Archivi del mese: dicembre 2021

Dieci anni di VMO – I dieci post più visti

1) Gli anni del soul: 1959-1972 – I dieci (più dieci) album fondamentali

2) Keith Richards in 39 dichiarazioni

3) La Old Skool dell’hip hop: 1981-1991 – I dieci (più dieci) album fondamentali

4) Il blues dagli anni ’20 agli anni ’60: una discografia base

5) Un lungo addio

6) La zuppa del casale (rock)

7) Velvet Gallery (16)

8) 10 album che non regalerei al mio peggiore nemico

9) Dub per principianti – Storia e consigli per gli acquisti

10) Ciao, Ezio (ricordi sparsi di incontri con un Maestro vero)

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Gli Yo La Tengo fra ciò che era stato e ciò che sarà di “Electr-O-Pura”

Mi fa un immenso piacere che il caso o per meglio dire la Matador ─ che con una collana di ristampe in vinile chiamata “Revision History” sta celebrando il quarto di secolo dacché occupava il centro della ribalta indie rock USA (l’anno dopo la Capitol acquisirà il 49% della compagnia newyorkese) ─ mi offrano il destro per tornare a spendere buone parole per una band che idolatro e che mi toccava per la prima volta bocciare appena un mese fa, trovando senza capo né coda le jam incise sotto lockdown e radunate nell’inconsistente “We Have Amnesia Sometimes”. Mi rende se possibile anche più felice che l’album che il trio di Hoboken pubblicava nell’annus mirabilis della Matador e viene quindi ora riedito, apprezzabilmente su quattro facciate vista una durata che sfiora l’ora e non su due come al primo giro, sia “Electr-O-Pura”, che ebbe ottima stampa ma è stato poi da tanti ridimensionato. Disco “di transizione” (ma non lo era già stato il precedente di due anni “Painful”?) fra il jangle-pop degli esordi e il sound più turgido e ipnotico che trionferà nel 2000 nel monumentale pure per durata “And Then Nothing Turned Itself Inside-Out”, dicono certi esegeti. Ma non necessariamente “di transizione” significa irrisolto e/o minore e in tal senso “Electr-O-Pura” è a mio giudizio un caso di scuola. Non fosse che era già il settimo e dei predecessori non ne scarti uno, potrebbe magari invece essere ricordato ed etichettato, per il gruppo formato nel 1984 dal chitarrista e tastierista (ed ex-critico musicale) Ira Kaplan e dalla batterista Georgia Hubley (sentimentale oltre che artistica la relazione fra i due), come l’album della raggiunta maturità. Di un felicissimo compromesso fra ciò che era stato e ciò che sarà. Quasi verrebbe da consigliarlo al neofita come ideale primo approccio.

Quel che è certo è che erano senza tempo nel ’95 e non sono invecchiate di un giorno sia aggraziate canzoni come il folk-rock a combustione lenta Pablo And Andrea o le velvetiane (i Velvet Underground del terzo album) The Hour Grows Late e Paul Is Dead che sfuriate come Flying Lesson (ove i Velvet evocati sono quelli di Sister Ray; torneranno più avanti in una torpida My Heart’s Reflection), la collisione fra primi Feelies e Sonic Youth False Alarm e la via via più turbinosa, fragorosa e ansiogena Blue Line Swinger. Per quanto il pezzo che ruba subito il cuore sia Tom Courtenay: i R.E.M. con il tiro degli Hüsker Dü.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020.

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Un uomo dai tanti talenti – Per (e di) Marco Mathieu

Marco Mathieu, che come molti già sapranno se n’è andato – tragicamente troppo presto, tragicamente troppo tardi – la vigilia di Natale, ha illuminato nel suo passaggio su questa terra molte vite e ne ha vissuto più d’una. Almeno due, per limitarsi al pubblico. Nella prima, quella per cui è noto pure fuori dai nostri confini, fu il bassista dei Negazione, una delle più grandi band dell’hardcore mondiale. Nella seconda fu giornalista al pari di valore, o forse più. Per alcuni anni fu entrambe le cose. Cominciava scrivendo per “Velvet”, il mensile che il Vostro affezionato fondava con altri nell’estate del 1988. Marco esordiva sul numero 4, datato gennaio 1989, con la recensione di un altro debutto (il primo, omonimo EP dei Fugazi) e un’intervista a Lou Barlow dei Dinosaur Jr., raccolta al torinese Hiroshima Mon Amour in occasione di un concerto cui anch’io avevo presenziato.

Non ricordo nei dettagli (ne sono passati di anni…) come andò esattamente. Sono però abbastanza sicuro che fu Paolone Ferrari a dirmi che Marco, che conoscevo solo di fama e di vista, era interessato a una collaborazione e a chiedermi se poteva girargli il mio numero di telefono. E sono assolutamente certo che quel mazzetto di fogli A4 dattiloscritti mi fu consegnato brevi manu a casa dei miei genitori, dove ancora risiedevo. E niente… do una scorsa, mi pare che il pezzo vada bene, dico a Marco che verrà pubblicato senz’altro e che se ha altre idee le proponga (due mesi dopo firmerà due pagine molto dense a proposito di “contaminazioni metalliche”: il suo primo articolo “vero”), scambiamo due chiacchiere e lui si congeda. “Certo che ne conosci di gente strana”, mi fa mia madre quella sera a cena. “Che simpatico, però”. Già.

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Lindsey Buckingham – Lindsey Buckingham (Reprise)

Ce lo si poteva aspettare da chi trasformò in oro la fine di una relazione non solo scrivendone e cantandone in prima persona ma costringendo la ex- al duetto: Go Your Own Way era il singolo che metteva “Rumours” sulla rampa di lancio di un successo mostruoso, oltre dieci milioni di copie vendute nel 1977 e un’altra trentina da allora. Prendendo esageratamente alla lettera l’adagio che recita che la vendetta è un piatto da servire freddo, Stevie Nicks nel 2018 ha fatto fuori Buckingham dai riformati e sempre litigiosi Fleetwood Mac. Storia che il nostro uomo racconta dal suo punto di vista nel brano più brillante fra i dieci inclusi nel suo settimo album da solista: passo svelto e ritornello micidiale, On The Wrong Side da dove pare arrivare se non da “Rumours”? Ripicche, meschinità, rancore nelle mani giuste possono produrre grande arte. O grande pop, almeno. E il tempo talvolta passa invano.

Però passa e i cuori spezzati in metafora possono dare problemi che portano in sala operatoria e costringono a posporre un’uscita poi ulteriormente ritardata dalla pandemia. Significativamente omonimo non solo in quanto il titolare ha fatto tutto da sé ma perché bigino ideale di un canone formidabile, “Lindsey Buckingham” era in buona parte già concepito prima del licenziamento di cui sopra e completo un buon anno e mezzo fa. Ora che finalmente può promuoverlo dal vivo il titolare facilmente potrà confondere in scalette per il resto di classici diverse di queste canzoni, da una scintillante e affastellata di voci I Don’t Mind ai folk-rock Blind Love e Santa Rosa, da una festosa Blue Light che deve più di qualcosa ai Beach Boys (come del resto Swan Song, che però li gira new wave) a una dolente a dispetto del titolo Dancing.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.

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Martina Topley-Bird – Forever I Wait (Self Produced)

Sceglie un titolo appropriato per la prima sortita in undici anni Martina Topley-Bird: album che è il suo quinto ma bisogna ricordarsi che il secondo (“Anything””, del 2004) non era che l’edizione americana scorciata di tre canzoni del primo (“Quixotic”, del 2003) e il quarto (“Some Place Simple”, per l’appunto del 2010) una collezione “unplugged” di undici pezzi già noti con a integrarla appena quattro altrimenti inediti. È insomma un catalogo assai smilzo quello di colei che inconsapevolmente si consegnava per sempre agli annali del pop (pop?) del Novecento facendo da ambiguamente angelico contraltare al demonio Tricky nell’esordio capolavoro di costui “Maxinquaye” (1995; Martina aveva vent’anni e la collaborazione era avviata da due) e nei successivi, quasi altrettanto memorabili ed epocali, “Nearly God”, “Pre-Millennium Tension” e “Angels With Dirty Faces”. Relazione che oltre che artistica era sentimentale e da cui nasceva una figlia, scomparsa suicida nel 2019, ventiquattrenne.

Tragedia che non sembra riverberarsi, per il semplice fatto che il disco era allora già in larghissima parte composto e (parrebbe; a parte che alcuni arrangiamenti sono opera di Robert del Naja dei Massive Attack e tolti i nomi di alcuni altri ospiti non ci sono informazioni al riguardo) anche registrato in precedenza. È un disco di livello con il piccolo torto di uscire come da una capsula temporale (metà ’90, ovvio). Paga inoltre il suo avere pochi cambi di passo: un unico vero, con la danzabile Game a separare il soul-blues dagli inferi Love dalla cupa narcolessia di Free. Proprio alla fine arriva però una canzone straordinaria, Rain, per voce e quartetto d’archi. Da sola gli fa guadagnare almeno mezzo voto in più.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.

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Ultima chiamata per il Santo Natale

Amazon mi segnala che chi vuole ricevere il mio ultimo libro (ma pure i due precedenti, eh? Venerato Maestro Oppure – Percorsi nel rock 1994-2015 e Extraordinaire 1- Di musiche e vite fuori dal comune) ha a disposizione fino alle 15 di oggi per effettuare l’ordine. Oh, a me del Santo Natale dagli undici-dodici anni in su è sempre importato il giusto (cioè nulla) e non stiamo parlando di roba che scade. Fate vobis, io però ve l’ho detto.

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Trova l’intruso

No, non sono io…

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Super Bad! – Il sommario

E insomma dentro Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop ci sta questa roba qui. Solo su Amazon, con consegna garantita entro Natale. E in questo momento (occhio che non dura) anche con uno sconto del 19% sul prezzo di copertina come offerta lancio (preciso che gli sconti di questo tipo sono decisi da Amazon in autonomia, senza interpellare l’autore/editore).

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Disponibile

Ordinabile a partire da oggi. 438 pagine, euro 30. Mappatura di otto decenni di musiche afroamericane ─ dal blues degli anni ’20 del Novecento all’hip hop old skool passando per l’era aurea di soul, r&b e funky e raccontando inoltre di alcuni giganti del jazz ─ tracciata affrontando le vicende biografiche e artistiche di oltre un centinaio fra solisti e gruppi, “Super Bad!” è diviso in due parti: la prima è una ristampa ampliata e aggiornata del volume “Scritti nell’anima”, che usciva in origine nel 2007 per Tuttle Edizioni, e raccoglie pezzi incentrati su blues, jazz e soul; nella seconda, intitolata “Potere alla parola”, ci si occupa di hip hop. Antologia di articoli pubblicati fra il 1992 e il 2010 sui mensili “Blow Up”, “Dance Music Magazine”, “Dynamo!” e “Tank Girl”, sui bimestrali “Extreme Pulp” e “Bassa Fedeltà”, sul trimestrale “Extra” e sull’allora settimanale “Il Mucchio”, il libro conta novantasei capitoli. Fra gli artisti di cui narra figurano Little Richard, Robert Johnson, Charley Patton, Lead Belly, John Lee Hooker, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson II, Howlin’ Wolf, Willie Dixon Little Walter, Bo Diddley, Jesse Fuller, Blind Willie McTell, Slim Harpo, Lightnin’ Hopkins, R.L. Burnside, Ted Hawkins, J.B. Lenoir, Sam Cooke, Staple Singers, Sister Rosetta Tharpe, Mahalia Jackson, Blind Boys Of Alabama, Aretha Franklin, Esther Phillips, Doris Duke, Billie Holiday, Nina Simone, Little Jimmy Scott, Charles ed Eric Mingus, Albert Ayler, Miles Davis, Tony Williams, Herbie Hancock, Manhattan Brothers, Orioles, Clyde McPhatter, Ray Charles, Bobby Bland, Little Willie John, James Carr, Jerry Butler, Impressions, Curtis Mayfield, Baby Huey, Dyke & The Blazers, Donny Hathaway, Edwyn Starr, Temptations, Smokey Robinson & The Miracles, Terry Callier, Rufus Thomas, Otis Redding, Sam & Dave, Isaac Hayes, Johnny Adams, Arthur Conley, Steve Cropper, Howard Tate, Garnet Mimms, Lorraine Ellison, Ann Peebles, Al Green, Syl Johnson, Johnnie Taylor, Joe Tex, Solomon Burke, Eddie Hinton, James Brown, Lyn Collins, Vicky Anderson, Marva Whitney, Maxine Brown, Chuck Jackson, Marvin Gaye, Sly & The Family Stone, Fela Kuti, George Clinton, Parliament, Funkadelic, Stevie Wonder, Prince, Last Poets, Gil Scott-Heron, Sugarhill Gang, Grandmaster Flash, Afrika Bambaataa, Beastie Boys, Public Enemy, Ice-T, Arrested Development, Disposable Heroes Of Hiphoprisy, Michael Franti, MC 900 Ft Jesus, Cypress Hill, Tupac Shakur, Coolio, New Kingdom, Busta Rhymes, Wu-Tang Clan, Cannibal Ox, OutKast e Liquid Liquid. Solo su Amazon.

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Julia Bardo – Bauhaus, L’Appartamento (Wichita)

All’anagrafe di quella Brescia che le dava i natali questa artista giovanissima all’esordio in lungo dopo un discreto numero di esercizi preparatori (un singolo con gli Working Men’s Club prima che il leader Sydney Minsky-Sargeant optasse per un sound elettronico piuttosto che chitarristico e le strade allora si separavano; e poi un paio di EP già su Wichita e diverse altre canzoni pubblicate solo sul web: piccolo catalogo da cui  riprende giusto un paio di brani) è registrata come Giulia Bonometti. È Julia Bardo da quando si arrendeva al fatto che in Gran Bretagna, dove vive da ormai diversi anni, quel cognome di quattro sillabe risultava impronunciabile a tutti. Lo pseudonimo indicazione di dove si collochino la precedente produzione e “Bauhaus, L’Appartamento”, ossia nell’ambito di un cantautorato di ascendenze folk? Bardo come sinonimo di “menestrello”? Abbastanza, siccome in queste dieci canzoni il folk è più che altro un’ispirazione, un’idea, una suggestione, un prefisso non sempre presente e cui quando c’è regolarmente bisogna aggiungere “rock”, o “pop”.

Vale per The Most, strategicamente sistemata a inaugurare essendo l’articolo più melodicamente memorabile come per la languida In Your Eyes e una Goodbye Tomorrow altrettanto astutamente, epidermica com’è, quasi quanto l’incipit, collocata a congedo. Il meglio, i brani che sul subito colpiscono meno ma sui quali si torna più volentieri, sta però nel mezzo: negli influssi velvetiani che impregnano The One e It’s Okay (Not To Be Okay), nel dream pop tendente all’inquietante di Do This To Me, una scia di feedback a suggellarlo, e Impossible, da cui, sepolti nel denso finale, emergono recitati i soli versi in italiano. È un debutto più che promettente.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.

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