Archivi del mese: marzo 2019

Il 1969 perduto, e ritrovato, dei Velvet Underground

Il 30 gennaio 1968 la Verve pubblica “White Light/White Heat”. Quasi a sua insaputa, si potrebbe dire, giacché non lo promuove né presso le radio né sulla nascente stampa underground. Copertina tutta nera, anonima a meno di non guadarla da vicino e solo allora si nota, in controluce, l’immagine di un tatuaggio raffigurante un teschio, l’album così abbandonato a se stesso fa capolino brevissimamente nei Top 200 di “Billboard” per subito sparire e pare che da allora – in mezzo secolo! – le sue vendite complessive negli Stati Uniti abbiano superato appena le centomila copie. Incredibilmente poco per un capolavoro che ha esercitato un’influenza formidabile su new e no wave ed è un antesignano del noise. Al confronto quasi un campione di incassi l’ancora più seminale predecessore, “The Velvet Underground And Nico”, che pure a oggi ancora deve venire certificato disco d’oro negli USA. Favorito, oltre che dall’essere una collezione di canzoni (per quanto – alcune – straordinariamente “avanti” per il tempo), dall’avere potuto beneficiare del battage pubblicitario procurato da copertina e produzione, entrambe a firma Andy Warhol. Sia come sia: quando il 13 e 14 febbraio (a New York) e poi il 29 maggio (a Hollywood) il quartetto tornava in studio per registrare cinque pezzi, quattro dei quali resteranno inediti ufficialmente fino a metà anni ’80, il morale era basso. Da lì a tre mesi ancora, Lou Reed – già responsabile dei licenziamenti di Nico e Warhol – convocherà una riunione con Sterling Morrison e Maureen Tucker per comunicare l’estromissione pure di John Cale. I Velvet più sperimentali escono di scena quel giorno, ma quelli folk-rock e lo-fi del terzo, omonimo 33 giri (marzo 1969) e power-pop di “Loaded” (settembre 1970) verranno parimenti ignorati dalle classifiche. Salvo venire riscoperti con l’arrivo di punk e new wave e da allora ci va malafede per negare che siano stati una delle band che più hanno contribuito a definire il canone del rock. Opinione che già era nel comune sentire nel 1985, quando inattesa raggiungeva i negozi “a collection of previously unreleased recordings” chiamata “VU”, suscitando l’entusiasmo dei cultori. Non “quel Grande Album Perduto” di cui si era favoleggiato, come si affrettava a precisare sul retrocopertina Bill Levenson, bensì una raccolta di incisioni – dieci – risalenti al periodo compreso fra il febbraio 1968 e il settembre dell’anno dopo, rinvenute casualmente nei magazzini della Verve. Da lì a un ulteriore anno l’assai meno entusiasmante “Another View” ne recupererà altre nove. Da allora il cofanetto quintuplo “Peel Slowly And See” e riedizioni Super Deluxe di tutti e quattro gli LP di Lou Reed e soci hanno definitivamente provveduto a sviscerare in ogni più intimo e infimo risvolto una Storia a lungo materia di trattazioni letteralmente leggendarie.

Suscitava quindi stupore la notizia, qualche mese fa, della pubblicazione di un “nuovo” Velvet – in doppio vinile! – chiamato “1969” ed è un titolo che già di per sé induce confusione, con il classico – nonostante pur’esso postumo – e anche lui doppio “1969: The VU Live”. Quando qualche settimana fa ne ho ricevuto copia ho poi impiegato un tot a capire di che si tratti e per farlo ho dovuto recuperare i due titoli di metà anni ’80 di cui sopra e carta e penna. E tutto questo perché, cosa che nel 2018 risulta imperdonabile in un’operazione di recupero di archivi, non c’è un libretto, non dieci righe per spiegare cosa sia un album che al pubblico quella trentina di euro costa. Trattasi a farla breve di recupero integrale di “VU” e “Another View” ma con le scalette mischiate, sei brani non nei missaggi originali ma in remix del 2014 e un unico cosiddetto inedito, una pletorica versione di Beginning To See The Light del 1968 e solo marginalmente diversa da quella inclusa nel terzo 33 giri. 1968? E già: se le prime tre facciate contengono quattordici registrazioni risalenti all’anno evocato nel titolo, nella quarta ne sfilano altre sei di un anno e in un caso – il non proprio indispensabile rock’n’roll strumentale Guess I’m Falling In Love – addirittura due prima. Dopodiché: messo in campana da quella mezza dozzina di “2014 mix” ho fatto una ricerca ed ecco, i primi tre lati di questo doppio riproducono il CD 4 della riedizione “Super Deluxe” di “Third”. A uso e consumo degli integralisti che aborrono il digitale, si potrebbe dire. Ti gira la testa, amico lettore? Un po’ ancora anche a me.

Non fosse che John Cale in quel fatidico anno non faceva più parte del gruppo, Lou Reed non è più fra noi e Sterling Morrison idem e da molto prima, “1969” sarebbe attaccabile pure per quanto attiene una scaletta di cui non si sa chi abbia deciso l’ordine e in base a quali criteri, se un criterio c’è stato, visto che né si segue la cronologia né si punta a creare un respiro che vistosamente manca. Ma chi avrebbe potuto provvedere non c’è più e allora ci si può accontentare di un vinile di qualità migliore e più cospicua grammatura dei lontani predecessori. Ovviamente i Velvet indispensabili sono altri, ma pochi gruppi nel Grande Romanzo del Rock hanno lasciato per strada “scarti” (nel percorso che dal terzo LP li portava al quarto attraverso un cambio di casa discografica, dalla Verve alla Atlantic) del livello di una One Of These Days fra doo wop e Beatles e una We’re Gonna Have A Real Good Time Together in cui già erano contenuti i Feelies, una Coney Island Steeplechase che da allora Jonathan Richman (senza saperlo) rifà, un’incantata Ocean, una sferragliante Foggy Notion accantonata (si suppone) solamente perché progenitrice di What Goes On e una I’m Sticking With You che invece anche perché come gemma di vaudeville sinatriano After Hours riluceva di più. Per non parlare della dolcissima Lisa Says, o delle giocose Andy’s Chest e She’s My Best Friend, che guarda caso il Lou Reed solista recupererà, l’ultima addirittura in “Coney Island Baby”, sette anni dopo. Qualità tecnica mediamente non strabiliante, a essere eufemistici, ma questi erano i Velvet Underground e c’era poco da rifinire. Prendere o lasciare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.400, luglio/agosto 2018.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, archivi

Bob Mould – Sunshine Rock (Merge)

Il tredicesimo album in studio di Bob Mould, conto a cui ne vanno aggiunti due con gli Sugar e naturalmente quei sei con gli Hüsker Dü che sarebbero bastati a garantirgli un posto nella storia maggiore del rock, è il primo da tre anni in qua. Intervallo lungo per uno con un’etica del lavoro calvinista. È anche il primo dacché l’artista trascorre la maggior parte del suo tempo a Berlino. Nonché il primo pubblicato dopo che ci ha lasciati, prematuramente ma non inaspettatamente, Grant Hart, che nel trio di Minneapolis fu il contraltare di Mould e con il quale i rapporti dopo lo scioglimento della band (ma anche nelle ultime fasi di una vicenda almeno approdata a un congedo perfetto con il doppio capolavoro “Warehouse: Songs And Stories”) erano stati a dir poco problematici. Logico chiedersi se e quanto l’essere rimasto l’unico detentore di quel lascito (non vale contare il bassista Greg Norton, che dissoltosi il gruppo si dava alla ristorazione e non è tornato a imbracciare lo strumento, e solo per hobby, che negli anni 2000) abbia influenzato la genesi di “Sunshine Rock”. Azzarderei molto, ma credo che Mould negherebbe, sdegnoso.

Fatto è che – nonostante l’incongrua presenza qui e là degli archi della Prague TV Orchestra, che quando ci sono paiono spesso posticci: a volte fastidiosi, come nella roboante Lost Faith, laddove giusto nel congedo alla Who di Western Sunset risultano funzionali – è uno dei suoi dischi più Hüsker Dü del dopo Hüsker Dü. Uno dei più “pop” e dei due il melodico era Hart, che facilissimamente avrebbe potuto firmare il rutilare da Byrds girati hardcore di Irrational Poison e una ballata folk come Camp Sunshine. Ma forse le apparenze ingannano: il pezzo più Hüskers di tutti è l’esplosiva Send Me A Postcard ed è una cover, degli Shocking Blue.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.406, febbraio 2019.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore (per Scott Walker, 9/1/1943-22/3/2019)

Non è più di questo mondo (ammesso lo fosse prima, ammesso lo sia mai stato) uno degli artisti più geniali – e forse quello dalla parabola più singolare – dell’ultimo, abbondante mezzo secolo. Lo celebro ripescando le recensioni di una sua bella quanto difettosa raccolta e di quello che, tolte due colonne sonore, è adesso in ogni senso il suo ultimo album. Una collaborazione con i Sunn O)))! Niente di meno.

Classics & Collectibles (Mercury, 2005)

È un tondo decennio che attendiamo un nuovo album, dopo quell’alieno capolavoro chiamato “Tilt”, da Noel Scott Engel, in arte Walker, e non è nemmeno ancora l’intervallo più lungo posto da costui fra un disco e l’altro giacché il suddetto “Tilt” di anni di gestazione ne ebbe undici. Mettere una bottiglia da parte per il 2006? Si potrebbe, ma senza farsi troppe illusioni. Forse aspetteremo ancora di più. Forse il nostro uomo ci sta prendendo in giro e, inoltratosi ormai da un po’ nei sessanta, è andato in pensione senza dirlo a nessuno e fingendo di continuare a lavorare a quella singola canzone o due in un anno. Meglio non farlo sapere ai sempre più numerosi iscritti a un club di ammiratori che conta Julian Cope e i Blur, i Radiohead e i Coral e ancora Pulp, Smog, Tindersticks, Lambchop. Unica come la sua musica – uneasy listening se mai ve n’è stato uno – la parabola di Walker, da idolo delle ragazzine a oggetto di un ristrettissimo culto che giusto nel quarto di secolo in cui ha prodotto la miseria di due album (ma che album!) si è gradualmente allargato, fino alla discretamente diffusa popolarità odierna. Chi ha i diritti su un catalogo nonostante tutto cospicuo – siccome il Nostro da giovane arrivò a pubblicare cinque LP in due anni, a cavallo fra ’68 e ’69, all’immediato indomani dello scioglimento di quei Walker Brothers rivali in fama dei Beatles – osserva sornione e ricicla.

È appena dell’anno scorso il quintuplo “5 Easy Pieces”, cui dedicammo un paio di estasiate pagine. “Classics & Collectibles”, doppio, da un lato giunge propizio per coloro che non azzardarono un acquisto così impegnativo, dall’altro, con le sue numerose sovrapposizioni e però il bel gruzzolo di cose mai riversate in digitale che le accompagna, farà infuriare chi invece aveva già posto mano al portafoglio. Tant’è e paiono oltretutto lunari i criteri di scelta di una scaletta che si scapicolla su e giù nel tempo, essendo i “collectibles” sul serio tali ma mancando diversi “classics” all’appello (ma stavolta The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore, il superhit dei Fratelli, c’è). Dove è inattaccabile è sul piano della qualità, sebbene sia un ritratto incompleto – era un Burt Bacharach che cantava Brel facendosi produrre da Phil Spector, è diventato uno Schubert travestito da Van Morrison, un’impossibile mutazione di Robert Johnson in Wagner via Brian Eno e questo manca – quello che offre. Ma se ancora non conoscete Scott Walker preparatevi a farvi stregare lo stesso da questi profluvi d’archi e dal melò che avanza irrestistible al proscenio fra squilli di tromba. E poi andatevi a comprare “Tilt”.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.616, novembre 2005.

Scott Walker & Sunn O))) – Soused (4AD, 2014)

Pazzesca la parabola di Scott Walker, come nessun’altra nella musica sia colta che popolare del Novecento: da idolo per teenager poco dopo il giro di boa dei ’60, alla testa di quei Walker Brothers indecisi fra l’essenzialità del beat e i fronzoli di Tin Pan Alley, a cantante confidenziale in un finale di decennio in cui si trasformava in una sorta di Burt Bacharach che cantava Brel facendosi produrre da Phil Spector, con successo dapprincipio ancora enorme ma via via decrescente. E poi una terza vita dedicata a scolpire, con intervalli lunghissimi a separarli l’uno dall’altro, inclassificabili e avanguardistici capolavori capaci di unire idealmente Robert Johnson a Brian Eno via Wagner muovendosi fra Nick Cave e Bartók, Schubert e Van Morrison e no, se non li avete mai ascoltati non potete proprio immaginarveli. Ho citato Eno ed eccolo l’ideale punto di contatto fra costui e il duo formato nei secondi ’90 dai chitarristi Stephen O’Malley e Greg Anderson: pur’essi unici, campioni del doom metal più doom di sempre e da un certo punto in poi autocatalogatisi alla voce – un ossimoro – “power ambient”. Fermo restando che mai Eno ha declinato musica della annichilente intensità dei Sunn O))).

Insomma: sulla carta la collaborazione fra Walker, O’Malley e Anderson prometteva di essere l’album di uneasy listening più uneasy a memoria d’uomo e alla resa dei conti non è così, per quanto non si tratti certo di una ricetta per tutti.  Nondimeno i cinque lunghi brani che vi sfilano in cinquanta minuti netti più che terrorizzanti sono (a volumi medio-bassi) incantatori, con quell’inconfondibile baritono a stagliarsi su tappeti di bordoni occasionalmente sfrangiati da stridori industrial che ne spezzano l’effetto mantrico. Si potrebbe persino dirla new age, per quanto ossianica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.357, novembre 2014.

1 Commento

Archiviato in archivi, coccodrilli

Memorabilia (5)

Qualche altra buona ragione per ricordare con affetto (la nostalgia, che è sempre canaglia, lasciamola stare) gli anni ’80. Di cui già al tempo si diceva un gran male e invece…

4 commenti

Archiviato in casi miei

Pavlov’s Dog – Prodigal Dreamer (Rockville)

Ma davvero? Ma sul serio a quarantatré anni dalla pubblicazione di quel “Pampered Menial” che guadagnò all’allora settetto di St. Louis la nomea di “King Crimson d’America” (in realtà, se qualche somiglianza c’era i Pavlov’s Dog erano e restano band di peculiarità assoluta) David Surkamp ancora tiene in vita la prodigiosa creatura? Al di là dell’occasionale tour con l’ennesima formazione che dei fondatori schiera giusto lui, anche perché purtroppo Siegfrid Carver (violino e viola), Doug Rayburn (mellotron e flauto) e Rick Stockton (basso) già da un po’ non sono più fra noi. Ebbene sì, Surkamp invece per fortuna vive e ben più che vegeta a giudicare da un disco che ha l’ardire di richiamarsi a quel remoto e misconosciuto capolavoro sin da una copertina per cui è stata scelta un’altra opera del medesimo pittore ottocentesco, il britannico Sir Edwin Henry Landseer, celebre per le sue rappresentazioni di animali straordinariamente dettagliate e vivide.

Per il poco che vissero – un lustro: abbastanza da incidere tre LP, il primo uscito quasi in contemporanea per due case discografiche e il terzo invece cassato (non vedrà la luce legalmente che nel 2007) – i Pavlov’s Dog ebbero vicende incredibilmente complesse e non è questo il luogo per narrarle. Ciò che qui preme sottolineare è che in “Prodigal Dreamer” rivive quel suono tanto caratteristico, progressive nel senso alto del termine, reso unico dalla voce androgina del leader e da un substrato di influenze eminentemente d’oltre Atlantico. Ma resterebbe una ricreazione sterile non fosse convalidata da una scrittura ispiratissima, con vette nell’iniziale, delicata Paris, nel country girato gitano Winter Blue, nella ballata sudista Easter Day, nel folk-rock Being In Love, nella quasi canterburiana The Winds Wild Early.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.405, gennaio 2019.

8 commenti

Archiviato in archivi, recensioni

Audio Review n.407

È in edicola dalla fine della scorsa settimana il numero 407 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album in studio di Beirut, Robert Forster, Steve Gunn, Juliana Hatfield, Jarboe, Lambchop, John Mayall, Motorpsycho, Gemma Ray, Specials, Yann Tiersen, Twilight Sad, Nick Waterhouse e Xiu Xiu, di un cofanetto dei Flamin’ Groovoes e di una ristampa dei Green River. Nella rubrica del vinile ho detto la mia sull’ultimo LP “live in studio” degli LCD Soundsystem e e su riedizioni di Beastie Boys e Imamu Amiri Baraka.

Lascia un commento

Archiviato in riviste

Un grande affresco collettivo di Americana – Il Ry Cooder di “Paradise And Lunch”

Probabile che non se ne accorga nessuno, ma proprio nei giorni in cui questo numero di “Audio Review” raggiungerà le edicole uno dei più importanti agitatori culturali dell’ultimo mezzo secolo americano compirà settant’anni. Agitatore culturale e dunque politico, sì, in primo luogo. Poi musicologo. E solo in terza istanza straordinario chitarrista, ottavo (per quanto possano valere certe classifiche) nella lista dei cento campioni dello strumento che stilava nel 2003 “Rolling Stone”. Qualche lettore potrà legittimamente dissentire, rovesciando le posizioni in questo mio personale podio, e mi sia allora permesso di argomentare. Ricordando per cominciare che nel 1972 Ry Cooder, perché è di lui che stiamo parlando, sceglieva per aprire “Into The Purple Valley”, suo secondo LP da solista dopo un omonimo esordio in cui aveva riletto fra il resto Woody Guthrie e un classico dell’era della Grande Depressione quale How Can A Poor Man Stand Such Times And Live? di Alfred Reed, un brano di Agnes “Sis” Cunningham. A dire il vero, Cooder ignorava che la fondatrice dei Red Dust Players e di quella bibbia del folk di oltre Atlantico che fu “Broadside” fosse l’autrice di How Can You Keep Moving (Unless You Migrate To) e lo indicava come “traditional” (l’errore, presente nella prima edizione, verrà corretto nelle successive ristampe), ma non ha importanza. Conta il concetto alla base di una canzone che risolveva come stridula marcetta: in genere non si emigra per scelta bensì per necessità e la politica non può fermare ciò che l’economia ha innescato. Qualcuno lo spieghi al muratore Donald Trump. A proposito: rileggo quanto scrissi su queste pagine recensendo nel 2012 il disco che è a oggi l’ultimo di Cooder, “Election Special”, e mi scappa da ridere agro quando mi scopro a definire Mitt Romney il peggiore candidato alla presidenza mai espresso dal partito repubblicano.

Ryland Peter Cooder nasce a Los Angeles il 15 marzo 1947, da padre statunitense e madre italiana, e le origini conteranno senz’altro qualcosa in una concezione del mondo con al centro la fecondità del meticciato. Che è l’unico filo conduttore che lega una vicenda artistica che, dopo averlo visto federatore di una musica dalle mille radici quale è quella popolare americana, lo vedrà collaborare con Vishwa Mohan Bhatt come con Ali Farka Touré, con i Chieftains come con Manuel Galbán, e nel mezzo regista dell’operazione Buena Vista Social Club. E di sicuro molto contava pure l’incontro, giovanissimo, con uno spirito affine, praticamente un suo gemello di colore, Taj Mahal, con cui condivideva l’avventura precoce e acerba ma intrigante dei Rising Sons, quintetto fra folk-rock e country-blues elettrico che registrava nel 1966 un 33 giri che la Columbia pagava solo per inverecondamente tenerlo in un cassetto fino al ’92. Talento precocissimo, avendo messo le mani per la prima volta su una chitarra treenne, Ry arriva al debutto in proprio datato 1970 con un curriculum pazzesco per uno che ha ventitré anni: è stato il fulcro della prima Magic Band di Captain Beefheart (sua l’elettrica in “Safe As Milk”), ha prestato la sua abilità di strumentista al Randy Newman di “12 Songs” e a Judy Collins in un tour che ha fruttato un live, ha collaborato con Van Dyke Parks come con i Little Feat e, quel che più conta, a lungo è stato una sorta di sesto (o meglio settimo, contando Ian Stewart) uomo nei Rolling Stones: Love In Vain (su “Let It Bleed”) e Sister Morphine (su “Sticky Fingers”) i contributi più importanti. In “Ry Cooder” e in “Into The Purple Valley” il nostro eroe comincia a elaborare un manifesto del folk in senso lato d’America tanto più “suo” perché in luogo di scrivere (fintanto che non si darà alle colonne sonore – formidabile carriera “a latere” che a momenti mi stavo dimenticando – sarà quasi sempre interprete, rarissimamente autore) sceglie e peculiarmente si appropria, pescando in un catalogo sterminato. Sono lavori già intriganti, ma il colpo da maestro – il capolavoro, a detta di una critica praticamente unanime al riguardo – lo piazza dopo averlo lungamente preparato, nel 1974, con “Paradise And Lunch”. Lì folk, blues, soul e gospel, e un pizzico di jazz, si mischiano inestricabilmente in un assieme ineffabilmente coeso. Nessuno come Cooder ha saputo sistemare tanto armoniosamente nello stesso album, chiarendo come siano parte della medesima tradizione, cose così diverse: il funky-gospel di Married Man’s A Fool, un Blind Willie McTell riletto come fosse The Band, e una processione antifonale da Esercito della Salvezza quale Jesus On The Mainline; il Bobby Womack già rifatto dagli Stones e ora girato in calypso di It’s All Over Now e lo schietto blues elettrico If Walks Could Talk; una Tattler di gusto caraibico e infiltrata di archi e il Burt Bacharach trasferito sul serio sul Border di Mexican Divorce; per suggellare il tutto, avendo aperto con la collisione fra spiritual e dixie prossima a tante cose Hot Tuna di Tamp ’Em Up Solid, con lo strepitoso duetto fra la sua acustica e il piano ragtime di un gigante del jazz quale Earl Hines di Ditty Wah Ditty.

Ecco: la forza di “Paradise And Lunch” sta anche nel suo essere affresco in una certa misura collettivo. Nell’interazione fra il titolare e una ritmica quanto mai fantasiosa (con il batterista Jim Keltner la collaborazione sarà assai proficua, giungendo fino ai giorni nostri) come nell’esplosività delle ricche parti corali, negli interventi misurati di archi e ottoni e in quelle tastiere che ora dialogano e ora legano. Produzione magistrale perché per niente intrusiva di Russ Titelman e Lenny Waronker, “Paradise And Lunch” è fresco di riedizione su Speakers Corner ed è una stampa favolosa, che supera in scioltezza la pur ottima edizione tedesca anni ’80 (su quella USA d’epoca avrei un tot da ridire) che già avevo in casa. “Spumeggiante” è l’aggettivo che meglio si attaglia a un’incisione con voci che scappano da tutte le parti, corde che danzano, una ritmica agile e squadrata nel contempo, più sul versante dello swing che su quello del groove. Se questo mese vi avanzano 32 euro, non saprei consigliarvi un modo migliore di spenderli.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017. Ry Cooder spegne oggi settantadue candeline.

1 Commento

Archiviato in anniversari, archivi

Jeff Tweedy – Warm (dBpm)

Il debutto da solista di Jeff Tweedy è il quarto album da solista di Jeff Tweedy. Mi spiego. C’era stato nel 2002 “Chelsea Walls”, ma trattasi di colonna sonora. E nel 2014 “Sukierae”, uscito però a nome Tweedy e lì Jeff, che pure firma da solo l’intera scaletta, si faceva accompagnare alla batteria dal primogenito Spencer. E poi nel 2017 “Together At Last”, dove il nostro uomo rivisita “unplugged & alone” brani suoi ma dai repertori di Wilco, Golden Smog e Loose Fur. E allora sì, “Warm”, che pubblica a cinquantun anni, può anche essere considerato un esordio e come tale in maggioranza lo trattano le recensioni che già a decine (e scrivo quando non è fuori che da una decina di giorni) lo stanno acclamando, le più sobrie, come un disco degno degli apici di una vicenda artistica trentennale, e le altre come un capolavoro tout court. Dopo svariati ascolti, e non che non mi sia piaciuto, resto perplesso e con il sospetto che tanto entusiasmo si debba principalmente a due fattori: la reverenza per la storia di chi ha in curriculum due band enormi come Uncle Tupelo (forse i vessiliferi massimi del cosiddetto alt-country) e Wilco (che dal country partivano ma un esperimento via l’altro sono arrivati a lambire il post-rock); l’attenzione ai testi, che inevitabilmente chi non è di madre lingua tende a sottovalutare.

A me pare un album gradevole ma un po’ troppo classicamente cantautorale per uno che ha saputo osare ben di più: dalla ballatona Bombs Above che lo inaugura alla strascicata e sommessa How Will I Find You? che lo suggella, passando per il sonnolento blues How Hard It Is For A Desert To Die, una quietamente festosa Let’s Go Rain, il country-rock I Know What It’s Like. L’impressione – mia – è che partendo da questi stessi materiali gli Wilco avrebbero potuto cavare di più.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.405, gennaio 2019.

6 commenti

Archiviato in archivi, recensioni

Memorabilia (4)

Io ne ho visto cose che voi umani che negli anni ’80 non c’eravate non potreste immaginarvi.  OK, avete YouTube. Ma non è proprio come esserci stati, eh?

.

22 commenti

Archiviato in casi miei

The 1975 – A Brief Inquiry Into Online Relationships (Dirty Hit)

E tre. Nell’attesa che “Billboard” certifichi se “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è riuscito a bissare anche negli USA il successo di “I Like It When You Sleep, For You Are So Beautiful Yet So Unaware Of It” (se una cosa non si può contestare al quartetto di Manchester è la grandiosità di taluni suoi titoli), arrivando cioè al numero 1, pronti e via in Gran Bretagna l’album guarda già tutti dall’alto in basso. Impresa che, oltre che all’immediato predecessore datato 2016, era riuscita pure al debutto del 2013 (semplicemente omonimo) del gruppo formato formalmente ben undici anni prima dal cantante e chitarrista ritmico Matt Healy, dal chitarrista solista Adam Hann, dal bassista Ross MacDonald e dal batterista George Daniel (tutti si sdoppiano a tastiere e sintetizzatori). Il che fa dei 1975 di gran lunga il gruppo “rock” under 30 di maggior visibilità di questi anni ’10 se non si contano robe imbarazzanti tipo gli Imagine Dragons o i Greta Van Fleet. Con una differenza rispetto a quegli altri là: che i 1975 la critica anglo-americana li adora. Per ragioni che proprio mi sfuggono.

Radici lontane in un punk di impronta emo, i ragazzi hanno via via forgiato un sound sempre più variegato, proteiforme fino all’inafferrabilità ma non lo dico in senso buono. Cosa tiene insieme un numero alla New Order come Give Yourself A Try e uno alla Radiohead circa “Kid A” quale The Man Who Married A Robot/Love Theme, la disco con auto-tune di Too Time Too Time Too Time e una ballata jazz notturna come Mine, la collisione Burial/Chemical Brothers How To Draw/Petrichor e una boiata schiettamente AOR come Love It If We Made It? Niente. In piccole dosi (scegliendo bene) “A Brief Inquiry…” può essere OK, nel complesso non si regge. In tutti i sensi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.405, gennaio 2019.

3 commenti

Archiviato in archivi, recensioni