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Una breve trattazione della produzione anni ’90 di Nick Cave

Si sa: la notte è più buia subito prima dell’alba. Da “The Good Son” emana un lucore che avvince e commuove. Il faulkneriano And The Ass Saw The Angel è stato finalmente pubblicato e accolto da ovazioni. In Brasile con i Bad Seeds per tre date trionfali, Cave ha conosciuto la stilista Viviane Carneiro e si è innamorato. E non solo di lei ma anche della tentacolare e cosmopolita Sao Paulo, in cui si trasferisce. L’album vede la luce il 17 aprile 1990, ventitré giorni prima del primogenito di Nick e Viviane, Luke, e che sia stato registrato in Brasile si sente. Non soltanto perché gli fa da incipit un adattamento dell’inno protestante locale Foi na cruz, che squisitamente riassume il costante intrecciarsi in esso di gioia e malinconia, ma per un gusto per la melodia assolutamente inedito. Il rock è racchiuso nella deliziosa chitarra surfeggiante di The Hammer Song e nella frenesia di una The Witness Song inondata pure di gospel. Il resto sono pianoforti romantici e profluvi di archi, pop che aspira alla perfezione e la raggiunge in una The Ship Song dopo la quale l’autore avrebbe potuto ritirarsi: è la canzone immortale che crede di non avere ancora scritto.

So di andare controcorrente, ché “The Good Son” già all’uscita fu disco che non metteva d’accordo e in ogni caso raramente viene citato fra i migliori di Cave: a me pare sia ─ per densità emotiva, sapienza degli arrangiamenti, qualità delle singole tracce e articolazione d’assieme ─ la sua raccolta autografa nettamente più memorabile.

Narrativamente gli anni ’90 di Nick Cave offrono materiale infinitamente meno interessante degli ’80, essendo la vita domestica faccenda non eccitante da raccontare quanto la vita spericolata. È un Cave sempre più rispettabile e rispettato che li traversa raccogliendo riconoscimenti da ogni dove, chiudendo con rimpianti e dolcezza la relazione con Viviane e avviandone una fugace con Polly Jean Harvey, lasciandosi alle spalle il Brasile e cominciando a chiamare “casa” Londra. Incontra un nuovo grande e possibilmente definitivo amore nella modella Susie Bick, che gli darà due gemelli, e infine si riconcilia con la memoria del padre, colui che l’ha iniziato alla letteratura, morto giovane in un incidente automobilistico (poco più che adolescente, il figlio apprese la notizia in una stazione di polizia in cui era in stato di fermo). Musicalmente, regalano al contrario dischi ancora capaci di generare controversie. Magari non “Henry’s Dream”, del ’92, che riprende le atmosfere di “The Good Son” scurendole appena e vanta canzoni superbe ─ una Papa Won’t Leave You, Henry dal ritornello saporoso di Irlanda, la lugubre Loom Of The Land (i Walkabouts ne offriranno una versione stellare in “Satisfied Mind”) e la tesa e minacciosa Jack The Ripper ─ ma è danneggiato dalla produzione inusualmente piatta di David Briggs (Neil Young; alcuni brani faranno ben migliore figura nel bellissimo “Live Seeds”). Magari non “Let Love In”, del ’94, che un tantino in effetti si adagia in una routine di classe ma è divertente nella vorticosa Jangling Jack e nella garagista Thirsty Dog e, alle prese con il delicato tema della pedofilia, appiccica al muro e fa il cuore a brandelli con Do You Love Me?. Di sicuro “Murder Ballads”, del ’96, album a tema che finirà per essere di gran lunga l’articolo più venduto del catalogo (oltre un milione di copie), grazie a un duetto con PJ Harvey e soprattutto a uno con Kylie Minogue, nell’incantata e crudele Where The Wild Roses Grow. È un disco che non ho mai amato particolarmente, pur apprezzandone l’umorismo che non molti hanno colto, una Henry Lee che evoca congiuntamente Leonard Cohen e Jennifer Warnes, l’orroroso vaudeville di The Curse Of Millhaven, la tenerezza blues di The Kindness Of Strangers e, più che altro, la liturgica Death Is Not The End, in cui al nostro uomo riesce di nuovo il trucco di migliorare Bob Dylan, sebbene un Dylan di seconda o terza categoria. Fatto è però che in “Murder Ballads” fatico a individuare la consueta messa a nudo dell’anima e quello che scorgo è un bravo attore. In tanti lo hanno detto capolavoro, ma mi permetto di dissentire.

Se un capolavoro va individuato nella produzione dei ’90 è piuttosto “The Boatman’s Call”, che usciva nel 1997 e raccontava la fine di un amore e anzi due con una sincerità bruciante fino all’imbarazzo e toccante. Raccolta di ballate prevalentemente pianistiche, è il più scarno e intimo fra gli album di Nick Cave e davvero dopo brani di intensità indicibile come Into My Arms e People Ain’t No Good ci si può chiedere, con il titolo di un’altra canzone che tuffandosi in una tempesta di sentimenti non vi pesca che dolore: Where Do We Go Now But Nowhere?.

Tratto da Nick Cave – Nel ventre della bestia. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. “The Good Son” arrivava nei negozi trentaquattro anni fa a oggi.

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Confessin’ The Jazz – Joni Mitchell dopo “Blue”

Una delle più grandi storie di successo negli annali dello showbiz comincia un imprecisato giorno del 1971, quando un allora ventottenne David Geffen tenta invano di convincere Ahmet Ertegun a mettere sotto contratto per la Atlantic il ventiduenne Jackson Browne. “Sfonderà, ci farai un sacco di soldi”, si accalora, e resta spiazzato quando Ertegun gli replica ineffabile di essere ricco a sufficienza. Leggendaria figura di discografico dal fiuto formidabile con la propensione però a far prevalere l’amore per la musica su qualunque considerazione di ordine commerciale, non è che quanto ha ascoltato non gli sia piaciuto. Solo che ritiene che un così limpido talento potrebbe essere promosso meglio da un’etichetta dedita specificamente a quel tipo di materiali. Di Geffen, che nonostante la verde età vanta un cv impressionante, manager di Laura Nyro e CS&N fra il resto, ha molta stima. “Perché non ce li fai tu un sacco di soldi? Fonda un’etichetta.” Il giovanotto non ci penserà su più di tanto. La Asylum (nome programmatico per chi per i suoi artisti intendeva creare una casa che fosse innanzitutto accogliente) entro fine anno avrà già pubblicato un paio di LP e che si badasse alla qualità più che al fatturato è testimonianza inequivocabile che a firmarli erano David Blue e Judee Sill. Jackson Browne dovrà aspettare il gennaio dell’anno dopo, alla lunga ripagherà ampissimamente la fiducia ma prima di lui saranno gli Eagles (messisi insieme su istigazione proprio di Geffen) a fare scampanellare a festa i registratori di cassa. Loro e Joni Mitchell. Il nostro uomo ha sempre dichiarato che fondò sì la Asylum per Browne e però soprattutto con l’intenzione di eleggerne a vessillifere la Nyro e (scippandola alla Reprise) Joni Mitchell. Sfortunatamente (la dice la delusione più cocente della sua vita) la prima si defilerà. La seconda no.

Nel momento in cui stringe con il di poco più anziano (nove mesi) David un sodalizio che sarà ventennale la stella della Mitchell brilla da un paio di anni altissima nel firmamento del cantautorato nordamericano e diffondendo una luce tutta sua, inconfondibile. Dopo il mezzo inciampo di un esordio, “Song To A Seagull” (marzo 1968), apparentemente acerbo quando in realtà Joni già aveva scritto una manciata di classici distribuendoli a Judy Collins come a Dave Van Ronk, a Tom Rush e ai Fairport Convention e per di più involontariamente danneggiato dalla produzione dell’amico e mentore David Crosby, ha aggiustato il tiro pur rimanendo in un ambito di folk austero (in scaletta persino un pezzo a cappella) con il nettamente più solido “Clouds” (maggio 1969) e con “Ladies Of The Canyon” (aprile 1970) ha svoltato pop pur continuando ad affidarsi a una strumentazione acustica, perlopiù accompagnandosi da sola, alla chitarra o al piano. Primo suo capolavoro e pietra d’angolo del canone che sarà detto “confessionale”, il disco si congeda infilando una via l’altra Big Yellow Taxi, una hit a 45 giri, l’inno generazionale Woodstock e The Circle Game, che nell’intero catalogo dell’artista (canadese di nascita, californiana di adozione) resterà l’articolo di più deliziosa, epidermica cantabilità. Sistemata altissima l’asticella, con “Blue” (giugno 1971) l’ha scavalcata in prodigiosa scioltezza non solo senza nulla concedere in orecchiabilità ma anzi vergando spartiti più sfuggenti a supporto di testi come non mai a cuore aperto, sanguinante spesso. Critica in visibilio ─ e ci sta, e ci mancherebbe ─, ciò che stupisce in questa storia raccontandola oggi è che “Blue” raddoppiava gli incassi del ben più accessibile predecessore, andando al numero 15 negli Stati Uniti, al 3 in Gran Bretagna. Erano davvero altri tempi. O anche no: la ristampa, rimasterizzata ma senza bonus, che nel 2021 ne celebrava il cinquantennale nella settimana dell’uscita risulterà il CD più venduto su Amazon e l’album più scaricato su iTunes.

Vuoi perché si tratta di un’edizione limitata, vuoi perché non è esattamente economico (aspettatevi di pagarlo fra i 170 e i 180 euro, ossia fra i 34 e i 36 euro a disco), non si è prodotto in un’analoga benché analogica performance il cofanetto “The Asylum Albums (1972-1975)”, edito qualche mese fa dalla Rhino e contenente (sicché c’è da aspettarsi un secondo volume dedicato al quadriennio ’76-’79) esattamente metà di quanto Joni Mitchell pubblicò per l’etichetta, vale a dire tre lavori in studio e un doppio live. Se li si potesse acquistare separatamente quest’ultimo sarebbe soltanto per i cultori di più stretta osservanza desiderosi di sostituirlo o affiancarlo all’usurata copia d’epoca. Illo tempore un campione al botteghino (nella classifica di “Billboard” saliva fino al secondo posto), “Miles Of Aisles” (novembre 1974; registrato fra il marzo e l’agosto precedenti) è invecchiato così così, appesantito dagli scambi con l’adorante platea e con i pur fenomenali musicisti che vi affiancano la titolare che si limitano all’elegante compitino, laddove ben superiore pathos evidenziano i brani in cui costei ne fa a meno. Non mostrano al contrario manco una ruga “For The Roses” (novembre 1972), “Court And Spark” (gennaio 1974) e “The Hissing Of Summer Lawns” (novembre 1975). Impossibile una replica di “Blue”, in luogo di imboccare la via più facile per consolidare la propria fama tornando alla vivacità e relativa linearità melodica di “Ladies Of The Canyon”, o in alternativa fare qualche passo verso il rock (la coda di Blonde In The Bleachers mero divertissement), la Mitchell nel debutto per Geffen prendeva piuttosto a flirtare con il jazz. Moderatamente e concedendo graziosamente all’etichetta il singolo che le era stato chiesto con una spumeggiante You Turn Me On, I’m A Radio, l’ex-fidanzato Graham Nash a soffiare alla Dylan in un’armonica. La svolta si perfezionerà con il disco dopo e come per “Blue” lascia stupefatti che anche “Court And Spark”, opera assolutamente incompromissoria al netto di una spumeggiante Help Me, di una Car On The Hill che è quasi una seconda Woodstock e del rock’n’roll simil-Springsteen Raised On A Robbery, vendette assai: un numero 2 USA, addirittura. Doppio platino, certifica la Recording Industry Association Of America. Sofisticatissimo e parimenti ma diversamente stupendo “The Hissing Of Summer Lawns” sarà “solo” oro e un numero 4: comunque da non crederci, riascoltandolo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Alcune cose che ho scritto sugli Sparklehorse, a quattordici anni dalla morte di Mark Linkous

E così adesso Mark Linkous, l’uomo meglio noto come Sparklehorse, ha qualcos’altro in comune con Vic Chesnutt. A parte la collaborazione in “Dark Night Of The Soul”. A parte la malinconia che permea un catalogo decisamente meno cospicuo (quattro album “veri” in tutto). A parte una carrozzella, cui il nostro uomo era costretto per qualche tempo a metà ’90 essendo rimasto svenuto per quattordici ore in una posizione improbabile in una stanza d’albergo londinese, dopo avere mischiato valium con altre schifezze chimiche che pretenderebbero di curare i mali dell’anima. Ma dalla quale, diversamente dal povero Vic, riusciva dopo una serie di operazioni chirurgiche e tanta fisioterapia ad alzarsi. Adesso Vic Chesnutt e Mark Linkous condividono anche di avere posto fine volontariamente a delle vite gloriose e disperate. Il secondo ha giusto scelto un modo più spettacolare, sparandosi in pieno petto. Ci lascia un gruzzoletto di canzoni fragili e ispide come lui, qualcuna splendida a un crocevia sul quale convergevano Neil Young e Tom Waits, Johnny Cash e Skip Spence. Ci lascia un senso di inquietudine per l’incapacità di una generazione, che è poi quella di chi scrive e di non pochi fra i lettori, di diventare adulta – nel bene oltre che nel male – fino in fondo. Il terzo album degli Sparklehorse veniva intitolato nel 2001 “It’s A Wonderful Life”, come un classico di Frank Capra del ’46: quello in cui un angelo di serie B viene spedito sulla terra a guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio. Nessun angelo girava purtroppo dalla parti di Knoxville il pomeriggio dello scorso 6 marzo.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.669, aprile 2010.

Vivadixiesubmarinetransmissionplot (Capitol, 1995)

Dal sottobosco del rock americano, fertile anche in momenti di oggettiva stanca quale è quello che stiamo vivendo, emerge un talento di cui potremmo sentir parlare a lungo. Si chiama Mark Linkous e da alcuni mesi è confinato su una sedia a rotelle a causa di un singolare incidente che non raccontiamo per ragioni di spazio (tanto ne avrete già letto, o ne leggerete in futuro, altrove). Ma se il suo corpo è storpio (tornerà a camminare ma resterà zoppo) lo spirito di Mark è forte e vola alto. L’esordio dei suoi Sparklehorse è un disco di quelli che magari non ti colpiscono di primo acchito ma che finisci poi per riascoltare ossessivamente. Lavoro di maturità stupefacente per un autore giovane quale è il Nostro che, nel mentre richiama alla memoria tanti altri artisti, conserva sempre una sua peculiarità.

Qualche riferimento, allora, tanto per chiarire di cosa parliamo quando parliamo del nostro amore per questo figlio di minatori della Virginia. Pensate a dei Pavement più lineari e ai R.E.M. più suadenti, ai Big Star del terzo LP, a un nuovo Johnny Cash salito alla ribalta dopo il punk. Immaginate Neil Young accompagnato non dai Crazy Horse ma ora dai Pixies, ora dalle Throwing Muses. Scarnificate il tutto e immergetelo in una malinconia quasi morbosa. Heart Of Darkness sembra uscire da “Berlin”, capolavoro di Lou Reed datato 1973. Someday I Will Treat You Good da “Everybody Know This Is Nowhere”, Neil Young, 1968. Sono invece due delle più belle canzoni in cui possiate imbattervi in questo 1996, due delle tante memorabili offerteci da “Vivadixiesubmarinetransmissionplot”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.164, ottobre 1996.

It’s A Wonderful Life (Capitol, 2001)

Stesso titolo di un classico di Frank Capra del 1946, quello in cui un angelo di seconda categoria viene spedito sulla terra a cercare di guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio, per il nuovo album della creatura di Mark Linkous. Scrivo queste righe basandomi su un’edizione provvisoria priva di note e senza un’anche minima cartella stampa e ignoro dunque se si tratti di una citazione, o se sia al contrario casuale. Quel che è certo è che pare evidente una certa affinità fra quella pellicola, una delle più problematiche e indubbiamente delle meno ottimistiche del grande regista americano, e l’amarognola visione della vita espressa dal nostro uomo in precedenza in piccoli capolavori chiamati “Vivadixiesubmarinetransmissionplot” e “Good Morning Spider”. Dischi che lo hanno collocato nella serie A e nelle zone alte di classifica di quel nuovo cantautorato a stelle e strisce che ha fra i suoi massimi alfieri Will Oldham e Bill Callahan.

Rispetto a quelli “It’s A Wonderful Life” paga il venir meno della gradita sorpresa indotta dalla scoperta prima e dalla conferma poi di un talento fuori dal comune. Linkous non cambia registro e la sua scrittura, devota a Neil Young come a Johnny Cash e a Tom Waits, fluisce in un alveo di quieta classicità facendo slalom, per la maggior parte del tempo e almeno per ora, fra le sabbie mobili degli stereotipi. Due scarti avvincenti: una Dog Door che trasloca Captain Beefheart nell’era del downtempo; il cigolante congedo Babies On The Sun. Vette di un lavoro che vanta ancora un discreto gruzzolo di canzoni coi fiocchi: l’incantato carillon che lo inaugura e intitola, l’incontro fra Dinosaur Jr. e Byrds di Piano Fire, il romanticismo in punta di dita di Apple Bed. Sarebbero pure belle, e parecchio Experiences, Little Fat Baby e Comfort Me, non fosse la devozione che esibiscono per il Neil Young di “After The Gold Rush” invero troppo marcata.

Ecco: a suscitare perplessità è che Linkous sembri accontentarsi di essere fra i prosecutori di una tradizione, quando inizialmente era parso intenzionato piuttosto a rinnovarla.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.447, giugno 2001.

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Rock The Country – Il primo Joe Ely

Altamente improbabile che vi sia qualche lettore, per quanto disinteressato al country e con una presenza minima di cantautori USA negli scaffali, per cui Joe Ely è uno sconosciuto. Almeno il nome, se non altro perché rientra fra quelli recensiti di default su queste pagine, lo avrà orecchiato. Ma è assolutamente impossibile che non lo abbia mai ascoltato cantare. Avete presente Should I Stay Or Should I Go? La più rollingstoniana delle canzoni dei Clash era il terzo singolo tratto nell’82 da “Combat Rock”, a seguire l’exploit di Rock The Casbah, che non eguagliava ma comunque avvicinava. Sarà uno spot per una marca di jeans a trasformarla, di lì a dieci anni, nel più grande successo di sempre di una band a quel punto da lungi sciolta e a renderla inamovibile nel novero di quei cento-duecento pezzi fissi nelle rotazioni di un certo tipo di radio. Nel catalogo Clash Should I Stay Or Should I Go è un’anomalia, uno dei pochissimi brani in cui è Mick Jones la voce solista, con Joe Strummer a fare i cori. Non da solo. Con Joe Ely, che così arrivava a dividere uno studio con un gruppo per il quale aveva aperto innumerevoli date nel Regno Unito come oltre Atlantico, società di mutua ammirazione che aveva toccato un duplice apice nel 1980 con l’uscita di “Live Shots”, immortalato a Londra proprio in una serata di spalla a Strummer e soci, e nell’omaggio tributatogli da costoro in If Music Could Talk, quinta traccia della terza facciata del triplo “Sandinista!”: “There ain’t no better blend than Joe Ely and his Texas Men”. Se non vi fidate del sottoscritto…

Earle R. Ely nasce ad Amarillo il 9 febbraio 1947 e si trasferisce dodicenne in quella Lubbock che ancora oggi chiama casa. È una performance di Jerry Lee Lewis a fargli decidere cosa farà da grande anche se, non potendosi permettere un piano, imbraccia un violino prima, poi una chitarra. Fra lui e il sogno si frappone, quando ha quattordici anni, la tragica realtà della prematura scomparsa del padre e di un conseguente crollo nervoso della madre che fa sì che lui e un fratello debbano soggiornare per diversi mesi presso dei parenti. Abbandonati prematuramente gli studi contribuisce al bilancio domestico con il più umile dei lavori, lavapiatti. Lasciato quando il primo complesso semiprofessionale, tali Twilights dei quali non ci è giunto che il nome, comincia a rimediare abbastanza ingaggi da garantirgli introiti più dignitosi. Lasciati a loro volta, i Twilights, per una vita da vagabondo beat che lo porta in California, poi a New York, quindi (al seguito di una compagnia teatrale) in Europa. Torna a Lubbock nel 1971 e fa comunella – inizio di un felicissimo ménage à trois giunto ai giorni nostri – con Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore. Dei tre Joe è l’anima rock’n’roll, Butch quella folk, Jimmie Dale un’enciclopedia deambulante della country music. Si battezzano Flatlanders e rimediano un contratto con un’etichetta, la Plantation, che ha vissuto giorni di gloria ma è ormai in disarmo. Che è la ragione per la quale l’album che registrano nel 1972 – “All American Music” il programmatico titolo – non vedrà la luce che nel ’73. Luce? Quale luce? Esce solo in stereo 8 (!) e insomma fino al 1980, quando lo riediterà a 33 giri la britannica Charly smentendo quanti lo ritenevano una leggenda, non lo ascolterà nessuno. L’anno dopo ancora il nostro uomo si gioca la carta della carriera solista. Passando di mano in mano un demo arriverà nel 1976 fra quelle di un componente della band di Jerry Jeff Walker, che lo girerà al principale, che lo girerà a un dirigente della sua casa discografica, la MCA.

Stentavo a crederci, giacché è di un autore e interprete stratosferico universalmente annoverato fra i precursori del cosiddetto alt-country che stiamo parlando, ma le ristampe rimasterizzate pubblicate lo scorso 17 febbraio dallo stesso marchio che le portò nei negozi illo tempore di “Joe Ely” (1977), “Honky Tonk Masquerade” (1978) e “Down On The Drag” (1979) sono, per l’esordio e il suo seguito, le prime in vinile dal 1980 e, per quanto attiene il terzo LP, addirittura la prima in analogico. Se per un verso si potrebbe paradossalmente dirle inutili, giacché le copie d’epoca si trovano ancora con facilità e a un prezzo che è una frazione di quello scandaloso (attorno ai cinquanta euro!) richiesto per queste, e suonano già piuttosto bene, per un altro quantomeno offrono il destro, nell’attesa che pure il summenzionato “Live Shots”, “Musta Gotta Notta Lotta” (1981) e “Hi-Res” (1984) subiscano in ogni senso analogo trattamento, per spendere qualche riga per un debutto brillante, un classico totale e un buon lavoro di transizione. Decida chi ne è sprovvisto se farsi rapinare o rivolgersi al mercato dell’usato. Tutti e tre gli album hanno dieci canzoni in scaletta e in tutti e tre il titolare ne firma la metà, pescando parecchio per il resto nel repertorio di Butch Hancock (ben undici brani) e offrendo inoltre sue versioni di due pezzi di Jimmie Dale Gilmore (a trenta si arriva con un’esuberante resa di Honky Tonkin’ di Hank Williams e una bluesata di B.B.Q. & Foam di Ed Vizard). In tutti e tre danno man forte al titolare, oltre a una folla di turnisti, Lloyd Manes alla steel guitar, Jesse Taylor alle chitarre sia acustiche che elettriche, Gregg Wright al basso e Steve Keaton alla batteria, con Ponty Bone che si aggiunge a piano e fisarmonica a partire dal secondo. Gruppo tosto ed eclettico, ruspante e raffinato. Apici… Di “Joe Ely”: la travolgente I Had My Hopes Up High, il cajun Mardi Gras Waltz, il western swing All My Love. Ma, soprattutto, la meravigliosa ballata da border She Never Spoke Spanish To Me. Di “Honky Tonk Masquerade” (incluso nel 2005 nel delizioso 1001 Albums You Must Hear Before You Die): l’honky tonk Cornbread Moon, l’accorata con brio Boxcars, la squisitamente sentimentale title track, una I’ll Be Your Fool che sarebbe stata perfetta per Elvis, il rock’n’roll Fingernails. Di “Down On The Drag”: la dolente Fools Fall In Love, lo swamp-rock Crawdad Train, il valzer She Leaves You Were You Are. Tempo di scoprire Joe Ely, se per voi finora era solo un nome.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.453, maggio 2023. Il cantautore americano preferito dei Clash compie oggi settantasette anni.

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I migliori album del 2023 (3): Anohni & The Johnsons – My Back Was A Bridge For You To Cross (Secretly Canadian)

A spiazzare nel 2016 non era che il meraviglioso essere umano nato Antony Hegarty si ribattezzasse Ahnoni, apparentemente formalizzando il completamento di una transizione di genere (e così inducendo qualche equivoco) quando tuttora rivendica il suo essere transgender, quanto che nella prima sortita discografica con la nuova identità non solo rinunciasse ai Johnsons (in ogni caso da sempre più mera sigla ad alto tasso di avvicendamenti e ospitate che non gruppo vero) ma proponesse un sound per lei inaudito. “Elettronica dai denti aguzzi”, secondo la definizione dell’artefice stessa, posta al servizio di testi che all’usuale vena confessionale sostituivano la presa di posizione politica e in tal senso risultava esemplare sin dal titolo – Obama: non esattamente un panegirico – la sesta di undici tracce dall’algido all’abrasivo. Synth-pop in un’accezione tanto aggressiva e/o sperimentale da potere a stento essere detto “pop”, dance talmente obliqua da risultare pochissimo ballabile. “Solo se proprio non potete farne a meno, solo con una pistola alla tempia”, annotava perplesso un recensore, voce fuori da un coro entusiasta di elogi nei quali nondimeno si coglieva a volte in tralice quasi il dovere di farsi piacere un disco atteso sei anni e diversissimo dalle attese.

Sicché non stupisce che fra le righe dei peana che hanno salutato il successore di “Hopelessness”, aspettato esso pure sei anni a contarli dal “Paradise EP” che nel 2017 raccoglieva sette tracce di coeva realizzazione e se no sette, si avvertano malcelati sospiri di sollievo: riecco l’Antony… scusate… l’Ahnoni che ben conoscevamo. O no?  Se “My Back Was A Bridge For You To Cross” è indubitabilmente più il seguito dell’ultimo album con i Johnsons, l’ormai giurassico (2010!) “Swanlights”, tuttavia lo stacco da quello e dal suo porsi in sostanziale continuità con la produzione precedente è annunciato già dal nome di chi è stato eletto dalla titolare a principale collaboratore, ossia Jimmy Hogarth: uno che può vivere non metaforicamente di rendita avendo fra il tanto resto co-firmato la regia del primo Amy Winehouse e del primo Duffy e un tot di successi di James Blunt. Allora: il disco pop sul serio di Anohni? O insieme o invece un suo consegnarsi come non mai al soul? Decisamente più la seconda, si premura subito di chiarire It Must Change, scheggia di “What’s Going On” anche nello spartito laddove più avanti sarà più che altro il testo di una Why Am I Alive Now? musicalmente radente la bossa nova a rimandare, novella Mercy Mercy Me (The Ecology), al capolavoro di Marvin Gaye. Lo ribadiranno, dopo il ruggente interludio hendrixiano Go Ahead e l’accorata dedica all’amico morente Lou Reed Sliver Of Ice (cosa non si darebbe per poterla ascoltare da Nina Simone, o da Jeff Buckley), il crescendo gospel di Can’t, una Scapegoat spiazzantemente dilaniata a tre quinti di percorso da un assolo di chitarra bombastico (Hogarth uno che prima di convertirsi alla black praticava l’hard e non lo ha mai rinnegato), il blues (cosa non si darebbe per poterlo ascoltare da Mark Lanegan) Rest. Emozionantissimi i due episodi che pencolano piuttosto verso un folk da Terry Callier primevo, There Wasn’t Enough e il congedo You Be Free, giusto il siparietto di jazz orchestrale It’s My Fault si colloca sotto media. Quanto alta? Abbastanza da competere con classici conclamati quali “I Am A Bird Now” e “The Crying Light”.

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I migliori album del 2023 (6): Grian Chatten – Chaos For The Fly (Partisan)

Non fosse che è presente Tom Coll, che suona la batteria da par suo e ha programmato la drum machine. Non fosse che il disco è stato prodotto, come “Dogrel”, “A Hero’s Death” e “Skínty Fía” da Dan Carey. Non fosse che li si sa già al lavoro sul quarto album. Ecco: non fosse per questa, quella e quell’altra ragione ci sarebbe stato da preoccuparsi alla notizia che il frontman della più formidabile rock band affacciatasi alla ribalta nell’ultimo lustro si apprestava a esordire da solista. Ma come? Già al capolinea i Fontaines D.C.? Quanto di meglio donatoci da Dublino (l’ordine per ora è cronologico; per ora) dopo Thin Lizzy e U2.

Invece c’è solo da godere per questa sorpresa che ci ha fatto Grian Chatten e nemmeno viene da pensare, ascolto dopo ascolto di un disco i cui trentasei minuti volano, che questa escursione in proprio abbia potuto sottrarre alla casa madre qualche canzone che, arrangiata dal gruppo, ne sarebbe diventata un classico. Tolta Last Time Every Time Forever, propulsa da un micidiale basso wave, “Chaos For The Fly” abita un mondo che il quintetto irlandese ha frequentato solo occasionalmente (da quel catalogo due articoli, forse tre, che qui non parrebbero fuori posto): è il debutto di un cantautore. Del tutto peculiare nel suo muoversi nell’ampissimo arco che da Nick Drake, richiamato dagli arpeggi svelti e dalla voce seducente che aprono The Score prima che la batteria elettronica la porti da tutt’altre parti, giunge a Beck, evocato dal finale della dapprincipio sospesa e solenne Season For Pain. Pensate Chatten come un Elliott Smith guarito dalla depressione. Difficilmente vi imbatterete quest’anno in un ritornello più istantaneo di Fairlies, in una melodia più sontuosa di Bob’s Casino.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.456, settembre 2023.

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I migliori album del 2023 (15): Emma Tricca – Aspirin Sun (Bella Union)

Cinque anni separano il debutto per un’etichetta importante quale Bella Union da “St. Peter”, che ne aveva impiegati quattro ad andar dietro a “Relic”, che seguiva di sei l’esordio da solista “Minor White”, di sette successivo all’unico, omonimo album con i Gypsies And Red Chairs. Lavorare piano, lavorare bene insomma il modus operandi di questa cantautrice, romana di natali ma londinese di adozione dacché un mito di un folk senza frontiere quale Odetta la confortava nella decisione di andare a studiare in loco una tradizione musicale di cui si era innamorata bambina. Secondo cruciale incoraggiamento dopo che un’altra leggenda, John Renbourn, aveva accolto con parole incoraggianti una canzone che Emma gli aveva sottoposto. La onorerà della sua amicizia e le insegnerà pure qualche trucco alla chitarra, lezioni messe a buonissimo frutto dalla ragazza.

Come “Wim Wenders che incontra ‘8½’ di Fellini” dice di “Aspirin Sun” l’autrice, aggiungendo di averlo scritto in un periodo in cui “di giorno leggevo Frank O’Hara, di notte ascoltavo Can, Neu!, Brian Jonestown Massacre”. Il che non lo rende il suo disco garage o krautrock e dire che la squadra che l’ha fiancheggiata – il chitarrista dei Dream Syndicate Jason Victor, il bassista Pete Galub e l’ex-batterista dei Sonic Youth Steve Shelley – sarebbe stata adattissima alla bisogna. Ma sono gli stessi che le diedero man forte in “St. Peter”, rispetto al quale il nuovo disco si pone in continuità. Ma nel contempo ampliando una volta di più un canone che copre ormai da Karen Dalton al dream pop dei primi Low, da un folk ora cameristico e ora elettrico alla psichedelia post-rock che marchia la seconda metà di Ruben’s House, 10’57” in costante raddensamento e accelerazione dopo un attacco incantato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Tender Comrade – Trent’anni di Billy Bragg

Cosa farai quando la guerra sarà finita, mio tenero compagno,/quando riporremo le tute mimetiche/e ce ne andremo ciascuno per la sua strada,/cosa dirai di ciò che ci univa, mio tenero compagno.” (Tender Comrade)

C’è un nuovo album di Billy Bragg in circolazione, o meglio ci sarà, dal 18 marzo, quando giungerà come si soleva dire una volta nei migliori negozi “Tooth & Nail”. Per il Bardo di Barking, che resta un’allitterazione da cui non ci si può esimere e definizione calzante tenendo a mente una voce tanto espressiva quanto non proprio operatica, fuori da qualsiasi canone di bellezza classicamente intesa, è il quattordicesimo in tre esatti decenni considerando tutto tranne le antologie. Mettendo in conto dunque diversi mini e pure la collaborazione, una e trina, con gli Wilco. Catalogo non particolarmente folto, allora, e per la parte in ogni senso più significativa concentrato nei primi anni di attività solistica del Nostro, compreso fra il 1983 di un tascabile “Life’s A Riot With Spy Vs. Spy” e il ’91 di un prolisso al confronto “Don’t Try This At Home”. Fra il punk-folk di quello e l’agit-pop di questo quasi tutto il Billy Bragg indispensabile, non faticherà ad ammettere anche il cultore più ultrà, fuor da una resurrezione di Woody Guthrie che gli appartiene più ideologicamente che non musicalmente. E se persino l’autore si interroga sul senso del proporsi con un album nuovo (cinque o sei anni ormai lo iato consueto fra l’uno e l’altro) al tempo dell’X factor un certo cinismo preventivo potrebbe essere giustificato. Ma poi ascolti un pezzo come Handyman Blues e improvvisamente sei di nuovo consapevole che sì, “quando il mondo va in pezzi ci sono cose che restano al loro posto”. Tipo quella voce che abbaia poesia (quando l’ultimo San Valentino felice sarà un ricordo sbiadito sogneremo ancora di grandi balzi in avanti). Tipo i dischi che ti hanno cambiato la vita.

Lavoravo, se si può chiamare lavorare trasmettere in tarda serata la musica che nessun altro trasmetteva, si trattasse dei Clash o di un po’ di blues, in una radio di Leeds. Mi pagavano così poco che non potevo nemmeno permettermi di andare al pub a mangiare qualcosa e allora occupavo il tempo prima del programma frugando nello scatolone dove finivano i promo destinati a essere rivenduti. Fondamentalmente, qualunque cosa non ricordasse Elton John o Lionel Richie veniva buttata lì e fu così che una sera ci trovai ‘Life’s A Riot’ e me lo portai a casa. Lo so che suona come un cliché, ma la mia vita cambiò per sempre quella notte, quando la puntina cadde sul primo solco di A New England. Tutto, assolutamente tutto quanto mi è successo da allora è figlio di quel momento.” (Andy Kershaw, dj di Radio One e del BBC World Service; per il resto del 1983 e parte dell’84 autista, tour manager, tecnico al seguito di Billy Bragg)

Se ti senti sola, ti chiamerò/…/e se starai cadendo saranno le mie mani a sorreggerti/e quando sarai amareggiata, capirò/…/sono il lattaio della gentilezza umana, lascerò una bottiglia in più.” (The Milkman Of Human Kindness)

Non posso dire che la mia vita sia stata cambiata in misura al pari significativa da “Life’s A Riot With Spy Vs. Spy” solo perché a imprimerle la traiettoria che non ha più smesso di seguire già aveva provveduto White Riot, all’incirca nei giorni in cui operò il medesimo miracolo ─ significativa differenza, rilevanza delle conseguenze a parte: lui la sua epifania la sperimentò dal vivo ─ sul diciannovenne Stephen William Bragg. Conservo nondimeno a oggi un ricordo assai vivido di quando, avendone letto varie volte sui settimanali specializzati britannici ma avendo fino a quel punto invano cercato di procurarmi una copia di quel mini, fui un bel giorno e anzi una bella sera, sintonizzato sulle frequenze della torinese Radio Flash, mandato al tappeto dalla voce sgraziata, dall’elettrica incalzante suonata come fosse un’acustica, dal ritornello innodico di A New England. Ancora qualche settimana e il disco era mio. Quanto resista in me del ventiduenne di allora, non saprei. So che lo squillare di corde e l’esuberante malinconia, memento di quanto sia dolce e insieme struggente perdersi in un altro da sé quando il futuro ti è ancora davanti, di The Milkman Of Human Kindness tuttora mi fa sobbalzare. Il cuore immancabilmente perde un battito.

Il bravo biografo (ad esempio Andrew Collins, che al protagonista di questa vicenda ha dedicato Still Suitable For Miners: titolo intraducibile senza perdere lo strepitoso gioco di parole) riserverebbe a questo punto un terzo dello spazio a disposizione al racconto di come ci si arrivò a quel mini-LP, formato dodici pollici ma da fare andare a 45 giri (John Peel naturalmente sbagliava e non sarebbe stato, se no, John Peel), sette canzoni per complessivi sedici minuti. Me la caverò più rapidamente, parendomi che il Billy Bragg per il quale meriterà sempre di fare scorrere inchiostro nasca con “Life’s A Riot With Spy Vs. Spy”, al limite dopo i pochi mesi, assimilabili a un periodo in incubatrice, trascorsi fra la tarda primavera dell’82 e l’autunno esibendosi già da solo in posti e situazioni improbabili, fra il Surrey e la Londra più proletaria. Liquido quindi in qualche riga la famiglia operaia ─ come d’altronde tutte nel secondo dopoguerra in quel di Barking, Essex, suburbia londinese e propaggine di Fordlandia in terra di Albione ─ e l’infanzia felice, un’adolescenza normale illuminata dalla scoperta del rock’n’roll e schiantata e bruscamente finita dalla morte del padre, quando Dennis Bragg non aveva che cinquantadue anni, il primogenito diciotto. Era l’ottobre 1976. Un mese dopo la band che il ragazzo aveva formato con l’amico fraterno Philip Wigg (quel Wiggy a lungo braccio destro nella vita che verrà) per poco non vinceva un concorso incredibilmente ben frequentato (si imponeva Dougie Boyle, futuro chitarrista di Robert Plant; secondi si piazzavano nientemeno che gli Iron Maiden) e la musica cominciava allora a diventare una cosa seria. Andati lì in realtà per vedere i Jam, Billy e Wiggy si ritrovavano insieme sotto il palco del londinese Rainbow il fatidico 9 maggio 1977 di cui sopra. E il resto è storia. Questa.

I braggologi completisti nel viaggio a ritroso alla ricerca dell’artista come giovane punk-rocker sono parecchio facilitati dacché nel 2002 Bragg stesso ha provveduto a radunare su un CD, “The Singles 1977-1980”, i tredici brani che, nella loro nemmeno troppo breve esistenza, i Riff Raff dispersero fra un EP (su Chiswick) e cinque 7”. Raccolta graziosa quanto inconsistente nel suo pressoché costante fare il verso ai Clash, fra qualche occhieggiamento al pub-rock (molto più Eddie & The Hot Rods che non Sex Pistols, i ragazzi) e uno scorcio di futuro in forma di una prima versione di Richard che nondimeno in questa lettura, con dietro una band, finisce per essere la più Strummer/Jones del lotto. Scritta quando il gruppo si avviava a grandi passi allo scioglimento, avendo messo a soqquadro un angolino di provincia inglese ma senza essere riuscito a farsi notare a sufficienza nella capitale (dei fogli specializzati il solo “ZigZag” dedicava ai Nostri un profilo di una pagina), è una delle due canzoni di quel periodo formativo che Billy porterà seco nella nuova vita artistica, essendo l’altra (ma guarda!) una A New England peraltro già adombrata in Kitten. Ma prima ci sarà l’inconsulto tuffo nel buco nero di un arruolamento da volontario nell’esercito di Sua Maestà, quattro mesi dritti da un’ipotesi di Full Metal Jacket con in fondo vivaddio non il Vietnam bensì un foglio di congedo, firmato a malincuore da un sottoufficiale del quale il nostro uomo parla ancora con grande rispetto. Oh… esperienza formativa pure quella. Incontestabilmente. Per quanto si stenti a raffigurarsi in uniforme da carrista il pacifista Billy Bragg, il socialista Billy Bragg che l’opposizione alla partecipazione britannica alla seconda guerra del Golfo indurrà ad allontanarsi da un Labour Party di cui per tre abbondanti lustri era stato sostenitore fra i più accesi, lucidi, ascoltati.

Il giovanotto si compra una batteria elettronica (la licenzierà presto) e una cassa amplificata portatile. Ha trovato lavoro in un negozio di dischi il cui proprietario possiede un registratore semiprofessionale. È usando il Portastudio del benemerito Steve Goldstein che ferma su nastro le sue prime sei canzoni post-Riff Raff. Richard non c’è, A New England sì, in apertura di un programma che comprende altri tre pezzi (The Milkman Of Human Kindness, The Man In The Iron Mask e To Have And To Have Not) che finiranno su “Life’s A Riot”, uno (Strange Things Happen) che recupererà su “Brewing Up” e un ultimo (The Cloth) destinato a rimanere a lungo inedito. Al tempo il “Melody Maker” ospita una rubrica, Playback, in cui una delle sue penne più quotate, Adam Sweeting, si occupa di demo e sono in genere botte da orbi, ceffoni che come quelli del dio di Gaber appiccicano al muro. Billy, che in concerto si propone come Spy Vs. Spy non volendo anticipare ai gestori dei locali né agli spettatori che si troveranno dinnanzi una one man band, spericolatamente gli spedisce le sue canzoni. Il 16 ottobre 1982 il telefono di Low Price Records squilla e all’altro capo c’è la sua ragazza, Katy. “Sei seduto?” È seduto.

Questo demo è una piccola miniera d’oro di melodie tanto semplici quanto solide poste a sostegno di alcuni dei testi più acuti e divertenti nei quali io mi sia imbattuto da diversi anni in qua. Con la sua voce ruvida e rauca Bragg canta di ragazze che lavorano, di disoccupazione, delle piccole frustrazioni di ogni giorno e di come combatterle, un realista che guarda tuttavia all’amore con il senso di meraviglia di un bambino. La sua visione del mondo è nel contempo disincantata e innocente, quella di un individuo vulnerabile e che però sa confrontarsi a muso duro con i duri fatti della vita. Queste canzoni sono insieme disturbanti e rassicuranti, piccoli salvagenti gettati in un mare in tempesta. Sagge e brillanti, dovrebbero fare vergognare di sé tanti che si azzardano a definirsi cantautori. Che ci sia o meno giustizia a questo mondo, di costui sentirete di nuovo parlare e presto.

Che non sarà l’equivalente inglese di “ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen” ma ci va vicino.

Prosegue per altre 27.400 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.178, marzo 2013. Billy Bragg compie oggi sessantasei anni.

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Ben Harper – Wide Open Light (Chrysalis)

Ha sempre fatto trascorrere al più un paio di anni fra un suo album e quello dopo, Ben Harper, ma stavolta si è superato. Il precedente “Bloodline Maintenance” vedeva la luce il 22 luglio 2022, questo seguito è arrivato nei negozi lo scorso 2 giugno. Si potrebbe ragionevolmente ipotizzare che un artista la cui dote migliore è sempre stata la scrittura, certo non l’originalità (affollato un pantheon di eroi che dagli Zeppelin arriva a Bob Marley passando per Robert Johnson, John Lee Hooker, Jimi Hendrix, John Lennon, Van Morrison, Curtis Mayfield, Marvin Gaye; spesso in bilico fra demonio e santità il nostro uomo, come certificano un disco in collaborazione con Charlie Musselwhite e due con i Blind Boys Of Alabama), stia vivendo un periodo di particolare urgenza creativa. Invece c’è il trucco: parecchi degli undici brani, la gran parte, che sfilano in “Wide Open Light” giacevano in metaforici cassetti senza mai essere stati incisi quale da qualche anno, taluni da decenni. Scarti? No. È che quando vennero composti parevano non adattarsi agli album cui stava lavorando l’autore. Che, stando a quanto racconta, con stupore recuperandoli quasi per caso si è reso conto che fra loro in qualche modo si parlavano, che come un filo invisibile sembrava unirli.

Può spiazzare a cinquantatré anni e al diciassettesimo disco in studio uno che originale non è mai stato? Ebbene sì: è il suo album più cantautorale e scarno di sempre, solo un florilegio di chitarre (occasionalmente una tastiera; il basso si sente poco, la batteria quasi mai) a sostenere la voce. Seconda sorpresa: un paio di tracce, forse le più belle, Yard Sale e Growing Growing Gone, rimandano a Townes Van Zandt. Non se ne ricordano di simili nel catalogo del Nostro.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.455, agosto 2023.

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Van Morrison dai Them a “Astral Weeks”

Non ci si crede a tutto quello che ha combinato George Ivan Morrison nei ventitré anni e ventiquattro giorni che separano la sua nascita in quel di Bloomfield, Belfast Est, il 31 agosto 1945 dall’appuntamento il 25 settembre 1968 presso gli studi Century Sound sulla Cinquantaduesima Strada Ovest di New York, probabilmente la migliore sala d’incisione cittadina, con il produttore Lewis Merenstein e alcuni musicisti jazz dei quali non conosce che i nomi. Dopo una serie infinita di complessini amatoriali, il primo dei quali fondato alla tenera età di dodici anni (duplice segno dei tempi che suonino skiffle e si chiamino Sputniks), a malapena diciassettenne ha girato l’Europa cantando, suonando chitarra, armonica e sassofono alla testa di tali Monarchs, con i quali ha pure esordito discograficamente, diciottenne, con un singolo che, registrato in Germania e uscito solo lì, ha fatto capolino nelle zone più basse delle classifiche locali. Tornato a casa e dopo un paio di passaggi a vuoto, nell’aprile ’64 si è unito per un ingaggio al Maritime Hotel, un club discretamente malfamato frequentato da marinai, a una compagnia di altri ragazzini in pista da due anni come Gamblers, ne ha assunto la guida e li ha ribattezzati Them. Incredibilmente complicata per non essere durata che due anni e due mesi, la storia dei Them è quella di un gruppo di punk ante litteram che aggrediscono il blues e il soul con una foga tale da trasfigurarli in garage, del garage disegnano con Gloria l’inno definitivo (e con I Can Only Give You Everything uno di quelli di riserva) e, prima di congedarsi, si producono in una It’s All Over Now, Baby Blue che sta all’originale di Dylan quasi come starà al suo modello la All Along The Watchtower di Hendrix. Lasciatili (non prima di avere incrociato l’omonimo Jim e avergli insegnato un trucco o due) a destini psichedelici e non più di classifica, marginali e però di culto (una ben curiosa seconda esistenza), Van si è stabilito nella Big Apple, ha firmato un contratto da solista per la Bang Records e se n’è immediatamente pentito.

Fatto è che della Bang è proprietario un altro genio rissoso quale Bert Berns, ebreo nuovayorkese di ascendenze russe allora trentasettenne, produttore e soprattutto autore con all’attivo una serie di canzoni classiche da inginocchiarsi mentre se ne sgrana il rosario: Twist And Shout, Here Comes The Night (scritta proprio per i Them), Everybody Needs Somebody To Love, Cry Baby, Piece Of My Heart, per limitarsi a cinque che non posso pensare che ci sia un lettore che non le conosca tutte. Il problema principale fra questi due negri dentro è che uno ragiona ancora in termini di sette pollici, il secondo è proiettato nell’era dell’album. Paradossale che i ruoli si invertano quando, avendo registrato nel marzo ’67 otto brani in previsione della pubblicazione di quattro singoli, Van scopre per puro caso che Bert li ha radunati in un LP, lo ha intitolato “Blowin’ Your Mind” e lo ha spedito nei negozi, fra l’altro alloggiato in una terribile copertina pseudo-psichedelica. Come è naturale che sia, si infuria, ma è innanzitutto con se stesso che dovrebbe prendersela, avendo sottoscritto senza leggerlo con attenzione un accordo che dà al discografico diritti di vita e di morte sul cantante, o poco meno. Parrebbe meno logico che se la prenda pure quando Brown Eyed Girl comincia a scalare le graduatorie di vendita dei 45 giri, fino a entrare nei Top 10 USA, ma un senso – e duplice – c’è: per un verso lo infastidisce che un successo che oltrepassa, e di gran lunga, le migliori performance americane dei Them lo collochi in un mercato adolescenziale quando è da artista adulto che vorrebbe proporsi; per un altro aggiunge beffa al danno che, sempre per via del contratto summenzionato, vendite imponenti non gli fruttino che spiccioli. I due si affrontano a muso duro a più riprese e sono gare di urla dalle quali Morrison esce vincitore per K.O. quando il 30 dicembre 1967 un infarto stronca Berns, tragedia che la vedova Eileen imputerà proprio a quei litigi. Vendicativa, proverà a imporgli il rispetto di un contratto che ha ereditato e prevede ancora un’infinità di obblighi, ma inizierà ad alzare le mani in segno di resa quando il Nostro le consegnerà un nastro di trentasei minuti con dentro le trentadue “canzoni” che in teoria le dovrebbe.

Sono mesi tristi, incerti e irosi. Van ha scoperto di detestare New York (dove fra l’altro dopo l’affaire Berns non vi è proprietario di club che sia disponibile a farlo suonare) e si è trasferito nel Massachusetts, nella cittadina universitaria di Cambridge. Non ne placa le ansie, non ne sconfigge la depressione la compagnia dell’incantevole Janet Planet, musa e pure moglie dopo che Eileen ha provato a fargli ritirare il permesso di lavoro negli Stati Uniti, con il rischio di un conseguente rimpatrio forzoso nell’Ulster. Beve smodatamente e i dj delle radio locali si abitueranno presto alla voce ubriaca che, alle ore più improbabili della notte, telefona chiedendo oscure facciate di blues. Se ne esce pian piano, mettendo insieme una band elettrica e subito disfandola, cominciando a girare per bar ma non più soltanto per stordirsi, in duo con il contrabbassista Tom Kilbania, suonando acustico, magari senza avere il nome in cartellone dopo avere abitato per due anni il rock stardom. Al Catacombs di Boston, locale il cui palco ha ospitato a più riprese i Velvet Underground (ai Century Sound il Nostro incrocerà John Cale, al lavoro nella sala a fianco) ai due si unisce il flautista John Payne e quella che avrebbe dovuto essere giusto una jam si trasforma in sodalizio stabile. L’intesa è affinata in una settimana di esibizioni gratuite (ed è un modo per aggirare l’embargo) a New York, allo Steve Paul’s Scene, di spalla a Tim Hardin. Arduo affermarlo con certezza, ma a questo punto le canzoni che finiranno in “Astral Weeks” dovrebbero essere tutte in repertorio, sebbene in forme lontane da quelle che assumeranno.

Incastri che vanno al loro posto… A mettere un punto e a capo all’era Berns è una vecchia conoscenza di Berns stesso, Bob Schwald. Veterano del Brill Building, proprio approfittando dell’antica consuetudine con il defunto può impegnarsi nella trattativa con la vedova per liberare Morrison dal contratto capestro, nel mentre discute con Joe Smith il contestuale passaggio alla Warner e sarà un matrimonio quindicennale e stavolta felice. Ed è sempre Schwald ad arruolare come produttore Merenstein. Abituato a lavorare con leggende del jazz del livello di un Thelonious Monk o un Art Farmer, molto colpito da alcuni spettacoli cui ha assistito, costui a sua volta (con buona pace di Kilbania, che esce di scena) convoca il bassista Richard Davis, turnista con un curriculum impressionante che include da Sarah Vaughan a Eric Dolphy, passando per Thad Jones e Mel Lewis, e gli affida come primo compito quello di scegliere lui i musicisti che completeranno il gruppo. Sono il chitarrista Jay Berliner, il percussionista e vibrafonista Warren Smith Jr. e Connie Kay, batterista del Modern Jazz Quartet. Più l’arrangiatore Larry Fallon, che non interverrà in prima battuta ma giocherà in ogni caso un ruolo chiave cucendo a posteriori raffinatissime sopravesti di archi e fiati.

Berliner ha suonato jazz con il Charles Mingus del capitale “The Black Saint And The Sinner Lady”, folk-pop con l’Harry Belafonte di un al pari cruciale nel suo ambito “The Many Moods Of”. Sarà lui a fungere da ufficiale di collegamento fra mondi. Quando quarant’anni dopo deciderà di portare infine “Astral Weeks” in tour, dei musicisti originali Van Morrison richiamerà solamente lui.

Tratto da “Posseduto – Il Van Morrison di ‘Astral Weeks’”. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.180, maggio 2013. Ristampato in Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015.

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