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I migliori album del 2017 (6): Robert Plant – Carry Fire (Nonesuch)

La chioma è tuttora leonina e quanto alla voce fa di necessità virtù come meglio non potrebbe. Va da sé che se i settanta incombono non potrai ruggire come al tempo in cui di anni ne avevi venti, trenta. Dovrai imparare a dosare le residue risorse ed ecco, in tal senso Robert Plant oggi è un cantante migliore di quando nei cieli del rock nessuno volava più alto dello Zeppelin. Dopo di che, ciò conterebbe poco non lo soccorressero in questa terza età che è prodigiosa seconda giovinezza una penna ispiratissima e un gusto impeccabile nella scelta dei collaboratori come dei suoni, delle influenze. Seconda giovinezza ormai considerevolmente più lunga della prima, siccome principiava nel ’94 con il rinnovarsi del sodalizio con Jimmy Page in “No Quarter”, laddove si evocava un passato straordinariamente ingombrante solo per farci pace e – definitivamente (le successive occasionali rimpatriate parentesi a ragione di ciò gioiose e non patetiche) – andare oltre. Con come spartiacque quel voluminoso live, “Walking Into Clarksdale” e un “Dreamland” per più di metà di cover (e se andate a vedere che cover sono scoprirete che le traiettorie successive sono lì anticipate pressoché per intero), non potrebbe darsi cesura più clamorosa fra il Robert Plant solista del XX secolo e quello del XXI. Pur avendo il merito non da poco di provare a scansare da subito le trappole della nostalgia, il primo suonava vecchio già allora, fra hard bombastico e new wave orecchiata male. Quello attuale è senza tempo.

Avevate amato “Lullaby And… The Ceaseless Roar”? “Carry Fire” ne ripropone le suggestioni giocando fra un blues arcaico e un folk d’Arcadia, fra un rock’n’roll ridotto al suo battito primevo e un’etno-psichedelia parimenti minimalista. Senza mai evocare un rock da grandi arene, o forse giusto nel malevolo heavy blues – il Nostro in duetto con Chrissie Hynde – Bluebirds Over The Mountain, unica cover in scaletta e paradossalmente, a), pure nel repertorio dei Beach Boys e, b), di un oscuro interprete rockabilly, Ersel Hickey. Disco di gran classe e generoso di classici. Categoria alla quale, pur nel contesto di una carriera stellare, iscriverei senza esitare un’arabeggiante The May Queen, il rockabilly inacidato Carving Up The World Again…, una traccia omonima che sostituisce l’Alhambra ai Valhalla che furono. Trapunta di chitarre spagnole, colpita al cuore da un violino gitano. Ancora: una Keep It Hid dal meccanico pulsare quasi Suicide. Almeno.

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I migliori album del 2017 (11): Tinariwen – Elwan (Wedge)

Sarebbe bello per una volta potere scrivere dei Tinariwen saltando la loro storia di guerriglieri che, costretti a usare le armi nel tentativo a oggi vano di fondare una nazione per quello che resta un popolo senza patria – tuareg o imajeghen che dir si voglia – a un certo punto rendono la loro battaglia pure culturale e lo fanno imbracciando delle chitarre elettriche. Sarebbe bello occuparsene non dovendo aggiornare il lettore (l’informazione che dovrebbe provvedere se ne guarda bene) sulla situazione disperata del Mali e sul prolungarsi dell’esilio dei nostri eroi, una volta nomadi in viaggio da questa a quella oasi e oggi peregrinanti fra club, teatri, festival e sale d’incisione (“Elwan” è stato registrato, fra il 2014 e il 2016, fra Francia, Marocco e California). Sarebbe bello recensire un loro nuovo album – questo è il settimo da quando nel 2001 “The Radio Tisdas Sessions” svelava a un mondo stupefatto un suono fino a quel punto circolato solo in Nordafrica, su cassette di qualità tecnica approssimativa – concentrandosi sulla musica e basta. Ci proviamo?

Dura scegliere in una discografia di eccezionale qualità media e nondimeno bastano un paio di ascolti per suscitare la sensazione – che un altro paio di passaggi trasforma in certezza – di avere fra le mani il lavoro più potente congegnato da questi combat rockers non in metafora da quel “Amassakoul”, datato 2004, sinora considerato il loro capolavoro. “Elwan” se la gioca da una prima traccia (vi risparmio i perlopiù impronunciabili titoli) incalzante e turbinosa, corale e ipnotica, sveltamente seguita da una seconda che è un’apoteosi di basso funk (tornerà, travolgentemente, nella decima) e chitarre distorte. Nel 2017 semplicemente non ci sono né un altro blues né un’altra psichedelia che abbiano il senso e l’urgenza di “Elwan”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017.

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Tinariwen – Elwan (Wedge)

Sarebbe bello per una volta potere scrivere dei Tinariwen saltando la loro storia di guerriglieri che, costretti a usare le armi nel tentativo a oggi vano di fondare una nazione per quello che resta un popolo senza patria – tuareg o imajeghen che dir si voglia – a un certo punto rendono la loro battaglia pure culturale e lo fanno imbracciando delle chitarre elettriche. Sarebbe bello occuparsene non dovendo aggiornare il lettore (l’informazione che dovrebbe provvedere se ne guarda bene) sulla situazione disperata del Mali e sul prolungarsi dell’esilio dei nostri eroi, una volta nomadi in viaggio da questa a quella oasi e oggi peregrinanti fra club, teatri, festival e sale d’incisione (“Elwan” è stato registrato, fra il 2014 e il 2016, fra Francia, Marocco e California). Sarebbe bello recensire un loro nuovo album – questo è il settimo da quando nel 2001 “The Radio Tisdas Sessions” svelava a un mondo stupefatto un suono fino a quel punto circolato solo in Nordafrica, su cassette di qualità tecnica approssimativa – concentrandosi sulla musica e basta. Ci proviamo?

Dura scegliere in una discografia di eccezionale qualità media e nondimeno bastano un paio di ascolti per suscitare la sensazione – che un altro paio di passaggi trasforma in certezza – di avere fra le mani il lavoro più potente congegnato da questi combat rockers non in metafora da quel “Amassakoul”, datato 2004, sinora considerato il loro capolavoro. “Elwan” se la gioca da una prima traccia (vi risparmio i perlopiù impronunciabili titoli) incalzante e turbinosa, corale e ipnotica, sveltamente seguita da una seconda che è un’apoteosi di basso funk (tornerà, travolgentemente, nella decima) e chitarre distorte. Nel 2017 semplicemente non ci sono né un altro blues né un’altra psichedelia che abbiano il senso e l’urgenza di “Elwan”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017.

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Quel gaglioffo di Jah Wobble

Jah Wobble

È uno degli aneddoti più spassosi in cui ci si può imbattere sfogliando la Grande Storia del Rock e dunque viene ripetuto spesso: Lemmy Kilmister venne allontanato dagli Hawkwind (bel colpo di fortuna per lui e per noi, siccome se no ci saremmo persi i Motörhead) perché si drogava troppo. Che è come dire che il Papa è stato espulso da Santa Madre Chiesa per eccesso di cattolicesimo. Ma sentite questa che è persino meglio: John Wardle sarebbe potuto essere uno dei Sex Pistols, ma non lo vollero perché per teppismo e maleducazione superava tutti gli altri. State già ridendo? Forse non avete ancora realizzato che… gli preferirono Sid Vicious! A proposito del Vizioso e sciocco Sid: fu lui involontariamente a ribattezzare l’amico con il nome d’arte con il quale è noto da allora. Ubriaco fradicio, a una festa lo presentava con voce impastata agli astanti e veniva fuori un Jah Wobble immediatamente ed entusiasticamente adottato da un ragazzo che era cresciuto a Led Zeppelin, Can e Radio Cairo, ma in prevalenza a reggae. Agiografia racconta pure che, preso in mano lo strumento maltrattato dall’inetto compagno di bagordi, il nostro eroe si sentiva traversare come da una corrente mistica e decideva che il basso elettrico sarebbe diventato la sua vita. Se ne ricorderà Johnny “non più Rotten” Lydon quando, formati i Public Image Ltd, gli servirà un bassista. Si stenta a crederlo, ma pare che la micidiale linea discendente, alla quale si agganciano una chitarra ancora punkissima e una voce stridula che declina quintessenza di innodia, nella canzone omonima del nuovo gruppo sia stata la prima mai suonata da Jah Wobble. Quasi quasi mi pento di avere scritto una volta, o anche due, che costui non è un genio. Ripensandoci, sbagliavo.

Gaglioffo di fenomenale simpatia il Nostro, che ineffabilmente adopera la prima riga e mezza del librettino autografo che accompagna “I Could Have Been A Contender”, box di tre CD appena spedito nei negozi dalla Trojan, per informarci che “ho quarantacinque anni ma sono tuttora un uomo bellissimo”. E prosegue ragionando che era dunque il momento giusto per pubblicare un cofanetto antologico, perché così le foto pubblicitarie a corredo avrebbero ancora effigiato un individuo di giovanile e piacevole aspetto, mentre a farlo uscire fra un po’ di anni le relative immagini avrebbero creato un contrasto fra un vecchio decrepito e della musica meravigliosa, e ciò avrebbe potuto confondere la gente. Giuro. Scrive proprio così e sarebbe una buona, paradossale ragione per consigliarvi questa raccolta, sontuosa per minutaggio (tre ore e tre quarti) e invitante per l’abbordabilissimo prezzo, non ce ne fossero tanti altri di motivi. Il primo: il migliore bassista prodotto dalla generazione del punk. Sviluppato in fretta (già all’altezza del “Metal Box” risultava perfettamente formato) uno stile inconfondibile per la capacità di suonare più linee contemporaneamente, incrociandole e risultando insieme astruso e immediato, cerebrale e viscerale (come da lezione del dub), lo ha poi applicato a una congerie di generi e situazioni di ampiezza rara. Il secondo: giacché oggettivamente produce in quantità esagerata, e non ciascuna ciambella gli viene con il buco, una corposa raccolta è l’ideale per approcciarlo. Se appieno soddisfatti, potrete al limite accostargliene un’altra, la singola 30 Hertz Collection di quattro anni or sono (c’è un’unica sovrapposizione). Mentre già dovreste avere in casa – spero per voi – i primi due album in studio dei P.I.L., i soli che videro in squadra Jah Wobble prima che le strade sue e di Lydon acrimoniosamente si separassero.

“I Could Have Been A Contender” (una citazione del Marlon Brando di Fronte del porto) prende da “First Issue” la già nominata Public Image e dal “Metal Box” il paranoico salmodiare di Poptones e la ghiacciata (la chitarra un maelstrom, il marziale basso un’ossessione) Swan Lake (Death Disco). Scelte apprezzabili ancorché legate al gusto del compilatore, visto che tutto sarebbe stato estraibile da un capolavoro, uno degli assoluti classici della new wave, in cui si intrecciano dub e krautrock, Captain Beefheart e house prima della house. I P.I.L. non saranno più i P.I.L. dopo la defezione di Wobble né, osservando la faccenda dalla prospettiva opposta, il nostro uomo toccherà più vertici sì vertiginosi. Il che comunque non toglie che parecchio di rimarchevole abbia licenziato in una carriera solistica divisa in due tronconi, intervallati da un lungo iato trascorso dando battaglia all’alcolismo e guadagnandosi da vivere nelle maniere più improbabili per una quasi rockstar: tassista, bigliettaio della metropolitana londinese. Il box Trojan disdegna l’ordine cronologico ed è ad esempio sul secondo dischetto che si incoccia nell’ululante Betrayal Dub che fu la sua prima sortita in proprio e, a ruota, nel primo frutto dell’incontro con l’anima gemella Holger Czukay, la tastieristica e circolare How Much Are They. Mentre sta sul disco uno, e sorprendentemente seminascosta, quella Visions Of You che, felicissimo clash di funk, pop e raga graziato da una divina Sinead O’Connor, nel 1991 fece sfiorare al Nostro (attimo fuggente) la fama vera. C’è di tutto in “I Could Have Been A Contender”, da musiche etniche frequentate da molto prima che la voga prendesse piede al più persuasivo Brian Eno degli ultimi tre lustri, da ipotesi di contemporanea redenta d’ogni presunzione accademica a requiem e cinematiche cavalcate. A paradigma eleggerei il quarto d’ora di una Gone To Croatan di suggestioni indicibili. Danno una mano (e non sono che due degli altisonanti nomi di una sfilata di ospiti da paura) un jazzista eretico quale Pharoah Sanders e Sua Funkitudine Bernie Worrell. E insomma certo punk non è morto, è solo cresciuto.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.596, 19 ottobre 2004.

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L’afro disco beat di Tony Allen

È stato ultimamente in Italia per un paio di date (facendo tappa fra l’una e l’altra pure al “Primavera Sound”) colui che fu il motore ritmico di Fela Kuti. Già sarebbe abbastanza per celebrarlo, Tony Allen, non fosse che vanta anche una discografia in proprio di altissimo livello.

Tony Allen - Afro Disco Beat

A chiarire quanto siano eccezionali le capacità tecniche del nigeriano Tony Allen, polifonica batteria originale dell’afrobeat e suo autentico pilastro portante, basti un aneddoto: quando lui e Fela Kuti – quasi inevitabilmente, siccome due galli in un pollaio non possono convivere a lungo – litigarono e Allen lasciò gli Afrika 70, per sostituirlo adeguatamente il leader dovette ricorrere ai contemporanei servigi di quattro strumentisti. Non è naturalmente, come accadrebbe in altri ambiti e (se si può dire) con altre razze, una questione di mero sebbene prodigioso virtuosismo: è che è il Nostro possiede un senso del groove, e anzi dei grooves (al plurale), vista la capacità di svilupparne simultaneamente diversi, semplicemente insuperabile. E come lo swing è qualcosa che nessuna scuola potrà mai darti. Ce l’hai, oppure no. Lontanissimi i contrasti cui accennavo, e da lungi purtroppo nemmeno più fra noi Fela, ad Allen in questi anni 2000 è toccata, almeno nella stessa misura che a Femi Kuti, la gravosa eredità. Nel 2002 “Home Cooking” testimoniava della voglia di rinnovare quel suono, unione di funk e highlife, jazz, soul e rhythm’n’blues che il nostro eroe contribuì in misura decisiva a forgiare, con tocchi di modernità – si trattasse di contaminazioni con l’hip hop o riferimenti più o meno lati alle tante musiche nelle quali l’afrobeat è entrato, dalla house alla techno, al downtempo. Di qualcosa come diciotto mesi il tour che lo seguiva e che nel 2004 veniva documentato da “Live”, un’apoteosi ritmica di quasi un’ora e un quarto in sette indiavolati movimenti prodighi di raffinatezze d’arrangiamento magistrali. Nel 2006 era la volta dell’al pari persuasivo ed eccitante “Lagos No Shaking”, ma questa è ancora cronaca più che storia.

Sono viceversa Storia con la “s” maiuscola i quattro album – “Jealousy”, “Progress”, “No Accomodation For Lagos” e “No Discrimination” – usciti fra il ’75 e il ’79, e già ristampati separatamente da Afro Strut otto anni fa, che la Vampisoul raccoglie senza aggiunte in questa fenomenale doppia antologia. Medesima la struttura dei primi tre: durate sotto la mezz’ora e due soli brani a occuparli, come del resto caratteristico di innumerevoli LP di Fela. Uguale la materia sonora – bassi tondi e dinamici, percussioni incalzanti, fiati circolari e voci tribali – e invero memorabili, in “Progress”, gli incastri di basso e batteria della traccia che intitola la raccolta. Lievi aggiustamenti stilistici in “No Discrimination”, il cui invincibile funk è pervaso da aromi jazz. Di poco più lungo e articolato, con quattro pezzi a sfilarvi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.642, gennaio 2008.

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Alice Coltrane nelle città del jazz

Non è il Riccardone l’animale peggiore nel quale ci si può imbattere aggirandosi nel gran bestiario degli appassionati di musica. No, il peggio del peggio è il Jazzofilo. Quello che ancora stenta a venire a patti con Albert Ayler o con il Miles Davis elettrico. Quello che il bebop è l’ultima rivoluzione che ha metabolizzato, ma ha potuto farlo solo trasformandola nel Verbo dal quale non si deve mai deviare. Quello che aborre qualsiasi contaminazione (come se il jazz non fosse per sua stessa natura meticcio), a meno che non si tratti di fusion della più flaccida e onanista. Quello che se non eri presente a “Umbria Jazz” nel 1973 (lui naturalmente c’era, mica poteva perdersi l’occasione di fischiare Sun Ra) allora non puoi capire. Non hai e non avrai mai la sensibilità giusta. Tu cos’è il jazz non lo sai e lui invece sì.

Il Jazzofilo ha sempre odiato e sempre odierà Alice Coltrane. Io l’ho sempre amata e del Jazzofilo me ne frego. Lo lascio alla sua vita triste e senza swing.

Ptah, The El Daoud

Ptah, The El Daoud (Impulse!, 1970)

Sarebbe anche ora, trent’anni dopo gli eventi, di togliere l’anatema scagliato da tanti jazzofili contro la vedova Coltrane. Certo: non fu una bella idea l’aggiungere piste d’archi da lei arrangiati a nastri del defunto consorte ma, insomma, abbiamo visto e sentito di peggio da allora. E magari non avrà giovato alla sua credibilità lo Stravinsky riorchestrato seguendo, a suo dire, istruzioni giuntele dal caro estinto, ma non dovrebbero, curriculum e musica, contare più di manifestazioni di eccentricità pure spinta? O dovremmo giudicare, per dire, Thelonious Monk per le mattane piuttosto che per la genialità degli spartiti?

Solo beceri pregiudizi maschilisti possono portare a sostenere che la Alice McLeod che nel 1966 entra nel gruppo di John Coltrane (in luogo di McCoy Tyner) un anno dopo avere sposato il leader ottenga il posto per meriti di talamo. Colossali sciocchezze, offensive in primo luogo nei confronti di Coltrane stesso. Al piano Alice, che è pure ottima arpista, ha un tocco eccellente e in precedenza ha suonato con Stan Getz e Yusef Lateef e studiato con Bud Powell, non esattamente dei carneadi. Offre il suo apporto per i pochi mesi che il marito vivrà ancora e intraprenderà poi una carriera solistica di tutto rispetto, dimostrandosi compositrice di vaglia e di grande originalità. Di tale carriera “Ptah, The El Daoud”, tappa intermedia tra il già peculiare esordio di “Monastic Trio” e l’approdo a una metaforica India posta a fianco all’Africa di “Journey In Satchidananda”, rappresenta l’apice. Jazz acceso di suggestioni etniche e intriso di spiritualità, prossimo a certe coeve esplorazioni di Pharoah Sanders. Non a caso fra i protagonisti, con Joe Henderson, Ron Carter e Ben Riley, di “Ptah, The El Daoud”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.215, luglio/agosto 2001.

Universal Consciousness

Universal Consciousness (Impulse!, 1971)

Vero che la splendida confezione, riproduzione in miniatura di un originale del 1971 da troppo irreperibile, non poteva ometterle, ma è quasi un peccato che le note di copertina che al tempo Alice Coltrane vergò siano giunte fino a noi, non sostituite ad esempio da un saggio critico su questa sottovalutatissima musicista. Il loro misticheggiante eloquio (una filosofia di vita non è riassumibile in così succinto spazio) non renderà un buon servizio alla vedova di John, ingenerando in distratti e ultimi arrivati la tendenza a catalogare “Universal Consciousness” all’esecrabile voce “new age”. Sarebbe l’ultimo di una serie di equivoci il cui primo data 1966, l’anno in cui Alice McLeod sostituì McCoy Tyner nel gruppo di John Coltrane, che aveva sposato l’anno prima e che morirà l’anno dopo. Certi jazzofili non gliel’hanno mai perdonata, trasformandola in una sorta di Yoko Ono ante litteram colpevole di ogni nefandezza e in primis, secondo loro, di avere avuto il posto per meriti di talamo. “Non è jazz!”, berciavano sordi e schifati di fronte ad album di clamorosa bellezza quali “Monastic Trio” (1968), “Ptah, The El Daoud” (1970), “Journey In Satchidananda” (1971), lavori in cui un jazz profondamente intriso di spiritualità si trasfigura al contatto con le più varie musiche d’Africa e soprattutto d’Asia.

In “Universal Consciousness” la comunione con l’India raggiunge (in particolare nella rielaborazione del tradizionale Sita Ram) una perfezione che lascia attoniti ed estatici. Ai livorosi di cui sopra non importerà che siano qui all’opera jazzisti coi fiocchi come, per non fare che due nomi, Jack DeJohnette e Rashied Ali. Peggio per loro. Io non so se sia o no jazz e a dire il vero non me ne potrebbe importare di meno: è grande musica e (tanto mi) basta.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.231, gennaio 2003.

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John McLaughlin va in India (l’avventura di Shakti)

Shakti - Natural Elements

Ci si perde nella biografia – fatta tutta di storie di musica, nessuno spazio per pettegolezzi o scandali – dell’uomo cui Miles Davis tributò il più grande e definitivo degli omaggi, intitolando con le sue generalità la traccia più breve (in origine in chiusura di terza facciata) delle sei in tutto che danno vita al monumentale “Bitches Brew”: John McLaughlin. Ci si perde e ogni tanto si sobbalza: sapevo da sempre ad esempio che costui può vantarsi di avere dato lezioni di chitarra al di poco più giovane (1944; il Nostro è del ’42) Jimmy Page ma solo in tempi relativamente recenti sono venuto a conoscenza di una sua jam notturna di sei ore datata 25 marzo 1969 con Jimi Hendrix, ai Record Plant di New York. Pare interamente registrata e che bella cosa sarebbe se, al di là dei vari più o meno corposi frammenti apparsi su dischi pirata e non solo (su YouTube se ne trova un estratto che sfiora i ventotto minuti), qualcuno provasse a metterci mano ed editarla. Nei limiti del divertissement non concepito per diventare di pubblico dominio da quanto ho avuto modo di sentire balenano intermittentemente bei guizzi e per certo di Hendrix nei decenni ci sono state inflitte performance più approssimative. Se solo fosse ancora vivo un Teo Macero… Ma soprattutto: se solo quel principio di collaborazione avesse trovato sviluppo! Altra legna aggiunta al fuoco della leggenda di un chitarrista – è di McLaughlin che sto parlando – che ha fatto scuola negli ambiti più impensati e basti dire che Greg Ginn, dei campioni di hardcore punk Black Flag, ha dichiarato che ascoltarlo cambiò per sempre il suo modo di pensare musica. Il che incuriosisce almeno quanto l’apprendere che uno spirito invece apparentemente affine quale Frank Zappa pur ammirandone la prodigiosa tecnica avanzava qualche riserva sulla tendenza a suonare con il piede pigiato sempre sull’acceleratore e, soprattutto, sull’influenza avuta su schiere di strumentisti che quella tecnica se la sono ben studiata ma l’hanno poi resa un qualcosa di fine a se stesso. Ironico che a rimarcarlo sia stato proprio Zappa, che analogamente di pestiferi e onanisti epigoni fece e continua a far collezione, ma come dargli torto? Epperò, come osservavo un po’ di anni fa scrivendo in questa stessa rubrica dell’esordio della Mahavishnu Orchestra datato 1971, “The Inner Mounting Flame”, non è giusto che le colpe dei figli ricadano sui padri. Così come non si può dannare “Sgt. Pepper’s” addebitandogli le schiere di pessimi emuli baroccheggianti o viceversa vittime dell’insostenibile leggerezza del floreale, non si può sminuire o peggio vilipendere quell’epocale debutto a causa di tutti quei dischi venuti dopo nei quali l’incontro nei suoi solchi fantasticamente eccitante fra rock e jazz si farà maniera, le prodezze strumentali lì al servizio di un fuoco d’artificio di idee null’altro che deleterio virtuosismo. Tanta flaccida fuffa che andrà sotto il nome di fusion, e che si vuole discenda da qui, si situa paradossalmente all’esatto opposto di un sound viceversa vorticoso e magmatico, al netto di qualche parentesi estatica.

Al jazz dapprincipio elettrico John McLaughlin arrivava partendo da quel blues revival britannico di cui era stato, collaborando fra gli altri con Alexis Korner, Graham Bond e Ginger Baker, uno dei nomi di punta. Quando nel 1968 si trasferiva a New York, convocato da Tony Williams, la sua valenza era ormai tale da impressionare per l’appunto Davis, che lo vorrà con sé in un poker storico di album comprendente prima di “Bitches Brew” “In A Silent Way” e a seguirlo “A Tribute To Jack Johnson” e “On The Corner”. Contemporaneamente il nostro uomo licenziava in proprio un altro dei classici del primo jazz-rock, “Extrapolation”, atto d’apertura di una vicenda solistica che avrà un vertice di ispirazione e popolarità nei primi ’70 proprio con una Mahavishnu Orchestra che sin dal nome tradiva la passione dell’artista dello Yorkshire per la cultura indiana. Da lì a qualche anno ancora approfondita con il progetto Shakti ed ecco, nessuno quei dischi ha invece mai provato a imitarli. Tre in tutto (un quarto a nome Remember Shakti servirà da riepilogo, punto e congedo due abbondanti decenni dopo) che con la loro fusione acustica e non elettrica di jazz e musica indiana, dominata però da quest’ultima (chi ne sa osserva che la parte indiana del melange è a sua volta intreccio di due differenti tradizioni, l’industana e la carnatica), fanno capitolo a sé anche nel romanzo degli incontri fra musiche occidentali e “altre” e sono rimasti un qualcosa di unico.

L’occasione per parlarne è offerta dalla fresca ristampa approntata dalla Speakers Corner di quello che fu, nel 1977, il terzo, vale a dire “Natural Elements”. Il più accessibile di tutti bizzarramente risultava di gran lunga il meno venduto, non entrando nemmeno nella classifica jazz di “Billboard” laddove i predecessori avevano fatto capolino nei Top 200 di quella generalista, e la Columbia, abituata a riscuotere da McLaughlin ben altri dividendi, diceva basta. Ma forse sarebbe finita lì comunque, giacché ascoltata di seguito la trilogia disegna un percorso che era giunto al suo naturale compimento e ogni ulteriore puntata avrebbe corso il rischio di svelarsi pletorica. Nell’esordio “Shakti With John McLaughlin”, pubblicato a inizio ’76 ma registrato dal vivo nel luglio ’75 durante un concerto in un college del Long Island, un brano poco sotto i cinque minuti funge da meditativo interludio fra due furiose cavalcate rispettivamente di diciotto e addirittura ventinove, raga a rotta di collo e di rado musica acustica è parsa tanto elettrizzante. Datato sempre ’76 e inciso invece in studio, “A Handful Of Beauty” di brani ne regala sei di durata compresa fra i tre e i quindici minuti e risulta meno ustionante, più lirico, con un po’ più di Occidente nei solchi. Otto tracce e le due più lunghe non arrivano che a sette minuti, “Natural Elements” proseguiva nella medesima direzione, privilegiando la composizione all’improvvisazione e ponendo felicemente la stellare tecnica dei musicisti (ad affiancare il leader il violinista L. Shankar, il tablista Zakir Hussain e il percussionista T.H. Vinayakram) al servizio di una tavolozza maggiormente variegata e di brani di fruibilità per niente difficoltosa. Può partire da qui e poi andare a ritroso chi non conosce e si è incuriosito.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.357, novembre 2014.

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Robert Plant – Lullaby And… The Ceaseless Roar (Nonesuch)

Robert Plant - Lullaby And The Ceaseless Roar

Per qualcuno la canzone resta sempre la stessa: ad esempio per Jimmy Page, che inanemente vorrebbe tornare in sempiterno sul luogo di pur squisiti delitti che vanno consegnati alla Storia e basta e non si rassegna al fatto che altri non sia interessato e preferisca vivere; ad esempio per certa critica frettolosa, che dovrebbe togliersi dall’occhio la trave del pregiudizio e dello stereotipo (e magari ascoltarli come si deve, i dischi, o almeno i comunicati stampa leggerli senza saltar le righe) prima di andare a cercare pagliuzze altrove. E per qualcuno invece cambia sempre, almeno un po’, ed è il caso di Robert Plant, che ad anni sessantasei in luogo di speculare sul passato che sappiamo continua a studiare, a esplorare, a entusiasmarsi, a sperimentare. Che con l’umiltà dei giganti veri sposta spesso l’attenzione da sé su chi al Madison Square Garden non ci ha mai suonato. Ecco, vedete, dovreste ascoltare pure questo e questo, io l’ho fatto. Hats off to Robert Plant, una volta di più.

Si potrebbe cominciare dall’inizio per raccontare di “Lullaby And… The Ceaseless Roar” e non intendo l’inizio del disco ma l’inizio inizio, quello della carriera post-Zeppelin del nostro uomo, quegli anni ’80 fatti di album non precisamente trascendentali ma che già avevano il merito, nella loro erraticità, di scansare le trappole della nostalgia a costo di una tastiera, un sintetizzatore, una batteria elettronica di troppo. Che provavano indubitabilmente a essere “commerciali” ma inventandosi un modo inedito di (pro)porsi per l’artefice. Oppure si potrebbe partire dal fondo, dai purtroppo solo 2’46” di Arbaden: che sono i Rolling Stones alle prese con Robert Johnson, solo che non è Robert Johnson ma sono i Fairport Convention che rifanno un traditional e anzi no, dev’essere Jah Wobble e poi arriva Nusrat Fateh Ali Khan. L’Est che incontra l’Ovest “at the crossroads” ed è errore da matita blu che quella che è una sorta di versione “in dub” della traccia che invece il disco sublimemente lo apre, Little Maggie, non venga sviluppata adeguatamente. Se ha un pregio questo finale irrisolto è che ti spinge a ricominciare, a perderti nuovamente nel flusso insieme magmatico e lieve di un lavoro che riassume molti se non tutti i Robert Plant ascoltati a oggi. Mancano – e va bene così – i Led Zeppelin più bombastic, laddove sono assolutamente presenti quelli devoti a blues (Turn It Up) e folk (Pocketfull Of Golden, che però li spedisce anche in una Bristol ricollocata a fianco di Marrakesh). Manca più in generale, a meno che non si rubrichi lì certo Peter Gabriel cui potrebbe appartenere Embrace Another Fall (e assolutamente null’altro), il rock da grandi arene. E invece ecco, a separare i Byrds in trance di Somebody There da quelli che uniscono i puntini da Roy Orbison ai Velvet di House Of Love, il Leadbelly in gita in Africa di Poor Howard. Ecco ballate come la suadente e acidula Rainbow e una A Stolen Kiss sull’orlo del sacrale. Ecco la psichedelia pulsante di Up On The Hollow Hill.

Dopo non una ma due raccolte di cover, “Lullaby And… The Ceaseless Roar” vive in massima parte da luce autografa. E quietamente – spesso – abbaglia.

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L’ultimo Santana (il primo e forse ultimo Neal Schon) da salvare

Santana - III

Dire che nutro scarsa simpatia per i Journey – o quantomeno per quei Journey (i primi tre LP oggettivamente tutt’altra e più nobile faccenda) che a partire dal ’78 e da “Infinity” lucravano immense fortune con un hard da stadio insieme patinato e becero – è un eufemismo. Ciò premesso: che razza di inizio di carriera ebbe Neal Schon! Ogni volta che faccio girare il terzo album dei Santana – non accadeva da un tot ma adesso avevo un’ottima scusa per tornarci su e ne ho approfittato a più riprese – resto invariabilmente a bocca aperta dinnanzi alla fantasmagoria dei duelli e dei duetti inscenati nei suoi solchi dal leader e da un Neal Schon appena entrato (era il 1971) a far parte della compagnia. Non mi vengono in mente molti altri esempi di due chitarre soliste così felicemente predisposte a dialogare e integrarsi, fuoco d’artificio continuo cui nondimeno resta estraneo il virtuosimo fine a se stesso. Sarebbe stupefacente di per sé e tanto di più lo diventa quando ci si ricorda o si viene a conoscenza di un dettaglio: all’epoca Schon aveva diciassette anni. E più lo si ascolta e meno ci si crede. Diciassette anni. C’è mai stato o ci sarà mai un altro come lui?

Lo scrivevo su queste pagine, in questa stessa rubrica, sei anni fa: a radunare tutte le cose davvero degne di nota di Carlos Santana dal jazzato e non disprezzabile “Caravanserai”, che è del ’72, in poi basterebbe un CD. Di altro e infinitamente superiore livello i primi tre LP, da affrontare in ordine cronologico anche perché di valore decrescente, ma di frazioni di punto e partendo in ogni caso da un capolavoro. Per quanto più lo faccio andare, “III”, e più mi pare poco sensato porlo in competizione con i predecessori. È che qui, con le due chitarre al centro del proscenio e le tastiere di Gregg Rolie spinte un po’ indietro, si gioca proprio a un altro sport. E se non vi si toccano gli apici di quegli altri due dischi in termini di puro impatto addirittura li si sorpassa. Album travolgente sin dal secco rutilare percussivo di una Batuka incandescentemente funky e fino a una Para los rumberos di cui il titolo dice tutto, passando fra il resto per i vortici mozzafiato di Toussaint L’Overture, un errebì esplosivo quale Everybody’s Everything e il romantico ballabile in tempo medio Guajira. Qui il Santana per molti versi più etnico e contemporaneamente, grazie a Schon, il più rock. Da ovazioni questa stampa su Mobile Fidelity capace di riprodurre fedelmente ciascun colore di una tavolozza eccezionalmente policroma e di farlo individuare con facilità, nel mentre rende giustizia alle dinamiche di un gruppo dalla sezione ritmica di ben quattro elementi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.354, agosto 2014.

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Malavitosi, latin soul e la nascita della salsa: la leggenda della Fania Records

El Barrio - Gangsters, Latin Soul & The Birth Of Salsa

Come è proprio delle leggende, su alcune date degli inizi di questa vicenda c’è incertezza o come minimo approssimazione. È più o meno assodato ad esempio che fu nel 1964, ma esattamente quando non si sa, che una consolidata celebrità della musica latino-americana, il polistrumentista dominicano (flautista, principalmente) Johnny Pacheco, e uno sconosciuto avvocato newyorkese, Jerry Masucci (“a little man with big cojones”, secondo la fulminante definizione di James Maycock), univano le forze per fondare un’etichetta discografica che battezzavano Fania. Nata per consentire al primo di pubblicare in libertà in un momento in cui le multinazionali erano in tutt’altre faccende affaccendate, sarebbe diventata il marchio leader di uno dei settori più floridi dell’industria nei primi ’70. Ma non è sicuro se fu nel ’68 o nel ’69 (e dire che dall’evento furono tratti due live) che, con un concerto in un club minore della Grande Mela, il Red Garter, faceva la sua prima apparizione alla ribalta la big band di stelle della casa, Fania All-Stars, assemblata con il modesto intento di ottimizzarne le iniziative promozionali. Un altro è allora il giorno inciso a cubitali lettere d’oro negli annali di una musica che è riduttivo definire salsa e basta (lo si fa per intendersi), quando in essa confluivano con le tradizioni cubana (principalmente) e poi messicana tanto jazz e una non meno robusta dose di soul e funky ed errebì, e rock non solo nell’accezione santaniana del termine, e un mucchio di Africa. È il 26 agosto 1971. In quella sera bollente non soltanto sotto il profilo meteorologico in quattromila si accalcavano in una sala per concerti, il Cheetah, abilitata ad accoglierne al massimo la metà per lo spettacolo con cui Fania All-Stars diventavano un gruppo vero e proprio, seppure dalla formazione sempre “aperta”. E che gruppo! Il più cruciale che la musica latina abbia mai conosciuto. Non c’è nessuno che in quell’ambito abbia rappresentato qualcosa che non sia in qualche modo o momento passato per le sue fila, da membro ufficiale, da ospite in un disco, in un tour o semplicemente in una delle interminabili jam che ne hanno fatto un Mito persino più delle tante canzoni assurte all’Olimpo dei classici. Come si annotava lo scorso mese, per dare un’idea del boom vissuto dalla salsa nei primi ’70 basti annotare che da lì a tre anni in quarantamila si ritroveranno allo Yankee Stadium per applaudire Fania All-Stars, e ballare fino allo sfinimento, e addirittura in ottantamila in un altro stadio ma africano, quello di Kinshasa, epocale concerto a contorno dell’epocale match di pugilato fra Muhammad Ali e George Foreman immortalato nel film Live In Afrika. Avevano già provveduto rispettivamente Our Latin Film e Salsa – The Film a fermare su pellicola gli altri due concerti di cui sopra.

Campioni di vendite al loro tempo in modi e quantità di cui le classifiche non diedero mai adeguatamente conto, come spesso capita a musiche che godono di grandissima popolarità ma in segmenti commerciali specifici e per così dire “etnici” (un buon parallelo può essere fatto con l’incredibile mercato che ha da noi certa musica napoletana, senza che di ciò si trovi traccia nelle graduatorie ufficiali di vendita), i dischi della Fania erano diventati nel tempo una sempre più esosa faccenda per collezionisti, soprattutto dj. Questo fintanto che qualche anno fa la benemerita (sorge però qualche perplessità sulla legalità di tali ristampe) Vampisoul non ha preso a rieditarli in sempre più massicci quantitativi. Ora che la stessa Fania, rediviva, ha messo mano al mostruoso catalogo l’appassionato avrà da scialare più di quando doveva rivolgersi ai mercanti di rarità, con però la consolazione di potere comprare cinque, sette, dieci con i soldi con cui prima poteva acquistare uno o due, al massimo. Fantastica una prima emissione in cui spicca, per quanto riguarda le All-Stars, il secondo dei due succitati “Live At The Red Garter”. Ma sono una festa non meno grande, per orecchie incantate dalla raffinatezza di melodie dall’immediatezza ingannevole e piedi che se ne vanno per conto loro sui binari di grooves invincibili, una memorabile, omonima collaborazione fra lo stesso Pacheco e la diva massima della canzone cubana Celia Cruz e “Acid” del percussionista Ray Barretto, “Riot!” del pianista Joe Bataan e l’esplosivo “Bang! Bang! Push Push Push” del maestro di boogaloo Joe Cuba, l’ammiccantissimo “Ali Baba” del timbalista Louie Ramirez e un incantevole “Black Out” in cui Monguito Santamaria, pianista esimio, dà eclatante dimostrazione del fatto che in famiglia non tutto il talento apparteneva al patriarca (Mongo: ça va sans dire). Un’avvertenza: è roba che può dare assuefazione, una volta che la si è assaggiata e ci si è arresi alla sua ipnotica danzabilità, ma che a un orecchio non avezzo potrebbe pure parere un’indistinta e respingente massa di suoni da un altro pianeta. Vale come assaggio ideale per capire se la ricetta può piacere la raccolta “El Barrio”. Sottotitolo: “Gangsters, Latin Soul & The Birth Of Salsa”.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.626, settembre 2006.

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