
Sulla copertina di quello che fu il suo secondo LP in proprio Bryan Ferry è immortalato, una piscina alle spalle, in giacca crema, camicia bianca e papillon nero, orologio presumibilmente d’oro ma di disegno sobrio al polso sinistro, l’altra mano in tasca, e una sigaretta fumata fino al filtro fra indice e medio: epitome somma di eleganza (Peter York lo dirà degno di venire esposto alla Tate Gallery, essendo di per sé un oggetto d’arte) sul sottile confine fra il classico e il dandy cui si è mantenuto da allora fedele. Cambiando al massimo il colore di completi sempre inappuntabili, magari una cravatta in luogo del farfallino. Lo diresti tutto fuorché una rockstar. Un uomo di affari. Un lord, quando suo padre lavorava in un allevamento di cavalli. Ma signori si nasce e il nostro uomo (dal 2011 Cavaliere dell’Impero Britannico) lo nacque. Era il 26 settembre 1945. In un’epoca in cui il cosiddetto “ascensore sociale” funzionava cominciava a elevarsi dalle umili origini studiando economia. Non vedeva però per sé un futuro da contabile e si iscriveva allora a Belle Arti. Non arriverà a laurearsi, se non nel 2014 quando verrà insignito honoris causa di un dottorato in musica, e nondimeno semini venivano gettati mentre la passione per il rock’n’roll, incontrato undicenne grazie a Bill Haley, prendeva a permeargli la vita, e daranno frutti.
È dal 2003 che scrivo di ristampe in vinile per questa rivista ed è una ben sfortunata coincidenza che non mi sia mai capitato di occuparmi dei Roxy Music. Non dispero. Per intanto do per scontato che chi mi legge sia conscio di quanto furono rivoluzionari per il rock, con un infiltrarlo di istanze avanguardistiche che se di per sé non era una novità (dopo la psichedelia, i Velvet e Zappa, in piena era progressive) lo diventava nel momento in cui le suddette si accompagnavano a una spiccatissima sensibilità pop. Faceva il resto un vestiario oltraggioso sintonizzato sulla voga impazzante del glam e il gruppo conquistava in men che non si dica le classifiche patrie: decimo con l’omonimo album d’esordio del giugno 1972, quarto con il seguito del marzo ’73 “For Your Pleasure”, primo con “Stranded”, pubblicato nel novembre di quel medesimo anno e nel frattempo i nostri eroi avevano colto anche due hit a 45 giri con dei brani non contenuti nei 33 (Virginia Plain e Pyjamarama, un numero 4 e 10). Non ci si crede: ventisei giorni prima di “Stranded” è arrivato nei negozi il debutto da solista del cantante. Commercialmente (oltretutto li griffa la stessa etichetta, la Island) non ha nessun senso. Eppure venderà benissimo, scalando la graduatoria UK degli album fino alla quinta piazza. Artisticamente, in apparenza ancora meno. Pur autore fino a quel punto dell’intero repertorio dei Roxy, dopo “For Your Pleasure” Ferry ha defenestrato Brian Eno, percepito come un concorrente a una leadership divenuta così dittatoriale, per quanto in “Stranded” abbia concesso al chitarrista Phil Manzanera e al sassofonista Andy Mackay il contentino di co-firmare due pezzi. A che pro dare alle stampe giusto in quel momento un 33 giri a suo nome in cui paradossalmente mette invece solo la voce e la scelta delle tredici tracce? E già: come il coevo “Pin Ups” di David Bowie “These Foolish Things” è una collezione di cover. Che è come dire, in entrambi i casi, di lettere d’amore. La ragion d’essere del disco è il suo porgersi come dichiarazione di poetica di chi, facendosi interprete, svela le sue radici d’autore, sistemando in apertura una straordinaria resa infiltrata di gospel di A Hard Rain’s A-Gonna Fall di Dylan, in chiusura una traccia omonima che è la canzone più vetusta di tutte essendo del ’36 (già vecchia quando Nat King Cole se ne appropriava nel ’57) e in mezzo dai Beach Boys di Don’t Worry Baby ai Beatles un filo anneriti di You Won’t See Me, avendo prima affrontato con adeguata malevolenza gli Stones di Sympathy For The Devil. All’educazione sentimentale del Nostro hanno contribuito il rock’n’roll di Don’t Ever Change (Crickets) e Baby I Don’t Care (Elvis) come il pop adolescenziale marca Phil Spector di I Love How You Love Me (Paris Sisters) e quello black scuola Motown di The Tracks Of My Tears (Miracles) e Loving You Is Sweeter Than Ever (Four Tops). Che sia una faccenda di… be’… cuore è certificato irrefutabilmente da Piece Of My Heart, che era stata l’unico successo della Franklin minore, Erma, prima che Janis Joplin la sequestrasse e che, lasciando cadere per un attimo la maschera di coolness, trasuda più soul di quanto dovrebbe essere lecito per un gentiluomo bianco e per di più inglese.
Edito nel luglio 1974, quattro mesi prima di “Country Life” dei Roxy, “Another Time, Another Place” è replica al pari fortunata e anzi di più (nelle classifiche britanniche sale fino alla quarta posizione) e ispirata, scaletta perfettamente congegnata a dispetto della gran varietà di materiali affrontati. Si noti come all’inizio del primo lato la confidenziale Smoke Gets In Your Eyes (che tutti conoscono dai Platters) appoggiandosi a una scansione blues si ponga in perfetta continuità con il classico soul-pop di Dobie Gray The ‘In’ Crowd che, irrobustito nelle parti chitarristiche, si svela più che sospetta ispirazione per i Rolling Stones di Under My Thumb. Come ad aprire il secondo all’inno alla gioia di Sam Cooke (What A) Wonderful World replichi l’agro congedo da un amore del Bob Dylan di It Ain’t Me Babe. Ancora da applausi: il Willie Nelson riletto Al Green di Funny How Time Slips Away, il Kris Kristofferson riletto… Kris Kristofferson di Help Me Make It Through The Night e, proprio alla fine, la title track, unico pezzo autografo e, guarda un po’, sembrano i Roxy Music. Che nell’ottobre 1975 pubblicano “Siren” e nel luglio dell’anno seguente, a scioglimento ufficializzato, il live “Viva!”. Il terzo Ferry solista, “Let’s Stick Together”, esce in settembre e bizzarramente per quasi metà del programma (cinque canzoni su undici) vede il cantante coverizzare se stesso. Riprende insomma articoli dal catalogo Roxy e non è una buona idea. Meglio il festoso errebì che lo inaugura e battezza dando lustro a un minore della black quale Wilbert Harrison e una The Price Of Love energizzata rispetto all’originale degli Everly Brothers. Rimane un disco per completisti mentre, avrete inteso, i due predecessori sono caldamente consigliati. Tutti appena ristampati su Virgin/UMC e sono edizioni magnifiche da portarsi a casa di corsa, oggi come oggi, a euro 25.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 437, dicembre 2021.