Fu una rivoluzione: fatta di film costati quattro soldi e capaci di renderne quattrocento. Come spesso le rivoluzioni, fu breve e seguita da una restaurazione, ma gli effetti perdurano. Come spesso le rivoluzioni, portò alla ribalta personaggi tanto affascinanti quanto discutibili. Erano giovani. Erano belli. Ma soprattutto erano abbronzati.

Nella Los Angeles dell’immediato secondo dopoguerra un orfanello di colore trova lavoro come addetto alle pulizie in un bordello. Lo prende a benvolere una delle prostitute, che decide di sgravarlo della verginità e viene ricompensata di tanto buon cuore da una prestazione assolutamente inattesa, supportata da, diciamo così, uno strumento fuori dal comune. Qualche anno dopo ritroviamo Sweet Sweetback – così è stato ribattezzato il John Holmes moro – ancora impiegato nella casa chiusa ma con altre mansioni, protagonista di spettacolini che potete bene immaginarvi. Un bel giorno – cioè brutto – due poliziotti si presentano dal proprietario della premiata ditta per chiedergli un favore. Nel ghetto c’è stato un omicidio: non avrebbe un colpevole da prestargli? Giusto per prevenire disordini. Tempo che gli animi si plachino e lo rilasceranno. Fra amici ci si aiuta, no? Peccato che lungo il tragitto che porta al commissariato gli agenti, che sono bianchi, arrestino pure la Pantera Nera Mu-Mu, lo ammanettino a Sweet Sweetback, lo malmenino. Il nostro eroe si incazza belluinamente, si libera e dà a sua volta una manica di botte ai pulotti lasciandoli a terra svenuti. Comincia da questo momento una fuga verso il confine messicano durante la quale gli succederà di tutto ma una cosa in particolare: che una donna dopo l’altra accetterà sì di aiutarlo, ma in cambio di… E se come trama questa di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, che Melvin Van Peebles dirigeva e interpretava nel 1971 (ne scriveva anche le musiche, coinvolgendo degli allora perfetti sconosciuti chiamati Earth, Wind & Fire), vi sembra una delle più grottesche di sempre, ebbene, sappiate che è dinnanzi a un tipico caso di vita che imita l’arte e non il contrario che ci si trova. Dovendo badare al centesimo, Van Peebles non soltanto girava senza controfigura le scene d’azione ma anche quelle di sesso, a tal punto realistiche, benché in senso stretto non si tratti di una pellicola hardcore, che si beccava la gonorrea. Oltre che grazie a un prestito di 50.000 dollari da parte di Bill Cosby, il film veniva completato e portato nelle sale incassando un rimborso dallo stato della California, che – sentite questa! – riconosceva la natura professionale della malattia del Van Peebles e la trattava dunque come un qualsiasi incidente sul lavoro. Ve l’ho raccontata, è vera, stento io stesso a crederci.
Poco da stupirsi che il revisionismo corrente a base di “politicamente corretto” tenda a mettere un po’ in secondo piano che questa appena riassunta fu la prima produzione cinematografica indipendente afroamericana dacché il pioniere Oscar Micheaux si era arreso, nel 1948, all’impossibilità di porsi in concorrenza con la Hollywood maggiore. Alle prese con il fenomeno della cosiddetta “blaxploitation”, filone nel quale probabilmente non si trova un titolo che non sia offensivo almeno in una scena, se non nella totalità dell’impianto, per certi moralisti d’accatto, addirittura si cerca di far passare che il film capostipite fu il meno sconveniente – e premiato dall’industria ufficiale con il massimo dei riconoscimenti per la colonna sonora – Shaft, sempre del 1971. Lì si spara, lì c’è gente che vola dalle finestre, ma almeno non si scopa per metà del tempo.
Da molti, molti anni a questa parte – da quando Spike Lee è uno più celebrati registi al mondo, da quando il firmamento hollywoodiano è affollato (e lo è sempre di più) di stelle nere, da quando l’hip hop e Quentin Tarantino l’hanno resa fica ben oltre i suoi meriti e limiti – una scusa per parlare di blaxploitation la si potrebbe trovare ogni mese, in queste pagine visto che nella storia della settima arte mai le musiche l’avevano fatta così da padrone o, naturalmente, in quelle del cinema. Qualche mese più facilmente che in altri ed ecco: è da alcune settimane fuori una raccolta che sarebbe stato delittuoso (e chi l’avrebbe sentito allora l’ispettore Tibbs?) limitarsi a recensire. Doppia, trentaquattro brani in scaletta per una durata complessiva appena sopra le due ore, pubblicata dalla Soul Jazz Records, “Can You Dig It?” si segnala per quanto attiene la mera conta del chi c’è (e con cosa) e chi non c’è come una delle migliori collezioni mai assemblate nell’ambito. Venti minuti e sei o sette pezzi in più, ben scelti, l’avrebbero fatta inattaccabile. A essere praticamente perfetto, del resto come da consolidata tradizione della casa londinese, è il contorno: un libretto che è un vero e proprio libro, novantasei pagine zeppe di foto di scena e manifesti in cui si storicizza il fenomeno con la massima accuratezza consentita dagli spazi, sistemando a latere ritratti dei principali registi e attori e mettendo poi in fila le schede dei film del cui commento sonoro si porge esempio. Una festa per gli occhi sebbene senza una tetta o un culo in mostra e all’oggi settantaduenne Melvin Van Peebles questo probabilmente non piacerebbe. Restando in argomento, e volendo a ogni costo fare le pulci all’ottimo Stuart Baker, che firma il volumetto, si può lamentare il suo dire e non dire e insomma un tantino svicolare alle prese giusto con Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Quanto più in generale fosse pure sexploitation lo dice, ma lasciando l’impressione che cerchi di circoscrivere. Che dite? Sarà bianco o sarà nero?
Se è dirimente il colore di chi ci mise i soldi, l’ardita operina del Van Peebles ha indubitabilmente diritto di primogenitura in materia di moderno cinema afroamericano. Se no tocca a Cotton Comes To Harlem, che la anticipava di un anno, con a pagare i conti la United Artists ma con un regista nero (Ossie Davis), interpreti neri, un’ambientazione nera e una storia, noir oltre che nera, uscita dalla penna di un grandissimo autore nero quale Chester Himes. Poliziottesco, l’avrebbero chiamato in Italia, e nei film che a decine per un lustro porteranno sullo schermo, come mai successo in precedenza, la vita degli afroamericani di detective se ne incontreranno a iosa. Di puttane, papponi e spacciatori forse di più e chissà se qualcuno (probabile che sì) si è mai preso la briga di fare dei conteggi esatti. Certo: pur senza andare a cascare nel dannato politically correct, con la sensibilità odierna dello sconcerto lo si prova nel vedere sovente figure malavitose elette a personaggi positivi solo in quanto contrapposte al cattivo bianco di turno. Certo: potendo avere un panorama d’assieme lo si nota subito quanto fecero in fretta a farsi stereotipi. Né più né meno che nel cinema hollywoodiano classico la cameriera negra, il maggiordomo, il lustrascarpe e con l’unica differenza che stavolta era la stessa gente di colore a offrire di sé un’immagine caricaturale. Se ne accorgevano comunque, i contemporanei, e se nel 1971 per i militanti delle Pantere Nere la visione della pellicola di Van Peebles addirittura era obbligatoria presto la National Association For The Advancement Of Colored People solleciterà cineasti e attori neri a cambiare registro, spingendosi fino a invitare al boicotaggio. A dire il vero inascoltata. Costato mezzo milione di dollari, il film iniziatore ne incassava quattro di milioni ed era come se si mettesse in moto una valanga. In un periodo di pesante crisi per l’industria cinematografica statunitense lavori di costo modesto fruttavano ricavi straordinari non in assoluto ma in rapporto agli investimenti. Le sale tornavano a riempirsi, di afroamericani come mai prima ma senza che il pubblico bianco si sentisse escluso (tutt’altro!) e improvvisamente pure lì nero diventava bello. Ed ecco western con protagonisti di colore, horror (Blacula l’impagabile capostipite), film di arti marziali. Finiva per naturale esaurimento dei vari filoni, perché il successo stesso generando divi faceva lievitare le spese e perché, forte anche di quella iniezione di denaro fresco, Hollywood poteva riprendere a fare film più grandi della vita e del piccolo schermo. Finiva senza consegnare alla storia del cinema nemmeno un capolavoro autentico.
A quella della black music minimo due, “Shaft” di Isaac Hayes e “Superfly” di Curtis Mayfield, esempi sommi di un funk stradaiolo ma elegantissimo, capace di mettere assieme chitarre con il wah-wah e sezioni d’archi e inserire armoniosamente queste e quelle in trame fatte per il resto di bassi carnali, ottoni qui sornioni e là ribaldi, tastiere dall’incedere travolgente. Non lo si era mai sentito un funk così e per un’ottima ragione: chi li aveva mai avuti i soldi per pagare produzioni discograficamente tanto importanti? Paradossalmente spiccioli in un ambito in cui realizzare qualcosa in francescana economia vuol comunque dire spendere alcune centinaia di migliaia di dollari.
Quella negra dozzina
Dodici colonne sonore classiche di film del filone blaxploitation scelte non solo in base al valore ma anche alla rappresentatività.

JAMES BROWN “Black Caesar” (Polydor, 1973)

MARVIN GAYE “Trouble Man” (Tamla, 1972)

ISAAC HAYES “Shaft” (Enterprise, 1971)

WILLIE HUTCH “Foxy Brown” (Motown, 1974)

CURTIS MAYFIELD “Superfly” (Curtom, 1972)

GENE PAGE “Blacula” (RCA, 1972)

JOHNNY PATE “Shaft In Africa” (ABC, 1973)

BERNARD “PRETTY” PURDIE “Lialeh” (Bayan, 1973)

STAPLE SINGERS “Let’s Do It Again” (Curtom, 1975)

EDWIN STARR “Hell Up In Harlem” (Motown, 1974)

MELVIN VAN PEEBLES “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song” (Stax, 1971)

BOBBY WOMACK & J.J. JOHNSON “Across 110th Street” (United Artists, 1972)
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.666, gennaio 2010.
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