Archivi del mese: agosto 2023

La seduzione schiva degli Stars Of The Lid (R.I.P Brian McBride, 1970-27/8/2023)

“Taking Drugs To Make Music To Take Drugs To”: così gli Spacemen 3 avevano vagheggiato, nel 1986, di battezzare il loro primo album. Ci ripensarono, optando per un meno compromettente “Sound Of Confusion”, e quel titolo così rivelatore sarà recuperato solo otto anni dopo, per una raccolta di demo. Ora, nulla so riguardo ad attitudini ed eventualmente abitudini narcotiche di Brian McBride e Adam Wiltzie, la coppia di chitarristi di Austin (il primo vive però ora a Chicago, il secondo a Bruxelles: l’ideale per provare insieme) che dal 1995 dà vita agli Stars Of The Lid, ma poca musica ha sentito quest’anno drogata come le due ore dispensate da questo mastodonte. Sesto album per i due e certamente il più ambizioso, “The Tired Sounds Of”, con le sue sei suite distese su sei facciate viniliche nell’edizione analogica e su due CD in quella in digitale. Anche il più riuscito? Non conosco nella sua interezza la discografia precedente e non posso dunque dirlo recisamente. Azzarderei però di sì, aggiungendo a ruota che la seduzione che lo caratterizza più che discreta è addirittura ritrosa. Non cercate di catturarla subito: l’ascolto attento in un’unica seduta potrebbe respingervi, annoiarvi, persino irritarvi, soprattutto se non avete intenzione di affrontarlo nelle condizioni prescritte dal titolo citato all’inizio. Lasciatelo piuttosto andare in sottofondo per due, tre, quattro volte.

Finirete per essere avviluppati e infine stregati da spartiti raminghi fra ambient e psichedelia, minimalismo, raga e un neoclassicismo rachelsiano, ove chitarre trattate e archi, fiati, pianoforte e suoni trovati finiscono per creare un indistinguibile tutt’uno. “The Tired Sounds Of” induce stati di coscienza alterati ma non è illegale. Non ancora.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.463, 20 novembre 2001.

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Audio Review n.455

Ancora pochi giorni a disposizione degli interessati per procurarsi “Audio Review” di agosto, numero alquanto particolare non solo perché usualmente non esiste un “Audio Review” di agosto ma anche perché ingloba (esperimento che a me sembra assolutamente riuscito ma che per ora è, per l’appunto, un esperimento) la sorellina “Audio Gallery”. Nulla di diverso dal solito invece nella sezione recensioni, alla quale ho contribuito occupandomi dei nuovi album di Beach Fossils, Califone, Dave Matthews Band, Baxter Dury, Gaslamp Killer & Heliocentrics, Ben Harper, Immaterial Possession, Kassa Overall, Arlo Parks, Protomartyr, Swans, Rufus Wainwright e Westerman e di due ristampe di Daft Punk e Lemonheads. Rubrica del vinile dedicata ai Colosseum.

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Ivan Neville – Touch My Soul (The Funk Garage)

Chissà se conserva copia e memoria degli oltre trecento album altrui in cui ha suonato Ivan Neville, tastierista prediletto di Bonnie Raitt come di  Chaka Khan e Keith Richards, in tour con i Rolling Stones un paio di volte e Dave Matthews qualcuna di più, dal 2003 leader dei Dumpstaphunk, sigla semisconosciuta in Europa e viceversa popolarissima negli USA, micidiale jam band (nel catalogo sono molti di più i live che i lavori in studio) pencolante verso quello che nei primi ’90 si sarebbe definito crossover piuttosto che verso l’Americana o la psichedelia. Guarda un po’: era dal 2002 che il nostro uomo – figlio e nipote d’arte e quale padre, quali zii! Aaron, Art, Charles e Cyril – non metteva mano a un disco in proprio se si tiene conto che l’ottimo “Scrape” nel 2004 riprendeva ampliandolo appena il programma dello sfortunato “Saturday Morning Music”, uscito appunto due anni prima ma subito sparito dalla circolazione causa fallimento dell’etichetta che lo aveva pubblicato.

Erede designato di una dinastia senza pari in una città musicalmente senza pari quale New Orleans, il non più tanto giovane (ad agosto saranno sessantaquattro) di casa Neville ha confezionato il migliore dei suoi non molti album. Il più variegato anche, visto che fra le diversamente pianistiche (la prima massiccia e tirata, l’ultima romantica e solo strumentale) Hey All Together e Beautiful Tears sistema fra il resto una Greatest Place On Earth mediana fra James Brown e la Dirty Dozen Brass Band, l’electrofunk alla Prince Dance Music Love, una Stand For Something sfacciatamente Stevie Wonder, una Blessed iniettata di gospel. Ciliegina sulla torta una resa irresistibilmente festosa di This Must Be The Place, che fu dei Talking Heads.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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London’s Burning – La prima volta dei Clash

Un prodotto ─ il più pregiato ─ della loro era. Per qualche anno la più grande rock’n’roll band sulla piazza. Motivo bastante a celebrarne il venticinquennale che cade giusto nei giorni in cui vado scrivendo queste righe? Senza dubbio. Ma non l’unico e nemmeno il più importante. Perché c’è un’altra angolazione da cui osservare il “caso Clash” e financo più interessante: una compagine all’avanguardia. Spogliando per un attimo il termine dalle connotazioni dategli da Simon Reynolds e poi comunemente accettate, si può affermare che i Clash siano divenuti, strada facendo, il primo gruppo post-rock: il primo, cioè, a negare la centralità del rock (un’idea figlia della presunzione eurocentrica) e a considerarlo non la musica popolare della seconda metà del Novecento ma una delle tante musiche popolari. Prima di loro il rock era una faccenda a compartimenti stagni ove i vari sottogeneri raramente interagivano e i fruitori si dividevano in tribù. Dopo, non solo ogni commistione interna al genere sarà lecita ma diverrà pratica diffusa cercare contatto con tutte le musiche nere possibili ─ non soltanto il blues, il soul o il rhythm’n’blues, già metabolizzati, ma anche funky e disco, reggae e rap (mentre troppi critici lo liquidavano come una moda, i Clash si immergevano nella cultura che lo aveva generato) ─ e la galassia latina. Se non giunsero a confrontarsi con l’Asia e l’elettronica sarà perché la loro parabola era arrivata a compimento. L’attitudine al crossover, oggi a tal punto diffusa da passare inosservata, avanti “Sandinista!” era inconcepibile. In ciò risiede la loro rilevanza odierna, nell’invenzione della patchanka dispersa per il globo, mica nelle miriadi di cloni di questo o quello dei loro periodi e in particolare del primo. Non nego, ad esempio, di avere apprezzato (direi addirittura amato) dischi come “…And Out Come The Wolves” e “Life Won’t Wait” dei Rancid. Se però li esamino razionalmente, esorcizzando quella bestia grama che è la nostalgia, so che, contrariamente al modello di cui tradiscono lo spirito nell’istante preciso in cui ne perpetuano la lettera, non lasceranno traccia.

Ma sono questi ragionamenti perfettamente accessibili a chi, magari non ancora nato all’epoca in cui White Riot raggiunse i negozi, sia informato quanto basta sulla musica trattata su queste pagine. Può capire e apprezzare. Ciò che non potrà mai afferrare completamente (scusatemi se mi ripeto) è l’eccitazione, selvaggia e poeticissima, di cui i Clash colorarono i loro anni. Era energia brada senza che il testosterone c’entrasse granché. Era noi contro tutti (da cui le divise da guerriglieri di cui i Public Enemy si approprieranno). Era avere stile. Era essere realisti e quindi chiedere l’impossibile. Era vivere la vita come fosse un film. Lo scrissi in altra occasione su altre colonne e voglio qui ribadirlo: se mai c’è stato un rock “di sinistra” ─ una Sinistra, più che ideologica, romantica ─ i Clash ne sono stati i cantori più credibili.

Basta! Ho sproloquiato a sufficienza. Tempo di passare ai fatti. 13 agosto 1976, questa la data che segnò l’esordio ufficiale dello Scontro. Avvenne di fronte a una scelta platea di giornalisti, il che dovrebbe dirla lunga sulla capacità di manipolare i media del manager Bernie Rhodes, già complice di Malcolm McLaren e se possibile anche più egocentrico del burattinaio dei Sex Pistols: comunque fondamentale per la fulminea ascesa dei Clash, come lo sarà per la rovinosa caduta. Dei cinque che si presentano alla ribalta del londinese Rehearsals, non un club ma la sala prove del gruppo stesso (c’era stato in realtà in precedenza un concerto di riscaldamento, a Sheffield, di spalla proprio ai Pistols), il ventiquattrenne Joe Strummer (nato Mellor) è l’unico che possa vantare un vinile nel suo curriculum. Oh, non una cosa da far crollare le mura di Gerico. Giusto un 45 giri su Chiswick iscrivibile in area pub-rock e vendutosi in qualche centinaio di copie. 101ers il nome del gruppo, miscela di Chuck Berry e garage ’60 senza altra pretesa che quella di divertire gli avventori del Charlie Pig Dog Club (non proprio il massimo della raffinatezza il posticino, avrete inteso dalla ragione sociale). Costui è stato l’ultimo ad aggregarsi alla compagnia. Gli altri, dai tre ai quattro anni più giovani, sono i chitarristi Mick Jones e Keith Levine, il bassista Paul Simonon e il batterista Pablo La Britain, quasi subito rilevato da Terry Chimes. Si chiamavano Heartdrops un attimo prima che arrivasse Strummer e London SS due: sigla provocatoria che fa capire che l’incendio del punk sta per divampare, palestra ammantata di leggenda per cui erano già passati, fra gli altri, Chrissie Hynde, un paio di futuri Damned, un Generation X e gente che si ritroverà nei Chelsea e nei Boys.

Del quartetto che indovina in Strummer, avendolo visionato in azione su un palco, carisma quanto basta a offrirgli il posto di cantante e punto focale, il ventunenne Jones è di gran lunga il più motivato e quello che intrattiene rapporti più proficui con il suo strumento. Due anni dopo, gli brucia ancora il licenziamento, istigato da Guy Stevens (proprio il vecchio marpione che si troverà a produrre “London Calling”), dai Delinquents, dilettantesco combo glam ispirato dalle gesta di MC5, Stooges, Mott The Hoople, New York Dolls. Non andrete da nessuna parte con quell’incapace, ha vaticinato Stevens. Non andranno da nessuna parte comunque. Mick sì. Devastato ma voglioso di riscatto, si è comprato una Les Paul Junior (stesso modello dell’idolo Johnny Thunders) e da allora ci si esercita ostinatamente, costruendosi un bagaglio crescente di trucchi. All’opposto il non ancora ventenne Simonon, studente d’arte tanto valido con i pennelli quanto inetto con una sei corde. Ci ha provato in tutti i modi Jones a insegnargliene i rudimenti e alla fine si è dovuto arrendere. Gli ha allora consegnato un basso, più facile da maneggiare, e gli ha dipinto sul manico le posizioni dove poggiare le dita. Diventerà un bassista di vaglia, Paul Simonon, e Mick Jones avrà modo di congratularsi con se stesso per avere avuto la testardaggine di insistere su quel giovanotto che non sapeva suonare, no: ma con quale eleganza portava a tracolla lo strumento!  Sublimemente appropriato che sulla copertina di “London Calling” ci sia lui.

Tratto da “Last Gang In Town – Il venticinquennale dei Clash”. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.3, autunno 2001. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il 13 agosto 1976 i Clash suonavano ufficialmente dal vivo per la prima volta (era in realtà la seconda), davanti a un selezionato pubblico di addetti ai lavori.

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Everything But The Girl – Fuse (Buzzin’ Fly)

Gli Everything But The Girl tornano insieme a ventiquattro anni dal decimo lavoro in studio e ventitré da un ultimo concerto destinato a quanto sembra a restar tale (però avevano anche detto che dischi in duo non ne avrebbero più fatti) senza essersi in realtà mai separati. Giacché da quattro decenni Tracey Thorn e Ben Watt sono coppia nella vita oltre e prima che sodalizio musicale. All’altezza dell’uscita di “Temperamental” erano da poco diventati mamma e papà di due gemelle, un altro pargolo si è aggiunto poco dopo e nel lunghissimo iato che ha separato quell’album da “Fuse” figlie e figlio hanno fatto in tempo a diventare adulti e lasciare casa mentre i genitori pubblicavano quattro dischi da solisti lei e tre lui, si affermavano come scrittori (lei soprattutto) e insomma gli Everything But The Girl in questo quasi quarto di secolo devono essere mancati più al resto del mondo che a loro. E forse nulla sarebbe cambiato non si fosse messo di mezzo il Covid, rinchiudendo i due fra le mura domestiche in un isolamento particolarmente rigoroso per via di una sindrome autoimmune di cui soffre Ben.

Come non fosse passato un giorno da quando decisero che non avevano bisogno di essere famosi (capace che abbiano accolto con fastidio che “Fuse” abbia esordito al numero 3 della classifica UK: il loro piazzamento migliore!). Proprio come il lontano predecessore media fra il sofisticato folk-pop-jazz degli esordi e la successiva svolta elettronica. Da subito, da una Nothing Left To Lose in odore di dubstep cui va dietro la pianistica Run A Red Light. Più avanti e fra il resto, Time And Time Again ha vaghi tratti trap laddove Interior Space è ninnananna ambient. La precede Forever, ballabilissima, balearica, una possibile hit.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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C’erano o ci facevano? I primi Beastie Boys

Ci sono due scuole di pensiero sui primi Beastie Boys (cioè: non i primi-primi; capirete fra poco): taluni sostengono che “c’erano”, altri che “ci facevano”. Insomma: come spiegare la distanza abissale che separa il gruppo del 1986, uno dei più politicamente scorretti che si ricordino, da quello degli anni ’90, che offre rispetto alle donne, si interessa al buddismo e organizza concerti per la libertà del Tibet? Vero che dalle nostre parti abbiamo assistito a metamorfosi cherubine anche più sorprendenti, però… Giunge ancora in soccorso il libretto di “The Sounds Of Science”, in cui Adam definisce Fight For Your Right To Party, una superhit nell’87 e a tutt’oggi la canzone con la quale i tre vengono maggiormente identificati, “uno scherzo andato troppo oltre”. A sentire lui fu determinante il video (molto Animal House, n.d.a.), in cui i Nostri si comportavano da studentelli casinisti, sboccati, francamente stupidi. Appena uscì, partì il loro primo tour in proprio (avevano in precedenza fatto da spalla a Madonna e ai compagni d’etichetta Run-D.M.C.) e pensarono che sarebbe stato divertente riprendere sul palco quei personaggi. Salvo accorgersi in breve che il pubblico strabocchevole che affollava i concerti sembrava essere composto prevalentemente da individui di tal fatta. Salvo farsi prendere la mano dalla situazione. Morale della storia (una delle possibili): “State attenti a chi prendete in giro, potreste diventare come lui”. Ma non dovrebbe giustificarsi, il Boy. Fu uno spasso, per chi c’era, imbattersi dieci anni dopo in un gruppo capace di scandalizzare i media come da lezione Sex Pistols. Ma mi accorgo di stare correndo. Sarà il caso di fare qualche passo indietro.

Adam Yauch (che sarà presto noto come MCA, acronimo che sta per Master Of Ceremonies Adam) e Michael Diamond (che si ribattezzerà Mike D) si conoscono il 5 agosto 1980, alla festa per il sedicesimo compleanno del primo. Evidentemente si piacciono se da lì a un anno, appresi il primo i rudimenti del basso, il secondo quelli della batteria, cominciano a suonare insieme. I Beastie Boys nascono poco dopo, da un rimpasto nella formazione dei punkettari Young Aborigines, dei quali Mike fa già parte, così come John Berry e Kate Schellenbach, futura Luscious Jackson, che completano il primo organico del gruppo.

All’ombra della Grande Mela sta sbocciando l’hardcore. Suonano in tale stile i primissimi Beastie Boys, grezzi, per non dire totalmente inetti. Ne è testimonianza l’EP Polly Wog Stew, che vede la luce nel 1982 per la minuscola Rat Cage e prima di essere riedito, nel ’94, sull’antologico “Some Old Bullshit” passava di mano a cifre favolose. Non le vale. A dirla tutta non vale nemmeno il prezzo, assai più modesto, richiesto per acquisirne la ristampa. E bene fa “The Sounds Of Science” a sorvolare quasi su quei Beastie Boys.

Ma all’ombra della Grande Mela sta sbocciando anche l’hip hop. Berry e la Schellenbach lasciano. Li rimpiazza, proveniente da un’altra band hardcore, gli Young & The Useless, Adam “King Ad-Rock” Horovitz, figlio del noto commediografo e sceneggiatore Israel. Vengono snocciolati i primi rap. Al CBGB’s e al Danceteria, dove i tre sono di casa, cominciano a unirsi loro dei DJ: prima Rick Rubin, che non è ancora il produttore più pagato d’America; quindi Doctor Dre, che diventerà famoso anni dopo come presentatore del programma televisivo “Yo! MTV Raps”. In nuce nel singolo Cookie Puss/Beastie Revolution (ancora su Rat Cage), il cambio di pelle si completa nel 1984. Sebbene privi di un contratto discografico, in luglio i Beastie Boys supportano Madonna in un tour americano. In ottobre firmano per la Def Jam di Rick Rubin e Russell Simmons. In novembre sono fra i protagonisti, con LL Cool J, Kurtis Blow, i Fat Boys e altre giovani promesse del rap, del film Krush Groove. Si parla parecchio di loro.  Bisogna però aspettare il 1986 perché escano i primi 45 giri del nuovo corso, quattro, senza che i critici si commuovano né le classifiche si smuovano. Quando “Licensed To Ill” viene pubblicato è ormai novembre e nulla fa prevedere che in un anno collezionerà quattro dischi di platino (ciascuno certifica un milione di copie vendute) nei soli Stati Uniti. Ma, come accadrà un lustro più tardi con un altro album, chiamato “Nevermind”, per chi ha orecchie per intendere già dal primo brano è chiaro che ci si trova in presenza di un lavoro epocale. C’è molto teen spirit (sebbene non della tormentata qualità di quello di Cobain; esattamente opposto anzi) in Rhymin & Stealin’. Un titolo programmatico: le tre bestioline rimano su basi campionate e dunque rubate. Un colpo di genio: mettere insieme il ritmo e le tecniche dell’hip hop, dal sampling allo scratching, con i riffoni chitarristici del rock più greve.

Lo hanno già fatto, pochi mesi prima, i Run-D.M.C. Convocando gli Aerosmith per una rilettura della loro Walk This Way hanno abbattuto le barriere fra rap e hard e unificato due tipologie di ascoltatori, molto giovani, che si sarebbero dette inconciliabili. I Beastie Boys possono contare in più – è antipatico dirlo ma sarebbe ipocrita tacerlo – sul fatto di essere bianchi. All’industria non pare vero di avere finalmente fra le mani dei visi pallidi pratici di hip hop. Sogna di sdoganare il (non più tanto) nuovo genere, dopo averlo reso innocuo, presso il pubblico del rock, secondo strategie già sperimentate con il rock’n’roll dei primordi. Solo che – il solito bacino di Elvis che si mette di mezzo – non tutto va secondo i piani.

Tratto da “Beastie Boys – Rhymin & Stealin’ With Style”. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.375, 30 novembre 1999. Ristampato in Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Non ci avesse lasciati il 4 maggio 2012, Adam Yauch compirebbe oggi cinquantanove anni.

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Robert Cray – Un sottovalutato di successo

Il tempo sbiadisce e rende incerti i ricordi, traslochi e muffa (mai fidarsi di una cantina che ti sembra a prova di umidità) sfoltiscono inesorabilmente gli archivi delle riviste accumulate a caro, carissimo prezzo soprattutto nei decenni pre-Internet e allora può accaderti di scoprire, stupito, che un album che rammentavi accolto tiepidamente ebbe in realtà ottima stampa, oltre a vendere milionate di copie. O perlomeno così andò all’estero, negli Stati Uniti in particolare, il che rese meritatamente Robert Cray profeta in patria. Ora: della mia memoria ho imparato a fidarmi il giusto, cioè poco, e però sono ragionevolmente certo che fra noi appassionati non è che all’epoca dell’uscita, che era il 1986 (17 novembre per essere precisi: grazie, Internet), “Strong Persuader” trovò molti cultori. Neanche detrattori veri, eh? Giacché prendere in antipatia uno come Cray, che suona da dio, con ogni evidenza si diverte, con ogni evidenza mette l’anima in quello che fa non era cosa neppure per il più talebano dei rocker, per il più purista fra i puristi delle dodici battute. Però partì la gara a sminuirlo, quel disco, la cui unica colpa era avere avuto un successo pazzesco per una collezione di blues ed essere finito in un sacco di case di appassionati un po’ meno appassionati (seri; oppure seriosi?) di noi. Roba commercialotta, ecco. Vuoi mettere il “vero” blues? E tutti a sottolineare come il 33 giri, “Showdown!”, che l’anno prima il nostro uomo aveva spartito con gli assai più navigati mentori Albert Collins e Johnny Copeland (rispettivamente ventuno e sedici anni più anziani di lui, che è un classe 1953), fosse una faccenda molto più genuina. Ruspante. Tutti a dire, o perlomeno quei pochi che li avevano ascoltati o millantavano di averlo fatto, che i tre LP precedenti di costui ─ “Who’s Been Talkin’”, “Bad Influence” e “False Accusations”, usciti fra l’80 e l’85, il debutto su Tomato e i successori su HighTone ─ erano di un’altra pasta. Insomma: passato alla Mercury l’artista era addivenuto a compromessi per ingraziarsi il grande pubblico. Si era un po’ “venduto”, peccato capitale allora. Io? Comprai “Showdown!” e ne godetti assai, mentre non ritenni degno di acquisto, dopo un ascolto in cuffia integrale in uno di quei negozi che lo consentivano, “Strong Persuader”. Caruccio, dai, ma niente di che. Mi entrerà in casa non so esattamente quanti anni dopo ─ sei o sette e in CD ─ e da allora nutro del sacro rispetto per l’artefice. Mi è capitato di recensire altri suoi album, invariabilmente bene. Ah, ho anche recuperato quei primi tre citati dianzi e ho potuto verificarlo: nessuno stacco stilistico rilevante fra quelli e il disco che regalò a Robert Cray un numero 13 nella classifica di “Billboard”. Doppio platino negli USA, a certificare vendite per due milioni di copie ed erano ere geologiche che un bluesman non totalizzava numeri così. Anzi: chi mai li aveva fatti, fra gli artisti di colore, numeri simili suonando la musica cosiddetta “del diavolo”? Ma non erano inesistenti compromessi o un sound addomesticato (si noti che approdando a una major Cray confermava il duo di produttori, Bruce Bromberg e Dennis Walker, con cui aveva sempre lavorato) bensì e semplicemente una distribuzione e una promozione migliori a farlo assurgere allo stardom.

Il ragazzone (indubbiamente pure il bell’aspetto, un po’ Sam Cooke e un po’ Muhammad Ali, giocherà un piccolo ruolo nel renderlo una stella) che viene messo sotto contratto dalla Mercury ha fatto la sua brava gavetta esibendosi nei bar più scalcagnati prima di approdare a club dalla capienza e dal prestigio via via crescenti e infine (alla lunga riempirà i palasport) ai teatri. Nato per caso in Georgia, dove il padre militare prestava servizio in quel momento, è cresciuto in Virginia e poi nello stato di Washington. Curiosamente, prima di imbracciare una chitarra, a ciò spinto dall’ascolto della collezione di dischi di papà, ha preso lezioni di pianoforte classico e chissà se a livello compositivo ed esecutivo qualcosa di quella esperienza gli è rimasto. Se la cava bene anche con il basso ed è da non accreditato bassista dei fantomatici Otis Day & The Knights che nel 1978, venticinquenne, appare nel film Animal House. Due anni dopo pubblica il primo LP e per quanto un filo più ruvido il sound è già quello che ancora a oggi lo caratterizza: fondamentalmente, blues elettrico più versante B.B. King che Muddy Waters fortemente infiltrato di soul sudista (scuola Stax), funk e rock’n’roll elementi presenti ma saltuariamente. Una solista che coniuga mirabilmente energia, lirismo ed eleganza è solidamente ancorata a una ritmica cui già provvedono Richard Cousins al basso e David Olsen alla batteria. Lo fiancheggeranno a lungo, laddove il tastierista Peter Boe entrerà in squadra all’altezza di “False Accusations”. Lì il suono è davvero tale e quale a quello che contraddistingue “Strong Persuader”. A determinare lo scarto fra il successo relativo di quello e la sfrenata cavalcata verso la gloria di questo una sezione fiati leggendaria ─ Wayne Jackson a tromba e trombone, Andrew Love al sax tenore ─ e naturalmente e soprattutto un programma ben più solido: una prima facciata esplosiva sin dalla programmatica Smoking Gun (un successone pure a 45 giri), una seconda insieme più sbarazzina e flemmatica. Un paio di apici sul lato A: una I Guess I Showed Her che pare sottratta a Wilson Pickett; una Nothin’ But A Woman che è quintessenza di Blues Brothers. Un paio sul B: il tenero bluesone alla B.B. King I Wonder e una Fantasized che mi fa dare ragione a Robert Christgau che all’epoca dell’uscita impazziva per “Strong Persuader” (lui di solito severissimo) e per magnificarlo chiamava in causa fra il resto (unico a sentirceli, ma aveva ragione) gli Steely Dan.

“Strong Persuader” è uno di quei non tantissimi dischi che è difficile immaginare che il lettore medio di questa rivista non possieda. Ne avrà magari girato più copie, ma se è fermo a un CD di prima generazione le sue orecchie avranno solo da guadagnarci dalla recente ristampa dell’olandese Music On Vinyl. Se non la migliore versione di sempre su questo supporto, se la gioca con la Analogue Productions del 2013, peraltro oggi fuori catalogo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022. Cray festeggia oggi il settantesimo compleanno.

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