Un incontro di boxe nell’arena dell’amore – Il primo singolo di James Brown

“Please, Please, Please è in sostanza una specie di film che potrebbe ambientarsi nel santuario di ogni cuore spezzato.

È la peggiore cagata che io abbia mai ascoltato.” (Syd Nathan, a proposito di Please, Please, Please)

Se il suo autore e interprete non fosse stato tanto ostinato, invece che lanciarne la carriera Please, Please, Please altro non sarebbe rimasta che una noterella a pie’ di pagina nel libro (cui peraltro così di pagine ne sarebbero mancate diverse) della black music a cavallo fra anni ’50 e ’60. Una simpatica testimonianza d’epoca non più significativa di innumerevoli altre. Diverrà invece pian piano il culmine delle esibizioni live, in letture che come niente ne moltiplicheranno per dieci la durata – 2’43” la versione in studio. Per un verso dando modo ai musicisti di formazioni sempre più compatte di mostrare di cosa fossero capaci, per un altro permettendo al cantante di inscenare la più famosa delle sue pantomime.

Si può leggere come la storia di un uomo che implora la sua donna di riprenderlo con sé perché lui la ama troppo. Cade in ginocchio e implora pietà. Non ricevendone, si rialza lentamente, volta le spalle al mondo intero e si allontana singhiozzante nell’oscurità. Compare un amico che viene a confortarlo e gli copre le spalle con un mantello per proteggerlo, riscaldarlo, consolarlo. Ma proprio quando sembra che le speranze siano perdute per sempre l’uomo si sbarazza del mantello, guarda di nuovo in faccia il pubblico e la vita, guadagna il centro del palco e ancora una volta torna dal suo grande amore per supplicarla. Quell’uomo ero io e il mio Maestro di Cerimonie Danny Ray l’amico che mi sosteneva. E ogni volta che mi levavo il mantello il pubblico si scatenava. Quel rituale divenne un dramma teatrale che era in parte espiazione religiosa, in parte crisi romantica, in parte incontro finale di boxe nell’arena dell’amore.

Se vi è venuto in mente il wrestling, avete pensato bene: per la sceneggiata di cui sopra oltre che al solito Little Richard (che di suo aveva preso spunto dalla predicazione gospel più sfrenata) il nostro eroe si ispirava a un professionista di quel non-sport, la più sgargiante delle stelle dell’epoca, Gorgeous George. Se vi stupisce che un pezzo in origine molto passatista – dice Brown (Geoff) che persino Brown (James) inizialmente aveva dubbi sul suo valore – sia divenuto uno dei momenti chiave degli spettacoli di un rivoluzionario della musica, per intuire perché non dovete che dare un’occhiata ai titoli di coda di Blues Brothers 2000. O recuperare un DVD del “T.A.M.I. Show”. O se no fidarvi di chi c’era e lavorare di immaginazione, visto che figura sì in quasi tutti gli innumerevoli album live di un uomo la cui leggenda è fondata in gran parte proprio sulle performance dal vivo, ma in versioni sfortunatamente appena più lunghe (o talvolta persino più brevi) di quella in studio. Un delitto. In ogni caso: non subito, ma nell’arco di quattro anni, quelli durante i quali James Brown pubblicò un singolo via l’altro replicando un’unica volta il successo del primo, il pezzo veniva promosso da esecuzione obbligata, per concedere alla platea una di quelle sole due o tre canzoni che non si potevano non suonare, a sensazionale maratona che quella hit trascendeva. Trascendendo così pure la valutazione spietatamente negativa che Syd Nathan ne aveva dato. Con più di qualche buona ragione.

Venuto al mondo da una famiglia ebrea a Cincinnati nel 1904, Nathan in gioventù era stato batterista, ma non sufficientemente bravo da potere fare di quella passione un lavoro. Dopo essere stato agente immobiliare, impiegato in non ben specificate mansioni in un luna park, commesso in un banco di pegni e in una gioielleria, dopo avere messo su a metà anni ’30 un negozio di radio e fonografi in società con una sorella e il cognato, raggiungeva un fratello in Florida per dare vita con lui a un laboratorio fotografico. All’inizio del decennio seguente tornava però a Cincinnati e apriva il Syd’s Record Shop, entrando così dalla porta di servizio nel mondo della discografia. Passo seguente, nel 1943, era inaugurare la King Records. Scampata a un fallimento in culla grazie al soccorso economico parentale, e seguendo una traiettoria che la Stax replicherà, un’etichetta nata con l’idea di puntare il mercato country si allargava allora a quello dei cosiddetti race records. Insoddisfatto della qualità di stampa dei primi dischi, ordinati a una fabbrica del Kentucky, il nostro uomo già nel 1944 ne apriva una sua e cominciava a pressarli in proprio, con una velocizzazione dei tempi e un’ottimizzazione dei costi che naturalmente avranno un peso nel successo crescente dell’impresa. Più di tutto contava però l’eccezionale intuito da talent scout. Impressionante un’anche parziale lista dei nomi che scopriva o cui dava una seconda o terza possibilità: Wynonie Harris, Roy Brown, Lonnie Johnson, John Lee Hooker, Freddie King, Champion Jack Dupree, Little Esther Phillips, i Dominoes, Big Maybelle, i Five Kings, i Five Royales, Hank Ballard e Little Willie John in un ambito di musica nera, mentre per quanto riguarda un mercato hillbilly tutt’altro che abbandonato si possono segnalare almeno i Delmore e gli Stanley Brothers, Moon Mullican e Grandpa Jones. Imprenditore astuto, Syd Nathan prendeva inoltre a far registrare brani di repertorio country agli artisti neri e di blues e rhyhtm’n’blues ai bianchi, pure in questo straordinariamente in anticipo sui tempi. Per quanto vada sottolineato che non di preveggente visione utopica si trattava, bensì di un mero e riuscito calcolo commerciale volto a massimizzare gli introiti per le sue società di edizioni musicali. E che gli vuoi dire a uno così?

Sul momento restava a bocca aperta e non riusciva a dirgli nulla Ralph Bass, quando, dopo essersi tanto impegnato per fare firmare i Famous Flames per la Federal, una succursale della casa madre, si vedeva liquidato tanto brutalmente un brano in cui riponeva cieca fiducia. Avendolo fra l’altro sottoposto a un test che nella storia della popular music risulterà da lì in poi infallibile: l’ascolto proposto a un tot di ragazze, tutte invariabilmente e subito sedotte. Recuperato l’uso della parola, supplicava il boss di fare uscire il singolo almeno ad Atlanta, giusto per testare le acque. Al che, ineffabile Nathan ribatteva che no, lo avrebbe distribuito su base nazionale soltanto per il gusto di dimostrare a Bass quanto avesse torto. Mal gliene verrà. Cioè bene.

Sul retro Why Do You Do Me, graziosa quanto innocua (e volta ancora di più al passato in un anno che vedrà Elvis Presley collezionare i primi cinque di undici numeri uno consecutivi e due artisti di Nathan, Little Willie John e Bill Doggett, capeggiare la graduatoria R&B), Please, Please, Please vede la luce il 3 marzo 1956 e parrebbe, per la percezione che ne hanno gli artefici, che non se ne accorga nessuno. In Georgia, per le radio che ne avevano trasmesso l’acetato è roba vecchia e alle altre pare interessare poco. Delusi, e oltretutto furiosi perché il disco è uscito a nome James Brown & The Famous Flames riducendoli a gregari quando pensavano che sarebbe stato attribuito al gruppo, i ragazzi della band abbandonano in massa. Lo stesso leader va (torna?) a lavorare in una fabbrica di materiali plastici. Ma è questione di settimane. Le vendite prendono a levitare, cominciando da Atlanta, poi in Virginia, poi nella Bay Area. Il 21 aprile 1956 il singolo fa per la prima volta capolino nella classifica R&B di “Billboard”. La scalerà fino al numero 6 e complessivamente resterà nei Top 20 per diciannove settimane. Sarà ancora lì in luglio e a quell’altezza i Flames, naturalmente subito rimessisi insieme, avranno già registrato tracce bastanti a confezionare altri sei 45 giri, lati A e B. Nessuno dei quali avrà il benché minimo impatto. Ugualmente, raccoglieranno solo indifferenza tre ulteriori singoli. Nella primavera del 1957, a meno di un anno da quando Please, Please, Please li aveva apparentemente proiettati verso la fama, i Famous Flames non esistevano più se non come sigla. James Brown spendeva l’estate esibendosi in Florida in date di nessun prestigio, con poco pubblico. Quando il 18 settembre 1958 entrava in uno studio newyorkese per incidere, con un abbozzo di nuovo gruppo (Johnny Terry unico superstite della formazione precedente) e alcuni turnisti (fra i quali un chitarrista che già aveva cominciato a fare la storia del jazz: Kenny Burrell), ancora quattro facciate basteranno i titoli a dar conto del suo stato d’animo: Tell Me What I Did Wrong (dimmi cosa ho sbagliato); There Must Be a Reason (deve esserci una ragione); I’ve Got To Change (devo cambiare). Ma soprattutto: Try Me. Provami. E vedrai che non ti deluderò più.

Tratto da James Brown – Nero e fiero!, Vololibero, 2017. A seconda della fonte cui si dà credito, James Brown pubblicava il suo primo singolo il 3 o il 4 marzo di sessantotto anni fa.

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