Archivi del mese: giugno 2020

A grande richiesta

Si dice sempre così, no? Qualcuno che mi ha chiesto se e quando Venerato Maestro Oppure sarebbe stato pubblicato anche come eBook si è comunque palesato. Fatto. Da ieri è disponibile su Amazon a € 9,99. La versione è ovviamente per kindle, ma nel caso non ne possediate uno nessun problema: esiste un’applicazione (gratuita) che vi consentirà di leggerlo, su tablet o pc, o persino su uno smartphone. Anche se non riesco proprio a immaginarmelo uno che si legge un volumone in origine di 400 pagine fitte fitte sul telefonino.

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Perturbazione – (dis)amore (Ala Bianca)

Colti come sono negli ascolti come nelle letture, impossibile che nel lungo percorso che li ha portati a dare un seguito affatto diverso a “Le storie che ci raccontiamo” ai Perturbazione non sia venuto in mente che stavano concependo le loro “23 Love Songs”, che fa un terzo esatto delle “69 Love Songs” con le quali i Magnetic Fields salutavano il Novecento consegnandone agli annali il più mastodontico dei capolavori di un pop a sua volta coltissimo. Al tempo gli allora ragazzi di Rivoli avevano in curriculum giusto un album e un EP, ma già si capiva che di strada ne avrebbero fatta. Quanta, nessuno poteva immaginarlo. Due abbondanti decenni dopo per curiosa coincidenza, dovuta a una cosa da nulla come una pandemia che ne ha fatto slittare per due volte l’uscita, l’ottavo lavoro in studio di Tommaso Cerasuolo e dei fratelli Cristiano e Rossano Lo Mele (i fondatori superstiti; Alex Baracco è con loro dal 2008) è stato pubblicato lo stesso giorno in cui Stephin Merritt e soci hanno aggiunto al catalogo “Quickies”. Difficile immaginare due dischi… ahem… concettualmente tanto distanti, anche per esiti, e tuttavia li accomuna il gusto della sfida a un mondo in cui i servizi di streaming hanno insieme fatto tornare indietro di sessant’anni, a un’epoca pre-album, la popular music e ridotto a una manciata di secondi il tempo che l’ascoltatore medio concede a un brano per farsene catturare prima di passare ad altro. Le sveltine dei Magnetic Fields sono ventotto, compresse in tre quarti d’ora, qualcuna di una manciata di secondi appunto, ma figurarsi se possono avere una chance nell’era di Ed Sheeran e della trap, per dire di due opposti. Si apprezza lo spirito dell’operazione, si deplora che le tante buone idee non siano state sviluppate adeguatamente. “(dis)amore” di tracce ne conta cinque in meno ma gira (su vinile è doppio) sui settanta minuti. Da ascoltare se possibile in un’unica seduta o se no, fruendone a puntate, seguendo comunque la scaletta. Mischiereste mai i capitoli di un romanzo? Dicono gli autori che certi amici avevano suggerito loro di dare una sforbiciata, ché già il disco musicalmente osa quanto basta rinunciando alle lusinghe ritmiche dei due più immediati predecessori e, insomma, riportando indietro le lancette a prima della fatidica partecipazione (2014) al festival di Sanremo. A quando quiet was the new loud e i Perturbazione erano i portabandiera di una via italiana a un indie da camera e cameretta. Il benintenzionato consiglio è stato per fortuna disatteso.

Incontrarsi, innamorarsi, amarsi e poi disamorarsi senza nemmeno una ragione precisa, perché la vita è fatta così e troppo spesso dopo l’emozione che ti scoppia dentro cominciano i silenzi della sera, come cantava Califano. Quante ce ne sono di citazioni citabili in queste ventitré istantanee in cui spesso non sai chi sia a raccontare, se lui o lei. Nelle stanze di vita quotidiana dei Perturbazione dialoghi, riflessioni, osservazioni spicciole si fanno illuminazioni e poesia, da “ti abbraccerà senza pensarci su, la bacerai davanti alla TV” (La nuda proprietà) a “ma il desiderio è come fumo, se provi a stringere sfugge di mano” (Le sigarette dopo il sesso), da un silenzio che “da un po’ di tempo sembra il suono del rancore” (Silenzio) a “la nostra felicità come aria limpida, noi ci accorgiamo soltanto se latita” (L’inesorabile), da “il tuo amore mi divora un pezzo al giorno… mi consuma a fuoco lento, dalle ceneri rinasce quando sembra spento” (Lasciarsi a metà) a “lacrime dentro un cestino è tutto ciò che resta del nostro destino” (Dieci fazzolettini). E poi e naturalmente ci sono gli spartiti, che pur nel “contesto volutamente sottoprodotto” di cui parla il comunicato stampa (ma non si pensi a un suono lo-fi: l’album è zeppo di piccole e grandi raffinatezze) rifulgono e si collocano a un livello altissimo pure in una discografia di rara consistenza. Strategicamente i brani più brevi (ve n’è sotto i due minuti) si collocano spesso fra altri dallo sviluppo più congruo (“compiuto” sarebbe improprio, sono tutti compiuti), sapientemente vi è un alternarsi di passo e atmosfere, quest’ultime talvolta depistanti rispetto a quanto si narra ed ecco che al giocoso folk-rock di Il ragù viene affidato il racconto della morte inattesa, e senza un perché apparente, di una vicina, agli Smiths di Taxi taxi la storia di un incontro casuale, possibile diversione possibilmente solo immaginata da un rapporto di coppia se no esclusivo, all’esilarante folk-funk Dieci fazzolettini la constatazione che it’s all over now, baby blue. Unitarietà e varietà convivono in un lavoro in cui i Perturbazione riversano passioni di sempre che sono non solo la banda Morrissey/Marr appena chiamata in causa o i soliti R.E.M. (Mostrami una donna la loro Shiny Happy People?) ma anche la più varia Italia d’antan: dal Luigi Tenco che fa capolino in Silenzio al Banco del Mutuo Soccorso evocato in L’inesorabile, alle suggestioni cinematografiche che promanano dalla di fatto strumentale Come i ladri, dalla sontuosa orchestrazione che sequestra il finale di Io mi domando se eravamo noi, dalla liturgia per ciò che è stato e non tornerà del suggello Le assenze. Che il Rock latiti ci si accorge quando quasi a metà corsa divampa la fosca Non farlo. Che dopo tutti questi anni il gruppo ancora non abbia imparato a individuare quello che è con ogni evidenza “il” brano trainante è evidenziato dalla scelta come “singoli” in video di Le spalle nell’abbraccio e Io mi domando se eravamo noi, quando il pezzo cla-mo-ro-so che in un altro paese ogni radio avrebbe in playlist è Le regole dell’attrazione.

Il covid-19 ci si è messo di mezzo pure facendo cancellare i primi concerti che avrebbero dovuto promuovere “(dis)amore” e che chissà quando verranno riprogrammati. L’auspicio, quando sarà, è che i Perturbazione abbiano nel frattempo cambiato idea e non si limitino ad eseguirne una selezione di pezzi mischiata al repertorio storico. Dovrebbero suonarlo tutto e tutto di seguito “(dis)amore”, che è forse il loro capolavoro, e quindi un po’ di vecchi classici. Non mi daranno retta.

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Nove cose che non farò per promuovere il mio libro (e una invece sì)

1) Non ne ricorderò l’esistenza su Facebook tutti i santi giorni con un post identico a quello del giorno prima e del giorno prima ancora e del giorno prima prima ancora eccetera. Per mesi di fila.

2) Quando scriverò qualcosa al riguardo non taggherò trenta o quaranta persone alla volta (e anzi neppure una, a meno che non ci sia una ragione che lo giustifichi), invadendo così i loro profili e senza nemmeno avere avuto la buona creanza di chiedere prima il permesso.

3) Non vi contatterò in privato su Messenger per invitarvi all’acquisto…

4) …e quindi non vi cancellerò dall’elenco delle amicizie nel caso, statisticamente alquanto probabile, che cortesemente decliniate. Né vi bannerò se doveste (giustificatamente) essere non tanto cortesi (magari anche perché ho iniziato con un “caro Alberto” e tu sei Luca).

5) Egualmente, non vi eliminerò dalla lista di cui sopra con l’unica motivazione che il mio libro proprio non vi interessa e questo per fare posto a nuovi contatti da importunare.

6) Non vi manderò, nel caso dovessi essere in possesso del vostro indirizzo di posta elettronica, nemmeno una mail al riguardo.

7) Non attingerò a certi vecchi elenchi degli abbonati di una nota e ormai da un po’ scomparsa rivista per inviarvi a casa volantini pubblicitari. Perché ci sono normative sulla privacy che andrebbero rispettate e incidentalmente anche perché sarebbe una cosa piuttosto dispendiosa e cretina da fare. In sette anni almeno un 20% di quegli abbonati avrà cambiato recapito e più di qualcuno/a non è sfortunatamente più fra noi (immagina il genitore, l’ex-consorte, un figlio che si ritrova nella buca delle lettere un invito a comprare il prezioso tomo).

8) Niente offerte speciali legate all’attuale o a future pandemie.

9) Niente recriminazioni riguardo al fatto che nessuno si è degnato di recensirlo, questo capolavoro assoluto della saggistica musicale mondiale di ogni luogo ed epoca. Anche perché forse qualche recensione uscirà, visto che nella mia ormai discretamente lunga carriera mai mi sono prodotto in pubblico in giudizi sprezzanti, e ciò che è più grave immotivati, riguardo a questo o quel collega. E quindi credo che qualcuno mi stimi, qualcuno no, qualcuno – professionalmente parlando – non mi sopporti proprio ma nessuno mi schifi umanamente perché l’ho gratuitamente (e sottolineo il “gratuitamente”) esposto al pubblico ludibrio una, due, tre, dieci volte (a latere: aspetto ancora querele riguardo a certi articoli che pubblicai sette anni fa riguardo a una certa cooperativa; mai arrivate: strano).

Una cosa che farò (a giorni) per promuovere questo mio primo riordino di archivi e i numerosi titoli che gli andranno dietro nei prossimi mesi e anni, sempre la che salute mi assista e il Fato non mi tenda “il” trabocchetto, sarà invece riattivare una pagina su Facebook che esiste da tempo ma è stata tenuta in sonno. Ecco: per quella magari vi chiederò un “like”, che diversamente dai miei libri non costa nulla. Se me lo concederete, ve ne sarò grato. Se no nessuna rappresaglia, giuro.

Oh, se nel mentre mi leggevate vi fosse venuta una voglia irresistibile di sorbirvi il sottoscritto per quattrocento pagine dense di storie e incidentalmente consigli per altri acquisti (o comunque ascolti), potete togliervela comprando Venerato Maestro Oppure qui.

Dimenticavo… Un’altra cosa che farò, come da abitudine cui mai sono venuto meno dacché lavoro, sarà versare la mia quota di tasse per ogni singolo euro guadagnato. Forse sarebbe stato più comodo e fruttuoso cercare una tipografia compiacente e ricevere i soldi direttamente da chi acquista, ché tanto poi (se non si tratta di cifre davvero importanti) chi vuoi che controlli quanto ti è stato bonificato o ti è arrivato tramite Paypal, ma io purtroppo sono fatto così. Male. Uno sfigato, direbbe qualcuno.

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Morrissey – I Am Not A Dog On A Chain (BMG)

Ma quanto è diventato difficile recensire con equanimità Morrissey! Non che non lo sia sempre stato. Solo che una volta partivi con il pregiudizio positivo dato da una voce che era quella che lungo la breve epopea degli Smiths aveva saputo parlare come nessuna a una generazione e, anche senza la Rickenbacker scintillante di Johnny Marr dietro, qualcosa di buono in un suo disco ti pareva sempre che ci fosse, che ci dovesse essere. E oggettivamente nell’esordio dell’88 “Viva Hate”, in “Your Arsenal” del ’92 o, in questo secolo, in “Years Of Refusal” del 2009 e “World Peace Is None Of Your Business” del 2014 del buono si trova. Solo che anni di capricci da diva, comportamenti conflittuali rispetto al suo stesso pubblico, tirate da ultrà vegano (sacrosanto battersi per i diritti degli animali, altra cosa porli davanti agli esseri umani) e una collocazione sempre più chiara in un alveo politico di destra-destra hanno eroso la pazienza di tanti. Il pregiudizio si è fatto pesantemente negativo e prima di scrivere di costui tocca fare training autogeno, ricordare a sé stessi che fra i primi doveri di un critico sta il giudicare senza farsi influenzare da simpatie o antipatie.

Ci provo. Ci ha provato pure Morrissey, a fare un disco in cui in luogo di adagiarsi su appassiti allori aggiunge qualcosa di nuovo al suo cospicuo canone. Ci ha messo dentro, oltre a tanto ma già sentito melò alla Marc Almond, roba inaudita per lui: un paio di martelloni dance tipo Underworld, un altro pezzo con Thelma Houston a souleggiare (altro che “hang the dj”!), a un certo punto (non ci si crede) delle chitarre sabbathiane e un accenno di psichedelia. Ma le melodie (tolta la traccia omonima) sono fragili, i testi vabbé e che resta? I soliti due brani un po’ Smiths, buoni per i nostalgici. Forse.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.419, aprile 2020.

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La copia numero zero

 

La rara, rarissima e insomma unica prova di stampa per l’autore. Quella che finirà all’asta su Sotheby’s. Completa di un’informazione errata e un refuso che fortunatamente non troverete nella vostra copia.

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Il giorno dopo

Oh, adesso non è che io intenda tirarmela più di tanto e però… Ci tengo comunque a precisare che, diversamente dal bardo di Pavana, mai e poi mai in vita mia votai PSI. Sempre e comunque PCI.

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Disponibile

Ordinabile a partire da oggi.  400 pagine, euro 29. Raccoglie ottantatré articoli pubblicati in origine fra il dicembre 1994 e il febbraio 2015 sulle riviste “Dynamo!”, “Rumore”, “Blow Up”, “Il Mucchio” e “Extra”, sulla fanzine “Magic Fuzz”, sul blog Venerato Maestro Oppure e su un’antologia di autori vari. In questo libro si parla di Pink Floyd, Kinks, John Mayall, Brian Auger, Colosseum, Miles Davis, Caravan, Cat Stevens, Roy Harper, John Martyn, Nick Drake, Fairport Convention, Sandy Denny, Eva Cassidy, Fred Neil, Townes Van Zandt, David Ackles, Van Morrison, Van Dyke Parks, Hot Tuna, Leonard Cohen, Paul Simon, Caetano Veloso, Scott Walker, Marc Bolan, Van Der Graaf Generator, Le Orme, Hawkwind, Bill Nelson, Snakefinger, Graham Parker, Jam, Joe Jackson, Gang Of Four, Magazine, Billy Childish, Lee “Scratch” Perry, Yoko Ono, Nico, John Cale, Silver Apples, Suicide, Richard Hell, James Chance, Pere Ubu, Tuxedomoon, Tav Falco, Dream Syndicate, Go-Betweens, Triffids, Mark Eitzel, Hüsker Dü, Replacements, fIREHOSE, Dinosaur Jr., Metallica, Beastie Boys, Bikini Kill, Motorpsycho, Raymond Scott, Laurie Anderson, Brian Eno, Talking Heads, U2, Diaframma, Sugarcubes, Spiritualized, House Of Love, LA’s, PJ Harvey, Massive Attack, Tricky, Portishead, Tindersticks, Julian Cope, Amon Düül II, Ash Ra Tempel, Faust, Kraftwerk, Neu!, D.A.F., Mouse On Mars, Laika, Tortoise, Decemberists e Arctic Monkeys. Solo su Amazon.

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Le magie fuori stagione di Beth Gibbons e Rustin Man

Sodalizio estemporaneo quanto dai felicissimi esiti quello che stringevano nel 2002 Beth Gibbons e Rustin Man, al secolo Paul Webb: lei ascesa allo stardom da cantante dei Portishead a cavallo della metà dei ’90; lui una stella del pop, ma un po’ di luce riflessa, nel decennio prima ancora, bassista nei Talk Talk di quel genio venuto purtroppo a mancare nel 2019 di Mark Hollis. Collaborazione totale (otto dei dieci brani, così come la regia, portano la firma di entrambi; i due rimanenti sono uno siglato Gibbons e l’altro Webb) che coinvolgeva una folla di musicisti da non credersi (una quarantina) a fronte di un disco dalle atmosfere spesso rarefatte, questo autentico capolavoro condivide poco, quasi nulla con ogni altra produzione precedente e successiva della Gibbons. Idem per quanto riguarda Webb se si fermano le lancette del tempo a quell’anno. Aspettiamo da allora un seguito e per essere tale al pur meraviglioso “Drift Code”, con il quale lo scorso anno il nostro uomo si è riaffacciato a un’ideale ribalta mai più calcata da allora, per esserlo manca appunto Beth Gibbons.

Opera fuori dal tempo (programmatico il titolo) e che a ragione di ciò non è minimamente invecchiata, “Out Of Season” sfugge anche a ogni catalogazione. Parte ambient, l’iniziale Mysteries, ma in breve si trasforma in un’incantevole ballata folk, laddove la successiva Tom The Model è soulful nella voce e fra il pop e il cinematografico nell’orchestrazione. Se Show si colloca a metà fra jazz e cameristica, Romance è una scheggia di Billie Holiday da spaccarti il cuore e Sand River un Nick Drake perduto. Esplicito omaggio, Drake, a quell’angelo caduto? Giusto per come si chiama, giacché giriamo dalle parti di certa classica contemporanea, quando in apertura di facciata Spider Monkey aveva convincentemente replicato Mysteries per poi dare spazio a una Resolve in transito dall’inquietante al seducente. Dopo una Funny Time Of Year che esibisce gli arrangiamenti più sontuosi, l’album si congeda con una Rustin Man dai colori autunnali. Davvero benvenuta questa riedizione Go Beat!/UMC splendidamente suonante: una prima stampa era arrivata ormai a costare duecento euro, poco meno della metà quella su Music On Vinyl del 2011.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.417, febbraio 2020.

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Luke Haines & Peter Buck – Beat Poetry For Survivalists (Cherry Red)

Do per scontato che tutti sappiano chi è Peter Buck e spendo allora qualche parola per l’inglese Luke Haines, che pure sarebbe potuto diventare una star. Due volte. Era il 1993 quando il debutto degli Auteurs “New Wave” era candidato al Mercury Prize. Vincevano gli Suede e mentre Blur e Oasis si disputavano la corona del britpop gli Auteurs gradualmente sparivano dalle cronache, pur continuando a fare album eccellenti (altri tre, l’ultimo nel ’99). E ce ne fu poi un altro di momento di non-svolta, nel 2000, quando il singolo che battezzava il secondo lavoro dei Black Box Recorder (uno dei migliori progetti di canzone elettronica fra vecchio e nuovo secolo) parve destinato a diventare hit vera, ma si rivelò un abbaglio. Il nostro uomo ha avuto forse più successo come scrittore, con due caustici volumi di memorie, che da musicista titolare di una discografia labirintica, l’elevata qualità media unico elemento accomunante gruppi molto distanti fra loro come Servants e Baader Meinhoff, Auteurs e Black Box Recorder, più i suoi numerosi lavori da solista.

L’ex-chitarrista dei R.E.M. e Haines hanno allestito questa collaborazione scambiandosi file da un lato all’altro dell’Atlantico, con il secondo ad aggiungere testi e synth ai demo di chitarra e batteria elettronica del primo. Ne è venuto fuori un disco assai godibile pur se caratterizzato da atmosfere spesso fosche (Witch Tariff potrebbe essere di Paul Roland non solo per il titolo). Alcuni episodi più citabili di altri: il Lou Reed che si fa Ziggy di Jack Parsons e incontra Alex Chilton nella traccia omonima; una Apocalypse Beach che rimanda alla Patti Smith più visionaria; la collisione Gang Of Four/P.I.L. su un Lungo Senna di French Man Glam Gang; il fragoroso garage Ugly Dude Blues.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.419, aprile 2020.

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