Archivi tag: soundtrack

C’era una volta il futuro – Il quarantennale di “Blade Runner”

C’era una volta il futuro, si potrebbe dire, e dopo Blade Runner non c’è più. Mai fantascienza è invecchiata così bene e anzi per nulla, mai ha saputo fondersi nel presente con tale gradualità da sfumare ogni differenza. Ti guardi attorno e la società multietnica fotografata da Ridley Scott è… tutto intorno a noi, come il disastro climatico montante, la pubblicità onnipervasiva, i computer su cui a ogni livello basiamo sempre più le nostre vite. Quali le differenze fra la metropoli in cui si muovevano un quarto di secolo fa i replicanti e il loro cacciatore e certo Estremo Oriente? Ma non è solo su questo che il capolavoro di Scott fonda insieme la sua persistente attualità e un collocarsi fuori dal tempo. È che pone quelle domande che mai potremo eludere e alle quali mai potremo dare risposte compiute che non siano fideistiche: chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Questo il nucleo. Ma non si può dire siano mero contorno né suggestioni visive che ridisegnavano il nostro immaginario come a nessun film è mai riuscito né quelle di una colonna sonora che, più che commentare, si fa protagonista. Spesso mattatrice assoluta.

Come il film, anche la colonna sonora ha avuto più versioni ed è giusto così, perché ci sono storie che racconteremo fino a un attimo prima di estinguerci. Una apocrifa della New American Orchestra già nell’82 e paradossalmente quella originale firmata da Vangelis solo nel ’94. Questa “Trilogy” è forse quella definitiva, con tutte le musiche che avevamo potuto ascoltare al cinema e altre nuove miracolosamente capaci di reggere il confronto, intercambiabili, fra cyberjazz e lounge di macchine, Orienti e autunni dell’anima e un’elettronica di un’umanità che ti fa sciogliere in lacrime nella pioggia e non sai perché.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.287, febbraio 2008. Blade Runner usciva nelle sale americane il 25 giugno 1982. Vangelis è scomparso lo scorso 17 maggio, settantanovenne.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, archivi

Crime And Dissonance – Un Morricone avant-rock

Quante le colonne sonore di Ennio Morricone? Oltre cinquecento, pare, e probabilmente il Maestro stesso non saprebbe dire il numero esatto. È una massa sterminata di materiali dei più diversi, sia per la natura intrinseca del mestiere di chi è chiamato ad accompagnare immagini, sia per la vastità degli interessi del nostro uomo, nella quale facilmente – fra quanto si trova, naturalmente, che pur con la messe di ristampe recenti non è che la punta di un iceberg – ci si smarrisce. Logico che si puntino le raccolte e ce n’è di magnifiche, la doppia “A Fistful Of Film Music” su Rhino su tutte, perfetta per chi volesse avere – come dire? – “i grandi successi”. Ma troppi titoli e sempre quelli tendono a ripresentarsi, il grosso delle antologie è messo insieme un po’ a capocchia, un singolo aspetto di una multiforme opera prende puntualmente il sopravvento. Sono le sue musiche per gli spaghetti western a dominare, rivoluzionario mix fra un rock che da Morricone è stato a sua volta (ed enormemente) influenzato e oleografici americanismi, effettuato con il “know how” di un’avanguardia frequentata più di quanto non si ricordi.

Straordinariamente benvenuta allora è questa “Crime And Dissonance”, spartiti dal ’69 al ’74 presentati da John Zorn, pubblicati dalla Ipecac di Mike Patton, selezionati con sagacia e perfettamente messi in sequenza da Alan Bishop degli eccentricissimi (un mito dell’avant-rock statunitense) Sun City Girls. Fra una psichedelia mutante in exotica (e il contrario) e gotici organi chiesastici, voci orrorose o orgasmiche e storte fughe percussive, fra Ligeti e Miles Davis, Penderecki e i Popol Vuh, oscillatori e chitarre in distorsione, sono 102 minuti che lasciano senza fiato e sui quali non ci si stanca mai di ritornare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.262, novembre 2005.

10 commenti

Archiviato in coccodrilli

Per gli ottant’anni mancati di Marvin Gaye

Non si fosse fatto suicidare dal padre il giorno prima di compierne quarantacinque, oggi Marvin Gaye avrebbe potuto festeggiare l’ottantesimo compleanno. Ma dubito che ci sarebbe arrivato. Ho scritto di lui un’infinità di volte. Per l’occasione, recupero la recensione di una ristampa di un suo album, una colonna sonora, tanto bello quanto poco considerato. Dal titolo perfetto per una biografia del tormentato autore.

Che il Marvin Gaye più sottovalutato di sempre abiti i solchi di “Here, My Dear”, velenoso doppio a tema con il quale nel 1978 l’autore in un colpo solo liquidava gli alimenti alla ex-moglie e presentava un conto spese da capogiro a quella Tamla Motown di proprietà dell’ex-suocero (mai suicidio commerciale fu pianificato con tanta perfidia), è fuori discussione. Per quanto ultimamente in quel romanzo di un amore andato a male in molti abbiano identificato l’anello mancante, aggiunto a posteriori, fra la black a tutto tondo di “What’s Going On” e il viagra-funk di “Let’s Get It On”. Bel paradosso allora che il secondo Marvin Gaye più sottovalutato sia proprio quello del 33 giri, dato alle stampe nel ’72, che separava nella realtà i due capolavori summenzionati. Se quando si tratta di mettere in fila le colonne sonore classiche del filone blaxploitation quella di “Trouble Man” è quasi sempre citata, ma quasi sempre in posizioni di retrovia rispetto a “Superfly” come a “Shaft” o a “Black Caesar”, nella discografia maggiore del Nostro viene immancabilmente dimenticata e a riascoltarla pare uno scandalo.

Album in verità splendido, che sta in piedi benissimo da solo, pure senza il supporto delle immagini di una pellicola al contrario quanto mai mediocre. Opera in massima parte strumentale, la sola vera canzone essendo una traccia omonima in cui Marvin sciacqua nel blues la sua voce di seta e di sesso, e capace di restare in equilibrio con somma naturalezza fra funk e jazz, soul ed errebì e orchestrazioni degne di un Morricone o di un Axelrod, tanto misurate quanto favolosamente sofisticate. L’edizione per il quarantennale triplica il minutaggio del vinile d’epoca e per una rara volta le bonus le tieni volentieri tutte o quasi e ringrazi.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.177, febbraio 2013.

3 commenti

Archiviato in anniversari, archivi

Mogwai – KIN (Rock Action)

Con la loro propensione a creare musiche estremamente atmosferiche e immaginifiche, era nell’ordine naturale delle cose che gli scozzesi Mogwai si ritrovassero a lavorare per la televisione e il cinema. Strano era semmai che ci mettessero dieci anni, proficuamente impiegati a conquistarsi la nomea (loro odiano l’etichetta, ma tant’è) di massimi e più popolari esponenti (d’accordo: non contando i Radiohead, però partiti suonando tutt’altro) del post-rock europeo. Cominciavano nel 2006, creando il commento per il documentario Zidane, un portrait du 21e siècle, e non hanno più smesso, alternando questa produzione a quella degli album per così dire regolari. E hanno sempre preso molto sul serio questa attività. Appena due anni or sono arrivavano addirittura a portarla in tour una colonna sonora, quella di un altro documentario, Atomic, Living In Dread And Promise, eseguendola mentre alle loro spalle ne scorrevano le immagini e relegando il repertorio classico nella seconda parte del concerto. Era in ogni caso un lavoro importante per i Mogwai, il primo realizzato dopo la defezione di uno dei componenti storici, il chitarrista e tastierista John Cummings.

“KIN” è importante per un’altra ragione: per la prima volta sono spartiti scritti per un film di finzione (in precedenza, per i Nostri, solo documentari e la serie TV francese “Les revenants”). Per sapere quanto funzionino al cinema bisognerà naturalmente attendere l’uscita nelle sale della pellicola fantascientifica che accompagnano. Sanno in ogni caso camminare pure da sole queste otto tracce strumentali dal sobrio al luttuoso, eppure violento (episodi migliori una Flee in transito da Henry Mancini ai Neu! e lo space rock Donuts), con approdo all’unica canzone We’re Not Done, un gioiellino di shoegaze pop.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.403, novembre 2018.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Animal Collective – Tangerine Reef (Domino)

Li ho detestati a lungo gli Animal Collective, non riuscendo proprio a capire come potesse il resto del mondo entusiasmarsi per i loro mischioni di folk e noise, minimalismo e raga, elettronica, “pop” stortissimo e psichedelia sversa. Soltanto la lettura di certe recensioni riusciva a irritarmi più dei dischi che incensavano. E poi a un certo punto ha cominciato a piaciucchiarmi il combo di Baltimora. Un attimo ancora e ne ero innamorato, ma erano gli Animal Collective a essere cambiati, scrittura ben focalizzata e arrangiamenti a mirabile orologeria, con giusto un pizzico della stralunatezza d’antan a mantenere deliziosamente “weird” il tutto: “Pet Sounds” post-moderno, “Merryweather Post Pavilion”, del 2009, è uno dei pochi album usciti nel secolo nuovo a potersi dire senza discussione un capolavoro. Secondo me ma non solo secondo me.

La svolta, giacché di svolta si trattò, aveva cominciato a manifestarsi in un lavoro da solista (“Person Pitch”, del 2007), di uno dei due leader del gruppo, Noah “Panda Bear” Lennox. Undicesima prova in studio per la band, “Tangerine Reef” è la prima in cui il Collettivo si schiera a tre, non a quattro, ed è proprio Panda Bear (defezione momentanea per quanto si sa) a mancare all’appello. Prende il comando David “Avey Tare” Portner e quello che era un sospetto si fa certezza: lui l’anima “sperimentale” di un gruppo che in “Tangerine Reef” (colonna sonora di un documentario sulle barriere coralline) peggio che ricade nei vecchi peccati. Non una melodia si sviluppa, non un riff prende forma in tredici tracce indistinguibili e cinquantadue estenuanti minuti a base di elettroniche distorte e voci soffocate e indecifrabili. Altro che Beach Boys! Un incubotico matrimonio fra i Butthole Surfers più inascoltabili e i Tangerine Dream più noiosi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.402, ottobre 2018.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Il 1914 nel 2014 – Tindersticks vs. Einstürzende Neubauten

Sul finire dello scorso anno, a cavallo fra ottobre e novembre, sono stati pubblicati due album per il resto assai diversi ma accomunati dall’ispirazione: la Prima Guerra Mondiale, nel centesimo anniversario del suo inizio.

Tindersticks vs Einsturzende Neubauten

Tindersticks – Ypres (Lucky Dog)

Una prima avvertenza: se vi innamoraste di Stuart Staples e soci in quei primi ’90 in cui rischiarono di diventare delle star pur sciorinando canzoni non precisamente “cheap” e nonostante fossero antipodici tanto ai coetanei del grunge che a quelli del Britpop, ma poi li avete persi di vista, non è detto che “Ypres” faccia per voi. Nello spesso opprimente scorrere dei suoi 54’13” non troverete traccia di quel sound da Bad Seeds al netto del maledettismo e che assumeva a numi tutelari Scott Walker e Jacques Brel, Leonard Cohen e Lee Hazlewood in un tempo in cui (tranne il Canadese) tutti questi nomi circolavano infinitamente meno di oggi. Se invece avete continuato a seguire il combo di Nottigham pure quando ha preso a sfornare colonne sonore dove la forma-canzone finisce in secondo piano a vantaggio di atmosfere ancora più vaporose e raffinate, una possibilità a questo nuovo disco dovreste proprio darla. Pur con la consapevolezza che – seconda avvertenza – non è per l’ascolto domestico che è stato concepito, bensì per sonorizzare le varie sezioni nelle quali si articola il museo che per l’appunto a Ypres, nelle Fiandre, commemora le centinaia di migliaia di caduti nella più sanguinosa delle battaglie della Prima Guerra Mondiale. Sono spartiti pensati per una fruizione senza soluzione di continuità, senza un inizio o una fine definiti, entrando in un qualunque punto del percorso e dirigendosi verso qualunque altro.

Ciò premesso, pur fermati in un ordine necessariamente statico promanano egualmente suggestioni tanto sobrie quanto fortissime nel loro sommesso essere mortifere. Di rock non vi è l’ombra, avrete inteso. Siamo piuttosto dalle parti di una musica neo-classica che se ha debiti li ha nei confronti di Arvo Pärt, Henryk Górecki, Sybelius. Al limite, Nyman.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.358, dicembre 2014.

Einstürzende Neubauten – Lament (Mute)

Per caso ma anche no, giacché cadeva nel 2014 il centesimo anniversario dall’inizio di quella tragedia, per due numeri di seguito ci si ritrova a raccontare di lavori concepiti non come dischi a sé bensì come colonne sonore di opere con al centro la Prima Guerra Mondiale: lo scorso mese toccava ai Tindersticks di “Ypres”, sonorizzazione del museo ospitato dall’omonima cittadina delle Fiandre, e ora è la volta di un album che nasce (pur essendo registrato in studio) in funzione dell’esecuzione dal vivo e da essa, dichiarano gli artefici stessi, va considerato inscindibile. Al di là di questo quasi nulla accomuna le due opere, quella da collocarsi in un ambito di classica contemporanea, quest’altra babele di linguaggi organizzata con teutonica precisione. Quando poi invece tanto condividono i titolari, dal substrato rock (ambito tuttavia che gli Einstürzende Neubauten approcciavano partendo dal rumorismo e da una industrial estrema e i Tindersticks da una prospettiva cantautorale) all’abitare un mondo plasmato da Nick Cave: datore di lavoro per Blixa Bargeld dall’83 al 2003, un’influenza cruciale per Stuart Staples e soci.

Tutto ciò premesso… Sarà fors’anche perché ho visto lo spettacolo prima di ascoltare il disco e ascoltando il disco per la prima volta mi sono reso conto che lo avevo memorizzato già, ma a me pare non solo che “Lament” stia benissimo in piedi da solo ma che sia uno degli album più riusciti degli Einstürzende. Persino un approdo ideale di un percorso che partendo dai palcoscenici distrutti a colpi di martelli pneumatici li ha visti raccattare per strada, fra un detrito urbano e l’altro, folk e rock, elettronica, musiche accademiche e la tradizione del cabaret mitteleuropeo. Poco meno che geniale nel contesto il synth-pop di The Willy-Nicky Telegrams.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.359, gennaio 2015.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Krautrock Files (7): Popol Vuh

Fra i gruppi del rock tedesco dei ’70 ho un affetto particolare per la creatura che fu di Florian Fricke: da un certo punto in poi negletta al di là degli oggettivi demeriti di una discografia anni ’80 e ’90 debole, manieristica. Concentrata nella prima metà del decennio precedente e forte di una sequela di album enormi, fortemente caratterizzati e caratterizzanti, la produzione maggiore dei Popol Vuh resta nondimeno inattaccabile.

Popol Vuh

Voglio dirti ancora una cosa riguardo a quella che sento essere l’essenza della mia arte. Popol Vuh è una messa per il cuore. È amore che si fa musica e questo è tutto”: così Florian Fricke in una conversazione con Gerhard Augustin del febbraio 1996 e che poteva saperne l’intervistato che da lì a cinque anni e dieci mesi sarebbe stato, senza preavviso,  strappato a questa terra? Spedito forse – mi piace pensare e perdonate la retorica, buona però per parlare di un vecchio hippie cui non si poteva non volere bene (lo diceva pure David Crosby che “music is love”) – a diversamente esplorare quelle dimensioni ultramondane in cui la sua arte ha dimorato per tre decenni. Né poteva immaginare l’intervistatore che da lì a ulteriori tre anni si sarebbe trovato, con Johannes e Anna Fricke, nella prestigiosa quanto dolorosa e scomoda posizione di curatore testamentario di un’eredità la cui rilevanza è sembrata crescere smisuratamente nell’istante preciso in cui la morte del nostro uomo ha costretto a tirare delle somme. Fatto è che almeno nei ’90, immergendosi nei tempi da un lato con carinerie new age di scarsa sostanza, dall’altro con più ardite ma non felicissime incursioni nella techno, Popol Vuh ha rinunciato a un’inclassificabilità da sempre caratterizzante: musica insieme “medioevale e moderna, sacrale e terrena”, nelle parole di un ammiratore quale Gary Lucas. E così facendo un po’ ha sminuito quanto c’era stato prima. Fricke e soci sono stati ridotti, nel comune sentire, ad artefici di suggestive colonne sonore per Werner Herzog, e non che questo non fosse abbastanza per ricavare loro un posticino nella storia della musica del Novecento (siccome pochi altri spartiti per il cinema possono vantare pari funzionalità e la rara capacità di camminare con le proprie gambe), ma si è dimenticato che nella prima metà dei ’70 percorsero strade lungo le quali nessuno si era inoltrato. Le tracciarono, anzi. Il riascolto consecutivo, indotto dalla fresca riedizione su SPV, di quelli che furono i loro primi cinque LP conferma invece nell’idea, rifattasi strada dopo il fatale 29 dicembre 2001, che per quell’epopea chiamata krautrock furono rilevanti quanto Kraftwerk e Can, Faust e Neu!, Cluster e Ash Ra Tempel. Altrettanto unici e innovativi.

La storia dei Popol Vuh non ha alcuno dei tratti mitologici di tanto rock d’antan, vicenda sviluppatasi senza scossoni e riassumibile in poche frasi. Traggono il nome, dichiarando da subito afflato mistico, dal libro sacro dei Maya e nascono a Monaco di Baviera nel 1969, per iniziativa del venticinquenne Florian Fricke, pianista di formazione classica e critico musicale e cinematografico per testate prestigiose quali “Süddeutsche Zeitung” e “Der Spiegel”. Sono con lui nella prima formazione Frank Fiedler, alle prese come il leader con assortiti marchingegni elettronici, e il percussionista Holger Trülzsch, ma è un “essere con lui” relativo, dacché l’esordio “Affenstunde” è assemblato in massima parte dal solo Fricke. Più rilevante l’apporto dei due al successivo “In den Gärten Pharaohs”, che è pure l’addio (Fiedler a un certo punto tornerà). Nel girotondo di collaborazioni che segnerà la vita di una sigla talvolta più pseudonimo che gruppo “aperto”, merita in questa sede segnalare giusto la venticinquennale presenza del chitarrista e percussionista Daniel Fichelscher.

Più di un’aneddotica che quasi non c’è contano i dischi: e che dischi! I già nominati primi due, usciti rispettivamente su Liberty e Pilz nel 1970 e ’71, viaggiano in coppia in qualsiasi resoconto critico per l’identica strumentazione adoperata, coacervo di ipertecnologico per l’epoca e tribale, Moog, tastiere e percussioni. “Affenstunde” si snoda per la prima facciata lungo i tre movimenti di Ich mache einen Spiegel, sogno variamente numerato (4, 5 e 49) di campane e tamburi, rumori acquatici e soffiare di venti, ambient etno-psichedelica se mai ve n’è stata una e da qui l’etichetta di musica drogata (sornione, Fiedler ammetterà anni dopo che i primi Popol Vuh volutamente producevano sotto effetto di sostanze musica destinata a essere fruita sotto effetto di sostanze) subito appiccicata a un album che tocca apici inenarrabili nell’omonima traccia che in origine occupava l’intero secondo lato: nei suoi 18’30” gorgoglianti e levitanti, e in lento raddensamento fino al planare conclusivo, già tutta l’evocatività visionaria che benedirà i capisaldi della cinematografia di Herzog, amico di vecchia data di Fricke. Nondimeno questo non è un film suo ma di Kubrick e per la precisione 2001: Odissea nello spazio: è l’ora della scimmia, dichiara il titolo, quella in cui il primate si leva e si fa uomo. Pare allora consequenziale che nel successivo viaggio i Nostri si addentrino nel giardino dei faraoni. Ha però ragione Julian Cope quando, in Krautrocksampler, annota che il brano che battezza il disco monopolizzandone il lato uno più che l’antico Egitto fa venire in mente immagini da ancestrale saga nordica, fra un organo enfatico e un suono di risacca,  un rutilare di conga e un tremolare di piano elettrico. Ma il capolavoro è il lato due, Vuh: cercate di immaginare, se ci riuscite, una via di mezzo fra una fuga bachiana e il velvetiano, bene organizzato delirio di Sister Ray ed ecco. Registrato dal vivo con Fricke all’organo medioevale della cattedrale di Baumberg!

Addirittura ovvio che dopo non possa esservi che un cambio di direzione e difatti “Hosianna Mantra” (Pilz, 1972) svolta decisamente, barattando la strumentazione elettronica con cembali e violini, chitarre e oboe. Se è rock è “da camera”,  impregnato di fragranze di India e di Irlanda, raccolta e delicatissima liturgia di una forza trascendentale al cui confronto tutta, assolutamente tutta quella che verrà chiamata new age e che qui pretenderebbe di affondare le radici impallidisce, svelandosi per il ciarpame che in grandissima parte è. Su Kosmische Musik e uno del ’73 e l’altro del ’74, “Seligpreisung” e “Einsjäger & Siebenjäger” completeranno evoluzione e canone Popol Vuh abbracciando fra un raga e un mantra un acid rock di gusto californiano (in gran spolvero soprattutto nel primo l’elettrica di Fichelscher), non negandosi al jazz o a Terry Riley. Il variegato assieme troverà da qui in poi adeguata sintesi più che altro nelle colonne sonore (più deboli gli album concepiti autonomamente) per i film di Herzog, sei in tutto e due, o magari tre, imprescindibili. Giusto quelle appena ristampate, “Aguirre” e “Nosferatu”, essendo eventualmente la terza “Fitzcarraldo”. L’aggettivo “indimenticabile” deve essere stato inventato per il tema conduttore di Aguirre, Lacrime di re, pinkfloydianamente in transito dal cristallino al gregoriano, o per il piano che rintocca sui titoli di testa di Nosferatu, con la camera che carrella su una fila di sepolcri aperti a esporre mummie ghignanti.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.608, marzo 2005.

2 commenti

Archiviato in archivi

Blaxploitation: un’epopea politicamente scorretta

Fu una rivoluzione: fatta di film costati quattro soldi e capaci di renderne quattrocento. Come spesso le rivoluzioni, fu breve e seguita da una restaurazione, ma gli effetti perdurano. Come spesso le rivoluzioni, portò alla ribalta personaggi tanto affascinanti quanto discutibili. Erano giovani. Erano belli. Ma soprattutto erano abbronzati.

Sweet Sweetback’s Baadasssss Song

Nella Los Angeles dell’immediato secondo dopoguerra un orfanello di colore trova lavoro come addetto alle pulizie in un bordello. Lo prende a benvolere una delle prostitute, che decide di sgravarlo della verginità e viene ricompensata di tanto buon cuore da una prestazione assolutamente inattesa, supportata da, diciamo così, uno strumento fuori dal comune. Qualche anno dopo ritroviamo Sweet Sweetback – così è stato ribattezzato il John Holmes moro – ancora impiegato nella casa chiusa ma con altre mansioni, protagonista di spettacolini che potete bene immaginarvi. Un bel giorno – cioè brutto – due poliziotti si presentano dal proprietario della premiata ditta per chiedergli un favore. Nel ghetto c’è stato un omicidio: non avrebbe un colpevole da prestargli? Giusto per prevenire disordini. Tempo che gli animi si plachino e lo rilasceranno. Fra amici ci si aiuta, no? Peccato che lungo il tragitto che porta al commissariato gli agenti, che sono bianchi, arrestino pure la Pantera Nera Mu-Mu, lo ammanettino a Sweet Sweetback, lo malmenino. Il nostro eroe si incazza belluinamente, si libera e dà a sua volta una manica di botte ai pulotti lasciandoli a terra svenuti. Comincia da questo momento una fuga verso il confine messicano durante la quale gli succederà di tutto ma una cosa in particolare: che una donna dopo l’altra accetterà sì di aiutarlo, ma in cambio di… E se come trama questa di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, che Melvin Van Peebles dirigeva e interpretava nel 1971 (ne scriveva anche le musiche, coinvolgendo degli allora perfetti sconosciuti chiamati Earth, Wind & Fire), vi sembra una delle più grottesche di sempre, ebbene, sappiate che è dinnanzi a un tipico caso di vita che imita l’arte e non il contrario che ci si trova. Dovendo badare al centesimo, Van Peebles non soltanto girava senza controfigura le scene d’azione ma anche quelle di sesso, a tal punto realistiche, benché in senso stretto non si tratti di una pellicola hardcore, che si beccava la gonorrea. Oltre che grazie a un prestito di 50.000 dollari da parte di Bill Cosby, il film veniva completato e portato nelle sale incassando un rimborso dallo stato della California, che – sentite questa! – riconosceva la natura professionale della malattia del Van Peebles e la trattava dunque come un qualsiasi incidente sul lavoro. Ve l’ho raccontata, è vera, stento io stesso a crederci.

Poco da stupirsi che il revisionismo corrente a base di “politicamente corretto” tenda a mettere un po’ in secondo piano che questa appena riassunta fu la prima produzione cinematografica indipendente afroamericana dacché il pioniere Oscar Micheaux si era arreso, nel 1948, all’impossibilità di porsi in concorrenza  con la Hollywood maggiore. Alle prese con il fenomeno della cosiddetta “blaxploitation”, filone nel quale probabilmente non si trova un titolo che non sia offensivo almeno in una scena, se non nella totalità dell’impianto, per certi moralisti d’accatto, addirittura si cerca di far passare che il film capostipite fu il meno sconveniente – e premiato dall’industria ufficiale con il massimo dei riconoscimenti per la colonna sonora – Shaft, sempre del 1971. Lì si spara, lì c’è gente che vola dalle finestre, ma almeno non si scopa per metà del tempo.

Da molti, molti anni a questa parte – da quando Spike Lee è uno più celebrati registi al mondo, da quando il firmamento hollywoodiano è affollato (e lo è sempre di più) di stelle nere, da quando l’hip hop e Quentin Tarantino l’hanno resa fica ben oltre i suoi meriti e limiti – una scusa per parlare di blaxploitation la si potrebbe trovare ogni mese, in queste pagine visto che nella storia della settima arte mai le musiche l’avevano fatta così da padrone o, naturalmente, in quelle del cinema. Qualche mese più facilmente che in altri ed ecco: è da alcune settimane fuori una raccolta che sarebbe stato delittuoso (e chi l’avrebbe sentito allora l’ispettore Tibbs?) limitarsi a recensire. Doppia, trentaquattro brani in scaletta per una durata complessiva appena sopra le due ore, pubblicata dalla Soul Jazz Records, “Can You Dig It?” si segnala per quanto attiene la mera conta del chi c’è (e con cosa) e chi non c’è come una delle migliori collezioni mai assemblate nell’ambito. Venti minuti e sei o sette pezzi in più, ben scelti, l’avrebbero fatta inattaccabile. A essere praticamente perfetto, del resto come da consolidata tradizione della casa londinese, è il contorno: un libretto che è un vero e proprio libro, novantasei pagine zeppe di foto di scena e manifesti in cui si storicizza il fenomeno con la massima accuratezza consentita dagli spazi, sistemando a latere ritratti dei principali registi e attori e mettendo poi in fila le schede dei film del cui commento sonoro si porge esempio. Una festa per gli occhi sebbene senza una tetta o un culo in mostra e all’oggi settantaduenne Melvin Van Peebles questo probabilmente non piacerebbe. Restando in argomento, e volendo a ogni costo fare le pulci all’ottimo Stuart Baker, che firma il volumetto, si può lamentare il suo dire e non dire e insomma un tantino svicolare alle prese giusto con Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Quanto più in generale fosse pure sexploitation lo dice, ma lasciando l’impressione che cerchi di circoscrivere. Che dite? Sarà bianco o sarà nero?

Se è dirimente il colore di chi ci mise i soldi, l’ardita operina del Van Peebles ha indubitabilmente diritto di primogenitura in materia di moderno cinema afroamericano. Se no tocca a Cotton Comes To Harlem, che la anticipava di un anno, con a pagare i conti la United Artists ma con un regista nero (Ossie Davis), interpreti neri, un’ambientazione nera e una storia, noir oltre che nera, uscita dalla penna di un grandissimo autore nero quale Chester Himes. Poliziottesco, l’avrebbero chiamato in Italia, e nei film che a decine per un lustro porteranno sullo schermo, come mai successo in precedenza, la vita degli afroamericani di detective se ne incontreranno a iosa. Di puttane, papponi e spacciatori forse di più e chissà se qualcuno (probabile che sì) si è mai preso la briga di fare dei conteggi esatti. Certo: pur senza andare a cascare nel dannato politically correct, con la sensibilità odierna dello sconcerto lo si prova nel vedere sovente figure malavitose elette a personaggi positivi solo in quanto contrapposte al cattivo bianco di turno. Certo: potendo avere un panorama d’assieme lo si nota subito quanto fecero in fretta a farsi stereotipi. Né più né meno che nel cinema hollywoodiano classico la cameriera negra, il maggiordomo, il lustrascarpe e con l’unica differenza che stavolta era la stessa gente di colore a offrire di sé un’immagine caricaturale. Se ne accorgevano comunque, i contemporanei, e se nel 1971 per i militanti delle Pantere Nere la visione della pellicola di Van Peebles addirittura era obbligatoria presto la National Association For The Advancement Of Colored People solleciterà cineasti e attori neri a cambiare registro, spingendosi fino a invitare al boicotaggio. A dire il vero inascoltata. Costato mezzo milione di dollari, il film iniziatore ne incassava quattro di milioni ed era come se si mettesse in moto una valanga. In un periodo di pesante crisi per l’industria cinematografica statunitense lavori di costo modesto fruttavano ricavi straordinari non in assoluto ma in rapporto agli investimenti. Le sale tornavano a riempirsi, di afroamericani come mai prima ma senza che il pubblico bianco si sentisse escluso (tutt’altro!) e improvvisamente pure lì nero diventava bello. Ed ecco western con protagonisti di colore, horror (Blacula l’impagabile capostipite), film di arti marziali. Finiva per naturale esaurimento dei vari filoni, perché il successo stesso generando divi faceva lievitare le spese e perché, forte anche di quella iniezione di denaro fresco, Hollywood poteva riprendere a fare film più grandi della vita e del piccolo schermo. Finiva senza consegnare alla storia del cinema nemmeno un capolavoro autentico.

A quella della black music minimo due, “Shaft” di Isaac Hayes e “Superfly” di Curtis Mayfield, esempi sommi di un funk stradaiolo ma elegantissimo, capace di mettere assieme chitarre con il wah-wah e sezioni d’archi e inserire armoniosamente queste e quelle in trame fatte per il resto di bassi carnali, ottoni qui sornioni e là ribaldi, tastiere dall’incedere travolgente. Non lo si era mai sentito un funk così e per un’ottima ragione: chi li aveva mai avuti i soldi per pagare produzioni discograficamente tanto importanti? Paradossalmente spiccioli in un ambito in cui realizzare qualcosa in francescana economia vuol comunque dire spendere alcune centinaia di migliaia di dollari.

Quella negra dozzina 

Dodici colonne sonore classiche di film del filone blaxploitation scelte non solo in base al valore ma anche alla rappresentatività.

James Brown - Black Caesar

JAMES BROWN “Black Caesar” (Polydor, 1973)

Marvin Gaye - Trouble Man

MARVIN GAYE “Trouble Man” (Tamla, 1972)

Isaac Hayes - Shaft

ISAAC HAYES “Shaft” (Enterprise, 1971)

Willie Hutch - Foxy Brown

WILLIE HUTCH “Foxy Brown” (Motown, 1974)

Curtis Mayfield - Superfly

CURTIS MAYFIELD “Superfly” (Curtom, 1972)

Gene Page - Blacula

GENE PAGE “Blacula” (RCA, 1972)

Johnny Pate - Shaft In Africa

JOHNNY PATE “Shaft In Africa” (ABC, 1973)

Bernard Pretty Purdie - Lialeh

BERNARD “PRETTY” PURDIE “Lialeh” (Bayan, 1973)

Staple Singers - Let's Do It Again

STAPLE SINGERS “Let’s Do It Again” (Curtom, 1975)

Edwin Starr - Hell Up In Harlem

EDWIN STARR “Hell Up In Harlem” (Motown, 1974)

Melvin Van Peebles - Sweet Sweetback’s Baadasssss Song

MELVIN VAN PEEBLES “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song” (Stax, 1971)

Bobby Womack & J.J. Johnson - Across 110th Street

BOBBY WOMACK & J.J. JOHNSON “Across 110th Street” (United Artists, 1972)

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.666, gennaio 2010.

4 commenti

Archiviato in archivi, film

Sacri Cuori – Rosario (Decor/Interbang)

Sacri Cuori - Rosario

Lo hanno inteso i Calibro 35 per primi. Vuoi avere qualche possibilità di venire notato, e apprezzato, oltre i confini di questa provincia d’Impero sempre più povera e rassegnata? Per cominciare, c’è un modo molto semplice di bypassare il problema dell’esprimersi efficacemente in una lingua che, per quanto tu possa padroneggiarla bene, non è la tua: fai musica solo strumentale. Punto secondo: tanto meno ti appiattirai su modelli esteri, tanto più riuscirai a metterci qualcosa di universalmente riconosciuto come specificamente italiano, tanto più facile ti risulterà emergere. Dell’ennesimo gruppo americano, che oltretutto non è manco americano, gli Americani non hanno giustamente mai saputo che farsene. Punto terzo: ovviamente, essere musicisti con i – scusate il francesismo – controcazzi aiuta. Recuperando insieme le colonne sonore del filone blaxploitation e quelle – simili ma diverse – dei poliziotteschi nostrani, i Calibro 35 hanno scoperto l’uovo di Colombo e, nel loro piccolo (ma sempre meno piccolo), fatto saltare il banco. Tocca ai Sacri Cuori adesso. Provenienti non da una metropoli ma da quella stessa provincia che regalava al mondo Federico Fellini, già forti di una dimensione internazionale nelle vesti di gregari di un Hugo Race come di un Dan Stuart, già titolari nel 2010 di un album (“Douglas & Dawn”) che restavi a bocca aperta prima ancora di metterlo su leggendo i nomi degli ospiti (e poi la bocca rimaneva ben spalancata), chiamati alla prova del “difficile secondo album” dovevano dimostrare di essere in grado di compiere un ulteriore, definitivo salto di qualità. Ecco qui! Fatto.

Perché oltre Atlantico ebbero tanto successo i cosiddetti spaghetti western? Perché proponevano una frontiera che risultava perfettamente riconoscibile ma nel contempo “altra”, come se nel quadro fosse stata introdotta una sorta di distorsione tanto facile a cogliersi quanto ardua a enuclearsi. Sergio Leone affascinava per questo. Ennio Morricone lo stesso e quale musicista rock italiano ha mai avuto un centesimo, un millesimo dell’influenza esercitata sul rock dal Maestro? I Sacri Cuori danno l’impressione di esserselo studiato bene quel Morricone lì, ma pure Nino Rota. Per un attimo potresti scambiarli per i Black Heart Procession, i Giant Sand o i Calexico (del resto tutta gente che, per certo, minimo con Morricone ha dimestichezza), ma se appena cominci ad ascoltarli con attenzione l’equivoco non è più possibile. Diciassette brani in scaletta non contando un paio di versioni alternative, tre soli cantati di cui due in inglese (e a prevenire qualunque problema provvede che Isobel Campbell non solo li interpreti ma ne abbia scritto i testi), “Rosario” potrebbe essere sì la colonna sonora di un western ma solamente di un post-western, o di un meta-western, regia di Jarmusch o meglio di Tarantino. Intreccio inestricabile di suggestioni tanto numerose da renderne la catalogazione impresa impegnativa, gioca in scioltezza fra Lee Hazlewood e Angelo Badalamenti (le due tracce affidate alla Campbell, Silver Dollar e Garrett.East), mischia il tango al surf (Fortuna), evoca ora Santo & Johnny (Where We Left) e subito dopo Buscaglione (Teresita), Rota a più riprese (Quattro passi, Lido) e in mezzo dei Mysterians in fregola psych-exotica (Lee-Show), azzarda la lounge (Non tornerò) a ruota di una Sei che – esatto! – avrebbero potuto farla i Calibro 35. Disco tanto maturo, peculiare e bastante a sé stesso che a citare chi si presta a un cameo o di più – Stephen McCarthy, Woody Jackson, Jim Keltner, John Convertino, Marc Ribot, David Hidalgo… – quasi ti pare di sminuirlo, distogliendo l’attenzione da quello che è lo spettacolo vero.

10 commenti

Archiviato in recensioni

Menahan Street Band – The Crossing (Daptone)

Verrebbe da dire al recensore, con il sublime Montale di Non chiederci la parola, che della Menahan Street Band si fa più in fretta (e già e giustamente lo notava Steve Leggett a proposito del precedente e vecchio ormai quattro anni “Make The Road By Walking”) a dire ciò che non è. Non è un gruppo di soul o di funk o di rhyhm’n’blues, per quanto tutti i suoi numerosi componenti arrivino da formazioni (Antibalas, Budos Band, Dap-Kings) che suonano esattamente soul, funk e rhythm’n’blues. Non si può catalogarla alla voce “jazz”, a dispetto di abilità tecniche che consentirebbero benissimo a costoro di confrontarsi con una scuola le cui lezioni mettono a buon frutto in un momento sì e in un altro pure. Non fa colonne sonore, la Menahan Street Band (il nome viene dalla via di Brooklyn in cui è domiciliato il produttore Thomas Brenneck), ma non ci sarebbe da stupirsi se qualche regista avanzasse presto (sorprendente è semmai che ancora non sia avvenuto) proposte di quelle che non si possono rifiutare. Non ti verrebbe mai invece da collegarla all’hip hop ed è stato esattamente l’hip hop a determinarne le fortune. Vendeva modestamente l’album d’esordio, ma fra quanti lo acquistavano c’era Jay-Z e ci pensava lui a portarlo in classifica indirettamente, facendo girare il successone Roc Boys (And The Winner Is…) su un campionamento della traccia che quel disco lo intitolava. Anche Kid Cudi e e 50 Cent hanno attinto a quei solchi e sono arrivati di conseguenza diritti d’autore bastanti ad allestire lo studio nel quale “The Crossing” è stato registrato. Che altro non è questa band? Be’, a chiamarla “supergruppo”, come in tanti fanno, si dà al termine un’accezione assai diversa da quella nell’uso corrente dai Cream in avanti, siccome qui non è di stelle o stelline che stiamo parlando bensì di eccezionali turnisti, di quelli i cui nomi vanno cercati nei crediti. Manco gli addetti ai lavori in realtà saprebbero elencarli a memoria. Bene, questo non-supergruppo ha realizzato un altro superdisco in cui c’è un po’ di tutto quanto elencato dianzi e tanta altra roba ancora. È proprio “tanta roba”, “The Crossing”.

Come non individuare, nel pizzicato d’archi che traversa il brano che inaugura e battezza, della neo-cameristica? Non c’è più di qualcosa di Shipbuilding nell’attacco di una Three Faces che cuce con un synth esagerato il passaggio da uno struggersi di ottoni a uno slargo blaxploitation che porta in zona corrida? Qualcuno al giro prima aveva chiamato in causa Morricone e qualcosa di costui si potrebbe rinvenire anche stavolta e in particolare nello spaghetti-western metropolitano di Bullet For The Bagman (ma in fondo il Maestro è ovunque) e tuttavia paiono altri i nomi da fare volando al cinema: John Barry per Lights Out, un Henry Mancini inopinatamente ritrovatosi a porre mano a “Shaft” in luogo di (o in collaborazione con) Isaac Hayes per Sleight Of Hand. Quando Everyday A Dream trotterella indecisa fra lounge e soul inacidato e Driftwood azzarda blueseggiando seduzione virilmente tenera. Mettiamola così: se quest’anno volevate comprare un’unica collezione di strumentali già dovreste esservi portati a casa i Calibro 35 e siete a posto così, ma nel caso intendeste arrivare a due… Resterà un segreto fra noi, fintanto che non ci butterà l’orecchio un Jay-Z.

Lascia un commento

Archiviato in recensioni