Archivi tag: folk

Il magico 1968 dell’ippogrifo Pentangle

Registrato nell’autunno 1968 e pubblicato nel gennaio dell’anno dopo “Birthday Blues” resterà per due anni e mezzo l’ultima prova da solista di Bert Jansch, a quell’altezza occupato a tempo pieno dall’avventura Pentangle. Ha ragione Richie Unterberger quando osserva che è un po’ come ascoltare i Pentangle ma in una versione sbilanciata, con la ritmica consuetamente lì storta e là swingante ma senza la seconda chitarra a contrappuntare quella che da sola si prende il proscenio e senza la voce femminile tanto caratterizzante e, oggettivamente, infinitamente più suggestiva. Non è la migliore prova dell’autore né da solista né in un contesto di gruppo e nondimeno qualche articolo di vaglia al suo favoloso catalogo, oltre alla già citata I Am Lonely, lo aggiunge: una fiabesca Tree Song; la virtuosistica (dedica alla sua signora) Miss Heather Rosemary Sewell; una A Woman Like You che azzarda il raga; una traccia omonima squisitamente barocca benché in solitario e scandalosamente breve.

Non avrà a lungo un successore, il Blues del Compleanno, perché l’ippogrifo Pentangle (ha presente il lettore? bestia leggendaria che fonde in sé quattro diversi animali e qui sarebbero cinque, ma due sono il medesimo) a quel punto vola ormai altissimo. Ci sono voluti due americani per propiziarne l’ascesa verso empirei di stardom e immortalità: uno è Jo Lustig, manager di pochi scrupoli quanto di efficacissimo attivismo, capace di procurare alla band una copertura mediatica impressionante, su una stampa specializzata che al tempo decide fortune e sfortune così come da parte della BBC; l’altro è il produttore Shel Talmy, uno cui già gli Who e i Kinks dovevano non tanto ma tantissimo e scusate se è poco. Saranno però i Pentangle il suo capolavoro: firma la regia dei loro primi tre album e non ci si crede quanto suonino bene. Il primo in particolare, inciso con a disposizione appena quattro piste dentro le quali riusciva ad accomodare un sound pazzamente caleidoscopico. Questo sia subito chiaro: se routinariamente si indica nel quintetto, a pari merito con i Fairport Convention (uno scalino sotto gli Steeleye Span; la Incredible String Band un’altra roba), la massima espressione del folk-rock britannico è per convenzione, per comodità di discorso. Giustamente con chi glielo dice Danny Thomson si infuria e rivendica che trattavasi, semmai, di folk-jazz. Non tanto per l’uso da parte sua di un contrabbasso, e non di un basso elettrico, quanto per la preferenza data a tempi altri (che cambiano magari durante lo stesso pezzo) rispetto al canonico 4/4. Nei Pentangle quasi mai la ritmica è squadrata: ondeggia, swinga, prende abbrivi marziali. E certe sonorità e scale ─ di una chitarra elettrica che pare a volte un sitar; e ogni tanto è proprio un sitar a far capolino ─ che istintivamente l’ascoltatore di rock non può non collegare alla psichedelia arrivano in realtà dalle musiche indiane, arabe, magari dell’Est Europa. Fra l’altro: senza che ciò mai incida sulla stratosferica qualità delle performance, assai spesso la nostra combriccola si presenterà alla ribalta in stato di alterazione collettiva (in special modo i due chitarristi), ma alcolica, non di origine chimica.

Ancora Unterberger (in Eight Miles High, secondo tomo di una poderosa e imprescindibile storia del folk-rock) si spinge, un po’ spericolatamente, a dire i Pentangle i Beatles del versante britannico della scena. In questo senso ha ragione: che furono un gruppo in cui ciascuno dei cinque membri evidenziava una personalità forte, unica, chiaramente a sé rispetto alle altre quattro. Ci sta. Ma allora si può anche chiamarli i CSN&Y: per gli intrecci vocali e per l’abitudine di ricavare parentesi solistiche negli spettacoli dal vivo.

“The Pentangle” vede la luce a un anno quasi esatto (meno dieci giorni; il 17 maggio 1968) dal primo concerto. Chiaro che l’intesa si è affinata e, se la freschezza è da esordio, le si abbina la perfezione della macchina ampiamente rodata, ciascun ingranaggio funzionale all’armonioso muoversi d’assieme. Degli otto brani che compongono il succinto programma (trentuno minuti scarsi) solo metà è originale e inoltre ─ laddove Pentangling è sin dal titolo il manifesto di un suono mercuriale che scappa verso ogniddove fra momenti incantati, strappi e vortici ─ Bells e Waltz non sono che due (deliziose) scuse per esibire la magistrale padronanza dei rispettivi strumenti di Cox e Thompson. Mentre la pigramente arabeggiante Mirage è la versione per band di una peregrinazione di Jansch fra dune desertiche. Eppure: è un gruppo dalla personalità tanto straripante da evidenziarsi maggiormente nei materiali che rielabora: il gospel degli Staple Singers Hear My Call, girato jazz; i tradizionali Let No Man Steal Your Thyme e Way Behind The Sun, trascinati verso derive lisergiche da (per osare ulteriormente) Jefferson Airplane britannici; e Bruton Town, che parte minuetto e trasfigura in saga.

Proprio Bruton Town, e oltretutto relegata a fondo scaletta, è l’unica traccia del debutto presente nel disco dal vivo che, accoppiato a uno in studio, dà vita già entro fine anno al viceversa assai corposo seguito, “Sweet Child”. Scelta coraggiosa quella di uscirsene già con un doppio che giova alla crescente reputazione della band, se non a vendite che permangono modeste in rapporto all’entusiasmo di critica e pubblico pagante (ai concerti). La precedono lungo quaranta minuti undici brani inediti (la ristampa in CD oggi in catalogo offre lo spettacolo intero, chiarendo che da quel punto in poi l’esordio veniva ripreso quasi integralmente): resta forse il migliore riassunto di un canone capace di includere con disarmante naturalezza blues inacidati (l’autografa Market Song) come arcaici (il vivace omaggio a Furry Lewis Turn Your Money Green), ballate dal modernista (No More My Lord) al favolistico (Watch The Stars), una sinossi perfetta di folk barocco (Three Dances), mo-nu-men-ta-li riletture di due fra i massimi capolavori di Charles Mingus (Haitian Fight Song e Goodbye Pork Pie Hat) e poco dopo una performance a cappella di Jacqui McShee (So Early In The Spring) di una bellezza semplicemente paralizzante. Un gradito ritorno: The Time Has Come, adesso elettrica. Dal raffronto il 33 giri in studio risulta a momenti sminuito, a un primo ascolto almeno. Ma prolungandosi la frequentazione se ne evidenzia una seduzione più quieta quanto al pari persistente. Rappresentano apici stellari una canzone inaugurale e omonima dal sognante al turbinoso, l’ansiogeno strumentale (Thompson suona con l’archetto) Three Part Sing, il valzer sull’orlo della schizofrenia I’ve Got A Feeling (ispirato da Miles Davis), la ritmica Moon Dog, una Hole In The Coal che è di Ewan MacColl e parrebbe invece (ebbene sì e ancora) dell’adorato Mingus.

Dopo avere tanto seminato nel 1968 i Pentangle raccolgono nel 1969, con l’album che i più considerano il loro grande classico (tutti quelli che non gli preferiscono “Sweet Child”): “Basket Of Light”. Finalmente superstar, quinti nelle classifiche UK.

Tratto da Bert Jansch – La ballata di un enigma. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.237, febbraio 2018. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo, omonimo album dei Pentangle vedeva la luce il 17 maggio 1968, cinquantacinque anni fa.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, Hip & Pop

I ritornelli tristi di Sandy Denny

Basta ritornelli tristi, No More Sad Refrains, cantava nel 1977 Sandy Denny (un blues, ovviamente) in “Rendezvous”, non sapendo che era un congedo. Sarebbe morta un anno dopo. Vivono i suoi dischi, quelli solistici appena ristampati con cospicue aggiunte.

Non era un anniversario di quelli che si prestano a celebrazioni, ventisette allo scorso 21 aprile gli anni trascorsi dacché Alexandra Elene MacLean Denny non è più di questa terra, cinque meno di quelli che passò fra noi, e non era dunque come nel 1998 quando della dipartita ricorreva il ventennale. Quella stessa Island che nel 1978 le aveva chiuso la porta in faccia, negandole un rinnovo di contratto, la ricordava con “Gold Dust”, commovente testimonianza dell’ultimo concerto, il 27 novembre ’77, pregevole a dispetto di una scaletta un po’ così. Ma da allora di colei di cui l’amico Marc Ellington disse che “poteva fare sembrare Janis Joplin, al confronto, una specie di Madre Teresa” non si è più smesso di parlare. Occasioni propizie le riedizioni allargate del catalogo dei Fairport Convention “storici”, e dunque anche dei quattro album con Sandy in squadra, e quindi, nel 2004, la pubblicazione del monumentale “A Boxful Of Treasures”, quintuplo con registrazioni live, demo e altre rarità che della ragazza offre un formidabile ritratto d’artista alternativo – o per meglio dire integrativo – rispetto a quello più noto. In un certo qual senso, si può però affermare che pure il ritorno nei negozi, con scalette significativamente allargate, di “The North Star Grassman And The Ravens”, “Sandy”, “Like An Old Fashioned Waltz” e “Rendezvous” faccia sì che della Denny si precisino meglio i contorni: non solo una rinnovatrice dell’idioma folk in terra di Albione, tant’è che negli ultimi due di folk quasi non ce n’è. E se resta indiscutibile che sia questa una Sandy Denny “minore”, se raffrontata a quella delle prove di gruppo, nondimeno così minore non fu e insomma qui ci sono le prove.

Ai Fairport enormi dei primi quattro LP e in particolare del secondo, terzo e quarto, pubblicati in un 1969 tragico e magico insieme, ho dedicato due pagine due anni e due mesi fa (n. 525, 18 marzo 2003) e a quell’articolo rimando. Qui riparto da lì, da “Liege & Lief”, “equivalente inglese di ‘Music From Big Pink’ della Band” all’indomani della cui pubblicazione Sandy lasciava, cogliendo tutti di sorpresa anche per i modi. Semplicemente, non si presentava all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portarla a Copenhagen per un concerto. Sarebbe stata fatta salire a forza sul successivo, ubriaca, ma il divorzio era ormai consumato. Il più grande amico all’interno del gruppo, il chitarrista Richard Thompson, la prese con filosofia – “Forse è un bene. Le donne sono spesso umorali e chissà che non sia meglio avere una formazione tutta maschile.” – ma a posteriori pare evidente che i Fairport Convention unici e cruciali siano stati esclusivamente quelli con la Denny, gli altri al più un gruppo buono, anche ottimo, ma non speciale. Beffardo con loro il destino, siccome era quanto qualche mese prima aveva probabilmente salvato la vita alla cantante ad allontanarla. Ricorderà il lettore l’incidente automobilistico nel quale, il 12 maggio 1969, perivano il batterista Martin Lamble e la compagna di Thompson, Jeannie Franklyn. Sul furgone che portava il complesso a casa dopo uno spettacolo a Birmingham, Sandy avrebbe dovuto sedere dove era seduta costei, non fosse che aveva preferito viaggiare con il suo bello, Trevor Lucas, imponente australiano dalla dirompente personalità e all’epoca chitarrista degli Eclection. Ed era giusto la voglia di stare vicino a Lucas a spingere Sandy Denny – donna in apparenza forte, solare, e nell’intimo fragilissima: come Janis – a indurla ad abbandonare i Fairport. Era stata con loro diciotto mesi appena ed era bastato per inventare una via britannica al folk-rock.

Prosegue per altre 4.154 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.610, maggio 2005. Ricorre oggi il quarantacinquesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

Lascia un commento

Archiviato in anniversari, Hip & Pop

Beth Orton – Weather Alive (Partisan)

Si è sempre concessa con parsimonia Beth Orton: nove album in ventinove anni. Il che non basterebbe a rendere ogni sua uscita un evento non fosse che è sempre stata qualcosa di più e di diverso rispetto a una pur dotata cantautrice. È che l’artista inglese ha fatto da tramite fra mondi lontanissimi che anche grazie alla sua opera a un certo punto si trovarono a intersecarsi tanto strettamente che per quella musica inaudita si coniò un’etichetta: folktronica. E chi più di lei ─ collaboratrice di William Orbit e dei Chemical Brothers come di Terry Callier, allieva e amica di Bert Jansch che nel 2006 la voleva accanto a sé nell’ultimo dei suoi capolavori, “The Black Swan” – aveva le carte in regola per esserne designata a vessillifera? Però a un certo punto ─ era il 2012, il disco era “Sugaring Season” ─ sembrò che Beth avesse fatto una scelta di campo. Resta il suo album folk, visto che con “Kidsticks” nel 2016 effettuava un’inversione a u confezionando la sua opera insieme più sperimentale e maggiormente indirizzata al dancefloor. Per molti la meno convincente, benché vanti alcuni brani notevoli e in ogni caso si stia parlando di una il cui minimo sindacale surclassa la quasi totalità della concorrenza.

“Weather Alive” non va in una direzione né nell’altra e nemmeno media fra i predecessori. Composto su un piano malandato (strumento di cui la Orton ha una padronanza basica), assemblato con un quartetto di musicisti di area jazz, a volerlo proprio catalogare finirebbe alla voce fuori moda “downtempo”. Ma se talune tracce rimandano indubbiamente ai Portishead in altre si odono echi di Talk Talk, David Sylvian, Peter Gabriel. Di folk un accenno, di funk pure, il finale vira ambient. Beth Orton resta in movimento e unica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Il primo (il più sottovalutato, il meno ascoltato) Ry Cooder

Per non avere che ventitré anni il Ry Cooder che debutta nel 1970 da solista vanta un cv non solo corposo ma strepitoso: a parte un omonimo LP, inciso nel 1966 per una Columbia che assurdamente lo chiudeva in un cassetto e non lo recupererà che nel ’92, con i Rising Sons, quintetto fra folk-rock e country-blues elettrico con Taj Mahal, è stato il fulcro della prima Magic Band di Captain Beefheart, si è prestato da strumentista al Randy Newman di “12 Songs” e a Judy Collins in un tour che ha fruttato un live, ha collaborato con Van Dyke Parks e i Little Feat e, quel che più conta, a lungo è stato il sesto (o settimo, contando Ian Stewart) Rolling Stones (Love In Vain su “Let It Bleed” e Sister Morphine su “Sticky Fingers” gli apporti più importanti). Quando infine si ritrova per conto proprio incide un LP che può essere detto acerbo soltanto a confronto di certi capolavori successivi, gemma da sgrezzare (negli anni il blues dell’era della Depressione How Can A Poor Man Stand Such Times And Live? acquisterà dal vivo ben altra pregnanza, da spiritual) ma che già abbaglia e soprattutto rappresenta un manifesto d’artista cui l’estensore resterà fedele almeno finché non si farà sequestrare dal mondo del cinema. Raramente sarà autore (qui firma giusto Available Space, stantuffante e giocosa e in cui sei corde gli bastano per evocare una marching band) preferendo reinterpretare, sottraendoli ai curatori museali per restituirli alla vita, esempi fra i più vari dell’immenso patrimonio della musica popolare americana. Più avanti confezionerà dischi “a tema”. Qui essendo il primo opta per bighellonare qui e là, inserendo in un programma di undici tracce per scarsa mezzoretta anche un contemporaneo, Randy Newman, con la vignetta country Old Kentucky Home. È alle prese con i materiali più oscuri che sfodera un’originalità di accenti già unica: il Woody Guthrie di Do Re Mi riletto con una ritmica rock e dietro archi che guizzano, il Lead Belly di Pig Meat trasfigurato in pigra marcetta dixieland. Se il cantato non è il suo forte la prodigiosa tecnica fingerpicking esibita in Police Dog Blues di Blind Blake più che compensa. E dove non c’è la voce, come nella conclusiva Dark Is The Night di Blind Willie Johnson, sospesa e drammatica, pure l’ascoltatore resta senza parole.

Si rimane senza fiato anche scoprendo che era da più o meno metà anni Ottanta che “Ry Cooder” non veniva riedito in vinile (non contando un box del 2014, manca dai negozi pure come CD dal ’95). Una terza ragione per applaudire la Speakers Corner, essendo la prima che questa stampa nella sua ruvidezza suona eccellentemente e la seconda che a 32 euro al pubblico i titoli dell’etichetta tedesca sono diventati, per l’impazzito mercato odierno, economici.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

Lascia un commento

Archiviato in archivi

John Doe – Fables In A Foreign Land (Fat Possum)

Sempre pensato, da quando vidi per la prima volta gli X in foto, che con quella sua bella faccia da onest’uomo americano John Doe sarebbe stato perfetto per il cinema. Che un John Ford qualche decennio prima non avrebbe esitato a includerlo nel cast di un suo western. Deve aver fatto la stessa impressione a tanti: comprensiva anche di varie serie TV, la filmografia dell’uomo nato John Nommensen Duchac sessantanove anni fa è chilometrica. Persino più di una discografia pure assai cospicua giacché oltre alla band sunnominata, una delle più grandi dell’era artisticamente aurea del punk USA, comprende Knitters, Flesh Eaters e una carriera da solista di cui quest’album (primo per la sempre più in auge Fat Possum) è il tredicesimo capitolo in studio. Atteso sette anni ma che gli vuoi dire a uno che nel frattempo ha pubblicato due libri e un disco (splendido) con i riformati X, suonato parecchio dal vivo e aggiunto al curriculum attorale un ruolo di primo piano in All Creatures Here Below?

Di “Fables In A Foreign Land” stupisce più che altro il titolo: come sarebbe a dire “terra straniera” quando il disegno che ne adorna la splendida copertina ritrae un cowboy di schiena, incamminato verso nuove avventure con a fianco il suo cavallo? Immagine quanto mai iconica e, a proposito, il disco prima si chiamava “The Westerner”. E quali “favole”? Schizzi assolutamente realistici invece, per quanto ambientati in un indefinito passato. La distanza che apparentemente separa questi tredici brani pencolanti più verso il folk o il folk-rock che il country, tolte un paio di deviazioni in area tex-mex e rockabilly, dal sound scorticato e ipercinetico degli X in realtà in spirito si annulla. Identica è l’onesta dell’approccio. Si torna lì: all’onestà.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Jensen McRae – Are You Happy Now (The Orchard)

Abbiamo una nuova Tracy Chapman? Che manco era nata quando l’originale collezionava dischi di platino, ancora doveva compiere nove anni quando colei il cui nome resterà legato per sempre alla canzone che ne inaugurava nell’88 l’omonimo esordio (Talkin’ ’Bout A Revolution, ovviamente) dava alle stampe quello che è a oggi il suo ultimo lavoro (“Our Bright Future”) e, per curiosa coincidenza, pubblica il primo album a ventiquattro, stessa età che aveva l’evidente modello quando era lei a debuttare in lungo. Oddio… modello… Alle nostre orecchie le similitudini sono lampanti, ma che Jensen McRae volutamente intenda porsi in quel solco non è da darsi per scontato. Appartiene a un’altra e lontanissima generazione e se a qualcuna si ispira è alla di poco più “anziana” Phoebe Bridgers. Però i classici ─ Dylan, Joni Mitchell, Carole King, James Taylor ─ li ha studiati eccome e in “Are You Happy Now” sono influenze che si sentono, laddove di altre ─ Stevie Wonder, Alicia Keys ─ per ora non si coglie nulla. In futuro chissà. Chissà chissà, visto che la giovane artista californiana pur con garbo nelle poche interviste circolate finora esprime un po’ di fastidio per il fatto di sentirsi vista come un animale raro, una ragazza di colore che suona e canta brani folk invece che soul o r&b.

Folk ma spesso di grande pop appeal e “Are You Happy Now” ne piazza subito uno, Starting To Get To You, dal potenziale clamoroso (ne esibiscono appena meno Take It Easy e Good Legs e forse persino di più una latineggiante e con ritmica molto presente With The Lights On). Sconcerta che un’opera talmente pensata in forma di album da contenere tre interludi a separare/collegare le altre dodici tracce sia per ora disponibile solo in download.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

I migliori album del 2021 (14): The Weather Station – Ignorance (Fat Possum)

Più che un gruppo (per le sue fila sono passati diversi musicisti e solo per un breve periodo la formazione si è mantenuta stabile) Weather Station è lo pseudonimo dietro cui si cela la canadese Tamara Lindeman, oggi trentaseienne e al tempo dei suoi vent’anni indecisa fra settima arte e sette note. Avrete inteso cosa sceglieva alla fine, benché nel frattempo cinema e TV (che non ha comunque abbandonato del tutto) le avessero già regalato belle soddisfazioni, con ruoli importanti e più di un premio. Per certo una che non soffre di paura del palcoscenico si approcciava alla ribalta musicale frequentando la vivace scena folk di Toronto. Esordio in lungo datato 2009, lo scarno “The Line” ne evidenzia le doti, oltre che di autrice e cantante, di chitarrista e banjoista. Per il successivo “All Of It Was Mine”, del 2011, c’era chi tirava in ballo come altisonanti numi tutelari Doc Watson e Bert Jansch, mentre nel 2015 con “Loyalty” il folk si faceva a tratti folk-rock e non solo per la provenienza geografica dell’artefice venivano azzardati paragoni con Joni Mitchell. Non a caso omonimo, nel 2017 “The Weather Station” espandeva assai la paletta sonica, con ritmiche schiettamente rock e arrangiamenti d’archi.

Compie ulteriori e decisi passi avanti in tal senso “Ignorance”, come evidenziano subito la battuta hip hop e le coloriture jazz di Robber. Opera solida quanto variegata, svelta a catturare ma capace di svelare a ogni ascolto dettagli sfuggiti al precedente. Un poker d’assi calato all’esatto centro del programma con una Parking Lot mediana fra Joni Mitchell e i Fleetwood Mac, una Loss sottratta con destrezza a Kate Bush, un singolo perfetto quale Separated e una Wear di afflato Young Marble Giants prima di – elegantemente – raddensarsi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, dischi dell'anno, recensioni

Matt Sweeney & Bonnie Prince Billy – Superwolves (Drag City)

Natura gregaria in senso buono, l’oggi cinquantunenne chitarrista Matt Sweeney ha messo lo zampino in decine di dischi da quando nel 1989 il suo primo gruppo, i post-hardcore Skunk, pubblicava il primo di due album su Twin/Tone. Di costoro oggi si ricordano in pochi, mentre qualcuno in più serba memoria della band successiva del nostro uomo, gli Chavez, esponenti del cosiddetto math-rock anche loro con un paio di lavori in studio all’attivo. Sweeney è stato poi coinvolto in un’infinità di altri progetti, sfiorando il mainstream con gli Zwan di Billy Corgan, dando una mano a Dave Grohl quando costui si prese una sbandata per il death metal con il supergruppo Probot. Eclettismo incredibile che lo ha portato a prestare le sue notevoli capacità strumentali a Johnny Cash come ai Current 93, a Neil Diamond o Cat Power come a Stephen Malkmus, concedendosi nel frattempo parecchie incursioni nell’hip hop fuor di ogni canone di gente come El-P o Run The Jewels. Due sole volte, con questa, Sweeney ha però visto il proprio nome su un davanti di copertina invece che fra i crediti e la prima risaliva al 2005, quando sempre a quattro mani con il quasi coetaneo Bonnie Prince Billy, uno che nel moderno cantautorato USA fa categoria a sé e ama molto le collaborazioni, firmava “Superwolf”. Album cui questo seguito si pone in scia sin dal titolo.

Che peccato che non incrocino più spesso le loro strade, gli artefici. Si completano a meraviglia, svariando dall’Americana a un folk dagli accenti British (abbagliante, degna del miglior Bert Jansch, la rilettura di I Am A Youth Inclined To Ramble), ora sporgendo lo sguardo sul Laurel Canyon e ora (in una Hall Of Death tambureggiantemente elettrica) su lande desertiche.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.432, giugno 2021.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Valerie June – The Moon And Stars: Prescriptions For Dreamers (Fantasy)

Ci sono elogi che possono risultare paralizzanti. Che fai dopo che un Nobel per la letteratura si spende per un tuo disco? E se costui è Bob Dylan?  Be’, se sei Valerie June alzi l’asticella. Provi ad andare oltre quel “The Order Of Time” che nel 2017 veniva lodato da uno così poco propenso agli entusiasmi (e chissà se ha poi recuperato i primi lavori della June, collezioni autoprodotte di acusticherie arcaiche che ancora di più dovrebbero toccare certe sue corde). Provi a realizzare il tuo album “della vita”. “Con questo disco mi è finalmente diventato chiaro il motivo per cui ho questo sogno di fare musica. Non per l’ambizione di venire premiata o conquistare l’amore di qualcuno, bensì perché mi mantiene curiosa e su quel percorso di apprendimento di ciò che ho da condividere con il mondo. Quando ci permettiamo di sognare come facevamo da bambini, ciò accende la luce che tutti abbiamo dentro e rende magico il modo in cui viviamo.”

Ce n’è in quantità di magia in un album per il quale qualcuno ha scomodato (ci sono elogi… etc…) un termine di paragone ingombrantissimo quale “Astral Weeks” e, per lo spirito che lo anima se non per gli spartiti, ci sta. Nelle sue quattordici tracce (ma due sono istantanee bucoliche di suoni trovati e una un breve recitativo) l’artista del Tennessee si porge nel contempo classica, mirabile sinossi di Americana, e peculiare, dispensando perlopiù ballate sublimi nell’ampio arco fra folk, country-blues e chamber pop ma concedendosi pure empiti gospel. L’apice è Call Me A Fool, soul favoloso che pare giungerci dritto dai tardi ’60 e dagli studi Stax o Atlantic. Non potendo più chiamare Aretha Franklin a duettare con lei, Valerie ha convocato Carla Thomas.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 430, aprile 2021.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Bob Dylan – Highway 60 Revisited

“C’era una volta un artista al crocevia del mondo”: comincia così Invisible Republic, l’incredibile dissertazione – cammin facendo manuale di storia, sociologia e letteratura americane come pochi ne sono stati scritti – che Greil Marcus qualche anno fa dedicò ai “Basement Tapes”, i nastri registrati da Bob Dylan, con i fidi compari di The Band, nel periodo di riposo seguito all’incidente motociclistico che nel 1966 per poco non ci strappò l’uomo di Duluth. In un momento in cui “non sembrava tanto occupare un punto di svolta cruciale nello spazio tempo-culturale, bensì era quel punto di svolta”. “Egli era il Folk e anche un profeta”, annota Marcus poche righe più avanti. “Quando sentii Bob Dylan alla radio riuscii veramente a credere in Dio”, racconta Harry Smith un centinaio di pagine dopo ed è testimonianza tanto più rimarchevole perché viene da colui che, assemblando il coacervo di leggende di “Anthology Of American Folk Music”, plasmò l’universo culturale in cui Dylan mosse i primi passi, salvo apparentemente rinnegarlo suscitando grandissimo scandalo.

Se non è più vero da molto (potremmo azzardare proprio dai giorni del buen retiro  a Woodstock) che, come aveva avuto a scrivere Robert Shelton in uno storico articolo apparso sul “New York Times” il 29 settembre 1961, “dove è stato importa meno di dove sta andando”, Bob Dylan resta, oltre che artista tuttora capace di strabiliare, una figura la cui influenza sul Novecento ha di gran lunga trasceso il campo in cui si è mosso. E a dispetto di ogni esegesi un enigma, una collezione di maschere o per meglio dire (ancora con Marcus) “una rappresentazione dell’antica maschera americana”. Come i Beatles, i soli con un impatto paragonabile al suo, non avrebbe potuto affacciarsi alla ribalta che negli anni ’60 e come loro occupa da allora una zona fuori dal tempo. Però per ragioni diverse, opposte persino. Quelli la gioventù, l’ottimismo, il futuro. Questi una voce che in sé riassumeva un secolo, e oltre.

Non creare mai niente, verrà/frainteso, non cambierà più,/ti seguirà/tutta la vita” (Advice For Geraldine On Her Miscellaneous Birthday, 1964)

Ma per vivere fuori dalla legge/devi essere onesto” (Absolutely Sweet Marie, 1966)

Annosa e oziosa questione quella se la Canzone possa essere o meno Poesia e nondimeno domanda che Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, si è sentito rivolgere infinite volte negli anni ruggenti (seconda soltanto a “si considera un cantante di protesta?”) e con un poderoso revival nel 1997, quando lo si disse candidato al Nobel per la letteratura (quello non lo ha vinto, non ancora; un Grammy l’anno dopo per “Time Out Of Mind” e un Oscar nel 2000 per Things Have Changed invece sì: inattuale?). Tuttavia per quanto mi riguarda devo dire che ho amato Dylan prima ancora di ascoltarlo, che sono state le sue parole e non la sua musica a catturarmi. Merito di un libro di testo di terza media inusualmente ardito per i tempi (vi parlo del 1974) che fra gli esempi di poesia moderna includeva Blowin’ In The Wind. Merito soprattutto di una nutrita antologia di testi ─ Blues, ballate e canzoni, su Newton Compton, nelle fedeli ma non banali traduzioni di Stefano Rizzo e con un’introduzione di Fernanda Pivano ben centrata al di là delle molte imprecisioni ─ catturata un anno dopo su una bancarella a metà prezzo, seicento lire, meno di due albi della Bonelli e che affare che fu. Ha detto una volta Michael Stipe: “Il primo LP di Patti Smith mandò il mio cervello in frantumi e riassemblò quei frantumi in una composizione differente”. Uguale effetto fece a me la settantina abbondante di liriche (in lista persino diversi titoli all’epoca non pubblicati ufficialmente e basti questo a testimoniare la cura profusa nell’operazione) offerti dal volume che giusto in questo momento mi sto rigirando fra le mani, la copertina un po’ sciupata ma nemmeno tanto, le pagine ingiallite dai troppi anni passati. Furono una rivelazione abbacinante. Furono la mia introduzione alla letteratura beat. Furono ciò che mi spinse a leggere Verlaine, Rimbaud, Mallarmé. Ma, curiosamente, non mi indussero a cercare i dischi da cui provenivano. Per me Bob Dylan era un poeta e anzi il poeta ed è possibile che rinviassi l’appuntamento con il musicista, oltre che perché il rock’n’roll non mi aveva ancora, in una successione di ineffabili attimi, contemporaneamente salvato e rovinato la vita, per paura che il musicista al confronto mi deludesse. Però, e doveva ormai essersi fatto l’autunno del fatidico ’77, quando su RAI 2 una sera in tardo orario programmarono un suo spettacolo non mi feci trovare impreparato. Registratore a cassette davanti all’altoparlante della TV, sedetti con emozione vivissima e dita incrociate.

Il tempo confonde e annebbia anche i ricordi più belli. Per quanto abbia poi riascoltato decine, probabilmente centinaia di volte quel nastro poi perso chissà dove, rammento sì che il concerto, un estratto di tre quarti d’ora da una qualche data della “Rolling Thunder Revue” (storia di un paio di anni prima, dunque), era diviso in una parte acustica e in una elettrica, ma non quale delle due venisse prima. Anzi: non sono nemmeno sicuro che ci fosse una vera e propria metà acustica e non soltanto una Blowin’ In The Wind sistemata a fondo corsa e in duetto con quella Joan Baez che da quel dì è sempre stata per me la Gnocca Noiosa. Sia come sia, una cosa ricordo benissimo: la scossa che mi attraversò il fondo schiena al caracollare della ritmica e all’ondeggiare di elettriche in apertura di Shelter From The Storm, esperienza letteralmente orgasmica (meglio, però) accostabile per la mia all’epoca limitatissima esperienza giusto al tuonare di chitarre e tamburi di White Riot, al cambio di accordo che in “Rock’n’Roll Animal” annuncia Sweet Jane, alla fuga per tangenti cosmiche di Interstellar Overdrive. Ero fottuto e non lo sapevo ma diomio quanto ero felice.

Prosegue per altre 42.325 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.11, autunno 2003. Robert Allen Zimmerman compie oggi ottant’anni.

2 commenti

Archiviato in anniversari, Bob Dylan, Hip & Pop