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Rufus Wainwright – Folkocracy (BMG)

Per i suoi cinquant’anni il figlio di Loudon e Kate McGarrigle (nipote di Anna) e fratello di Martha si e ci regala l’album che non ci si aspettava più da uno che si è sempre fatto un punto di onore di stupire a ogni uscita e, insomma, non dare quasi mai al pubblico ciò che da lui si sarebbe aspettato in quel momento. A costo di perderne per strada gran parte, facendo andare dietro a “Release The Stars”, AD 2007 e che rimane il suo più grande successo, in cui rifiniva e riassumeva un canone di cantautorato pop fra l’estenuato e l’eccessivo (certi arrangiamenti orchestrali! certi svolazzi vocali!) ma di gran classe, due live di fila (uno dei quali rifacimento integrale di un concerto di Judy Garland), uno di brani per soli piano e voce e un box autocelebrativo di diciannove (!!!) fra CD e DVD. Più avanti confezionerà addirittura un’opera lirica e un album tutto di sonetti di Shakespeare messi in musica. Benedetto… ragazzo: probabilmente proprio perché immaginava che da lui, rampollo di una sorta di casa reale canadese del folk, in molti bramassero piuttosto un disco come questo ce lo ha fatto attendere così a lungo.

Ne è valsa la pena e ci sta e non lo sciupa (però, ecco, di Nacht und Traüme di Schubert si sarebbe fatto a meno) che del genere Rufus mostri di avere una concezione eterodossa, visione tanto ampia da comprendere Twelve-Thirty dei Mamas & The Papas (di cui porge lettura fedele), Harvest del connazionale Neil Young (più campagnola che mai) e High On The Rocky Ledge di Moondog (una resa fiabesca), che affianca a riletture di Ewan MacColl e Peggy Seeger, Van Dyke Parks, Charlie Monroe e a numerosi tradizionali. Fra i quali una Cotton Eyed Joe ricalcata su quella di Nina Simone e da standing ovation. Come parecchio del resto.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.455, agosto 2023.

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Robyn Hitchcock – Life After Infinity (Tiny Ghost)

Di già? Il ventitreesimo album da solista di Robyn Hitchcock vede la luce ad appena sei mesi da un predecessore che si era fatto invece attendere ben cinque anni. Ma non è questa prossimità temporale insolita per un artista fresco di settantesimo compleanno a stupire di “Life After Infinity”, del quale pure si può escludere che raccolga brani che erano rimasti fuori da “Shufflemania!” giacché a quel disco aveva contribuito una piccola folla di ospiti illustri (Johnny Marr, Sean Ono Lennon, Kelley Stoltz, Brendan Benson…) e in questo il titolare si è fatto dare una mano soltanto dal bassista e percussionista Charlie Francis, procedendo per il resto a (sovra)incidere tutto da sé. È che ove il lavoro prima si porgeva come “un bignami di quasi ogni Hitchcock ascoltato dacché si affacciava alla ribalta nel 1977 alla testa di quei Soft Boys che nell’anno del punk coniugavano energia garage e un afflato lisergico” questo rappresenta una clamorosa, assoluta novità: collezione di undici brani solo strumentali, probabilmente più di quelli disseminati a oggi nell’intero catalogo di questo grande eccentrico (più Syd Barrett che Julian Cope, musicalmente) del pop britannico.

È una signora sfida che vince in scioltezza sin dai 5’06” (il pezzo più lungo) del lento raga collocato in apertura The Eyes In The Vine. Un’influenza, quella della musica indiana, che tornerà quasi subito – nella terza traccia, la rarefatta e fosca Plesiosaurs In The Desert – per poi lasciare la ribalta principalmente ad arazzi di corde che, mediani fra John Fahey e Bert Jansch, ci rammentano come costui sia anche un chitarrista coi fiocchi. Lo ribadisce in maniera affatto differente l’elettrica Veronica’s Chapel, guizzantemente quicksilveriana.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Nuotando nella lava appeso per le braccia a una betulla – Bob Dylan a Newport, 25 luglio 1965

Un titolo paradigmatico, una volta di più: si chiama “Bringing It All Back Home”, riportando tutto a casa (in Europa sarà però sempre “Subterranean Homesick Blues”), il 33 giri che nel marzo 1965 accende gli amplificatori e le polemiche. A mettere su per sbaglio per prima la seconda facciata, si potrebbe pensare che non molto sia cambiato, visto che Dylan è quasi sempre solo soletto con la sua chitarra e la sua armonica, e d’accordo che Mr. Tambourine Man già squilla dalle radio dell’intera nazione ma non è la versione dell’autore che si ascolta, bensì quella dei Byrds che sta dando il via alla stagione del folk-rock. Certo, i versi sono criptici e lirici come non mai ed evidentemente drogati (come anatema già basterebbe ai folkettari, che pure mai si sono fatti scrupolo di cantare Cocaine), però… Però l’ipnotica Gates Of Eden sarebbe potuta stare indifferentemente in uno dei due LP prima e la drammatica It’s Alright, Ma e la carezzevole (ma scontrosa, ma carezzevole) It’s All Over Now, Baby Blue almeno su “Another Side”. Ma cambia lato, figliolo, e cadrai dalla sedia, e poi ti alzerai, e comincerai a ballare. Subterranean Homesick Blues ha fragore di ordigno, travolge, è la canzone che avrebbe potuto scrivere Chuck Berry fosse stato Allen Ginsberg o viceversa, e dopo il countreggiare di She Belongs To Me provvede Maggie’s Farm con la sua dichiarazione di indipendenza (“ti dicono ‘canta’ ma ti trattano da schiavo e io mi sono stufato/non lavorerò più nella fattoria di Maggie”) benedetta da Chicago a chiarire definitivamente che honey, it’s a brave new world. Love Minus Zero/No Limit è colata di zucchero elettrico sui solchi, Outlaw Blues taglia fino all’osso, On The Road Again scintilla, Bob Dylan’s 115th Dream (e gli altri centotredici?) è un secondo “blues sotterraneo con la nostalgia di casa” di un nonnulla meno efficace del primo. Nella voce, una gioia tanto intensa da essere quasi cattiva; dietro, un gruppo non accreditato (Bruce Langhorne e Kenny Rankin alle chitarre, Paul Griffin al piano, Bobby Gregg alla batteria, Joseph Macho Jr. oppure William E. Lee al basso) che si porge con impeto garagista ma non si vieta gli intarsi. Che enorme sia lo scarto rispetto ai predecessori avrebbe dovuto farlo intendere già una copertina coloratissima, immediatamente iconica, con Bob seduto in un salotto con un gatto grigio in braccio, una confusione di riviste ed LP (Eric Von Schmidt, Lotte Lenya, Robert Johnson, Impressions) intorno e una misteriosa brunetta rossovestita (è la moglie del suo manager) alle spalle. Nel camino si intravvede una copia di “Another Side”e traetene le conseguenze che volete. “Bringing It All Back Home” è sesto negli Stati Uniti e addirittura primo in Gran Bretagna e adesso il nome di Dylan è davvero dappertutto, anche perché sulla scia dei Byrds una moltitudine ha preso a saccheggiare il suo repertorio (in un solo mese nel 1966 si conteranno ottanta cover). Gli estimatori della prima ora si guardano attorno confusi e si domandano se tutto ciò sia un’aberrazione momentanea. Naturalmente no.

In aprile il Nostro si reca in Gran Bretagna ed è la terza volta ma il primo tour vero. Sul palco si offre ancora come il menestrello solitario di un tempo e non ne può più dalla noia, come chiaramente si evince dalle immagini di Don’t Look Back, il documentario di D.A. Pennebaker che vedrà la luce due anni dopo. Al ritorno a casa riversa tutta la sua frustrazione in una canzone della quale dirà che “scriverla fu come nuotare nella lava appeso per le braccia a una betulla”. Feroce in un testo in cui si fa a pezzi una non identificata Miss Lonely, una “principessa sulla guglia”, magmatica nel tumulto di chitarre elettriche e ritmica tenuto assieme dal liquido organo di Al Kooper (che mai prima del giorno in cui venne incisa aveva messo le mani sullo strumento), Like A Rolling Stone è artisticamente e commercialmente un punto di svolta e non ritorno per Bob Dylan. Alla Columbia non sanno se esultare per un potenziale mercantile evidentemente smisurato, nonostante il brano suoni come una rivoluzione per il pop, o disperarsi perché dura sei minuti e quale radio lo trasmetterà mai. Danno un colpo al cerchio e uno alla botte mettendolo subito fuori a 45 giri ma diviso sui due lati. Sottovalutano i dj, che per la maggior parte registrano di seguito su un nastro le due facciate e suonano per intero la canzone, che in men che non si dica schizza al secondo posto in classifica ed è lì che staziona quando il 25 luglio il cantante si ripresenta sul palco del “Newport Folk Festival”. Il luogo che era stato scenario di malintesi omaggi a vecchi neri costretti (con molto poco rispetto a ben vedere) a presentarsi acustici quand’anche erano ormai usi suonare elettrici, la platea che aveva cristallizzato la musica tradizionale americana della prima metà del secolo facendo finta che il mondo avesse smesso nel frattempo di girare, vibrano di nervosismo. L’etnomusicologo Alan Lomax fa della Paul Butterfield Blues Band una presentazione tanto irridente da rasentare l’ingiuria e Albert Grossman, che è manager del gruppo oltre che di Dylan, si incazza belluinamente. Testimoni stupefatti addetti ai lavori, i due distinti signori di mezza età prendono a darsele di santa ragione rotolandosi sul prato. Ma è quando Bob Dylan sale al proscenio accompagnato proprio da alcuni dei musicisti di Butterfield, che eroicamente si prestano a farsi crocifiggere per la seconda volta in un pomeriggio, che la situazione si fa semplicemente folle. Ma davvero quel pubblico di puristi si attendeva, dopo Like A Rolling Stone, che Bob Dylan gli ricantasse Blowing In The Wind e qualche altro bene educato inno protestatario? Fatto è che insorge come un sol uomo e i fischi sono tanto alti da sommergere la peraltro male amplificata band. Mentre dietro le quinte ci si affanna a bloccare il padre padrone del folk Pete Seeger che, letteralmente idrofobo, brandendo un’ascia minaccia di tagliare i fili che portano al palco la stramaledetta elettricità, Dylan alza bandiera bianca dopo tre pezzi appena e se ne va. Ritorna con a tracolla una chitarra acustica presa in prestito e in lacrime canta (scelta quanto mai significativa) It’s All Over Now, Baby Blue. È un addio. Non si farà intimidire mai più. Mai. Più.

Tratto da “Bob Dylan – Highway 60 Revisited”. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.11, autunno 2003. Ristampato in Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune.

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Il magico 1968 dell’ippogrifo Pentangle

Registrato nell’autunno 1968 e pubblicato nel gennaio dell’anno dopo “Birthday Blues” resterà per due anni e mezzo l’ultima prova da solista di Bert Jansch, a quell’altezza occupato a tempo pieno dall’avventura Pentangle. Ha ragione Richie Unterberger quando osserva che è un po’ come ascoltare i Pentangle ma in una versione sbilanciata, con la ritmica consuetamente lì storta e là swingante ma senza la seconda chitarra a contrappuntare quella che da sola si prende il proscenio e senza la voce femminile tanto caratterizzante e, oggettivamente, infinitamente più suggestiva. Non è la migliore prova dell’autore né da solista né in un contesto di gruppo e nondimeno qualche articolo di vaglia al suo favoloso catalogo, oltre alla già citata I Am Lonely, lo aggiunge: una fiabesca Tree Song; la virtuosistica (dedica alla sua signora) Miss Heather Rosemary Sewell; una A Woman Like You che azzarda il raga; una traccia omonima squisitamente barocca benché in solitario e scandalosamente breve.

Non avrà a lungo un successore, il Blues del Compleanno, perché l’ippogrifo Pentangle (ha presente il lettore? bestia leggendaria che fonde in sé quattro diversi animali e qui sarebbero cinque, ma due sono il medesimo) a quel punto vola ormai altissimo. Ci sono voluti due americani per propiziarne l’ascesa verso empirei di stardom e immortalità: uno è Jo Lustig, manager di pochi scrupoli quanto di efficacissimo attivismo, capace di procurare alla band una copertura mediatica impressionante, su una stampa specializzata che al tempo decide fortune e sfortune così come da parte della BBC; l’altro è il produttore Shel Talmy, uno cui già gli Who e i Kinks dovevano non tanto ma tantissimo e scusate se è poco. Saranno però i Pentangle il suo capolavoro: firma la regia dei loro primi tre album e non ci si crede quanto suonino bene. Il primo in particolare, inciso con a disposizione appena quattro piste dentro le quali riusciva ad accomodare un sound pazzamente caleidoscopico. Questo sia subito chiaro: se routinariamente si indica nel quintetto, a pari merito con i Fairport Convention (uno scalino sotto gli Steeleye Span; la Incredible String Band un’altra roba), la massima espressione del folk-rock britannico è per convenzione, per comodità di discorso. Giustamente con chi glielo dice Danny Thomson si infuria e rivendica che trattavasi, semmai, di folk-jazz. Non tanto per l’uso da parte sua di un contrabbasso, e non di un basso elettrico, quanto per la preferenza data a tempi altri (che cambiano magari durante lo stesso pezzo) rispetto al canonico 4/4. Nei Pentangle quasi mai la ritmica è squadrata: ondeggia, swinga, prende abbrivi marziali. E certe sonorità e scale ─ di una chitarra elettrica che pare a volte un sitar; e ogni tanto è proprio un sitar a far capolino ─ che istintivamente l’ascoltatore di rock non può non collegare alla psichedelia arrivano in realtà dalle musiche indiane, arabe, magari dell’Est Europa. Fra l’altro: senza che ciò mai incida sulla stratosferica qualità delle performance, assai spesso la nostra combriccola si presenterà alla ribalta in stato di alterazione collettiva (in special modo i due chitarristi), ma alcolica, non di origine chimica.

Ancora Unterberger (in Eight Miles High, secondo tomo di una poderosa e imprescindibile storia del folk-rock) si spinge, un po’ spericolatamente, a dire i Pentangle i Beatles del versante britannico della scena. In questo senso ha ragione: che furono un gruppo in cui ciascuno dei cinque membri evidenziava una personalità forte, unica, chiaramente a sé rispetto alle altre quattro. Ci sta. Ma allora si può anche chiamarli i CSN&Y: per gli intrecci vocali e per l’abitudine di ricavare parentesi solistiche negli spettacoli dal vivo.

“The Pentangle” vede la luce a un anno quasi esatto (meno dieci giorni; il 17 maggio 1968) dal primo concerto. Chiaro che l’intesa si è affinata e, se la freschezza è da esordio, le si abbina la perfezione della macchina ampiamente rodata, ciascun ingranaggio funzionale all’armonioso muoversi d’assieme. Degli otto brani che compongono il succinto programma (trentuno minuti scarsi) solo metà è originale e inoltre ─ laddove Pentangling è sin dal titolo il manifesto di un suono mercuriale che scappa verso ogniddove fra momenti incantati, strappi e vortici ─ Bells e Waltz non sono che due (deliziose) scuse per esibire la magistrale padronanza dei rispettivi strumenti di Cox e Thompson. Mentre la pigramente arabeggiante Mirage è la versione per band di una peregrinazione di Jansch fra dune desertiche. Eppure: è un gruppo dalla personalità tanto straripante da evidenziarsi maggiormente nei materiali che rielabora: il gospel degli Staple Singers Hear My Call, girato jazz; i tradizionali Let No Man Steal Your Thyme e Way Behind The Sun, trascinati verso derive lisergiche da (per osare ulteriormente) Jefferson Airplane britannici; e Bruton Town, che parte minuetto e trasfigura in saga.

Proprio Bruton Town, e oltretutto relegata a fondo scaletta, è l’unica traccia del debutto presente nel disco dal vivo che, accoppiato a uno in studio, dà vita già entro fine anno al viceversa assai corposo seguito, “Sweet Child”. Scelta coraggiosa quella di uscirsene già con un doppio che giova alla crescente reputazione della band, se non a vendite che permangono modeste in rapporto all’entusiasmo di critica e pubblico pagante (ai concerti). La precedono lungo quaranta minuti undici brani inediti (la ristampa in CD oggi in catalogo offre lo spettacolo intero, chiarendo che da quel punto in poi l’esordio veniva ripreso quasi integralmente): resta forse il migliore riassunto di un canone capace di includere con disarmante naturalezza blues inacidati (l’autografa Market Song) come arcaici (il vivace omaggio a Furry Lewis Turn Your Money Green), ballate dal modernista (No More My Lord) al favolistico (Watch The Stars), una sinossi perfetta di folk barocco (Three Dances), mo-nu-men-ta-li riletture di due fra i massimi capolavori di Charles Mingus (Haitian Fight Song e Goodbye Pork Pie Hat) e poco dopo una performance a cappella di Jacqui McShee (So Early In The Spring) di una bellezza semplicemente paralizzante. Un gradito ritorno: The Time Has Come, adesso elettrica. Dal raffronto il 33 giri in studio risulta a momenti sminuito, a un primo ascolto almeno. Ma prolungandosi la frequentazione se ne evidenzia una seduzione più quieta quanto al pari persistente. Rappresentano apici stellari una canzone inaugurale e omonima dal sognante al turbinoso, l’ansiogeno strumentale (Thompson suona con l’archetto) Three Part Sing, il valzer sull’orlo della schizofrenia I’ve Got A Feeling (ispirato da Miles Davis), la ritmica Moon Dog, una Hole In The Coal che è di Ewan MacColl e parrebbe invece (ebbene sì e ancora) dell’adorato Mingus.

Dopo avere tanto seminato nel 1968 i Pentangle raccolgono nel 1969, con l’album che i più considerano il loro grande classico (tutti quelli che non gli preferiscono “Sweet Child”): “Basket Of Light”. Finalmente superstar, quinti nelle classifiche UK.

Tratto da Bert Jansch – La ballata di un enigma. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.237, febbraio 2018. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo, omonimo album dei Pentangle vedeva la luce il 17 maggio 1968, cinquantacinque anni fa.

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I ritornelli tristi di Sandy Denny

Basta ritornelli tristi, No More Sad Refrains, cantava nel 1977 Sandy Denny (un blues, ovviamente) in “Rendezvous”, non sapendo che era un congedo. Sarebbe morta un anno dopo. Vivono i suoi dischi, quelli solistici appena ristampati con cospicue aggiunte.

Non era un anniversario di quelli che si prestano a celebrazioni, ventisette allo scorso 21 aprile gli anni trascorsi dacché Alexandra Elene MacLean Denny non è più di questa terra, cinque meno di quelli che passò fra noi, e non era dunque come nel 1998 quando della dipartita ricorreva il ventennale. Quella stessa Island che nel 1978 le aveva chiuso la porta in faccia, negandole un rinnovo di contratto, la ricordava con “Gold Dust”, commovente testimonianza dell’ultimo concerto, il 27 novembre ’77, pregevole a dispetto di una scaletta un po’ così. Ma da allora di colei di cui l’amico Marc Ellington disse che “poteva fare sembrare Janis Joplin, al confronto, una specie di Madre Teresa” non si è più smesso di parlare. Occasioni propizie le riedizioni allargate del catalogo dei Fairport Convention “storici”, e dunque anche dei quattro album con Sandy in squadra, e quindi, nel 2004, la pubblicazione del monumentale “A Boxful Of Treasures”, quintuplo con registrazioni live, demo e altre rarità che della ragazza offre un formidabile ritratto d’artista alternativo – o per meglio dire integrativo – rispetto a quello più noto. In un certo qual senso, si può però affermare che pure il ritorno nei negozi, con scalette significativamente allargate, di “The North Star Grassman And The Ravens”, “Sandy”, “Like An Old Fashioned Waltz” e “Rendezvous” faccia sì che della Denny si precisino meglio i contorni: non solo una rinnovatrice dell’idioma folk in terra di Albione, tant’è che negli ultimi due di folk quasi non ce n’è. E se resta indiscutibile che sia questa una Sandy Denny “minore”, se raffrontata a quella delle prove di gruppo, nondimeno così minore non fu e insomma qui ci sono le prove.

Ai Fairport enormi dei primi quattro LP e in particolare del secondo, terzo e quarto, pubblicati in un 1969 tragico e magico insieme, ho dedicato due pagine due anni e due mesi fa (n. 525, 18 marzo 2003) e a quell’articolo rimando. Qui riparto da lì, da “Liege & Lief”, “equivalente inglese di ‘Music From Big Pink’ della Band” all’indomani della cui pubblicazione Sandy lasciava, cogliendo tutti di sorpresa anche per i modi. Semplicemente, non si presentava all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portarla a Copenhagen per un concerto. Sarebbe stata fatta salire a forza sul successivo, ubriaca, ma il divorzio era ormai consumato. Il più grande amico all’interno del gruppo, il chitarrista Richard Thompson, la prese con filosofia – “Forse è un bene. Le donne sono spesso umorali e chissà che non sia meglio avere una formazione tutta maschile.” – ma a posteriori pare evidente che i Fairport Convention unici e cruciali siano stati esclusivamente quelli con la Denny, gli altri al più un gruppo buono, anche ottimo, ma non speciale. Beffardo con loro il destino, siccome era quanto qualche mese prima aveva probabilmente salvato la vita alla cantante ad allontanarla. Ricorderà il lettore l’incidente automobilistico nel quale, il 12 maggio 1969, perivano il batterista Martin Lamble e la compagna di Thompson, Jeannie Franklyn. Sul furgone che portava il complesso a casa dopo uno spettacolo a Birmingham, Sandy avrebbe dovuto sedere dove era seduta costei, non fosse che aveva preferito viaggiare con il suo bello, Trevor Lucas, imponente australiano dalla dirompente personalità e all’epoca chitarrista degli Eclection. Ed era giusto la voglia di stare vicino a Lucas a spingere Sandy Denny – donna in apparenza forte, solare, e nell’intimo fragilissima: come Janis – a indurla ad abbandonare i Fairport. Era stata con loro diciotto mesi appena ed era bastato per inventare una via britannica al folk-rock.

Prosegue per altre 4.154 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.610, maggio 2005. Ricorre oggi il quarantacinquesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

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Beth Orton – Weather Alive (Partisan)

Si è sempre concessa con parsimonia Beth Orton: nove album in ventinove anni. Il che non basterebbe a rendere ogni sua uscita un evento non fosse che è sempre stata qualcosa di più e di diverso rispetto a una pur dotata cantautrice. È che l’artista inglese ha fatto da tramite fra mondi lontanissimi che anche grazie alla sua opera a un certo punto si trovarono a intersecarsi tanto strettamente che per quella musica inaudita si coniò un’etichetta: folktronica. E chi più di lei ─ collaboratrice di William Orbit e dei Chemical Brothers come di Terry Callier, allieva e amica di Bert Jansch che nel 2006 la voleva accanto a sé nell’ultimo dei suoi capolavori, “The Black Swan” – aveva le carte in regola per esserne designata a vessillifera? Però a un certo punto ─ era il 2012, il disco era “Sugaring Season” ─ sembrò che Beth avesse fatto una scelta di campo. Resta il suo album folk, visto che con “Kidsticks” nel 2016 effettuava un’inversione a u confezionando la sua opera insieme più sperimentale e maggiormente indirizzata al dancefloor. Per molti la meno convincente, benché vanti alcuni brani notevoli e in ogni caso si stia parlando di una il cui minimo sindacale surclassa la quasi totalità della concorrenza.

“Weather Alive” non va in una direzione né nell’altra e nemmeno media fra i predecessori. Composto su un piano malandato (strumento di cui la Orton ha una padronanza basica), assemblato con un quartetto di musicisti di area jazz, a volerlo proprio catalogare finirebbe alla voce fuori moda “downtempo”. Ma se talune tracce rimandano indubbiamente ai Portishead in altre si odono echi di Talk Talk, David Sylvian, Peter Gabriel. Di folk un accenno, di funk pure, il finale vira ambient. Beth Orton resta in movimento e unica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Il primo (il più sottovalutato, il meno ascoltato) Ry Cooder

Per non avere che ventitré anni il Ry Cooder che debutta nel 1970 da solista vanta un cv non solo corposo ma strepitoso: a parte un omonimo LP, inciso nel 1966 per una Columbia che assurdamente lo chiudeva in un cassetto e non lo recupererà che nel ’92, con i Rising Sons, quintetto fra folk-rock e country-blues elettrico con Taj Mahal, è stato il fulcro della prima Magic Band di Captain Beefheart, si è prestato da strumentista al Randy Newman di “12 Songs” e a Judy Collins in un tour che ha fruttato un live, ha collaborato con Van Dyke Parks e i Little Feat e, quel che più conta, a lungo è stato il sesto (o settimo, contando Ian Stewart) Rolling Stones (Love In Vain su “Let It Bleed” e Sister Morphine su “Sticky Fingers” gli apporti più importanti). Quando infine si ritrova per conto proprio incide un LP che può essere detto acerbo soltanto a confronto di certi capolavori successivi, gemma da sgrezzare (negli anni il blues dell’era della Depressione How Can A Poor Man Stand Such Times And Live? acquisterà dal vivo ben altra pregnanza, da spiritual) ma che già abbaglia e soprattutto rappresenta un manifesto d’artista cui l’estensore resterà fedele almeno finché non si farà sequestrare dal mondo del cinema. Raramente sarà autore (qui firma giusto Available Space, stantuffante e giocosa e in cui sei corde gli bastano per evocare una marching band) preferendo reinterpretare, sottraendoli ai curatori museali per restituirli alla vita, esempi fra i più vari dell’immenso patrimonio della musica popolare americana. Più avanti confezionerà dischi “a tema”. Qui essendo il primo opta per bighellonare qui e là, inserendo in un programma di undici tracce per scarsa mezzoretta anche un contemporaneo, Randy Newman, con la vignetta country Old Kentucky Home. È alle prese con i materiali più oscuri che sfodera un’originalità di accenti già unica: il Woody Guthrie di Do Re Mi riletto con una ritmica rock e dietro archi che guizzano, il Lead Belly di Pig Meat trasfigurato in pigra marcetta dixieland. Se il cantato non è il suo forte la prodigiosa tecnica fingerpicking esibita in Police Dog Blues di Blind Blake più che compensa. E dove non c’è la voce, come nella conclusiva Dark Is The Night di Blind Willie Johnson, sospesa e drammatica, pure l’ascoltatore resta senza parole.

Si rimane senza fiato anche scoprendo che era da più o meno metà anni Ottanta che “Ry Cooder” non veniva riedito in vinile (non contando un box del 2014, manca dai negozi pure come CD dal ’95). Una terza ragione per applaudire la Speakers Corner, essendo la prima che questa stampa nella sua ruvidezza suona eccellentemente e la seconda che a 32 euro al pubblico i titoli dell’etichetta tedesca sono diventati, per l’impazzito mercato odierno, economici.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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John Doe – Fables In A Foreign Land (Fat Possum)

Sempre pensato, da quando vidi per la prima volta gli X in foto, che con quella sua bella faccia da onest’uomo americano John Doe sarebbe stato perfetto per il cinema. Che un John Ford qualche decennio prima non avrebbe esitato a includerlo nel cast di un suo western. Deve aver fatto la stessa impressione a tanti: comprensiva anche di varie serie TV, la filmografia dell’uomo nato John Nommensen Duchac sessantanove anni fa è chilometrica. Persino più di una discografia pure assai cospicua giacché oltre alla band sunnominata, una delle più grandi dell’era artisticamente aurea del punk USA, comprende Knitters, Flesh Eaters e una carriera da solista di cui quest’album (primo per la sempre più in auge Fat Possum) è il tredicesimo capitolo in studio. Atteso sette anni ma che gli vuoi dire a uno che nel frattempo ha pubblicato due libri e un disco (splendido) con i riformati X, suonato parecchio dal vivo e aggiunto al curriculum attorale un ruolo di primo piano in All Creatures Here Below?

Di “Fables In A Foreign Land” stupisce più che altro il titolo: come sarebbe a dire “terra straniera” quando il disegno che ne adorna la splendida copertina ritrae un cowboy di schiena, incamminato verso nuove avventure con a fianco il suo cavallo? Immagine quanto mai iconica e, a proposito, il disco prima si chiamava “The Westerner”. E quali “favole”? Schizzi assolutamente realistici invece, per quanto ambientati in un indefinito passato. La distanza che apparentemente separa questi tredici brani pencolanti più verso il folk o il folk-rock che il country, tolte un paio di deviazioni in area tex-mex e rockabilly, dal sound scorticato e ipercinetico degli X in realtà in spirito si annulla. Identica è l’onesta dell’approccio. Si torna lì: all’onestà.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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Jensen McRae – Are You Happy Now (The Orchard)

Abbiamo una nuova Tracy Chapman? Che manco era nata quando l’originale collezionava dischi di platino, ancora doveva compiere nove anni quando colei il cui nome resterà legato per sempre alla canzone che ne inaugurava nell’88 l’omonimo esordio (Talkin’ ’Bout A Revolution, ovviamente) dava alle stampe quello che è a oggi il suo ultimo lavoro (“Our Bright Future”) e, per curiosa coincidenza, pubblica il primo album a ventiquattro, stessa età che aveva l’evidente modello quando era lei a debuttare in lungo. Oddio… modello… Alle nostre orecchie le similitudini sono lampanti, ma che Jensen McRae volutamente intenda porsi in quel solco non è da darsi per scontato. Appartiene a un’altra e lontanissima generazione e se a qualcuna si ispira è alla di poco più “anziana” Phoebe Bridgers. Però i classici ─ Dylan, Joni Mitchell, Carole King, James Taylor ─ li ha studiati eccome e in “Are You Happy Now” sono influenze che si sentono, laddove di altre ─ Stevie Wonder, Alicia Keys ─ per ora non si coglie nulla. In futuro chissà. Chissà chissà, visto che la giovane artista californiana pur con garbo nelle poche interviste circolate finora esprime un po’ di fastidio per il fatto di sentirsi vista come un animale raro, una ragazza di colore che suona e canta brani folk invece che soul o r&b.

Folk ma spesso di grande pop appeal e “Are You Happy Now” ne piazza subito uno, Starting To Get To You, dal potenziale clamoroso (ne esibiscono appena meno Take It Easy e Good Legs e forse persino di più una latineggiante e con ritmica molto presente With The Lights On). Sconcerta che un’opera talmente pensata in forma di album da contenere tre interludi a separare/collegare le altre dodici tracce sia per ora disponibile solo in download.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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I migliori album del 2021 (14): The Weather Station – Ignorance (Fat Possum)

Più che un gruppo (per le sue fila sono passati diversi musicisti e solo per un breve periodo la formazione si è mantenuta stabile) Weather Station è lo pseudonimo dietro cui si cela la canadese Tamara Lindeman, oggi trentaseienne e al tempo dei suoi vent’anni indecisa fra settima arte e sette note. Avrete inteso cosa sceglieva alla fine, benché nel frattempo cinema e TV (che non ha comunque abbandonato del tutto) le avessero già regalato belle soddisfazioni, con ruoli importanti e più di un premio. Per certo una che non soffre di paura del palcoscenico si approcciava alla ribalta musicale frequentando la vivace scena folk di Toronto. Esordio in lungo datato 2009, lo scarno “The Line” ne evidenzia le doti, oltre che di autrice e cantante, di chitarrista e banjoista. Per il successivo “All Of It Was Mine”, del 2011, c’era chi tirava in ballo come altisonanti numi tutelari Doc Watson e Bert Jansch, mentre nel 2015 con “Loyalty” il folk si faceva a tratti folk-rock e non solo per la provenienza geografica dell’artefice venivano azzardati paragoni con Joni Mitchell. Non a caso omonimo, nel 2017 “The Weather Station” espandeva assai la paletta sonica, con ritmiche schiettamente rock e arrangiamenti d’archi.

Compie ulteriori e decisi passi avanti in tal senso “Ignorance”, come evidenziano subito la battuta hip hop e le coloriture jazz di Robber. Opera solida quanto variegata, svelta a catturare ma capace di svelare a ogni ascolto dettagli sfuggiti al precedente. Un poker d’assi calato all’esatto centro del programma con una Parking Lot mediana fra Joni Mitchell e i Fleetwood Mac, una Loss sottratta con destrezza a Kate Bush, un singolo perfetto quale Separated e una Wear di afflato Young Marble Giants prima di – elegantemente – raddensarsi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.

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