristofferson riletto… Kris Kristofferson di Help Me Make It Through The Night e, proprio alla fine, la title track, unico pezzo autografo e, guarda un po’, sembrano i Roxy Music. Che nell’ottobre 1975 pubblicano “Siren” e nel luglio dell’anno seguente, a scioglimento ufficializzato, il live “Viva!”. Il terzo Ferry solista, “Let’s Stick Together”, esce in settembre e bizzarramente per quasi metà del programma (cinque canzoni su undici) vede il cantante coverizzare se stesso. Riprende insomma articoli dal catalogo Roxy e non è una buona idea. Meglio il festoso errebì che lo inaugura e battezza dando lustro a un minore della black quale Wilbert Harrison e una The Price Of Love energizzata rispetto all’originale degli Everly Brothers. Rimane un disco per completisti mentre, avrete inteso, i due predecessori sono caldamente consigliati. Tutti appena ristampati su Virgin/UMC e sono edizioni magnifiche da portarsi a casa di corsa, oggi come oggi, a euro 25.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 437, dicembre 2021.

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Brother Genius ─ Un ricordo di Ray Charles

Leggenda vivente ma poco praticante almeno dall’esilarante cameo datato 1980 in Blues Brothers, dove veste i panni di un venditore di strumenti musicali, l’artista georgiano ha caratterizzato i suoi anni ’80 e ’90, dopo che già i ’70 non erano stati memorabili, con album commerciali nel senso più deteriore del termine e una lunga serie di comparsate in dischi di gente non alla sua altezza, da Billy Joel agli INXS, dai Take 6 a Barbra Streisand. Di tutto ciò ha pagato il fio proprio venendo invece sottovalutato, vedendo la sua figura spostarsi da quel centro della scena che gli spetterebbe in rievocazioni di assieme del soul sulle quali la miseria dell’evo moderno pesa più di quanto dovrebbe. Non essendo scomparso anzitempo come Cooke o Redding, essendo la memoria delle sue imprese meno fresca di quelle nel bene e nel male congiurate da James Brown, non avendo vissuto seconde giovinezze né tantomeno potendone vantare una terza come Burke o magari una quarta come i Blind Boys Of Alabama, perché il mondo si ricordi perché venne chiamato The Genius può scegliere: potrebbe confezionare un suo ‘Don’t Give Up On Me’, o morire.

Mai stato così (involontariamente) tempestivo, “sulla notizia” come si suol dire, in ventidue anni di onorata carriera: da me scritte sul finire del 2003, in una trattazione sui classici di soul e rhythm’n’blues, queste righe diventavano di pubblico dominio nella seconda settimana di giugno dell’anno successivo, quando il volume suddetto andava in libreria. Sapete quando è morto Ray Charles? Il 10 giugno 2004. Inevitabile che alla luttuosa nuova un’agra risata mi salisse alle labbra. Da allora ho scoperto di essere stato anche più preveggente di quanto non mi fosse parso sul subito: non solo con il postumo “Genius Loves Company”, registrato in circostanze drammatiche mentre la malattia incalzava, il nostro eroe ha scalato le classifiche, come non succedeva da parecchio, ma il film che ne racconta la straordinaria vita ha raccolto notevolissimi consensi sia di critica che di pubblico negli Stati Uniti e in tanti lo prevedono fra i protagonisti della corsa agli Oscar. Vedremo. Per intanto le ovazioni per l’ultimo sforzo (davvero) di Brother Ray più riascolto il disco, uscito in settembre, e più mi lasciano perplesso: decisamente, non un “Don’t Give Up On Me” (l’inatteso capolavoro che nel 2002 rilanciò Solomon Burke). Un album che commuove, questo sì, registrato da un uomo che se ne sta andando ma ancora c’è. Ti fa salire un groppo in gola sentire una delle voci più inconfondibili di sempre ridotta a un filo costantemente sul punto di spezzarsi, prevaricata, senza che probabilmente nessuno di costoro lo volesse, dalla folla di ospiti convocata per una collezione di duetti, di solito il trucco finale (ciao, Old Blue Eyes) di chi non ha più nulla da dire. Se la freschezza di Norah Jones ha la meglio in una Here We Go Again cui dona innocenza ineffabile, Elton John domina totalmente una Sorry Seems To Be The Hardest Word che resta la più soulful delle sue creazioni, Bonnie Raitt fa piangere e pungere magistralmente la slide in Do I Ever Cross Your Mind? e fra i tanti persino quell’altro defunto per ora in metafora di Van Morrison fa la sua porca figura al confronto, come non gli accadeva da ere giurassiche, riesumando Crazy Love. Ma il disco non sarebbe stato (oltre che un sì grande successo mercantile) indimenticabile ─ carino, al massimo ─ nel senso giusto del termine nemmeno con il padrone di casa al top, figurarsi così, spettacolo patetico, imbarazzante, che fa pornografia della morte e rende furiosi per il cinismo di uno showbiz prontissimo a monetizzare l’emozione per l’uscita di scena di un gigante. Soltanto un brano dei dodici in programma giustifica appieno, artisticamente, la sua esistenza ed è Sinner’s Prayer, blues energico ed elegante in cui trilla la chitarra di B.B. King e le mani di Ray Charles corrono sulla tastiera come ai tempi belli, evidentemente non ridotte dal cancro ai minimi termini come le corde vocali.

Ma forse no, forse sbaglio tutto, forse non ho capito niente. Il film era in lavorazione da molto prima che il male (che ha progredito velocemente) si manifestasse ed è una coincidenza ─ fortunata o sfortunata, fate voi ─ che sia uscito a tragedia compiutasi. Magari, gli applausi sarebbero stati lo stesso scroscianti. E quanto all’album c’è un altro modo di vederlo: un supremo sforzo di volontà di un uomo che nell’ultima uscita pubblica, lo scorso aprile (l’occasione la proclamazione degli studi al 2107 di West Washington Boulevard, Los Angeles, in cui ha lavorato per decenni a monumento storico), portato sul podio per il discorso di ringraziamento su una sedia a rotelle, dopo qualche frase di circostanza ha raccolto le energie residue per dire agli astanti che “sono debole, ma mi sto rimettendo in forze”. Ray Charles è morto come ha vissuto: rifiutando di arrendersi a una sorte oltraggiosa. Ha cantato e suonato finché non ne ha avuto più e in ogni caso “Genius Loves Company” è nella media, non fenomenale, delle produzioni dell’ultimo trentennio. Forse, lievemente sopra.

Prosegue per altre 27.729 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.81, febbraio 2005. Ricorre oggi il diciottesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

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Johnnie (B. Goode) Taylor

Ho scrutato a lungo le foto che contornano un esemplare profluvio di dati, note, aneddoti, testimonianze nel libretto a corredo di “Lifetime”, triplo CD che qualche mese fa ha documentato, a poco meno di un anno dalla prematura scomparsa, l’ultraquarantennale e splendida vicenda artistica di Johnnie Taylor. “Chi mi ricorda?”, mi chiedevo. Alla fine ci sono arrivato: Richard Pryor. E tutto è andato improvvisamente a posto, assieme al ricordo di quando per la prima volta ascoltai un brano di costui (Taylor, intendo), fatto però da altri: provvidero i Blues Brothers, scorciatoia per tanti verso l’immenso continente afroamericano, con la loro versione di Who’s Making Love. Orgasmo di funk terrigno con vertici di piacere nelle sventagliate fiatistiche che lo punteggiano. Lettura rispettosa al limite del calligrafismo ma bella e gustosa (vi aleggia lo stesso spirito ribaldo del modello) e non inutile, dacché (come tutto il repertorio dei fratelloni) propedeutica.  Per molti ma non per tutti e ─ lo confesso chinando il capo, vergognoso ─ certamente non per me.  Attesi un sacco di anni, direi sette o otto, prima di andare a toccare con orecchio l’originale, frenato dalla consapevolezza che si trattava dello stesso Johnnie Taylor di Disco Lady. Come dire un paria per ogni bravo ragazzo bianco cresciuto musicalmente a pane e punk e che la disco poteva tollerarla al massimo declinata dalla banda Strummer/Jones in The Magnificent Seven, in Ivan Meets G.I. Joe, in Radio Clash (sfuggiva il fatto che quest’ultima fosse stata scippata agli Chic ─ via Queen per di più). Oggi che gli “anta” si avvicinano con una fretta che mi pare indecente e che da tempo immemorabile non suono la air guitar (mai ma proprio mai), mentre invece mi sorprendo a fare mossette da Tony Manero (demenza senile? di già?), ammetto pubblicamente di avere comprato il cofanetto soprattutto per avere Disco Lady. Che cazzo! La terza più memorabile linea di basso a memoria d’uomo, essendo la seconda quella della già citata Radio Clash (facciamo finta che…) e la prima quella di, ahem, Staying Alive dei Bee Gees. Ho goduto come un maiale alle prese con un nuovo truogolo facendomi avvolgere dall’orchestrazione di archi e ottoni, di pura marca Parliament, e dalla batteria sui piatti. Offro in cambio tutto il noise e come mancia la now wave, se necessario.

Ma tornando a Richard Pryor: gran peccato che sia così malandato in salute. Somiglianza a parte, sarebbe stato perfetto per interpretare un film sulla vita di un fantastico cialtrone come Johnnie Taylor. Uno che arrivò al successo facendo ─ state bene a sentire ─ finta di essere un altro. Uno che conosceva letteralmente a memoria la Bibbia (e in quali superbi sermoni sapeva prodursi nella sua qualità di pastore, riferiscono taluni che ebbero modo di assistervi) e che finì in galera per avere investito una ragazza mentre preda dei fumi di una marijuana troooppo buona. Uno che girava con in tasca un rotolo di un centinaio di biglietti da cento dollari, così, tanto per ricordare all’interlocutore eventualmente poco rispettoso chi è che ce l’aveva fatta e chi no. Uno che diceva di essere quattro anni più giovane della sua età. Uno (questa è quella che mi fa ridere di più) che, dopo essere entrato in confidenza, si rivolgeva a tutti gli uomini chiamandoli indistintamente Pete.

Mi imbarazza un po’ scriverlo (lo scrivo di tutti in queste due paginette, ogni mese, ma che posso farci? è vero): fu frequentando la chiesa a West Memphis, Arkansas, dove provvide ad allevarlo un’amatissima nonna, che il bambinello Johnnie si innamorò della musica. Una cosa gli fu subito chiara: meglio cantare che rompersi la schiena nei campi come il resto della famiglia, raccogliendo cotone. Nel 1944, decenne, lo troviamo a Kansas City e poco dopo in un gruppo gospel, i Melody Makers. Nei primi anni ’50 capitò loro di aprire alcuni concerti dei Soul Stirrers già divi, nella cui formazione era entrato da poco Sam Cooke. Lui e Taylor strinsero un’amicizia cui solo la pallottola che stroncherà la vita dell’uomo di A Change Is Gonna Come porrà fine.

Prosegue per altre 6.346 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.38/39, luglio/agosto 2001. Ricorre oggi il ventiduesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

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North Mississippi Allstars – Set Sail (New West)

La prima volta in sala di incisione di Luther Dickinson fu nel 1987, quando in Shooting Dirty Pool, in “Pleased To Meet Me” dei Replacements, il quattordicenne si produceva in un assolo di chitarra semi-metal. Piace immaginare che da dietro il mixer fu con un misto di orgoglio e indulgenza che papà Jim, uno dei più grandi produttori della storia del rock, diede la sua approvazione. Trentacinque anni dopo, a ventisei dacché con il fratello Cody, batterista, dava vita ai North Mississippi Allstars, a ventidue da quando esordivano già brillanti e irresistibili con la collezione di cover “Shake Hands With Shorty” guadagnandosi la prima di quattro candidature ai Grammy nella categoria “Best Contemporary Blues Album” (e a tredici dalla scomparsa del padre), i non più ragazzi pubblicano l’undicesimo lavoro in studio ed è il primo interamente autografo. Lo si annota più che altro come curiosità, visto che il marchio della band su ogni brano ripreso è sempre stato caratterizzante, così come si segnala che, avendo già dato lavoro ad altri figli d’arte, qui le Allstars usufruiscono dei servigi di Lamar Jr. (voce) e Jesse Williams (basso), prole di un ex-Allman Brothers Band.

Pur straripante di energia come al solito, “Set Sail” ha angoli mediamente smussati rispetto ai predecessori, con un uso moderato e sapiente di archi e ottoni che oltre a sferzare blandiscono. Addirittura, Never Want To Be Kissed potrebbe provenire dagli studi della Hi Records invece che da quelli Stax e dire che a giocare a fare l’Al Green c’è William Bell. Di “solito” ha pure l’essere imperdibile per quanti il blues lo amano innervato di funk e speziato di soul. Il pezzo preferito del momento per chi scrive è Bumpin’: come dei Little Feat sotto codeina.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 440, marzo 2022.

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Giù al fiume con Syl Johnson

Che la mia pelle sia scura/non fa che aggiungere colore alle mie lacrime/…/E mi tocca nell’animo,/rievocando memorie passate,/chiedermi perché i miei sogni non si siano mai realizzati./Qualcuno mi dice cosa posso e non posso fare,/qualcosa mi frena./È perché sono nero?” (Is It Because I’m Black?)

In “The W”, l’ultimo ─ sorprendente per quanto è eccelso, quando dai Padrini newyorkesi nessuno si attendeva più nulla ─ album del Wu-Tang Clan, ci sono due momenti straordinariamente emozionanti, e non si tratta solo dell’emozione un po’ artefatta che viene, a chi sa di musica, dal riconoscere una citazione e dal ricontestualizzare in base a essa quanto ha ascoltato fino a quel momento, tracciando collegamenti, leggendo fra le righe, individuando discorsi dentro discorsi. No! È l’emozione genuina del brivido che corre sulla schiena e arriva al cuore prima che alla testa e lì si sofferma. Quando l’artista ti parla e siete soli, tu e lui, e per un attimo soltanto questo conta. Due momenti, dicevo. Uno si ha all’altezza della nona traccia, I Can’t Go To Sleep, quando dalle casse scende una slavina di archi che mozza il fiato come forse nessun’altra nel libro d’oro del soul: è quella su cui scorre Walk On By di Burt Bacharach, versione espansa e immane di Isaac Hayes, dall’epocale “Hot Buttered Soul”. Quando arriva la voce dello stesso Hayes, convocato per presenziare all’omaggio e apporvi il suo suggello benedicente, è quasi troppo. Uno di quegli istanti d’estasi che valgono il tormento di troppi dischi brutti ascoltati per senso del dovere. E l’altro?

Terzo brano. Una deflagrazione. Ritmo reggato che per un attimo mette fuori strada. Un vocalizzo struggente. E poi ecco il campionamento su cui gira tutto, inconfondibile. Una voce amatissima, una canzone simbolo per come ha saputo riassumere, in quella di un individuo, la vicenda di un popolo strappato alla sua terra, ridotto in schiavitù e poi in essa di fatto mantenuto dalle catene del pregiudizio. Per l’ennesima volta, il grido di Is It Because I’m Black? di Syl Johnson risuona e ci fa vergognare di essere bianchi.

1992. Per l’anagrafe è Christopher MacFarlane ma è assai più noto con uno pseudonimo: Macka B. È uno dei leoni della dancehall inglese. Sei anni prima, con la regia di quel Lee Perry britannico che è Neil Fraser, aka Mad Professor, ha dato alle stampe un piccolo capolavoro chiamato “Sign Of The Times”. Si supera adesso con “Jamaica, No Problem??”, album in cui risaltano il suo istinto melodico da killer e la padronanza assoluta delle tecniche del dub del Professore. Grandi i suoni, grandi le canzoni. Sul gradino più alto del podio salgono il duetto con Carroll Thompson di Where Is The Love (un classico, definitivamente) e Something Nuh Right, che gli va subito dietro. Gioco fra tirata polemica e riflessione dolente scatenato dall’assoluzione di William Kennedy ─ ricco e bianco e potente ─ da un’accusa di violenza carnale e dalla contemporanea condanna di Mike Tyson ─ ricco e nero e scomodo ─ per la medesima imputazione. Fra una cantilena ragga e la citazione estesa, affidata alla splendida voce di Earl Sixteen, di Is It Because I’m Black?.

Risalgo più indietro nel tempo, a un anno imprecisato nei ’70 giamaicani (quando si tratta di cronologia spicciola, anche l’autorevolissima Rough Guide To Reggae di Steve Barrow e Peter Dalton deve talvolta arrendersi all’impossibilità di ricostruire nei dettagli una storia su cui troppo poco è stato scritto finora). Si chiama Ken Boothe ed è il Sam Cooke della battuta in levare. Seriche corde vocali, fraseggio di eleganza somma e sentimento che avvince oltre ogni dire. Ascoltatelo ─ in una raccolta Trojan, “Eighteen Classic Songs”, che per quanto mi riguarda è uno dei tre dischi reggae da avere (Marley escluso) volendone avere tre (essendo gli altri due “Liberation” di Bunny Wailer e “Time Boom X De Devil Dead” di Lee Perry) ─ alle prese con You Send Me. Vale l’interpretazione originale di Cooke. E, sempre lì, sentite come attorciglia su un cantato tremulo ma intimamente forte il dramma di Is It Because I’m Black?. La lettura più memorabile dopo l’insuperabile prima.

Ci sono arrivato infine, a Syl Johnson, l’oggetto del sesto di questi miei esercizi devozionali mensili, e so che molti di voi avranno detto “Syl chi?”. Ma rasserenatevi: non è mai tardi per rifarsi una vita degna di essere vissuta.

Prosegue per altre 6.147 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.33, febbraio 2001. Syl Johnson ci ha lasciato tre mesi fa a oggi, lo scorso 6 febbraio. Aveva ottantacinque anni.

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Redskins – Neither Washington Nor Moscow (London, 4CD)

“Penso che talvolta le case discografiche si dimentichino che il loro compito è di immettere sul mercato materiali nuovi. Tutto quello che circola oggi sono ristampe, remix, tutta quella merda. Se per un colpo di culo ti trovi in mano qualcosa di nuovo, be’, puoi scommettere che è una cover”: così Chris Dean, cantante, chitarrista e portavoce dei Redskins in un’intervista che il “Melody Maker” pubblicava nel numero del 30 novembre 1985, meno di tre mesi prima che molto coerentemente l’ultrapoliticizzato trio esordisse a 33 giri (e su Decca, eh? etichetta notoriamente prossima a quella sinistra extraparlamentare in cui militavano i ragazzi) con quello che resterà l’unico album in studio e che in una scaletta di undici brani ne contava appena due non usciti già in forma di singoli. Il Vostro (allora alquanto giovane) Affezionato ricorda ancora (pur lontanissima l’odierna “era della suscettibilità” così ben tratteggiata da Guia Soncini nel suo ultimo libro) che per aver fatto notare in un articolo, peraltro assolutamente elogiativo, quanto esposto sopra collezionò per mesi missive di insulti da lettori inviperiti.

“Neither Washington Nor Moscow” era stato ristampato un’unica volta in CD, nel ’97, con quattro bonus e due erano cover (ahem) e una un remix (ahem due). Torna adesso nei negozi addirittura quadruplo, con in più tre “Peel Sessions”, due mezzi concerti e una pletora di lati B, demo, versioni alternative e (certo che sì) remix e cover. Qualcosa da dichiarare, Mr. Dean? Ah sì, che è venduto al prezzo che costa oggi un-vinile-uno. Ego te absolvo, allora. Il loro rhythm’n’blues suonato con piglio punk risulta tuttora eccitantissimo e i Redskins erano un gruppo grandioso, ma con un repertorio di quindici canzoni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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I migliori album del 2021 (6): Jon Batiste – We Are (Verve)

Basti dire quanto segue per dare un’idea del formidabile eclettismo di questo trentaquattrenne tastierista, cantante e compositore che qualunque orecchio un minimo educato identificherà subito, senza bisogno di indagarne la biografia, come un figlio di New Orleans: che da alcuni anni è il direttore musicale del popolare programma della CBS “The Late Show with Stephen Colbert”; che nel 2018 è andato al numero 2 della classifica jazz di “Billboard” con il debutto su Verve (lo avevano preceduto cinque lavori per varie altre etichette) “Hollywood Africans” (produzione firmata da  T-Bone Burnett) e la versione ivi contenuta del traditional Saint James Infirmary gli guadagnava una candidatura ai Grammy Awards nella categoria “Best American Roots Performance”; che la collaborazione del 2020 con il chitarrista Cory Wong “Meditations” gliene ha procurata un’altra come “Best New Age Album”; e che è attualmente in corsa per l’Oscar come migliore colonna sonora (il vincitore sarà proclamato il 25 aprile) con il suo “Music From And Inspired By Soul”. A chiarire lo spirito che anima “We Are” provvedono invece la dedica in copertina “ai sognatori, veggenti, cantastorie e portatori di verità che rifiutano di farci precipitare nella follia” e la bellissima, omonima traccia che lo inaugura, pezzo da marching band adattato all’era dell’hip hop scritto in onore del movimento Black Lives Matter e che di esso è divenuto una sorta di inno.

Restano purtroppo poche righe per annotare che in trentotto minuti favolosamente densi si fa gioiosa quanto magistrale sinossi di un secolo di musica nera, dal jazz al rap via gospel, boogie woogie, soul, rhythm’n’blues e funk. Per quel che conta: pure l’incisione è superba.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.430, aprile 2021.

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I migliori album del 2021 (7): Aaron Frazer ─ Introducing… (Dead Oceans)

Chissà se per questo giovanotto di Baltimora ma residente a Brooklyn “Introducing…” segnerà una cesura con un passato prossimo da batterista, seconda voce e autore o co-autore della quasi totalità del repertorio con Durand Jones & The Indications: formazione con all’attivo due album, uno omonimo nel 2016 e il seguito del 2019 “American Love Call”, fra le più prepotentemente in ascesa nella rigogliosa scena retro soul. Scappatella o inizio di una carriera solistica che potrebbe di riflesso porre fine a quella degli ex-soci? Per intanto si può annotare che per il debutto in proprio, che esce per la medesima etichetta che ha griffato le avventure di gruppo, Aaron Frazer ha fatto le cose in grande. Eleggendo a produttore, benché non digiuno lui stesso di esperienza in materia, lo scafatissimo Dan Auerbach (Black Keys), che a sua volta ha convocato in studio, a Nashville, una bene assortita squadra di giovani (giro Daptone) e vecchi (membri dei mitici Memphis Boys) leoni.

Lo dirà il tempo. Per intanto, pubblicato l’8 gennaio, “Introducing…” già si candida alle playlist di fine anno e, chissà, alle classifiche, giacché le affinità con la compianta Amy Winehouse sono tante e i potenziali singoli diversi. Falsetto fatato alla Smokey Robinson, Frazer cala subito un asso pigliatutto con la romantica You Don’ Wanna Be My Baby e fino alla conclusiva Leanin’ On Your Everlasting Love, in scia al Sam Cooke di Bring It On Home To Me, non sbaglia un colpo. Fra funky melliflui e pagine scelte dal manuale Motown, echeggiando Marvin Gaye come Curtis Mayfield o Jackie Wilson ma mantenendo sempre una sua peculiarità.  Una sua autorialità, potremmo dire, che fa scansare il mero esercizio di bella calligrafia a canzoni che sanno di vita vera, di “qui e ora”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.

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Martina Topley-Bird – Forever I Wait (Self Produced)

Sceglie un titolo appropriato per la prima sortita in undici anni Martina Topley-Bird: album che è il suo quinto ma bisogna ricordarsi che il secondo (“Anything””, del 2004) non era che l’edizione americana scorciata di tre canzoni del primo (“Quixotic”, del 2003) e il quarto (“Some Place Simple”, per l’appunto del 2010) una collezione “unplugged” di undici pezzi già noti con a integrarla appena quattro altrimenti inediti. È insomma un catalogo assai smilzo quello di colei che inconsapevolmente si consegnava per sempre agli annali del pop (pop?) del Novecento facendo da ambiguamente angelico contraltare al demonio Tricky nell’esordio capolavoro di costui “Maxinquaye” (1995; Martina aveva vent’anni e la collaborazione era avviata da due) e nei successivi, quasi altrettanto memorabili ed epocali, “Nearly God”, “Pre-Millennium Tension” e “Angels With Dirty Faces”. Relazione che oltre che artistica era sentimentale e da cui nasceva una figlia, scomparsa suicida nel 2019, ventiquattrenne.

Tragedia che non sembra riverberarsi, per il semplice fatto che il disco era allora già in larghissima parte composto e (parrebbe; a parte che alcuni arrangiamenti sono opera di Robert del Naja dei Massive Attack e tolti i nomi di alcuni altri ospiti non ci sono informazioni al riguardo) anche registrato in precedenza. È un disco di livello con il piccolo torto di uscire come da una capsula temporale (metà ’90, ovvio). Paga inoltre il suo avere pochi cambi di passo: un unico vero, con la danzabile Game a separare il soul-blues dagli inferi Love dalla cupa narcolessia di Free. Proprio alla fine arriva però una canzone straordinaria, Rain, per voce e quartetto d’archi. Da sola gli fa guadagnare almeno mezzo voto in più.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.

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Yola – Stand For Myself (Easy Eye Sound)

Se ha un difetto o meglio un problema, “Stand For Myself”, è che deve fare i conti con lo stratosferico “Walk Through Fire”, che nel 2019 lasciava molti attoniti dinnanzi a un debutto che pareva sbucare dal nulla. Quando in realtà l’artefice, l’allora trentacinquenne Yolanda Quartey, da Bristol e non da Memphis o comunque dal profondo Sud degli States come si scommetterebbe ascoltandola, aveva già alle spalle una lunga carriera da corista (Massive Attack e Chemical Brothers) e da cantante dei Phantom Limb (due i lavori in studio e un live). Più profeta allora nella sua patria ideale che in quella vera, la signora: ben quattro le candidature ai Grammy e fra esse una nella categoria “Best Americana Album” e due, per Faraway Look, nelle sezioni “Best American Roots Performance” e “Best American Roots Song” (la quarta? “Best New Artist”). Il che ingenerava però un grosso equivoco e non valeva a giustificarlo che il disco fosse stato inciso a Nashville: che si trattasse di country quando il country è sì presente ma è indubitabilmente alla voce “soul” che Yola va catalogata.

Prodotto come l’esordio da Dan Auerbach dei Black Keys, “Stand For Myself” si presenta con una copertina che fa sospettare che per l’artista sia cambiato il decennio di riferimento, i ’70 e non più i ’60. Il che non è. Fra i dodici brani in scaletta giusto una Dancing Away In Tears gustosamente da Studio 54 va in tale direzione. Il resto ricalca il predecessore, con apici nella ballatona Barely Alive, nell’errebì al galoppo Diamond Studded Shoes, in una Great Divide sentimentale con afflato gospel, nella scheggia di Stax Break The Bough, nella grintosa e conclusiva traccia omonima. Manca solo l’effetto sorpresa, insomma.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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