Archivi del mese: giugno 2013

Velvet Gallery (32)

Un articolo sul blues africano (per il numero di aprile ’91 di “Velvet”)  scritto a quattro mani con Paolone “Aka” Ferrari, una delle persone umanamente più belle e professionalmente più valide con le quali io abbia avuto a che fare in tre interi decenni di onorato mestiere. Per me una medaglia al valore essere stato colui che passò alla redazione del “Mucchio” i suoi primi pezzi, caldeggiandone la pubblicazione. Il ragazzo (in realtà ha un paio di anni più di me) ha poi fatto molta strada.

L'Africa, il blues e la modernità 1

L'Africa, il blues e la modernità 2

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Presi per il culto (33): Dennis Wilson – Pacific Ocean Blue (Caribou, 1977)

Dennis Wilson - Pacific Ocean Blue

Nello scatto sul davanti di quello che resterà il suo unico album da solista il fratello minore di Brian – il fratello maggiore di Carl, il batterista, il meno famoso dei Ragazzi di Spiaggia (e tu ti prendi gioco di me) e quindi, nel comune sentire, il meno talentuoso – appare stanco, provato. Logorato clamorosamente al di là dei trentadue anni che aveva. Come consumato da un’esistenza riguardo alla quale avrebbe potuto dire, con George Best, che “ho speso gran parte dei miei soldi per donne, alcool e automobili, il resto l’ho sprecato”. Solo che l’ala dello United (noto una  certa somiglianza fra i due, ma sarà suggestione) nel fazzoletto di campo fra un dribbling e l’altro ai suoi demoni un qualche istante di divertimento genuino se lo regalò pure. C’era gioia e non solamente male di vivere nel suo correre a perdifiato in faccia a una gradinata osannante. E che fosse un campionissimo fu chiaro al mondo dal primo assist, dal primo cross, dal primo gol. Niente di tutto ciò per l’eterno – quasi eterno – gregario Dennis Wilson. Una vita da mediano segnata dall’oscura intuizione che sarebbe potuto essere un dieci. Dalla foto di copertina di “Pacific Ocean Blue” traspare una tristezza oltre il dicibile. Non ti fai dominare psicologicamente da un padre padrone, non incroci la strada di Charles Manson, non abiti l’ombra di un fratello in parti eguali genio e follia senza pagare un prezzo. Dennis pagò caro, pagò tutto.

Quando, dopo essersi baloccato con l’idea per un buon lustro, il batterista dei Beach Boys pone effettivamente mano al primo disco da leader la parabola del gruppo da cui proviene è a minimi storici tanto di popolarità che di ispirazione. Le raccolte vendicchiano sempre, l’occasionale live idem, ma “Holland” ha tre anni e non è piaciuto a nessuno, “Surf’s Up” cinque (che per il tempo è come dire venti oggi) e nessuno sarebbe disposto a scommettere che i Ragazzi sapranno mai replicarne l’estro pur… ahem… ondivago. Che non saranno mai più altro che un jukebox di vecchi successi, sempre più sbiaditi e impolverati, è consapevolezza diffusa nell’industria come nella critica e non ci si sbaglierà. Sarà anche perché non ha nulla da perdere che Dennis Wilson se la gioca splendidamente. Scordateveli, i Beach Boys. Scordatevi di cavalcare onde che sono qui invece da contemplare, monito che ciò che scorre non si afferra. Scordatevi il surf dei primi anni ’60 e la psichedelia barocca subentrata con “Pet Sounds”: non rinverrete traccia né di questa né di quello. E scordatevi pure quegli intrecci vocali, e non che giochi di voci non ve ne siano in “Pacific Ocean Blue” – e da subito, dai ricami di gospel e di sogno dell’inaugurale River Song – ma sono altra cosa, per l’appunto piuttosto nera, piuttosto liturgica. È il piano lo strumento principe del disco, dominante sin da River Song e passando per le sospensioni che spezzano il passo torpidamente funky-jazz di una Dreamer sotto la quale ti sorprendi a cercare la firma di Lowell George, per il meraviglioso incipit tosto avvolto di veli d’archi di Thoughts Of You, per una Time baciata da una tromba che sanguina malinconie dolcissime à la Chet. Album fantasticamente variegato in cui armoniosamente coesistono l’isolato, giocoso empito rock’n’roll di What’s Wrong e il blues orchestrale di Moonshine, il latin-jazz di You And I e una traccia omonima incongruamente e stupendamente dritta da Crescent City, una gassosa e languida Farewell My Friend e una End Of The Show che inventa gli Air e pregasi ascoltare per credere. Così come pregasi ascoltare per credere che in Tug Of Love, uno dei brani scartati (rintracciabile in entrambe le riedizioni in digitale, sia quella del ’91 che la “Deluxe” del 2008), già c’è l’invenzione degli Spiritualized. E vogliamo parlare dello Chopin che si reincarna in Herb Alpert di Mexico?

Registrato fra il settembre ’76 e il marzo dell’anno dopo, “Pacific Ocean Blue” raggiunge i negozi nell’agosto seguente. Ha buona stampa e vendite per nulla disprezzabili, sulle trecentomila copie, che è più di quello che totalizza il coevo “Love You” della casa madre. È una vicenda successiva di decenni interi nel limbo dei fuori catalogo a renderlo eleggibile a culto. È il proseguire della discesa in pubblici e insieme privatissimi inferi di un autore che ci scatarra su e giura che il secondo LP – Bambu”, quello che non completerà mai – sarà cento volte meglio. L’unico dei Beach Boys che con l’oceano davvero aveva dimestichezza muore annegato il 28 dicembre 1983, poche settimane dopo avere compiuto trentanove anni. Leggenda dice che quando lo ripescarono il corpo era in posizione fetale. È cronaca e non mito che fu l’allora presidente Ronald Reagan a firmare un permesso speciale per una sepultura in mare non preceduta dall’obbligatoria cremazione.

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Meno due

Logo Blow Up

Ancora due giorni e sarà in edicola il numero estivo di “Blow Up”. Tutti i numeri estivi sono un po’ speciali, ma questo lo sarà più di altri. Più pagine, nuove rubriche, la prima puntata di una serie di articoli collettivi dedicati a scene e generi, la sezione recensioni completamente riorganizzata. Ah… mi dicono anche di un nuovo collaboratore, un giovanotto forse ancora un po’ acerbo ma parecchio promettente. Insomma: restate sintonizzati.

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Queens Of The Stone Age – …Like Clockwork (Matador)

Queens Of The Stone Age - ...Like Clockwork

Da qui a dieci anni starete ancora ascoltando quest’album straordinario ed è ciò che conta di più”: così il recensore di “Kerrang” nel 2000 su “Rated R” e appropriatamente la “Deluxe Edition” approntata dalla Interscope giusto per il decennale di quel disco riporta la citazione in seconda di copertina. Cinque album e ben tredici anni dopo rispetto all’uscita di uno degli ultimi classici del rock a fare sul serio epoca (per quanto ci sia chi gli preferisce il successivo “Songs For The Deaf”) ci si potrebbe allora legittimamente domandare: nel 2023 lo faremo ancora girare “…Like Clockwork”? Azzarderei di sì. Ma aggiungendo subito: probabilmente, con il medesimo sentimento di entusiasmo misto a perplessità che suscita oggi, quando dalla pubblicazione non sono passate che tre settimane ma gli ascolti accumulatisi già sono parecchi. Vana al momento la ricerca di una chiave di volta e di lettura, che probabilmente manca.

Tanti sei anni senza un disco di una delle poche sigle da prendere sul serio di questo secolo in cui il rock definitivamente si è fatto liturgia, non più religione, rappresentazione nel migliore dei casi e pantomima nel peggiore. Josh Homme è uno che tuttora ci crede. Josh Homme è uno che ha cultura e talento bastanti a sublimare una simile fede, scansandola dagli abissi della superstizione. Josh Homme forgia riff martellandoli su incudini di dei e sa all’occasione farci girare attorno melodie che a piantartele in testa con una sparachiodi non penetrerebbero più a fondo. Sa insomma scrivere pezzi memorabili e non è mai scontato che un gruppo con un grande suono abbia poi anche grandi canzoni. In “Rated R”, in “Songs For The Deaf”, c’erano queste e quello. Si potrebbe dire lo stesso di “…Like Clockwork”, ma precisando che del monolite stoner che cominciarono a cavare da granito e pietra lavica gli antesignani Kyuss non sussistono che ricordi, suggestioni, in capo e intorno a un prisma caleidoscopico. È tanto variegata questa nuova prova delle Regine – come se ci si fosse voluti rifare del tempo non certo perduto ma dedicato ad altre, meno cruciali se non dopolavoristiche, faccende – che qui e là, e soprattutto nella seconda metà di un non estesissimo (tre quarti d’ora) programma, la visione tende a farsi sfocata, il filo del discorso a smarrirsi.

All’ennesimo passaggio, un’illuminazione. Bisognerebbe fingere, per farsene infine conquistare senza più remore, che “…Like Clockwork” lo si stia ascoltando nel vecchio formato del long playing e apposta non ho scritto semplicemente “in vinile”, giacché una stampa in vinile esiste ma è un doppio da fare andare a 45 giri. Nell’era dell’LP le facciate sarebbero state invece solo due, con cinque pezzi cadauna, e sarebbero risultate perfettamente speculari. Al centro della prima, la ballata pianistica che evolve in morbido rock-blues The Vampyre Of Time And Money, con a precederla la collisione Screaming Trees/Soundgarden Keep Your Eyes Peeled e la squadrata I Sat By The Ocean e a seguirla il gotico/robotico glam della malignamente lasciva If I Had A Tail e un’incalzante e vorticosa My God Is The Sun, di muscolarità guerriera. Laddove sulla seconda all’implacabile funk-metal Smooth Sailing farebbero da corona dapprima il valzer nirvaniano Kalopsia e una Fairweather Friends più da Queen che da Queens Of The Stone Age e quindi una I Appear Missing smaccatamente beatlesiana (cfr. Sun King, su “Abbey Road”) e una traccia omonima persa dai Pink Floyd nelle terre di mezzo fra “Dark Side Of The Moon” e “Wish You Were Here”. E non pare pure a voi che così tutto avrebbe molto (ma molto) più senso?

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Wolf People – Fain (Jagjaguwar)

Wolf People - Fain

Bisogna giusto scoprire di quale anno sia fra le migliori uscite questo “Fain”: se del 1969, del ’70, del ’71 oppure del ’72. Massimo massimo, potrebbe essere del ’73. Perché – dai! – quel 2013 che campeggia sul retro di copertina deve per forza riferirsi alla data della prima riedizione di un oscuro classico sfuggito a oggi alle indagini anche dei più accaniti collezionisti di rock progressivo (in senso lato) dei tardi ’60/primi ’70 britannici. Quello nutrito a folk di Fairport Convention e Trees così come quello memore della lezione del blues, e nel contempo proiettato verso empirei hard, di Cream, Groundhogs e Led Zeppelin, pastorale alla Traffic o ancora ossianico alla Black Sabbath, favolistico alla Jethro Tull, duramente urbano alla Edgar Boughton Band, non meno granitico e nondimeno in decollo per tangenti astrali alla Hawkwind. Qualcuno ha citato i Family? Si odono echi pure di costoro. Qualcuno ha menzionato i Mighty Baby? Sì, ci stanno, ma se vogliamo andare decisamente sull’oscuro chiamiamo direttamente in causa i Dark e via. Non ce la si fa, a noi vecchi lupi dei mari del rock, a fregarci così. “Fain” è chiaramente una ristampa. O no?

Naturalmente no. Per gli inglesi (dal Bedfordshire) Wolf People è questo il secondo oppure il terzo album (volendo contare come tale la raccolta di singoli “Tidings”, che anticipava di qualche mese nel 2010 il debutto “Steeple”) e curiosamente tutti usciti per la stessa etichetta (fra l’altro niente affatto passatista, mediamente) americana. Differenze dal predecessore? Infinitesimali. Qui c’è giusto un tocco di folk in più. Forse (ma forse è solo suggestione) un affinamento della scrittura e delle capacità di strumentisti di giovanotti che a occhio, barbe o non barbe, manco erano nati ancora nell’83 e figurarsi dieci anni prima. Hanno un senso nel 2013? In quanto sapiente ricombinazione (perché è un fatto: a cavallo fra ’60 e ’70 nessuno in Gran Bretagna suonava davvero così) di elementi da lungi codificati del canone rock, direi lo stesso dei TV On The Radio. Mutatis mutandis: stilemi ed epoca di riferimento. Molto di più, secondo me e a patto di limitare rigorosamente il discorso alla musica, che non le Savages. Io li trovo straordinari, come a suo tempo (ed era un buon quarto di secolo fa) trovai straordinario il primo Bevis Frond. Che se vogliamo un qualche contatto con l’attualità (una passionaccia per gli Hüsker Dü, ad esempio) ce l’aveva e questi ragazzotti nisba. Ma la sapete una cosa? Chissenefrega. Mi fanno sentire bene, i Wolf People, e questo è quanto. Essendo nati “vecchi”, ho come l’impressione che invecchieranno meglio – e forse per niente – di tante miserie fighette di stagione.

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In Love With Chuck (E. Weiss)

Che fine ha fatto Chuck Weiss? Sono sei anni che il vecchio (classe 1952) bohémien non dà più notizie di sé, vale a dire dacché Cooking Vinyl ne licenziò il terzo album “vero”, “23rd & Stout”. Si riaffaccerà almeno un’ultima volta alla ribalta? Sarebbe bello. Magari accompagnato da Tom e Rickie Lee, è il mio auspicio.

Chuck E. Weiss

I think that Chuck E.’s in love…/With the little girl who’s singin’ this song” (Rickie Lee Jones, Chuck E.’s In Love)

Lo invidiai da matti Chuck E., chiunque lui fosse, a sentirgli dedicare una canzone (di seduzione e swing tanto sfacciati poi!) sul primo album di Rickie Lee. Dea da morirci dietro in copertina, sigaro pendulo, basco rosso sulle ventitré su una cascata di lunghi capelli biondi, novella Lauren Bacall cui dedicare sogni impossibili. Beninteso: non è che la ragazza dicesse di contraccambiare. Però la familiarità dichiarata dai versi bastava a farmi pensare Chuck E. uomo incredibilmente fortunato. Per quanto mai come Tom Waits, che da lì a poco scoprii, sul retro di “Blue Valentine”, piegato con fare lascivo su una signorina appoggiata al cofano di un’auto e fosse mai che era proprio Rickie Lee? Ne ebbi conferma, non rammento in che modo. Il bastardo. La busta di “Foreign Affairs”, comprato assieme a “Blue Valentine”, mi aveva nel frattempo offerto le generalità complete dell’altro uomo con una scritta enigmatica: “Chuck E. Weiss is back in town”. Ancora qualche mese e inciampavo, proprio su queste pagine, in una recensione del primo LP di costui, un mini per la newyorkese e da lungi desaparecida Select. Lo acquisterò solo diversi anni dopo, su una bancarella milanese a prezzo miracolosamente basso quando già fra gli intenditori circolava a discrete cifre che l’ascolto testimonierà adeguate alla sua guascona poesia.

Ho molto amato “The Other Side Of Town”, sin dalla confezione bifronte con il Nostro sul davanti Dottor Jekyll e signor Hyde sul retro (solo che pure come Dottore non è che ispiri soverchia fiducia). La pigra eleganza blues di Luigi’s Starlite Lounge che sfuma nel travolgente jump della Saturday Nite Fish Fry che fu di Louis Jordan per poi cedere allo squisito apocrifo waitsiano (circa “Blue Valentine”, guarda caso) Sidekick (con Rickie Lee in sfizioso cameo) e quindi allo sfrenato punk’n’roll di Gina. Fine della prima facciata. Seconda: un altro paio di rock’n’roll a rotta di collo, Tropicana e Juvenile Delinquent, il pianismo sbrilluccicante di Sparky e infine quella delizia della title-track, epica di piano a grappoli e sax ululante non identificato. Il piano sì: un certo Mac Rebennack e vi è squillato un campanello? Esatto, Dr. John. Ho molto amato “The Other Side Of Town”, dicevo, e naturalmente l’ho poi riposto negli scaffali e dimenticato. Fino al 1999.

Non è da tutti mettere diciotto anni fra il primo e il secondo disco, ma del resto Chuck E. Weiss uomo qualunque proprio non è. In corrispondenza con la pubblicazione di “Extremely Cool”, su Rykodisc e con l’amico Tom a coprodurre, ebbi finalmente notizie in abbondanza su di lui e altre ancora ne ho avute adesso che, mettendoci quella miseria di due anni e spiccioli in mezzo, ci ha a sorpresa recapitato un’altra meraviglia di disco fatto della materia di cui sono fatti i film dei fratelli Coen e certi racconti di James Ellroy. La New Orleans più voodoo e la Chicago più elettrica traslocate nei bassifondi della Città degli Angeli, luoghi frequentati dal Chuck in alcolico spirito o in carne, ossa e sgargianti abiti da pappone. Ho appreso così, e ve ne rendo partecipi, che è addirittura dalla fine degli anni ’60 che il Nostro fa musica, da quando ragazzino sedette dietro tamburi e piatti durante un concerto di Lightnin’ Hopkins e il vecchio e grande bluesman ne fu tanto contento che se lo portò in tour. Nei primi ’70 suonava con i Chicago All Stars di Willie Dixon e piccola testimonianza ne è la spettacolare Down The Road A Piece inclusa (senza che incredibilmente si noti il minimo stacco rispetto a registrazioni di trentun’anni posteriori) nel nuovo di pacca “Old Souls & Wolf Tickets”. Nel 1972 conosceva Tom Waits in quel di Denver e ne nasceva una bella amicizia (scorro i crediti dei primi LP di Waits e in “Nighthawks At The Diner” mi imbatto in una Spare Parts I firmata congiuntamente e in “Small Change” in una dedica). Dopo anni nomadi, dal ’77 in poi Chuck è stato singolarmente stanziale per essere un americano: mai più via da Los Angeles e ogni lunedì sera, dall’88 a oggi, in concerto al Central, poi Viper Room e di proprietà di un altro illustre amico (Johnny Depp), sul Sunset Strip. Potrebbe essere ragione bastante a giustificare una capatina in California.

Vi costerà meno per intanto mettervi in casa ciò che del nostro uomo si trova, vale a dire i due dischi ultimi. Mi imbarazza scegliere. “Extremely Cool” è superficialmente più variegato, capace di passare dal bluesone catacombale di Devil With Blue Suede Shoes a una Deeply Sorry profondamente manciniana e da lì di traghettarsi al romanticismo fra Springsteen e Woody Guthrie di Oh Marcy e alle percussioni operaie e alla voce licantropa di Pygmy Fund, piazzando ancora nel prosieguo jazzetto spumeggiante, cariche a testa bassa alla Jerry Lee Lewis, messe con Screamin Jay Hawkins a officiare, sornione vaudeville e persino (l’impagabilmente cialtrona Do You Know What I Idi Amin) un’ipotesi di Last Poets buffoneschi. Con qualche intermezzo (tipo il quadretto beefheartiano di Piggly Wiggly) a spezzare il passo, “Old Souls & Wolf Tickets” è più compatto e ancora più gagliardo e scintillante. Adoro il tribalismo di Congo Square At Midnight, l’andi felpato di Sweetie-O, la marcetta gospel con fiati panciuti e mandolini in libera uscita di Anthem For Old Souls, il gusto cajun di No Hep Cats, la giocosità di un Dixieland Funeral assai poco funereo. Non scelgo. Perché dovreste, voi?

 Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.475, 26 febbraio 2002.

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Quando Elvis era re

Elvis Presley - Elvis Is Back!

A non conoscerne anche per sommi capi la vicenda che gli sta dietro, la copertina di “Elvis Is Back!”, o quantomeno il suo davanti, farebbe allegria almeno quanto fa tenerezza: ancora giovane, ancora apparentemente innocente, ancora uno splendore di ragazzo e finalmente in abiti civili dopo i due anni meno un giorno trascorsi servendo la patria prima in Arkansas e poi in Germania, il Re del Rock’n’Roll accenna un lieve sorriso. E chi avrebbe mai potuto immaginare che artisticamente aveva già dato il meglio di sé e da lì in avanti non avrebbe fatto che declinare? Sebbene lampeggiando ancora con un certa frequenza bagliori di abbacinante immensità e più che mai quando nessuno se lo aspettava più, a cavallo fra ’68 e ’69, per poi lentissimamente suicidarsi percorrendo un orroroso viale del tramonto con al fondo una morte pure – tragedia aggiunta a tragedia – assai poco dignitosa, a quarantadue anni appena. La giri, quella copertina, ed eccolo in divisa Elvis, tenero tenero invece che marziale. La apri e quindici istantanee lo immortalano in varie fasi della naia più pubblicizzata e sotto i riflettori che mai si sia vista, a sinistra una scritta che annuncia il nuovo film, G.I. Blues, “a Hal Wallis production, a Paramount picture”. Già il suo terzo, mi pare di ricordare, dopo i clamorosi successi al botteghino di Love Me Tender e King Creole. Il circo mediatico impazzava come non mai e l’Album del Ritorno segnava un apice che resterà insuperato fino al fatale 16 agosto 1977. Sul retro di copertina del precedente “A Date With Elvis” un calendario del 1960 ha cerchiato un giorno di marzo, il 24, la data dell’atteso congedo. “Elvis Is Back!” veniva registrato da lì a dieci giorni, fra il 3 e il 4 di aprile. Ha universalmente fama di essere uno degli articoli migliori di un catalogo troppo vasto e raffazzonato e io pure, in un chilometrico articolo scritto per un’altra testata nel venticinquennale della morte, ossequiai la giurisprudenza. Confermo, facendo però presente che la frase “un grande LP di Elvis Presley” è una contraddizione in termini, che il Nostro non ha mai fatto grandi LP (quello bastante a consegnarlo alla Storia, la “Sun Collection”, è una raccolta che rischiò di uscire postuma) bensì grandi canzoni e che a determinare quindi la classificazione dei suoi 33 giri sono: 1) a quali vertiginose altezze si ascende nei momenti migliori; 2) il fatto che nei riempitivi non si affondi mai eccessivamente nel pantano del kitsch. Non esistendo un “all killers & no fillers”, per la buona e pessima ragione che quell’anima nera del Colonnello Parker non poteva nemmeno concepire di non centellinare le canzoni più memorabili, è giocoforza farsi bastare “some killers & some good fillers”. Qui, non si tratta di accontentarsi, ma di godere.

I vertici sono rappresentati da Fever e da Reconsider, Baby. La prima è la prestazione più magnificamente animalesca dell’Elvis del dopo Sun, in tutto e per tutto all’altezza di quella dozzina di facciate che sono considerate l’atto ufficiale di nascita del rock’n’roll, realizzazione del sogno bagnato di Sam Phillips di trovare un bianco che cantasse e si muovesse come un nero. Alle prese con il brano che ha fruttato l’immortalità al talento maledetto di Little Willie John e con lo scheletrico accompagnamento di un contrabbasso e della batteria soltanto, Elvis è un fiero felino che gronda dagli artigli sesso e swing: mo-nu-men-ta-le. Quanto a Reconsider, Baby è una meraviglia di blues in cui, dietro la voce ammiccante, il sassofono di Boots Randolph ruggisce e starnazza e il piano di Floyd Cramer trilla gioiosamente indemoniato, mentre una chitarra rockeggia fingendo che gli anni ’60 siano già alla fine, piuttosto che dietro l’angolo. Basterebbe, aggiungendo al conto l’irresistibile incrocio di doo wop ed errebì primevo di Make Me Know It, la ballata country con inflessioni gospel I Will Be Home Again, un’incalzante e gigionissima Such A Night e il blues sul lato assolato della strada di Like A Baby. In fondo, oltre che per l’impagabile confezione, è per questi pezzi di rado antologizzati (mentre Fever e Reconsider, Baby lo sono stati spesso) che “Elvis Is Back!” merita di essere acquistato. Non opera in essi che un’ombra dell’artista maggiore che fece un tutt’uno di country e di blues contribuendo in maniera decisiva a inventare, e soprattutto a imporre, un qualcosa che prima non c’era, ma è pur sempre un bellissimo ascoltare. E in ogni caso anche il resto, benché lo scapicollarsi di Dirty, Dirty Feeling trascenda dal giulivo nello sciocco e un’esagerazione di miele coli da Soldier Boy, mai costeggia gli abissi di ridicolo in cui sovente cadrà, nel post-militare (linea di demarcazione indiscutibile), un Presley ottenebrato dalla merda farmaceutica che aveva cominciato a trangugiare a manciate sotto le armi e ostaggio di un manager dall’insuperabile talento mercantile e dal nullo discernimento artistico.

Ma come si sente quest’album fresco di ristampa audiofila per i tipi della teutonica Speakers Corner? Bene come ti aspetteresti da un’incisione di jazz, o di classica, del 1960, ma mai da una di rock’n’roll. Plausibile l’immagine scenica disegnata dall’accorta produzione di Chet Atkins in “living stereo”, calorose e frizzanti e piene di sfumature le voci (non solo quella dell’attore principale, ma pure quelle a supporto dei Jordanaires), di corpo smilzo ma adeguato le percussioni, di buona naturalezza i colori del piano. Silenziosissimo il vinile e lontanissimi i plasticosi obbrobri di certe rimasterizzazioni anche recenti.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.267, aprile 2006.

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Velvet Gallery (31)

L’album che fece definitivamente enormi i R.E.M. analizzato in diretta. Con a corredo una carrellata sulla produzione precedente commentata dalla band stessa e una selezione di dischi chiaramente influenzati dai Georgiani.

REM 01

REM 02

REM 03

REM 04

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These New Puritans – Field Of Reeds (Infectious)

These New Puritans - Field Of Reeds

Come ben sa, ad esempio, chi ultimamente si è sorbito quella palla micidiale di Waxahatchee (sempre diffidare di quelli che si scelgono alias assurdi, di quelli che non si capisce qual è il nome del gruppo e quale il titolo dell’album, di quelli che scrivono i titoli in corpo 2, verde sfondato su giallo e fuori registro) non è che un 8.4 su “Pitchfork” significhi in automatico che chi ne è stato gratificato abbia appena dato alle stampe un capolavoro da ricordare nei secoli, fintanto che l’uomo abiterà questo pianeta. Anzi, essendo da lungi evidente che “Pitchfork” è oggi l’equivalente 2.0 del “New Musical Express” anni ’90, con l’aggravante della mancanza di sense of humour e di una pretenziosità di chi scrive che fa il paio con la pretenziosità della musica di cui scrive. Nondimeno, se non altro per la legge dei grandi numeri, anche da quelle parti può capitare ogni tanto che ci si entusiasmi o si stronchi a ragion veduta. La prima che ho detto nel caso di quello che per Questi Nuovi Puritani è l’album numero tre. Parecchio diverso dal numero due, che a sua volta li aveva mostrati irriconoscibili rispetto al debutto. Sanno stupire, costoro, e a oggi lo hanno fatto sempre e solo in positivo.

Età media attorno ai vent’anni o pochissimo su di lì, all’altezza dell’esordio del 2008 “Beat Pyramid” l’allora quartetto di Southend-on-Sea si era segnalato più per la qualità delle canzoni che per l’originalità di un sound chiaramente indebitato (con buona pace di ben meno plausibili influenze dichiarate quali Wu-Tang Clan e Aphex Twin) nei confronti dei soliti nomi della new wave britannica di tre decenni prima: Fall, Wire, in misura minore Gang Of Four. Disco pieno di chitarre spigolose e percussioni sferzanti quando da lì a due anni nel successore (successone no, successino) “Hidden” se le seconde risultavano ancora ben presenti delle prime si stentava ad avere notizie, al loro posto elettronica assortita e orchestrazioni di ottoni e legni. Steve Reich un modello di riferimento e stavolta non millantavano, i These New Puritans. Qualcuno parlava di post-rock e come dargli torto. Altri li dicevano novelli Talk Talk (quei Talk Talk là) e più di qualche buona ragione l’avevano pure costoro. Un album e tre ulteriori anni dopo, per parlare di rock il prefisso “post-” diventa obbligatorio (ma quanto erano già tali quei Tuxedomoon da un cui disco pare sortire Fragment Two?) e comunque anche di quella fatta se ne rinviene poco: più jazz da colonne sonore, più orchestrazioni neoclassiche, più voci liturgiche in fuga su bordoni idem per tangenti alate. Gli ultimi Talk Talk ce li troverete ancora e con essi il Tim Buckley più sperimentale ma al netto dell’angoscia, un Herb Alpert non in metafora rivisitato come fosse Badalamenti e poi scampoli di Penguin Cafe Orchestra, suggestioni wyattiane, Sylvian. Persino – diomio, cosa sto mai per dire… – un’eco di campane tubolari. È musica che riesce a essere raffinata senza mai parere artefatta. Ci cogli un respiro di poesia pure nei momenti più astratti. Che è poi esattamente ciò che difetta – se mi fermo un attimo a rifletterci – ai Sigur Rós ultimi. Ma anche penultimi, terzultimi…

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I got some John Coltrane on the stereo, baby (make it feel all right)

John Coltrane 1962

Ogni tanto, quando mi coglie lo schifo per la mia pigrizia e sento il bisogno di punirmi mettendomi di fronte esempi di gente al contrario instancabile, quando con il genio che si ritrovava avrebbe potuto permettersi di faticare meno, sosto davanti al mezzo metro di scaffale occupato a casa mia da album di John Coltrane e medito sul tempo sprecato, e sull’ignoranza riguardo a quanto ne resti ancora, che sempre dovrebbe spingerci a non farlo scorrere invano. Ogni tanto, quando sono stato bravo e sento di potere premiarmi con quel raro ascolto non legato a necessità lavorative, quello effettuato per il puro piacere di godere della musica (per chi fa questo mestiere un lusso, sapete?), punto quel mezzo metro, chiudo gli occhi e pesco un CD a caso. Sapendo che coglierò sempre bene e di quanta gente dalla produzione così smisurata si può dire lo stesso? Che sia un disco di quelli, una manciata, già gustati un gran numero di volte o appartenga al novero dei meno frequentati, giacché entrarono in casa mia, decine di seguito, nel giro di pochi mesi un cinque o sei anni fa in un periodo in cui per questo artista mi colse come una febbre, so che comunque ci scoprirò qualcosa che mi suonerà fresco, inaudito. Si tratti di una conclamata pietra miliare o di un album assemblato, magari senza neppure il concorso del titolare, con gli scarti di sedute che diedero più celebri risultati, persino con incisioni in cui neppure era il leader. Coltrane appare sempre nuovo e un Coltrane “minore” semplicemente non esiste: con lui – Lui! – si può discettare al massimo di differenti gradi di grandezza.

Ho detto “CD”. Fino a pochi giorni fa tutto il Coltrane di cui potevo godere era in digitale. Fatto è che è uno cui sono arrivato tardi, quando era più sensato comprare compact facilmente disponibili e sovente a medio prezzo che affannarsi dietro a vinili per i quali già capitava di sentirsi chiedere cifre importanti. Fatto è che quasi tutto il Coltrane in CD, su Prestige o Atlantic o Impulse! che sia, suona per fortuna ottimamente, i libretti sono di norma curati e insomma tanto vale essere felici così. Fino a pochi giorni fa. Poi, in gentile omaggio da Alfredo Gallacci, mi sono giunte due meravigliose stampe Speakers Corner, distribuite dalla sua Sound And Music, di “Africa/Brass” e “A Love Supreme” e finalmente ho potuto gustare anche in vinile (qualche frusciante copia d’epoca, delle pochissime cose che oggi si stenta a trovare, l’avevo già fatta girare grazie alla cortesia di un amico) del Coltrane come era inteso al tempo che si ascoltasse. È solo suggestione, sono un fissato se mi pare che il piacere auditivo che regalano queste stampe sia comunque superiore? Se sono convinto di cogliere un’ariosità maggiore e una prospettiva scenica più nitida? Sfumature, sia chiaro, ma è quella sottile differenza, nella quale si catturano mondi, che passa fra il perfettibile, benché ottimo, e il perfetto. Ascoltare il primo mi ha in ogni caso dato un’emozione particolare perché per la prima volta ho potuto affrontarlo nella forma in cui uscì originariamente. In compact ho un peraltro preziosissimo doppio, “The Complete Africa/Brass Sessions” del ’95, che ai tre lunghi brani della scaletta primigenia aggiunge tutto il resto di quanto fu registrato in quelle storiche sedute a cavallo fra il maggio e il giugno 1961, vale a dire tre prodigiose versioni alternative e due inediti. L’edizione in questione opta però non per metterle in coda al programma noto ma per sistemare le otto tracce nell’ordine in cui furono incise e dunque…

The John Coltrane Quartet - Africa Brass

LP cruciale per il nostro eroe, “Africa/Brass”, e debutto per una neonata Impulse! sorta, sotto l’egida di ABC-Paramount, con l’intento precipuo di documentare quel jazz, di cui ’Trane era fra i vessilliferi, talmente rivoluzionario da non avere ancora un nome, o meglio da averne tanti: free, avant-garde, The New Thing. In una recensione del novembre di quell’anno su “Down Beat” un critico ben reputato come John Tynan addirittura definiva “anti-jazz” il modo di suonare del Nostro non sapendo, il tapino, che a ben più vertiginose altezze sarebbe asceso Icaro prima che il sole, in forma di un fulminante tumore al fegato, sciogliesse la cera delle sue ali e lo facesse piombare al suolo, il 17 luglio 1967, non ancora quarantunenne. Se ho fatto bene i conti, e non è facile siccome già all’epoca erano stati fatti uscire diversi 33 giri con materiali di assortita provenienza, per il sassofonista di Hamlet era l’album “vero” da leader numero otto, l’esordio – dopo la lunga gavetta e la problematica associazione con Miles Davis – una faccenda di appena quattro anni prima. Ma sono anni luce che sembrano separare da “First Trane” “Africa/Brass”. Frutto dell’interesse sviluppato dal nostro uomo per i ritmi africani, lo vedeva per la prima volta circondare con una sorta di orchestra jazz (trombe, tromboni, flauti, clarinetti, corni francesi) guidata da quell’altro genio rubatoci prematuramente di Eric Dolphy il tradizionale quartetto/quintetto. Mozzafiato gli esiti, nella massiccia e politonale Africa come nello swingante valzer Greensleeves o in un modale Blues Minor. Musica “difficile”, nondimeno epidermica. Da lì a tre anni e mezzo “A Love Supreme” sarà altra cosa ancora e definitivamente indicibile.

John Coltrane - A Love Supreme

Quali che siano le vostre convinzioni riguardo al Divino, classificatelo alla voce “musica sacra”. Nello scatto scelto per l’iconica copertina il trentottenne sassofonista appare meditabondo e alquanto cupo. All’ineffabile senso di gioia trasmesso dal disco non è certo questa foto un po’ inquietante a preparare, bensì l’indirizzo all’ascoltatore che si può leggere spalancando la confezione, a fianco di un ritratto di Victor Kalim rimasto egualmente iconico, indirizzo che si apre con l’asserzione che “ogni lode è dovuta a Dio cui ogni lode è dovuta”. E un po’ più avanti: “Questo album è un’umile offerta a Lui”. E nella metà di sotto il testo, novello salmo, la cui lettura nelle intenzioni dell’artista di Hamlet doveva accompagnare lo svilupparsi del quarto movimento di quella che è una sorta di suite: inizio di un’ingannevole semplicità, con l’alato spiegarsi del sax ad anticipare l’elementare tema di quattro-note-quattro disegnato dal contrabbasso di Jimmy Garrison, ma – attenzione! – sono subito mondi di stupefacente complessità a prendere forma nel formidabile gioco di piatti e tamburi di Elvin Jones, nelle linee perpetuamente cangianti del piano di McCoy Tyner, naturalmente nel guizzare dello strumento del leader. Ed è tutta qui, ad accontentarsi di ridurla ai minimi termini, la magia di un album in cui una filigrana intricatissima sottende una cantabilità estrema: per quanto tu creda di averlo ormai mandato a memoria, al centesimo passaggio un qualcosa che ti era sfuggito te lo rifarà nuovo. A quattro abbondanti decenni dall’uscita, e avendo venduto nel tempo oltre un milione di copie, cifra stupefacente per un LP di jazz, “A Love Supreme” sembra tuttora una faccenda di ieri l’altro, oppure di domani. Classificatelo alla voce “musica immortale”.

 Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.266 e 267, marzo e aprile 2006. Adattato.

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