Archivi del mese: luglio 2022

Sondre Lerche – Avatars Of Love (PLZ)

Parafrasando Antonello Venditti, certe collaborazioni non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Nel fenomenale debutto del 2001 “Faces Down”, edito quando era a malapena maggiorenne ma scritto e inciso quando ancora non lo era, Sondre Lerche affidava alcuni arrangiamenti di archi a uno dei suoi idoli, Sean O’Hagan degli High Llamas, sodalizio rinnovato nel non meno brillante seguito del 2004 “Two Way Monologue”. Dell’oggi trentanovenne artista norvegese possiedo quasi per intero il catalogo, almeno a livello di album (questo è l’undicesimo, non contando un live e una colonna sonora) e ciò che non ho l’ho comunque ascoltato. Se O’Hagan compare da qualche altra parte, mi è sfuggito. In “Avatars Of Love” c’è e di nuovo firma un’orchestrazione di archi, splendido controcanto alla voce misurata e alla chitarra acustica arpeggiata dell’inaugurale Guarantee That I’d Be Loved.

Anche certe carriere fanno dei giri immensi. All’inizio un nuovo Elvis Costello al netto del sarcasmo e influenzato dai Beatles come dagli Steely Dan, Brian Wilson e Burt Bacharach, Elliott Smith e i Tindersticks, Lorche nel suo terzo lavoro in studio, “Duper Sessions” (2006) omaggiava Cole Porter, salvo nel successivo di un anno “Phantom Punch” porgersi decisamente rock. Molto più avanti, in “Pleasure” (2017), flirterà con dance e synth-pop. Quattordici canzoni di cui due sopra i dieci minuti per una durata che sfiora l’ora e mezza, “Avatars Of Love” prova a… riassumere in un singolo… in un doppio album più o meno per intero la cifra stilistica di uno che ha coverizzato Britney Spears e collaborato con Van Dyke Parks. La penna è mediamente ispirata ma l’opera risulta inevitabilmente dispersiva. E un po’ estenuante, sì.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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Il grido d’amore di Albert Ayler

1. “…il suono dell’amore apre le porte… È una musica che sembra spiccare il volo, che sana, penetra, squarcia il cielo aperto, rivelando lentamente il volto raggiante dell’Amato”: potrebbe essere uno dei più bei panegirici mai redatti della musica di Albert Ayler. È invece Jeff Buckley che scrive di Nusrat Fateh Ali Khan apprestandosi a intervistarlo. Non passerà che un anno e mezzo e intervistatore e intervistato saranno morti. Il primo, troppo giovane, annegato nelle luride acque del Wolf River, a Memphis.

“La musica che suono è una lunga preghiera, un messaggio che viene da Dio”: potrebbe essere Nusrat Fateh Ali Khan che dice di sé al giovane Buckley. È invece Albert Ayler che parla e l’anno è il 1966. Il 25 novembre 1970 il suo corpo, in pessime condizioni per i venti giorni di permanenza in acqua, sarà ripescato in quella fogna a cielo aperto che è l’East River, a New York. La sua scomparsa ebbe un’eco debole. Un articoletto su “Downbeat”, la bibbia jazz che sovente lo aveva snobbato. Un più adeguato ricordo di Ralph J. Gleason su “Rolling Stone”. Poco altro. Uno dei musicisti più importanti di questo secolo se ne andava in silenzio; giusto alcuni intellettuali neri percepirono la portata devastante dell’evento. Nelle quasi tre settimane in cui era stato irrintracciabile, della sua sorte si erano preoccupati solo la sua donna, suo padre e il fedele pianista Call Cobbs. Toccò agli ultimi due riconoscere i poveri resti.

Ventotto anni dopo il mistero circonda ancora le circostanze della morte di Albert Ayler. Si diffusero voci fantasiose al tempo. Che fosse stato trovato legato a un jukebox. Che lo avesse fatto fuori l’FBI, come parte di un complotto mirante a distruggere la cultura antagonista afroamericana che già aveva avuto fra le sue vittime Eric Dolphy, John Coltrane e Jimi Hendrix, oltre naturalmente a Martin Luther King e a Malcolm X. Che lo avesse ucciso la mafia per saldare il conto di una partita di droga non pagata.

Lasciata la tesi cospirazionista a qualche futuro telefilm di Chris Carter, non sembra per niente plausibile che la morte del sassofonista sia legata a storie di droga, dacché è ragionevolmente certo che non abbia mai fatto uso di cocaina o di eroina. Pare tuttavia appena meno incredibile quella che è probabilmente la verità: che, semplicemente, si suicidò. Una fine in drammatico contrasto con un’esistenza votata a un sentimento religioso prossimo al misticismo. Fanno fede parecchi dei titoli autografi del suo repertorio: Spiriti, Profezia, Spirito Santo, Sacra Famiglia, Angeli, Gesù, La nostra preghiera, Luce nell’oscurità, Casa celestiale, Rinascita spirituale, La collina di Zion. Quanto doveva essere disperato per lanciarsi in quelle acque limacciose! Il suo mentore, John Coltrane, non era più di questo mondo; la sua casa discografica, la Impulse!, lo aveva scaricato; suo fratello Donald aveva superato il sottile confine che separa la sanità mentale dalla follia; e lui a trentaquattro anni, dopo otto di dischi e concerti, non aveva di che mantenersi.

Mary Parks, che ne fu la compagna negli ultimi anni, nel 1983 tentò di spazzar via le congetture sulla tragica fine di Ayler parlandone con un ricercatore discografico. A sentir lei, il sassofonista era depresso per la situazione in cui si trovava il fratello e per le accuse che gli muoveva la madre di esserne responsabile e già da qualche tempo vagheggiava il suicidio. La sera del 5 novembre 1970, dopo un alterco domestico, fracassò uno dei suoi strumenti sul televisore e uscì di casa di corsa. Prese il traghetto per la Statua della Libertà e in prossimità di Liberty Island si buttò in acqua. Tutto qui. Fine del mistero?

Comunque sia morto, una cosa è certa: Albert Ayler è morto per i nostri peccati.

2. Ho comprato il mio primo disco di Albert Ayler non più tardi di tre anni or sono, una copia americana del doppio “The Village Concerts” “tagliata” e sigillata, buttata fra un Iron Maiden e un Olivia Newton-John su una bancarella, al prezzo di una Coca Cola in un McDonald. Annoiato da oltre tre lustri di frequentazione con il rock mi stavo accostando al jazz, con il quale in precedenza avevo avuto rapporti soddisfacenti ma saltuari, partendo naturalmente dai suoi eretici, quelli sui quali i jazzofili DOC (razza schifosa) hanno sempre sputato sopra, salvo poi chiedere scusa: il Miles Davis elettrico, Sun Ra, John Coltrane, Don Cherry, Ornette Coleman. Mi mancava Ayler per chiudere il quadrilatero sui cui lati restanti erano posizionati questi ultimi tre, che sapevo avere avuto a che fare con lui in varie maniere. Fatto risorgere da John Lurie in “The Resurrection Of Albert Ayler”. Citato di continuo nelle interviste da John Zorn e dai Sonic Youth. Idolatrato da Henry Rollins che nell’autunno del 1990, ospite di una radio studentesca californiana, aveva diffuso nell’etere per oltre mezz’ora la sua musica. Mi portai a casa “The Village Concerts”. Fu amore.

Non subito, e del resto raramente i grandi amori partono con il piede giusto. Se oggi l’universo ayleriano è un luogo familiare ove mi è gratificante aggirarmi riconoscendo corsi e ricorsi, ricavandomi cantucci nei quali crogiolarmi al tepore di un’inedita rivelazione, l’approccio fu difficoltoso. Questione di sovraccarico sensoriale. Appena dischiusa la porta, vieni travolto da un profluvio di ritmi insieme rozzi e sofisticati e di melodie che sembrano andare ciascuna per proprio conto. Ci vuole un po’ perché l’insieme acquisisca un senso e si scopra che vi è molto metodo in questa apparente follia. Diceva Picasso che da bambino disegnava come Raffaello e gli ci era voluta tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino. Sassofonista fra i più dotati tecnicamente di sempre, il Nostro studiò quasi vent’anni per imparare ad approcciarsi al suo strumento in tale maniera. I critici jazz, stupidini, definirono il suo stile “primitivo”. Coltrane la pensava diversamente.

Prosegue per altre 19.434 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.6, luglio/agosto 1998. Albert Ayler suonava per l’ultima volta dal vivo il 27 luglio 1970, a St. Paul de Vence, Francia.

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Audio Review n.444

È in edicola dall’inizio della scorsa settimana il numero estivo di “Audio Review”. Ho contribuito alla sezione recensioni scrivendo degli ultimi album di !!!, Dehd, John Doe, Drive-By Truckers, Steve Earle & The Dukes, Craig Finn, Mary Gauthier, Bruce Hornsby, Horsegirl, Kendrick Lamar, Leyla McCalla, Charlie Musselwhite, Grant-Lee Phillips, Pink Mountaintops e Wilco e di una recente ristampa di Nancy Sinatra & Lee Hazlewood. Nella rubrica del vinile ho celebrato in lungo un classico di David Bowie e più succintamente un disco viceversa ingiustamente dimenticato di Pharoah Sanders.

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Aldous Harding – Warm Chris (4AD)

Adolescente saggia la neozelandese Hannah Top, che con in casa un esempio di come la musica sia passione da cui pochi riescono a trarre sostentamento dopo avere partecipato a un album di mamma Lorina, apprezzata cantante folk, decideva che avrebbe fatto la veterinaria. Era il 2003, aveva tredici anni. Ma possono stare insieme il sostantivo “adolescente” e l’aggettivo “saggia”? Da lì a due anni scriveva le prime canzoni. A instradarla sulla via della musica come professione sarà Anika Moa, nome che a noi dice nulla ma agli antipodi è una star, un sacco di dischi all’attivo e non bastasse personaggio televisivo. Vedeva Hannah esibirsi per strada e prontamente le chiedeva di farle da spalla in un tour. Il seguito è vicenda nota: ribattezzatasi Aldous e assunto il cognome della madre la protagonista di questa storia pubblicava il primo e omonimo album nel 2014. Solo in patria all’inizio e tuttavia attirava abbastanza attenzioni fuori da procurarle un contratto nientemeno che con la 4AD, fortunato sodalizio avviato nel 2017 con “Party” e consolidato nel 2019 con “Designer”.

Terzo lavoro per la griffe britannica, terzo prodotto da John Parish, “Warm Chris” conferma in Aldous Harding una delle più dotate fra le cantautrici odierne. Sempre riconoscibile ma inafferrabile, capace una volta di più di scansare ogni cliché in dieci tracce coniuganti leggerezza e profondità con una varietà di accenti rimarchevole. Fra un’iniziale Ennui molto Stereolab e i Velvet richiamati dal congedo Leathery Whip, fra il Beck apocrifo di Tick Tock e l’accoratamente favolistica She’ll Be Coming Round The Mountain a farsi notare è soprattutto Fever (che no, non è una cover di quell’altra, strafamosa): esultantemente fra seduzione e sentimento.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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Jesus Built Their Hot Rod – L’estremismo al potere dei Ministry

Di solito si parte puri e si emerge – o si resta a galla, o ci si prova – cedendo alle tentazioni di Mammona. Esattamente inverso il paradossale percorso seguito dai Ministry di Allen Jourgensen e Paul Barker, che esordiscono nel 1983 direttamente su una grossa etichetta, la Arista, con un album francamente orrendo, “With Sympathy” (lo rinnegheranno), a base di scipiti techno-funkettini. Un disastro anche commerciale da cui impiegano parecchio a riprendersi. Dal ritorno, nel 1986, con “Twitch” (una produzione di Adrian Sherwood) in avanti la loro musica si farà gradualmente più ostica, dinamitarda miscela in un frullatore impazzito di metal ed elettronica, new wave, noise, industrial. Ogni disco è più feroce del predecessore, ogni disco vende di più. Fino all’apoteosi artistica e di vendite di “Psalm 69”. Strani tempi i primi anni ’90.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. “Psalm 69” usciva, su Sire, trent’anni fa a oggi.

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Jensen McRae – Are You Happy Now (The Orchard)

Abbiamo una nuova Tracy Chapman? Che manco era nata quando l’originale collezionava dischi di platino, ancora doveva compiere nove anni quando colei il cui nome resterà legato per sempre alla canzone che ne inaugurava nell’88 l’omonimo esordio (Talkin’ ’Bout A Revolution, ovviamente) dava alle stampe quello che è a oggi il suo ultimo lavoro (“Our Bright Future”) e, per curiosa coincidenza, pubblica il primo album a ventiquattro, stessa età che aveva l’evidente modello quando era lei a debuttare in lungo. Oddio… modello… Alle nostre orecchie le similitudini sono lampanti, ma che Jensen McRae volutamente intenda porsi in quel solco non è da darsi per scontato. Appartiene a un’altra e lontanissima generazione e se a qualcuna si ispira è alla di poco più “anziana” Phoebe Bridgers. Però i classici ─ Dylan, Joni Mitchell, Carole King, James Taylor ─ li ha studiati eccome e in “Are You Happy Now” sono influenze che si sentono, laddove di altre ─ Stevie Wonder, Alicia Keys ─ per ora non si coglie nulla. In futuro chissà. Chissà chissà, visto che la giovane artista californiana pur con garbo nelle poche interviste circolate finora esprime un po’ di fastidio per il fatto di sentirsi vista come un animale raro, una ragazza di colore che suona e canta brani folk invece che soul o r&b.

Folk ma spesso di grande pop appeal e “Are You Happy Now” ne piazza subito uno, Starting To Get To You, dal potenziale clamoroso (ne esibiscono appena meno Take It Easy e Good Legs e forse persino di più una latineggiante e con ritmica molto presente With The Lights On). Sconcerta che un’opera talmente pensata in forma di album da contenere tre interludi a separare/collegare le altre dodici tracce sia per ora disponibile solo in download.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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Duke Ellington a Newport – La classica del Novecento

Nella lunga e straordinaria vicenda artistica di Duke Ellington fra le molte migliaia di performance dal vivo nessuna è celebre quanto quella che tenne con la sua big band il 7 luglio 1956, nella cornice della terza edizione dell’“American Jazz Festival”, a Newport. Celebre e cruciale, visto che una carriera in declino ne veniva portentosamente rivitalizzata, da lì a un mese e mezzo il nostro uomo addirittura si ritrovava sulla copertina di “Time” e prendeva a materializzarsi il miracolo di un gigante del jazz capace nei suoi anni più tardi, se non di essere rilevante come in gioventù, di scrivere un’infinità di pagine almeno altrettanto memorabili.

L’album che veniva prontamente ricavato da quella notte di magia è sin dall’uscita e unanimemente ritenuto fra i più classici nell’ambito, nomea di assoluto capolavoro sopravvissuta allo sconcerto che coglieva studiosi e appassionati nel 1996, alla scoperta (a quarant’anni esatti dall’evento) negli archivi della Voice Of America di un nastro che dimostra inequivocabilmente che uno dei più famosi live di sempre live lo è al massimo al 40%. Ricreato insomma per la più parte in studio, a causa di vari problemi tecnici che rendevano inutilizzabile in momenti topici la registrazione in mano alla Columbia. Ma ci importa poi davvero qualcosa di sapere che gli applausi sono posticci e qualche pur epocale assolo venne rifatto perché un microfono era sfortunatamente spento? Conta la qualità in ogni caso eccezionale di un jazz ruggente e raffinatissimo, swingante e melodico, di rado tanto vicino come in questi tre quarti d’ora a farsi la vera musica classica del Novecento.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.347, ottobre 2013.

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For His Pleasure – Il primo Bryan Ferry

Sulla copertina di quello che fu il suo secondo LP in proprio Bryan Ferry è immortalato, una piscina alle spalle, in giacca crema, camicia bianca e papillon nero, orologio presumibilmente d’oro ma di disegno sobrio al polso sinistro, l’altra mano in tasca, e una sigaretta fumata fino al filtro fra indice e medio: epitome somma di eleganza (Peter York lo dirà degno di venire esposto alla Tate Gallery, essendo di per sé un oggetto d’arte) sul sottile confine fra il classico e il dandy cui si è mantenuto da allora fedele. Cambiando al massimo il colore di completi sempre inappuntabili, magari una cravatta in luogo del farfallino. Lo diresti tutto fuorché una rockstar. Un uomo di affari. Un lord, quando suo padre lavorava in un allevamento di cavalli. Ma signori si nasce e il nostro uomo (dal 2011 Cavaliere dell’Impero Britannico) lo nacque. Era il 26 settembre 1945. In un’epoca in cui il cosiddetto “ascensore sociale” funzionava cominciava a elevarsi dalle umili origini studiando economia. Non vedeva però per sé un futuro da contabile e si iscriveva allora a Belle Arti. Non arriverà a laurearsi, se non nel 2014 quando verrà insignito honoris causa di un dottorato in musica, e nondimeno semini venivano gettati mentre la passione per il rock’n’roll, incontrato undicenne grazie a Bill Haley, prendeva a permeargli la vita, e daranno frutti.

È dal 2003 che scrivo di ristampe in vinile per questa rivista ed è una ben sfortunata coincidenza che non mi sia mai capitato di occuparmi dei Roxy Music. Non dispero. Per intanto do per scontato che chi mi legge sia conscio di quanto furono rivoluzionari per il rock, con un infiltrarlo di istanze avanguardistiche che se di per sé non era una novità (dopo la psichedelia, i Velvet e Zappa, in piena era progressive) lo diventava nel momento in cui le suddette si accompagnavano a una spiccatissima sensibilità pop. Faceva il resto un vestiario oltraggioso sintonizzato sulla voga impazzante del glam e il gruppo conquistava in men che non si dica le classifiche patrie: decimo con l’omonimo album d’esordio del giugno 1972, quarto con il seguito del marzo ’73 “For Your Pleasure”, primo con “Stranded”, pubblicato nel novembre di quel medesimo anno e nel frattempo i nostri eroi avevano colto anche due hit a 45 giri con dei brani non contenuti nei 33 (Virginia Plain e Pyjamarama, un numero 4 e 10). Non ci si crede: ventisei giorni prima di “Stranded” è arrivato nei negozi il debutto da solista del cantante. Commercialmente (oltretutto li griffa la stessa etichetta, la Island) non ha nessun senso. Eppure venderà benissimo, scalando la graduatoria UK degli album fino alla quinta piazza. Artisticamente, in apparenza ancora meno. Pur autore fino a quel punto dell’intero repertorio dei Roxy, dopo “For Your Pleasure” Ferry ha defenestrato Brian Eno, percepito come un concorrente a una leadership divenuta così dittatoriale, per quanto in “Stranded” abbia concesso al chitarrista Phil Manzanera e al sassofonista Andy Mackay il contentino di co-firmare due pezzi. A che pro dare alle stampe giusto in quel momento un 33 giri a suo nome in cui paradossalmente mette invece solo la voce e la scelta delle tredici tracce? E già: come il coevo “Pin Ups” di David Bowie “These Foolish Things” è una collezione di cover. Che è come dire, in entrambi i casi, di lettere d’amore. La ragion d’essere del disco è il suo porgersi come dichiarazione di poetica di chi, facendosi interprete, svela le sue radici d’autore, sistemando in apertura una straordinaria resa infiltrata di gospel di A Hard Rain’s A-Gonna Fall di Dylan, in chiusura una traccia omonima che è la canzone più vetusta di tutte essendo del ’36 (già vecchia quando Nat King Cole se ne appropriava nel ’57) e in mezzo dai Beach Boys di Don’t Worry Baby ai Beatles un filo anneriti di You Won’t See Me, avendo prima affrontato con adeguata malevolenza gli Stones di Sympathy For The Devil. All’educazione sentimentale del Nostro hanno contribuito il rock’n’roll di Don’t Ever Change (Crickets) e Baby I Don’t Care (Elvis) come il pop adolescenziale marca Phil Spector di I Love How You Love Me (Paris Sisters) e quello black scuola Motown di The Tracks Of My Tears (Miracles) e Loving You Is Sweeter Than Ever (Four Tops). Che sia una faccenda di… be’… cuore è certificato irrefutabilmente da Piece Of My Heart, che era stata l’unico successo della Franklin minore, Erma, prima che Janis Joplin la sequestrasse e che, lasciando cadere per un attimo la maschera di coolness, trasuda più soul di quanto dovrebbe essere lecito per un gentiluomo bianco e per di più inglese.

Edito nel luglio 1974, quattro mesi prima di “Country Life” dei Roxy, “Another Time, Another Place” è replica al pari fortunata e anzi di più (nelle classifiche britanniche sale fino alla quarta posizione) e ispirata, scaletta perfettamente congegnata a dispetto della gran varietà di materiali affrontati. Si noti come all’inizio del primo lato la confidenziale Smoke Gets In Your Eyes (che tutti conoscono dai Platters) appoggiandosi a una scansione blues si ponga in perfetta continuità con il classico soul-pop di Dobie Gray The ‘In’ Crowd che, irrobustito nelle parti chitarristiche, si svela più che sospetta ispirazione per i Rolling Stones di Under My Thumb. Come ad aprire il secondo all’inno alla gioia di Sam Cooke (What A) Wonderful World replichi l’agro congedo da un amore del Bob Dylan di It Ain’t Me Babe. Ancora da applausi: il Willie Nelson riletto Al Green di Funny How Time Slips Away, il Kris Kristofferson riletto… Kris Kristofferson di Help Me Make It Through The Night e, proprio alla fine, la title track, unico pezzo autografo e, guarda un po’, sembrano i Roxy Music. Che nell’ottobre 1975 pubblicano “Siren” e nel luglio dell’anno seguente, a scioglimento ufficializzato, il live “Viva!”. Il terzo Ferry solista, “Let’s Stick Together”, esce in settembre e bizzarramente per quasi metà del programma (cinque canzoni su undici) vede il cantante coverizzare se stesso. Riprende insomma articoli dal catalogo Roxy e non è una buona idea. Meglio il festoso errebì che lo inaugura e battezza dando lustro a un minore della black quale Wilbert Harrison e una The Price Of Love energizzata rispetto all’originale degli Everly Brothers. Rimane un disco per completisti mentre, avrete inteso, i due predecessori sono caldamente consigliati. Tutti appena ristampati su Virgin/UMC e sono edizioni magnifiche da portarsi a casa di corsa, oggi come oggi, a euro 25.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 437, dicembre 2021.

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