Archivi del mese: gennaio 2023

2022: 15 (+1) ristampe, live, antologie da recuperare, costi quel che costi

1) Albert Ayler – Revelations: The Complete ORTF 1970 Fondation Maeght Recordings (Elemental, 4CD)

2) Magma – Mekanïk Destruktïẁ Kommandöh (Music On Vinyl, LP)

3) Broadcast – Maida Vale Sessions (Warp, CD/2LP)

4) Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Smokin’ The Dummy (Paradise Of Bachelors, CD/LP) & Bloodlines (Paradise Of Bachelors, CD/LP)

5) Julie Driscoll – 1969 (Esoteric, CD)

6) Tom Petty & The Heartbreakers – Live At The Fillmore – 1997 (Warner, 4CD/6LP)

7) Nancy Sinatra & Lee Hazlewood – Nancy & Lee (Light In The Attic, CD/LP)

8) Lou Reed – Words & Music, May 1965 (Light In The Attic, LP)

9) Virgin Prunes – …If I Die, I Die (BMG, 2CD)

10) Tinariwen – Kel Tinariwen (Wedge, CD/LP)

11) Ram John Holder – Black London Blues (Soulgramma, LP)

12) The Rolling Stones – Live At The El Mocambo 1977 (Rolling Stones, 2CD/3LP)

13) Can – Live In Cuxhaven 1976 (Spoon/Mute, CD/LP)

14) Norah Jones – Come Away With Me (Blue Note, 3CD/3LP+EP)

15) Scritti Politti – Cupid & Psyche 85 (Rough Trade, CD)

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2022: il meglio del resto

16) Loop – Sonancy (Reactor)

17) Arctic Monkeys – The Car (Domino)

18) Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You (4AD)

19) Aldous Harding – Warm Chris (4AD)

20) The Dream Syndicate – Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions (Fire)

21) Weyes Blood – And In The Darkness, Hearts Aglow (Sub Pop)

22) Father John Misty – Chloë And The Next 20th Century (Sub Pop)

23) Michael Head & The Red Elastic Band – Dear Scott (Modern Sky)

24) Beth Orton – Weather Alive (Partisan)

25) Eric Chenaux – Say Laura (Constellation)

26) Yard Act – The Overload (Island)

27) The Smile – A Light For Attracting Attention (XL)

28) Ghost Power – Ghost Power (Duophonic Super 45s)

29) Panda Bear & Sonic Boom – Reset (Domino)

30) North Mississippi Allstars – Set Sail (New West)

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Bentornati

Se siete fra i venticinque lettori che hanno acquistato Extraordinaire 1 ─ scherzo: foste così pochi col piffero che avrei posto mano al secondo; è una citazione da I promessi sposi ─ sapevate prima ancora di scorrerne l’indice cosa antologizza questo volume: le monografie dedicate a solisti e gruppi non americani (quelli stanno sul primo) che pubblicai sul trimestrale e poi semestrale “Extra”. Nello specifico, fra l’autunno 2001 (numero 3) e l’inverno 2012 (numero 37; penultimo prima che mi dimettessi per ragioni che non merita rivangare). Sono quattordici, cui come al primo giro ne ho aggiunte alcune, che a questo giro sono quattro, edite sul mensile “Blow Up” fra il 2013 e il 2019 e che mi pare si trovino benissimo in loro compagnia. Preziose per tracciare ulteriori linee fra i vari punti di un discorso complessivo su oltre mezzo secolo di rock e dintorni.

Già lo raccontai nel 2020: in ormai quattro decenni di onorata professione “Extra” resta il mio incubo più bello. Nella storia dell’editoria musicale italiana non si ricordano altre riviste di lungo corso che fossero parimenti in massima parte dedicate all’approfondimento, con pezzi che arrivavano a prendersi dalle dieci alle venti pagine e in ogni numero una lista commentata di cento album di un determinato genere o periodo. Di alcune di queste discografie consigliate fui il solo estensore e fra introduzione e schede parliamo di 140.000 battute. Quanto alle monografie, ci fu un fascicolo in cui ne firmai non una ma due, per un totale di abbondanti 125.000. Per darvi un’idea: il libro che tenete fra le mani assomma a 840.000. Ogni numero di “Extra” mi è costato un rush finale di quattro, cinque, sei giornate lavorative di quattordici, quindici, sedici ore cadauna. Roba da ricovero per esaurimento nervoso, dopo, o minimo da due settimane di riposo assoluto non fosse che con tutte le altre collaborazioni che dovevo tenere in piedi per pagare i conti di un’esistenza di austerità monacale era tanto se potevo permettermi due giorni. Una volta tirai la corda a tal punto che io sopravvissi alla consegna, il mio computer no. Fu nel luglio 2007. Inviai l’ultimo pezzo alle nove di mattina. Ero alla scrivania da ventisei ore. Manco spensi il pc, mi buttai sul letto nella stanza accanto e svenni. A svegliarmi da lì a breve di soprassalto furono un odore stomachevole e un suono tipo sirena di allarme. Nel mio studio una nuvola di fumo e non di quello buono.  Insomma: aveva preso fuoco l’alimentatore (il disco rigido per fortuna si salvò e da allora non passa settimana senza ch’io faccia una copia degli archivi su altro supporto). Staccai la spina, spalancai le finestre e tornai a dormire. Giuro.

Però pure stavolta rileggendomi mi sono detto che ne è valsa la pena. Le recensioni rappresentano la ragione principale ─ gli editori e i colleghi che conosco sono unanimi al riguardo e sarà dunque così, per quanto a me sembri incredibile; io da semplice appassionato in gran parte le salto ─ per la quale i giornali specializzati vendono ancora quel poco che vendono. Tuttora mi tocca allora scriverne, tante, e lo trovo un compito sempre più ingrato. Se penso alle ore che sommandosi diventano giorni che sommandosi diventano settimane che sommandosi diventano mesi che sommandosi diventano anni che ho dovuto dedicare, perché mi toccava, all’ascolto di dischi sostanzialmente inutili, che restano la stragrande maggioranza di quelli che superano selezioni ultrarigorose fra i troppissimi che escono, mi pigliano un nervoso e uno sconforto che non vi dico. Mi viene da pensare che, mi restituissero il tempo che ho impiegato così, morirei ultracentenario. Mi viene da pensare di averlo buttato via. Ma gli articoli sono un’altra faccenda. Per cominciare perché quelle me le commissionano e questi ─ sin dacché mi occupavo prevalentemente di attualità e ancora di più man mano che da cronista mi sono trasformato in storico della popular music ─ me li sono quasi sempre scelti. Sempre più spesso, perché avevo voglia di ripassare l’opera di qualcuno ed ero così non soltanto giustificato ma obbligato a farlo. Di quelli davvero corposi (diciamo sopra le 20-25.000 battute) ormai ne firmo massimo quattro o cinque all’anno. Invariabilmente prima di attaccarne uno mi chiedo chi me lo faccia fare, a parte i soldi che sono sempre gli stessi e quindi sempre di meno (i ricchi emolumenti sono fermi a quando c’era la lira). Salvo e al pari immancabilmente dopo avere finito, e tanto di più quando lo vedo impaginato, provare una soddisfazione che ripaga di ogni fatica. Prima o poi (azzarderei più “prima”), con le recensioni smetto. Con gli articoli forse mai, perlomeno fintanto qualcuno sarà disposto a pubblicarli e remunerarli. Idem con i libri, per i quali ho però optato (ne guadagnano fegato e conto corrente) per l’autoproduzione.

Questo è il quarto a uscire con il marchio Hip & Pop e non direi di avere appena scalfito la superficie di quanto scritto nemmeno dall’82 bensì dal ’91, anno fatidico in cui passai dalla Olivetti a Wordstar, ma insomma. Per certo sono partito dai fondamentali. Da ciò che più mi spiaceva restasse disperso e alla lunga perso su giornali destinati sovente se non immancabilmente a una brutta fine, falcidiati da traslochi e/o cantine che non parevano per niente umide. E invece…. Pur selezionando, e parecchio, a occhio ho materiali bastanti a confezionarne un’altra mezza dozzina. Mi riprometto inoltre di scriverne un paio ex novo. La mia metà più saggia, o più pigra, è già atterrita al solo pensiero.

Torino, 5 dicembre 2022

Tratto da Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune.

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I migliori album del 2022 (1): Black Country, New Road – Ants From Up There (Ninja Tune) / black midi – Hellfire (Rough Trade)

Prossimi non solo in un’ideale libreria sistemata in ordine alfabetico i Black Country, New Road e i black midi: per chi scrive i due gruppi più notevoli espressi finora dal rock britannico dell’attuale decennio. Li accomunano reciproca stima, l’abitare territori musicalmente contigui, l’essere tutti giovanissimi, dallo scorso autunno una campagna concertistica americana che ha visto curiosamente i primi fare da spalla ai secondi nonostante vendano molto di più e, da ormai un anno, sfortunatamente pure questo: che mentre i black midi avevano perso il chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin appena prima di registrare il secondo album i Black Country, New Road annunciavano l’addio del cantante e chitarrista Isaac Wood il 31 gennaio, vale a dire quattro giorni prima che “Ants From Up There” raggiungesse i negozi e subito volasse al numero 3 della classifica UK, migliorando di una posizione il piazzamento dell’esordio “For The First Time”. Defezione dovuta incredibilmente alle stesse ragioni (problemi di salute mentale) ma presumibilmente destinata a pesare di più, visto che della band autorialmente e per la voce riconoscibilissima costui era il fulcro. Delittuoso sarebbe però se il pensiero che questo potrebbe essere un congedo (anche no, visto che nel tour negli USA hanno suonato solo brani inediti e nulla ─ nulla! ─ dai due album con Wood) ne sciupasse l’ascolto. Se non facesse godere fino in fondo di un disco di una bellezza abbagliante nelle cui dieci tracce (ma la prima è una breve Intro) per complessivi 58’46” un post-rock senza quasi rapporti con il post-punk si muove fra folk (il klezmer un’influenza vistosa) e minimalismo, progressive (versante Canterbury) e chamber pop. Ci troverete dentro i primi Arcade Fire e Arthur Russell, i Neutral Milk Hotel e Michael Nyman, Steve Reich, i Caravan, gli Slint. Cla-mo-ro-so.

Il 19 luglio 2022 a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei Fantastici Tre e non più Quattro danno d’altronde testimonianza, e non per la prima volta, anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nel terzo di dieci brani, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”? A riascoltarli è un’influenza che, sebbene in misura minore, si coglie pure in predecessori ─ “Schlagenheim” (2019) e “Cavalcade” (2021) ─ per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, Van Der Graaf Generator, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

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I migliori album del 2022 (2): The Comet Is Coming – Hyper-Dimensional Expansion Beam (Impulse!)

In un’intervista del 2016 il batterista Max Hallett (Betamax) raccontava così la genesi, tre anni prima, del progetto The Comet Is Coming: “Io e Danalogue the Conqueror (il tastierista Dan Leaves, NdA) avevamo messo insieme un duo psichedelico chiamato Soccer96. Ci esibivamo in giro per Londra e una sera questo spilungone con un sax in mano ci ha raggiunti sul palco. Quando ha attaccato a suonare con noi ha innescato un’esplosione di energia che ci ha lasciato sbalorditi. Un paio di settimane dopo King Shabaka (il sassofonista Shabaka Hutchings, NdA) mi telefona: ‘Facciamo un disco’. Abbiamo prenotato tre giorni in studio e alla fine ci siamo trovati con ore e ore di jam totalmente improvvisate. Da lì è partito un paziente lavoro di ‘taglia e cuci’”. Anticipato l’anno prima dal mini “Prophecy”, tratto dalle medesime sedute, nel 2016 “Channel The Spirits” scoperchiava crani esponendo la passione condivisa dai tre per “Sun Ra, Jimi Hendrix, John e Alice Coltrane, Can, Mahavishnu Orchestra, techno, house, grime e hip hop futurista”. Seguiva una candidatura ai Mercury Prize. Seguivano nel 2017 un altro EP, “Death To The Planet”, e nel 2019 l’accoppiata formata dal secondo album “Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery” e dal mini “The Afterlife”, entrambi già su Impulse!, etichetta assurta alla storia maggiore del jazz dando asilo alle sue avanguardie.

A incidere le basi di “Hyper-Dimensional Expansion Beam” i Nostri hanno impiegato (presso i Real World Studios di Peter Gabriel) un giorno in più di quelli che dedicarono al debutto. Dall’immersione in quanto registrato hanno poi estratto undici tracce pazzesche, sistemando fra la kosmische afro-dance di Code e la collisione fra hard bop e jungle di Mystik di tutto e di più, intervallando a momenti febbrili altri tendenti all’atmosferico nell’ampio iato dal sognante al fosco. Teo Macero avrebbe approvato, Sun Ra pure. Qui, forse, il solo jazz realmente moderno oggi.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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I migliori album del 2022 (3): Danger Mouse & Black Thought – Cheat Codes (BMG)

Le presentazioni… Oltre che metà dei Gnarls Barkley e musicista in proprio (spesso in coppia con altri: Jemini The Gifted One, Sparklehorse, Daniele Luppi, Karen O), Danger Mouse (newyorkese quarantacinquenne nato Brian Burton) è soprattutto produttore a 360°. CV che include fra gli altri Gorillaz, Rapture, Black Keys, Beck, Norah Jones, John Cale, U2, Adele, Iggy Pop, Michael Kiwanuka, Red Hot Chili Peppers, Parquet Courts. Ventiquattro a oggi le sue candidature in varie vesti e categorie ai Grammy, sei quelli portati a casa. Nel 2009 “Esquire” lo incluse in una lista delle 75 persone più influenti di inizio secolo. Con Black Thought (da Philadelphia, quarantanovenne, nato Tarik Trotter) me la cavo più rapidamente: rapper formidabile e inconfondibile, cofondatore dei Roots e solo superstite con il batterista Questlove della prima formazione, con costoro ha congegnato alcuni dei migliori esempi di hip hop trasversale degli ultimi trent’anni. Classiconi nella storia della black quali “Do You Want More?!!!??!”, “Illadelph Halflife”, “Things Fall Apart”, “Phrenology”…

Resta poco spazio per “Cheat Codes” e di nuovo me la cavo in fretta. Se quest’anno avevate intenzione di comprare un solo disco hip hop, fate che sia questo. Se in casa ne avete venti in tutto, che questo sia il ventunesimo. Dieci? L’undicesimo. Funkissimo, poppissimo, stilosissimo, è un ideale manifesto di tutto ciò che è l’hip hop al suo meglio: riassunto e superamento di quanto accaduto in precedenza nella musica afroamericana, in un costante dialogo con il passato che non si limita a quella (qui in un brano un campionamento dei nostrani Biglietto per l’Inferno!) e capace nel contempo di incidere in ogni senso sul presente. Capolavoro?

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.446, ottobre 2022.

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I migliori album del 2022 (4): Ibibio Sound Machine – Electricity (Merge)

Un’Eno c’entra sempre ma in questo caso (da cui l’apostrofo) trattasi non di Brian bensì di Eno Williams, anglo-nigeriana voce e frontwoman dell’attualmente settetto (completano la formazione un chitarrista, un bassista, un percussionista e tre fiatisti che – ahem – si sdoppiano fra tromba, trombone, sax e sintetizzatori) londinese, giunto con “Electricity” al quarto album: a oggi il più variegato, compiuto, entusiasmante. Impossibile non pensare ai Talking Heads dell’incredibile trittico prodotto giustappunto da Brian Eno fra il ’78 e l’80 ascoltando il vorticoso, implacabile funk Protection From Evil, che lo inaugura. Come una outtake da quel “Remain In Light” che a quarantadue anni dall’uscita suona ancora modernissimo. Laddove più avanti 17 18 19 rimanda piuttosto al disco precedente di Byrne e soci, “Fear Of Music” (fra l’altro contenente una canzone che prima di venire ribattezzata Drugs si intitolava… Electricity), e la più pop Something Will Remember sa smaccatamente di Tom Tom Club.

Grave errore sarebbe però ridurre gli Ibibio Sound Machine (nella ragione sociale un rimando alle origini della cantante: ibibio è una delle lingue che si parlano in Nigeria) a pur talentuosi epigoni. È questo l’approdo di un percorso che li ha visti aggiungere influssi electro (una Truth No Lie da urlo, con bonus di ottoni errebì e chitarrona rock), post-punk e qui pure (in una traccia omonima incrostata anche di dancehall) elementi di dub poetry all’iniziale miscela di afrobeat e highlife (le ultime gemme si chiamano Afo Ken Doko Mien e Oyoyo), disco e drum’n’bass. Per la prima volta si sono affidati a dei produttori esterni, gli Hot Chip (la cui mano si avverte particolarmente in All That You Want), e hanno fatto bene.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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I migliori album del 2022 (5): Fontaines D.C. – Skínty Fía (Partisan)

Niente di più difficile in musica che ripetersi senza ripetersi ed è l’impresa che è riuscita ai dublinesi più che mai (benché attualmente quattro risiedano a Londra e uno negli Stati Uniti) Fontaines D.C.: che a un debutto di strepitosa freschezza e travolgente energia quale “Dogrel” (aprile 2019) davano seguito appena quindici mesi dopo con l’al pari trascinante ma maggiormente variegato e di più spiccato lirismo “A Hero’s Death”. Triplice la sfida che si trovava ad affrontare la compagine irlandese con il “difficile terzo album”: restare riconoscibile senza trasformarsi in un cliché; sfilarsi dalla foltissima truppa di quanti dagli Interpol in poi sono stati sistemati alla voce “post-punk revival”; staccarsi l’etichetta di “nuovi U2”, che se arrivi da dove arrivano loro e hai il potenziale per riempire gli stadi ti tocca indipendentemente da cosa e come suoni. Oltretutto un marchio di infamia dacché Bono e soci sono diventati delle macchiette, due abbondanti decenni, e ciò pesa sulla percezione di un gruppo che in precedenza fu per quasi altrettanto viceversa inafferrabile, non esente da cadute ma a suo modo grandioso persino in quelle.

Per intanto i Fontaines D.C. sono grandiosi e stop e in un catalogo ormai di una quarantina di articoli si stenta a trovarne di anche vagamente accostabili a quegli altri dublinesi là (qui e forzando un po’ una Roman Holiday in una terra di mezzo fra “War” e “The Unforgettable Fire”). Per intanto ribadiscono di essere una band calata in ogni senso nel presente al di là del fatto che la new wave è classic rock da ancor prima che, appiattendone la prospettiva storica, YouTube e i servizi di streaming modificassero irreversibilmente il continuum spazio-temporale della popular music. Per intanto piazzano subito prima del post-grunge della traccia omonima, ottava di dieci, l’inaudito folk per sole fisarmonica e voce di The Couple Across The Way, avendo certificato essere il loro fin la meraviglia già con l’inaugurale In Ar Groithe Go Deo, liturgica con tanto di coro angelicato prima di un indefinito montare di tensione che la fa esplosiva. E da lì a Nabokov, che suggella porgendosi come una How Soon Is Now riscritta dai Sonic Youth, non ne sbagliano una. Forse si scioglieranno domani. Forse da qui a dieci anni saranno pure loro delle macchiette, ma oggi è oggi e oggi pochi scrivono canzoni della forza di Big Shot (dei Joy Division che scelgono la vita), How Cold Love Is? (da un tempo e un universo alternativi dove a capitanare gli Smiths è Robert Smith: immagina, puoi) o Bloomsday (ritmica strascicata, chitarre surf). Teniamoceli stretti, per intanto.

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I migliori album del 2022 (6): King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me (City Slang)

Che bello potersi entusiasmare per un semi-esordio (pubblicato nel dicembre 2020, con i suoi sei brani per complessivi trenta minuti “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine” in altri decenni sarebbe stato considerato debutto in lungo) quale è questo dei King Hannah, duo domiciliato a Liverpool formato dalla cantante e chitarrista gallese Hannah Merrick e dal chitarrista Craig Whittle. È che trasmette una freschezza che sconfina nell’innocenza che inevitabilmente intenerisce. È che la scaletta è benissimo congegnata, con due interludi che sono in realtà introduzioni ai brani in cui sfumano e le dieci canzoni vere che lo compongono che alternano sapientemente atmosfere ed emozioni creando un fluire armonioso. Spostane una e non è che verrebbe giù tutto ma ecco, pur restando un ottimo album “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” non sembrerebbe più il piccolo miracolo che è. Giacché i dettagli sono parte integrante della grandezza. Sempre.

A non essere un dettaglio è come mettendo a nudo i loro cuori ragazza e ragazzo risultino disarmanti anche per il più cinico dei navigatori di lungo corso dei mari del pop. Il che fa sì che l’elenco delle influenze non si trasformi nel solito argomento del “tutto già sentito”. Perché no, perché persino nell’omaggio smaccato ai Portishead di “Dummy” di Foolius Caesar i King Hannah riescono a essere unici. Lo sono a maggior ragione quando squadernano il blocchetto degli appunti: distillando doom dalla prima PJ Harvey in A Well Made Woman, evocando lo Springsteen devoto ai Suicide in Big Big Baby, gettando un ponte fra il Neil Young di On The Beach e quello di Cortez The Killer in The Moods That I Get In, giocando nella traccia omonima lui a far Nick Cave, lei Kylie Minogue.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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David Crosby Was Love (14/8/1941-18/1/2023)

If I Could Only Remember My Name (Atlantic, 1971)

Sconcerta che uno dei capisaldi della musica del Novecento venisse accolto con toni irridenti da un gigante dello scrivere di rock quale Lester Bangs e massacrato da un altro, Robert Christgau. Mentre viceversa fa sorridere che nel 2010 nientemeno che “L’Osservatore Romano” lo abbia incluso in una lista dei dieci migliori album pop di sempre (secondo, dietro “Revolver” dei Beatles). Vi avrà per certo colto, l’organo della Santa Sede, l’empito spirituale che traversa per intero un disco figlio per l’artefice di un momento egualmente esaltante e disperante: campione di vendite con “Déjà Vu”, storico esordio di CSN&Y, nel momento in cui ci metteva mano e nello stesso tempo distrutto dalla morte qualche mese prima della fidanzata Christine Hinton. Gli stava vicino in tutti i sensi in studio una folla solidale di colleghi e soprattutto intimi: oltre a Nash e Young e a Joni Mitchell, membri di Grateful Dead, Jefferson Airplane e Santana. Apogeo e contestualmente congedo di/per un’epoca della musica e della cultura giovanili, affresco corale e insieme personalissimo diario che si cimenta nell’impresa di provare a esprimere l’inesprimibile e quanto è significativo allora che due brani siano sì cantati, ma senza parole.

Music Is Love, asserisce ontologicamente la prima di nove immortali tracce, estatico incipit per un viaggio che prosegue con la cavalcata elettrica di Cowboy Move e approda alla liturgia di voci di I’d Swear There Was Somebody There, passando fra il resto per una Traction In The Rain buckleyana. Questa riedizione per il cinquantennale saggiamente non strafà, aggiungendo una bonus già edita e un disco di demo, versioni alternative e scarti che solo uno stato di grazia supremo fece scartare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 437, dicembre 2021.

CPR (Samson, 1998)

Una sigla anonima come ragione sociale, una copertina che non dà indicazioni su cosa si ascolterà e oltretutto bruttina assai: poco da stupirsi se nel 1998 “CPR” si vendeva in quantitativi modesti e presumibilmente perlopiù a chi aveva avuto occasione di ascoltare il gruppo nel tour che lo aveva preceduto invece di seguirlo. Stupisce di più, ma non tanto per quante copie ne circolano a due spiccioli nei negozi che trattano usato, offerte e fuori catalogo, che non fosse mai stato riedito. Provvede, peraltro senza integrarlo con uno straccio di bonus quando con l’aggiunta dell’autoprodotto e dello stesso anno “Live At Cuesta College” avrebbe potuto confezionare una “Deluxe” coi fiocchi, lo stesso marchio (Samson) che lo dava alle stampe in origine.

Va bene lo stesso, perché ci offre il destro di riascoltarlo con orecchie tornate vergini e dargli il giusto peso nella straordinaria quanto tormentata vicenda artistica di David Crosby: lui la “C” dell’acronimo, laddove la “P” sta per Jeff Pevar, chitarrista sublime, e la “R” per James Raymond, gran tastierista, produttore, arrangiatore, soprattutto figlio perduto dello stesso Crosby, che lo dava in adozione e lo ritrovava decenni dopo e con lui instaurava miracolosamente un felicissimo sodalizio, sia umano che artistico, che tuttora dona frutti succosi. Questo era il primo, disco di autentica rinascita per Crosby dopo troppi anni sprecati fra droghe e mattane e funestati da disgrazie assortite e gravi problemi di salute. Una seconda (terza?) insperata vita prendeva le mosse da questi undici raffinatissimi quadri di cantautorato da Laurel Canyon rivisitato in chiave jazz-rock, con l’occasionale tocco latineggiante, il piccolo strappo funk e a volare altissime sulle sontuose basi armonie vocali degne di quell’altro trio là con David Crosby, quello più famoso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020.

Sky Trails (BMG, 2017)

La matematica impressiona: ventidue anni, dal ’71 al ’93, per iscrivere tre titoli alla voce “discografia da solista”, e facendo oltretutto deprecare a tutti che il capolavoro “If I Could Only Remember My Name” avesse avuto successori tanto inconsistenti; tre appena, dal 2014 di “Croz”, cui nel 2016 dava un seguito “Lighthouse”, per raddoppiarla. Ma a certificare che a settantasei anni David Crosby vive un rinascimento che nessuno avrebbe potuto prevedere nei decenni bui in cui diede tristissimo spettacolo di sé, rotolando rovinosamente per la china della tossicodipendenza, non sono i numeri bensì la consistenza del nuovo album: in proprio il suo migliore di sempre naturalmente eccettuato l’epocale, insuperabile esordio; e anche contando i progetti collaborativi per rinvenire nel catalogo un articolo di livello paragonabile tocca tornare parecchio indietro. Al 1977 di “CSN”, ultimo momento ricordabile della gentile epopea principiata nel ’69 con “Crosby, Stills & Nash”. O, minimo, al 2001 di “Just Like Gravity”, capitolo conclusivo del romanzo breve CPR e forse l’unico altro Crosby quasi indispensabile dell’ultimo quarantennio. E a proposito di CPR…

In “Sky Trails” Jeff Pevar (gradito ritorno) c’è, ma quel che più conta c’è pure James Raymond, il figlio musicista che David ritrovava nell’anno più difficile della sua vita, quel 1994 in cui doveva sottoporsi a un trapianto di fegato andato meravigliosamente bene. Raymond co-firma diversi brani ed è l’autore unico di She’s Got To Be Somewhere, una gemma di elegantissimo funk alla Steely Dan. Splendido modo di iniziare un disco che ha nella Joni Mitchell che si innamorava del jazz (anche coverizzata, con una bella resa di Amelia) il referente principale e per il minoritario resto dispensa folk da manuale Laurel Canyon.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.393, novembre 2017.

For Free (BMG, 2021)

Davvero: non si sa se essere più furiosi con David Crosby per i decenni in cui si buttò via abusando di alcool, eroina, cocaina e quant’altro (ineffabilmente, oggi che in California è legale commercializza con il suo nome una marijuana che gli intenditori considerano fra le migliori sulla piazza) o essere più felici, per lui e per noi, che incredibilmente sia riuscito a sopravvivere a quegli anni folli e ai successivi e gravissimi problemi di salute che l’hanno afflitto come strascico degli stravizi. Che, ancora più incredibilmente, stia vivendo da un decennio in qua (ma prodromi di rinascita si erano manifestati già all’incrocio fra il secolo vecchio e l’attuale con il progetto CPR) una luminosissima… quarta giovinezza.

Per il suo ottantesimo compleanno il vecchio Croz si è regalato, con qualche settimana di anticipo, un album che è sorta di gemello (solo, più conciso: se i brani in scaletta in entrambi sono dieci quello superava i cinquanta minuti, questo non arriva a trentotto) del precedente (2017) “Sky Trails”. Per dire: anche qui il programma comprende una cover dell’amica di sempre Joni Mitchell (tocca stavolta a una pianistica For Free, che ha pure l’onore di intitolare il disco). Anche qui ci sono brani di impronta Steely Dan e curiosamente lo è di più Ships In The Night che non Rodriguez For A Night, cui Donald Fagen ha offerto il proprio apporto compositivo. E il resto sono meraviglie da un Laurel Canyon dell’anima: su tutte una I Think che potrebbe giungerci dai primi due LP in trio con Crosby e Nash e una Shot At Me che sarebbe potuta stare su “If I Could Only Remember My Name”. Addirittura. L’unico cruccio è che il tempo inevitabilmente, inesorabilmente scorre.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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