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Il canto libero di Lucio Battisti

Sono passati quarant’anni e un numero imprecisato di mesi ─ le tante biografie non riescono a mettersi d’accordo sulla data del debutto in proprio: era l’aprile del ’66 oppure il luglio? ─ dacché Lucio Battisti esordiva a 45 giri. Etichetta Ricordi, copertina ammiccante a Dylan anche se probabilmente al tempo se ne accorsero in dieci, a riascoltarlo oggi Per una lira/Dolce di giorno non pare questa gran cosa. Sono due bittarelli con un sentore di soul freschi e graziosi ma in fondo non così diversi da tante produzioni coeve, a parte che i testi osano qualcosa di più in malizia. E un po’ scandalizzarono difatti: la prima nella versione byrdsiana e più lenta dei Ribelli, cui l’aveva girata Celentano dopo che i due autori invano avevano provato a convincerlo a inciderla lui; la seconda in quella dei Dik Dik, che la sistemarono sul retro di un successone chiamato Sognando la California. Poche migliaia viceversa gli esemplari andati via (forse addirittura poche centinaia) del singolo di Lucio e dunque niente per un’epoca in cui i dischi si vendevano eccome, altro che oggi. Per darvi un’idea: quando nel 1968 l’Equipe 84 totalizzerà mezzo milione di copie di Nel cuore, nell’anima si griderà al fallimento, quasi al disastro, visto che il 45 giri prima, 29 settembre, era arrivato a superare il milione. Ehi! Due pezzi di Battisti/Mogol i suddetti, che all’altezza del glorioso “insuccesso” di Vandelli e soci ne avevano già piazzato un’altra mezza dozzina a una piccola folla di interpreti ottenendo puntualmente riscontri commerciali importanti. Se il Battisti autore sembrava già inarrestabile e una miniera d’oro per l’industria, stentava a decollare il cantante: ritirato il secondo sette pollici, centomila copie vendute del terzo (poca roba, avrete inteso), nemmeno entrato in classifica il quarto, di modesto impatto il quinto benché supportato da una partecipazione a Sanremo. La svolta era segnata nella primavera del 1969 dal sesto, Acqua azzurra, acqua chiara sul lato A, Dieci ragazze sul retro, un terzo posto e quasi cinque mesi di permanenza in graduatoria. A quel punto la rivoluzione inscenata nella musica italiana da Battisti e Mogol era in pieno essere. Durerà dieci abbondanti anni ancora. Per dieci abbondanti anni non ci sarà praticamente settimana senza almeno una canzone della coppia di Re Mida in classifica, cantata da Lucio Battisti oppure no. E a distanza di due decenni e mezzo ancora, adesso che quando vendi diecimila copie di qualcosa nel Bel Paese i discografici si sfregano le mani tutti soddisfatti e stappano bottiglie, annualmente di dischi di Battisti se ne vendono in media un trecentomila. Fa quasi mille al giorno. Ne avete minimo uno in casa pure voi. Tiratelo fuori. Suonatelo. Ecco, potete scommettere che in questo preciso istante altri stanno facendo la stessa cosa. Non ci si libererà mai da quei due, grazie a dio.

Io vivrò senza te

Naturalmente ricordo benissimo il modo in cui Lucio Battisti uscì dalla mia ─ dalla nostra ─ vita. Lo smarrimento che mi colse quando alle tredici del 9 settembre 1998, accesa la TV per guardare uno dei principali TG nazionali, mi trovai davanti uno schermo nero con giusto una scritta di saluto a campeggiare e sotto le note di Emozioni. Mi pare che la mandarono per intero, quattro minuti e quarantaquattro secondi senza una parola dello speaker, una cosa mai vista e insomma anche uscendo di scena il Lucio da Poggio Bustone riusciva a essere inaudito. Si fossero fermati lì! A quello straordinario pezzo di televisione indimenticabile di suo. Si fossero limitati a dare la notizia, che arrivava inattesa nonostante si fosse capito che, per uscire da un eremitaggio durato oltre tre lustri ed entrare in un ospedale pubblico, qualcosa di serio l’artista reatino doveva averlo. Sin dal 29 agosto gli inviati delle televisioni erano accampati davanti al San Paolo di Milano e voci incontrollabili si rincorrevano senza che nulla di ufficiale venisse detto. Poi un comunicato stampa, venticinque parole. Si fossero fermati lì! A un servizio di cinque minuti, di dieci, magari a un’edizione del telegiornale dedicata integralmente alla notizia, per poi spegnere le luci e fare calare un rispettoso silenzio su una persona che dello stare in silenzio, lasciando che a parlare fossero le canzoni, aveva fatto uno stile di vita. E invece no. Si avviava sgangherato il carrozzone delle celebrazioni pelose con aggrappati individui di ogni risma. Facevano a botte per una comparsata sotto i riflettori illustri nullità e fra esse, puntuali, quanti sul nostro uomo non avevano mai esitato a spalar maldicenze. Era tutta una gara al “io che lo conoscevo bene”, “io che senza di me”, “io… io… io…”: miserabili accattoni di polvere di stelle. Partiva il karaoke e vai con le dieci ragazze che per me potranno bastare. Un programma via l’altro e l’auditel impazzita con numeri da finale di coppa del mondo di calcio, perché poi la gente ─ quella vera ─ a Lucio voleva bene sul serio e, pur schifato, non potevi fare a meno di guardare. Fino e oltre alle esequie, avvenute il 12 in presenza di quelle venti persone che avevano diritto di stare lì, soltanto gli affetti intimi, i più cari. Fino e oltre a quel primo 29 settembre senza Battisti, con le auto della polizia di ronda intorno a un cimitero sotto assedio, mentre altre volanti facevano il possibile per impedire che nella villa al Dosso da lungi loro ritiro privilegiato il riservatissimo lutto della donna che gli era stata accanto per quasi tre decenni venisse disturbato.

Non ricordo invece come fu che ci entrò Lucio Battisti, nella mia vita. In verità mi sembra ci sia sempre stato e che fosse dappertutto, con quelle canzoni così orecchiabili che le poteva cantare un bambino e difatti le cantavo a squarciagola con gli altri e mi pareva di capirle, più o meno. Perché oltre il cancello della colonia estiva l’uomo che passava con il carretto e gridava “Gelati!” c’era e, allo stesso modo, all’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri e io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli. Però mi piace pensare che anche all’altezza dei miei nove, dieci, undici anni qualcosa mi lasciasse perplesso, mi facesse riflettere. Come potevano le malinconie (dolcissime poi!) correre nelle praterie? Che ci azzeccavano i tarli con la mente? E si sono mai visti appassire dei fiori stampati su un vestito? Le canzoni degli altri non ti facevano arrovellare così. Poi è arrivata l’adolescenza e Battisti era immancabile nei pomeriggi tristissimi passati facendo tappezzeria alle feste di altri e altre, chiedendomi perché mi avessero invitato e soprattutto perché ci fossi andato, che tanto non c’era niente da fare, io con quella tipa lì non sarei mai riuscito a spiccicare una parola. Una consolazione che ci fosse lui a inframmezzare una se no mortale colonna sonora rigorosamente a base di Baglioni e Bee Gees, Sorrenti e “Dark Side Of The Moon”. Mi sarebbe piaciuto di più ascoltare quegli altri di Pink Floyd, quelli di “The Piper At The Gates Of Dawn”, che però sembrava garbassero solo a me, oppure Bob Marley ma da noi se lo filavano ancora in pochi. I Clash o Lou Reed, appena scoperti, erano fuori discussione. Però, dai, Battisti non era malaccio in fondo. Anche quei pezzi lì con la cassa in quattro da discoteca e che però se paragonati ai successi dance che imperversavano avevano una fluidità tutta loro, e un’italianità, e non sapevano di plastica, e che belle le parole, sempre. Si mormora che Battisti sia fascista. Lo fosse, dovrei cambiare stazione (dura trovarne una che non lo manda mai) ogni volta che lo trasmettono alla radio e fargli propaganda contro? Ma in fondo a dirlo sono i medesimi che hanno dato del nazista a Lou Reed, dimenticandosi che è ebreo, portando a prove i capelli corti e ossigenati e i Ray-Ban, e mi sa proprio che non è vero. Se lo è me ne frego. Ecco, mi sono appena fatto una battuta da solo, posso sgattaiolare via senza salutare e in ogni caso non se ne accorgerà nessuno.

Eppure credo di essere arrivato ai trent’anni senza avere un disco di Lucio Battisti. È che mi sembrava di conoscerli già tutti a memoria ed era un’ottima scusa per non comprarli. Tanto erano solo canzonette, no? Non so come mai a un certo punto ho cominciato a mettermeli in casa uno dopo l’altro. Forse per nostalgia di un tempo, remoto come un sogno, in cui la sottilissima linea che separa l’essere un giovane promettente da un fallito di mezza età era lontana all’orizzonte. Forse perché, essendomi conquistato del rock tutto o quasi lo scibile imprescindibile, potevo cominciare, fra questa e quella esplorazione dei suoi perimetri esterni, a togliermi qualche sfizio. È stato allora con qualcosa di assai simile allo sbalordimento che ho iniziato a rendermi conto di quanto fossero complesse e geniali nella loro costruzione le canzonette di cui sopra, piene di deviazioni subitanee e intarsi, modernissime. Istantanee nel loro porgersi e tuttavia al centesimo ascolto differenti da come erano apparse al novantanovesimo. Degne di essere pronunciate nello stesso respiro affamato di ineffabile con cui esali la litania Ray Davies, Brian Wilson, Arthur Lee, Bob Dylan, Lennon/McCartney, Burt Bacharach, Phil Spector.

Prosegue per altre 60.345 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.23, autunno 2006. Fosse ancora fra noi, Lucio Battisti compirebbe oggi ottant’anni.

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David Crosby Was Love (14/8/1941-18/1/2023)

If I Could Only Remember My Name (Atlantic, 1971)

Sconcerta che uno dei capisaldi della musica del Novecento venisse accolto con toni irridenti da un gigante dello scrivere di rock quale Lester Bangs e massacrato da un altro, Robert Christgau. Mentre viceversa fa sorridere che nel 2010 nientemeno che “L’Osservatore Romano” lo abbia incluso in una lista dei dieci migliori album pop di sempre (secondo, dietro “Revolver” dei Beatles). Vi avrà per certo colto, l’organo della Santa Sede, l’empito spirituale che traversa per intero un disco figlio per l’artefice di un momento egualmente esaltante e disperante: campione di vendite con “Déjà Vu”, storico esordio di CSN&Y, nel momento in cui ci metteva mano e nello stesso tempo distrutto dalla morte qualche mese prima della fidanzata Christine Hinton. Gli stava vicino in tutti i sensi in studio una folla solidale di colleghi e soprattutto intimi: oltre a Nash e Young e a Joni Mitchell, membri di Grateful Dead, Jefferson Airplane e Santana. Apogeo e contestualmente congedo di/per un’epoca della musica e della cultura giovanili, affresco corale e insieme personalissimo diario che si cimenta nell’impresa di provare a esprimere l’inesprimibile e quanto è significativo allora che due brani siano sì cantati, ma senza parole.

Music Is Love, asserisce ontologicamente la prima di nove immortali tracce, estatico incipit per un viaggio che prosegue con la cavalcata elettrica di Cowboy Move e approda alla liturgia di voci di I’d Swear There Was Somebody There, passando fra il resto per una Traction In The Rain buckleyana. Questa riedizione per il cinquantennale saggiamente non strafà, aggiungendo una bonus già edita e un disco di demo, versioni alternative e scarti che solo uno stato di grazia supremo fece scartare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 437, dicembre 2021.

CPR (Samson, 1998)

Una sigla anonima come ragione sociale, una copertina che non dà indicazioni su cosa si ascolterà e oltretutto bruttina assai: poco da stupirsi se nel 1998 “CPR” si vendeva in quantitativi modesti e presumibilmente perlopiù a chi aveva avuto occasione di ascoltare il gruppo nel tour che lo aveva preceduto invece di seguirlo. Stupisce di più, ma non tanto per quante copie ne circolano a due spiccioli nei negozi che trattano usato, offerte e fuori catalogo, che non fosse mai stato riedito. Provvede, peraltro senza integrarlo con uno straccio di bonus quando con l’aggiunta dell’autoprodotto e dello stesso anno “Live At Cuesta College” avrebbe potuto confezionare una “Deluxe” coi fiocchi, lo stesso marchio (Samson) che lo dava alle stampe in origine.

Va bene lo stesso, perché ci offre il destro di riascoltarlo con orecchie tornate vergini e dargli il giusto peso nella straordinaria quanto tormentata vicenda artistica di David Crosby: lui la “C” dell’acronimo, laddove la “P” sta per Jeff Pevar, chitarrista sublime, e la “R” per James Raymond, gran tastierista, produttore, arrangiatore, soprattutto figlio perduto dello stesso Crosby, che lo dava in adozione e lo ritrovava decenni dopo e con lui instaurava miracolosamente un felicissimo sodalizio, sia umano che artistico, che tuttora dona frutti succosi. Questo era il primo, disco di autentica rinascita per Crosby dopo troppi anni sprecati fra droghe e mattane e funestati da disgrazie assortite e gravi problemi di salute. Una seconda (terza?) insperata vita prendeva le mosse da questi undici raffinatissimi quadri di cantautorato da Laurel Canyon rivisitato in chiave jazz-rock, con l’occasionale tocco latineggiante, il piccolo strappo funk e a volare altissime sulle sontuose basi armonie vocali degne di quell’altro trio là con David Crosby, quello più famoso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020.

Sky Trails (BMG, 2017)

La matematica impressiona: ventidue anni, dal ’71 al ’93, per iscrivere tre titoli alla voce “discografia da solista”, e facendo oltretutto deprecare a tutti che il capolavoro “If I Could Only Remember My Name” avesse avuto successori tanto inconsistenti; tre appena, dal 2014 di “Croz”, cui nel 2016 dava un seguito “Lighthouse”, per raddoppiarla. Ma a certificare che a settantasei anni David Crosby vive un rinascimento che nessuno avrebbe potuto prevedere nei decenni bui in cui diede tristissimo spettacolo di sé, rotolando rovinosamente per la china della tossicodipendenza, non sono i numeri bensì la consistenza del nuovo album: in proprio il suo migliore di sempre naturalmente eccettuato l’epocale, insuperabile esordio; e anche contando i progetti collaborativi per rinvenire nel catalogo un articolo di livello paragonabile tocca tornare parecchio indietro. Al 1977 di “CSN”, ultimo momento ricordabile della gentile epopea principiata nel ’69 con “Crosby, Stills & Nash”. O, minimo, al 2001 di “Just Like Gravity”, capitolo conclusivo del romanzo breve CPR e forse l’unico altro Crosby quasi indispensabile dell’ultimo quarantennio. E a proposito di CPR…

In “Sky Trails” Jeff Pevar (gradito ritorno) c’è, ma quel che più conta c’è pure James Raymond, il figlio musicista che David ritrovava nell’anno più difficile della sua vita, quel 1994 in cui doveva sottoporsi a un trapianto di fegato andato meravigliosamente bene. Raymond co-firma diversi brani ed è l’autore unico di She’s Got To Be Somewhere, una gemma di elegantissimo funk alla Steely Dan. Splendido modo di iniziare un disco che ha nella Joni Mitchell che si innamorava del jazz (anche coverizzata, con una bella resa di Amelia) il referente principale e per il minoritario resto dispensa folk da manuale Laurel Canyon.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.393, novembre 2017.

For Free (BMG, 2021)

Davvero: non si sa se essere più furiosi con David Crosby per i decenni in cui si buttò via abusando di alcool, eroina, cocaina e quant’altro (ineffabilmente, oggi che in California è legale commercializza con il suo nome una marijuana che gli intenditori considerano fra le migliori sulla piazza) o essere più felici, per lui e per noi, che incredibilmente sia riuscito a sopravvivere a quegli anni folli e ai successivi e gravissimi problemi di salute che l’hanno afflitto come strascico degli stravizi. Che, ancora più incredibilmente, stia vivendo da un decennio in qua (ma prodromi di rinascita si erano manifestati già all’incrocio fra il secolo vecchio e l’attuale con il progetto CPR) una luminosissima… quarta giovinezza.

Per il suo ottantesimo compleanno il vecchio Croz si è regalato, con qualche settimana di anticipo, un album che è sorta di gemello (solo, più conciso: se i brani in scaletta in entrambi sono dieci quello superava i cinquanta minuti, questo non arriva a trentotto) del precedente (2017) “Sky Trails”. Per dire: anche qui il programma comprende una cover dell’amica di sempre Joni Mitchell (tocca stavolta a una pianistica For Free, che ha pure l’onore di intitolare il disco). Anche qui ci sono brani di impronta Steely Dan e curiosamente lo è di più Ships In The Night che non Rodriguez For A Night, cui Donald Fagen ha offerto il proprio apporto compositivo. E il resto sono meraviglie da un Laurel Canyon dell’anima: su tutte una I Think che potrebbe giungerci dai primi due LP in trio con Crosby e Nash e una Shot At Me che sarebbe potuta stare su “If I Could Only Remember My Name”. Addirittura. L’unico cruccio è che il tempo inevitabilmente, inesorabilmente scorre.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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I migliori album del 2022 (7): Kevin Morby – This Is A Photograph (Dead Oceans)

Per inquadrare il settimo album da solista dell’ex-Woods e Babies si può cominciare annotando come non sia se non cronologicamente il seguito del sesto, né del quinto. Lo scarno “Sundowner” vedeva la luce nel 2020 ma raccoglieva canzoni scritte nel 2017 poco prima o dopo l’uscita di “City Music” e non incluse nel 2019 nel concept “Oh My God” perché fuori tema. In tal senso si riallaccia piuttosto a “Singing Saw”, del 2016, di cui il titolare diceva di esserselo immaginato come una libreria da cui lo scrutavano foto di Bob Dylan e Joni Mitchell giovani, e a “City Music”, che così riassumeva: un’istantanea di Lou Reed e Patti Smith in una stanza della Manhattan di metà ’70 mentre si rilassano chiacchierando e fumando.

Ecco: sin da dove è stato in gran parte registrato, ossia nello studio di Memphis che fu di Sam Phillips, “This Is A Photograph” si iscrive a un’analoga visione mitologica del rock (Neil Young e Springsteen altri venerati maestri) e però con una fondamentale differenza rispetto ai predecessori: è che a trentaquattro anni Morby ha raggiunto una maturità e una brillantezza autorali tali da sanzionarne l’ascesa al pantheon dei suoi stessi eroi. Può omaggiare Jeff Buckley, nella tenera e solenne Disappearing, senza fargli il verso o citare John Lennon all’inizio di una Five Easy Pieces dove non vi è altra traccia del fu Beatles essendo il brano un blues con accenti soul e dylaniani, o ancora Tina Turner in una ballata country quale è Goodbye To Good Times, facendola franca. Facendosi applaudire. Da un programma magistrale di Americana a tratti squisitamente orchestrata si stacca una Rock Bottom esilarantemente fra glam e power pop: inchino a un altro idolo del Nostro, il misconosciuto Jay Reatard.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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I migliori album del 2022 (13): Regina Spektor – Home, Before And After (Sire)

Non solo l’ottavo album di Regina Spektor è quello che si è fatto attendere più a lungo ─ sei anni: quanti impiegò a pubblicare i primi quattro ─ ma almeno tre delle sue dieci canzoni sono da una vita in repertorio: Becoming All Alone (echi di Janis Ian) dal 2014; Raindrops (una delizia di girotondo pianistico) e Loveology (ballata orchestrale fra il solenne, il solare e lo stralunato) addirittura da prima che “Begin To Hope” nel 2006 la promuovesse allo stardom  in forza di un programma di rara perfezione e di uno dei singoli più geniali e irresistibili dell’ultimo paio di decenni, o della storia del pop intera. Best seller ma soprattutto long seller, Fidelity, visto che nelle classifiche USA non saliva più in alto di un modesto numero 51 ma a un anno dall’uscita aveva venduto mezzo milione di copie, entro tre settecentomila. Quanto sarà orgoglioso Nick Hornby del fatto che Regina la scrisse mentre guardava in TV l’adattamento cinematografico di… ahem… High Fidelity? Regina di cuori, vien da dire con gioco di parole troppo facile apprendendo sbalorditi che quel vecchiaccio di Robert Christgau, uno che sulla stroncatura non argomentata ha costruito sin dal ’67 molta della sua discutibile fama, ha speso per “Home, Before And After” un rarissimo “A-” e parole al miele.

Non saranno più i tempi in cui una allora ventenne fresca di studi al conservatorio, pazza per Billie Holiday e iscritta alla scuola del cosiddetto anti-folk scriveva una canzone alla settimana, ma che ne scriva una all’anno ci basta fintanto che la qualità resterà questa: uniformemente stratosferica. Si tratti di una Up The Mountain fra Björk e Kate Bush, di una Sugarman da prestare a St. Vincent o una What Might’ve Been pronta per Broadway. Per dire.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Saluti da Bruce Springsteen, Asbury Park, N.J.

In ‘Greetings From Asbury Park’ ho fatto venire fuori un numero incredibile di cose tutte in una volta. Un milione di cose in ogni canzone. Le avevo scritte in quindici minuti, mezz’ora. Non so da dove venissero. Su alcune ho lavorato per circa una settimana, ma la maggior parte erano dei lampi, una situazione di autentica energia. Scrivevo come in preda a una febbre. Non avevo un centesimo, un posto dove andare, niente da fare. Era inverno, faceva freddo e scrivevo.

“Greetings From Asbury Park” è figlio di un equivoco e due inesperienze. L’equivoco fu quello che indusse Hammond ─ che, ricordate, era il signore che aveva scoperto l’originale ─ a credere di avere fra le mani il primo “nuovo Dylan” che non fosse un falso allarme, il primo in grado di non uscire distrutto da un confronto con il Maestro. Non avendolo visto dal vivo con la E Street Band scorse in lui soltanto il folksinger, che è uno dei tanti aspetti di una personalità artistica multiforme ma certo non era allora il prevalente e non lo sarà che all’altezza di “The Ghost Of Tom Joad”, oltre vent’anni più tardi. Le inesperienze quelle di Appel, che dopo essersi inventato manager si inventò produttore e oltretutto tirando a risparmiare, e di Springsteen stesso che lo assecondò. E fu così che il disco d’esordio di colui che diverrà il rocker per antonomasia fu prodotto ─ con esiti pessimi al di là delle intenzioni: il gruppo è troppo sullo sfondo rispetto a una voce prevaricatrice, la batteria pare di cartone, il basso manca di profondità, il piano è poco brillante, il sassofono uno starnazzare abulico, la dinamica da demo ─ come se si fosse trattato di lanciare un cantautore. Esito: un flirt con il disastro. Eppure, stanno qui alcuni degli articoli migliori del catalogo del Nostro.

Uno dei più memorabili lo inaugura. Appel aveva portato in Columbia un nastro con le prime canzoni completate e il lavoro era piaciuto, ma gli era stato chiesto qualcosa di più immediato da pubblicare a 45 giri. Girò la richiesta a Springsteen, che scrisse Blinded By The Light e Spirit In The Night. Uscirono entrambe in quel formato, senza peraltro riscuotere alcun successo (riprese nel ’76 dalla Manfred Mann Earth’s Band saranno due brani da Top 10 e la prima addirittura un numero uno), e costituiscono, con Growin’ Up, For You e la già citata It’s Hard To Be A Saint In The City, la metà di “Greetings” degno prologo a una vicenda artistica unica nel rock americano degli ultimi tre decenni. Benché la produzione ignobile e un testo torrenziale dalla dizione confusa (man mano che i testi si faranno più lineari anche la pronuncia si farà più intelligibile) tentino di annegarne il piglio funk, Blinded By The Light ha l’agile vigoria tipica già allora dei gruppi di Springsteen. È gioiosa e guascona. Se gli allucinati flash che la aprono sono dylaniani fino alla parodia, i cinque fulminanti versi conclusivi (“Accecato dalla luce/Mamma mi ha sempre detto di non/fissare il sole/ma mamma è lì che sta/il divertimento”) sono difficili da immaginare cantati dal menestrello di Duluth. Così come quelli a proposito dell’alzarsi quando è richiesto di stare seduti e del trovare la chiave dell’universo nel motore di una vecchia auto parcheggiata in Growin’ Up, euforico inno di passaggio fra adolescenza e giovinezza scandito da un pianoforte che ha accenti boogie.

In Mary Queen Of Arkansas la E Street Band, scalpitante nei primi due brani nonostante la briglia sia tenuta da Appel cortissima, abbandona il proscenio. Restano una chitarra acustica e una voce dolente. L’atmosfera si rischiara con il vivace folk-rock di Does This Bus Stop At 82nd Street? e torna claustrofobica con il piano melò di Lost In The Flood, raggiunto solo piuttosto avanti dal resto del gruppo. È una canzone notevole più che altro per il testo, susseguirsi di istantanee dai bassifondi multietnici della Big Apple degne di un film di gangster di Scorsese o di De Palma. L’immagine del delinquentello ispanico ferito a morte da un poliziotto e il cui corpo “ha colpito la strada con un tonfo così bello” resta nella memoria assai più a lungo della melodia fragile che la accompagna.

Fragile fino all’inconsistenza è anche l’apertura della seconda facciata, The Angel, una ballata piano e voce con un tocco di violino non redentore, troppo “qualunque” pure per questo Springsteen incerto su cosa fare da grande. Da lì alla fine è però un crescendo. In For You, una Like A Rolling Stone depurata di ogni acredine, il folk-rock si sposa al suono che farà della E Street Band la macchina più rodata che abbia mai corso sulle autostrade del rock’n’roll. Spirit In The Night, esaltata ed esaltante celebrazione di amori e vagabondaggi adolescenziali, è uno dei brani più belli pubblicati dal Nostro e sarà per anni un punto fermo nelle variabilissime scalette dei concerti. It’s Hard To Be A Saint In The City, infine: sfrutta schemi blues ma non è blues, sa di giovane Dylan ma non è un’imitazione, è scarna ma arrangiata con una raffinatezza (quel piano rock’n’roll che si colora di jazz!) che anticipa gli album a venire. John Hammond la ascoltò solo chitarra e voce e se ne invaghì lo stesso perdutamente.

Un giorno ero al telefono con Appel e gli chiesi ‘Come sta andando il disco?’ E lui: ‘Non bene. Ne avremo vendute un ventimila copie’. E io: ‘Ventimila copie? È favoloso!’.

Tratto da Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.7, autunno 2002. Il primo album di Bruce Springsteen compie oggi cinquant’anni.

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Beth Orton – Weather Alive (Partisan)

Si è sempre concessa con parsimonia Beth Orton: nove album in ventinove anni. Il che non basterebbe a rendere ogni sua uscita un evento non fosse che è sempre stata qualcosa di più e di diverso rispetto a una pur dotata cantautrice. È che l’artista inglese ha fatto da tramite fra mondi lontanissimi che anche grazie alla sua opera a un certo punto si trovarono a intersecarsi tanto strettamente che per quella musica inaudita si coniò un’etichetta: folktronica. E chi più di lei ─ collaboratrice di William Orbit e dei Chemical Brothers come di Terry Callier, allieva e amica di Bert Jansch che nel 2006 la voleva accanto a sé nell’ultimo dei suoi capolavori, “The Black Swan” – aveva le carte in regola per esserne designata a vessillifera? Però a un certo punto ─ era il 2012, il disco era “Sugaring Season” ─ sembrò che Beth avesse fatto una scelta di campo. Resta il suo album folk, visto che con “Kidsticks” nel 2016 effettuava un’inversione a u confezionando la sua opera insieme più sperimentale e maggiormente indirizzata al dancefloor. Per molti la meno convincente, benché vanti alcuni brani notevoli e in ogni caso si stia parlando di una il cui minimo sindacale surclassa la quasi totalità della concorrenza.

“Weather Alive” non va in una direzione né nell’altra e nemmeno media fra i predecessori. Composto su un piano malandato (strumento di cui la Orton ha una padronanza basica), assemblato con un quartetto di musicisti di area jazz, a volerlo proprio catalogare finirebbe alla voce fuori moda “downtempo”. Ma se talune tracce rimandano indubbiamente ai Portishead in altre si odono echi di Talk Talk, David Sylvian, Peter Gabriel. Di folk un accenno, di funk pure, il finale vira ambient. Beth Orton resta in movimento e unica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Kurt Vile – (Watch My Moves) (Verve)

Chi si somiglia si piglia ma a somigliarsi troppo il rischio è di lasciarsi presto. È il caso di Adam Granduciel e Kurt Vile, che fondavano i War On Drugs con l’idea magnifica di mediare My Bloody Valentine e “Highway 61 Revisited”, declinando un rock fragoroso quanto melodico che però alla lunga si farà più che altro magniloquente, ricreazione di anni ’80 in fissa per Bruce Springsteen. Ma questo in tempi più recenti e già all’altezza del secondo album (2008) della band di Philadelphia Vile non era più co-leader ma un ospite e poi basta. Separazione amichevole, detto en passant. Commercialmente non c’è stata gara: i War On Drugs decollavano proprio con il primo lavoro post-Vile e i loro dischi hanno da allora venduto il decuplo di quelli di un ex- che nondimeno con il nono album in studio (contandone uno con Courtney Barnett) approda a un’etichetta non solo prestigiosa ma in area major. A sua lode: come i War On Drugs che passavano dalla Secretly Canadian alla Atlantic, senza sottostare a compromesso alcuno.

A proposito di Springsteen: qui Vile coverizza aggiungendoci un tocco acidulo l’oscura (uno scarto di “Born In The U.S.A.”) Wages Of Sin. A proposito di un altro tratto in comune con Granduciel: “(Watch My Moves)” ne conferma la logorrea, quindici brani uno dei quali è però un siparietto ambient sotto il minuto per 73’44” e fate voi la media. Si astiene da svolte adombrate dal delizioso girotondo pianistico alla Robyn Hitchcock della traccia inaugurale Goin On A Plane Today e da una seconda, Flyin (Like A Fast Train), molto Beck su beat hip hop ed è un peccato. Soprattutto perché canzoni come la byrdsiana Jesus On A Wire, una scintillante Say The World in cui cita i Talking Heads o lo shuffle loureediano Stuffed Leopard lo confermano autore di vaglia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Aldous Harding – Warm Chris (4AD)

Adolescente saggia la neozelandese Hannah Top, che con in casa un esempio di come la musica sia passione da cui pochi riescono a trarre sostentamento dopo avere partecipato a un album di mamma Lorina, apprezzata cantante folk, decideva che avrebbe fatto la veterinaria. Era il 2003, aveva tredici anni. Ma possono stare insieme il sostantivo “adolescente” e l’aggettivo “saggia”? Da lì a due anni scriveva le prime canzoni. A instradarla sulla via della musica come professione sarà Anika Moa, nome che a noi dice nulla ma agli antipodi è una star, un sacco di dischi all’attivo e non bastasse personaggio televisivo. Vedeva Hannah esibirsi per strada e prontamente le chiedeva di farle da spalla in un tour. Il seguito è vicenda nota: ribattezzatasi Aldous e assunto il cognome della madre la protagonista di questa storia pubblicava il primo e omonimo album nel 2014. Solo in patria all’inizio e tuttavia attirava abbastanza attenzioni fuori da procurarle un contratto nientemeno che con la 4AD, fortunato sodalizio avviato nel 2017 con “Party” e consolidato nel 2019 con “Designer”.

Terzo lavoro per la griffe britannica, terzo prodotto da John Parish, “Warm Chris” conferma in Aldous Harding una delle più dotate fra le cantautrici odierne. Sempre riconoscibile ma inafferrabile, capace una volta di più di scansare ogni cliché in dieci tracce coniuganti leggerezza e profondità con una varietà di accenti rimarchevole. Fra un’iniziale Ennui molto Stereolab e i Velvet richiamati dal congedo Leathery Whip, fra il Beck apocrifo di Tick Tock e l’accoratamente favolistica She’ll Be Coming Round The Mountain a farsi notare è soprattutto Fever (che no, non è una cover di quell’altra, strafamosa): esultantemente fra seduzione e sentimento.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.

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Trent’anni fa, oggi

k.d. lang – Ingénue (Sire, 1992)

Peculiare bellezza androgina in grado di esercitare i propri non indifferenti poteri di seduzione su entrambi i sessi, la canadese k.d. lang (anticonformista sin dalla vezzosa scelta di esigere che il suo nome sia scritto tutto in minuscole) a cavallo fra ’80 e ’90 mette a soqquadro il reazionario mondo del country con spartiti che esulano dall’ortodossia nashvilliana e ancora di più con il suo dichiarato lesbismo. È un ambiente che presto le è troppo piccolo. Le si confanno di più le classifiche generaliste, che la acclamano, e il sognante, lussurioso pop saporoso di jazz e di rock’n’roll ancor più che di country (non fosse riduttivo, la si direbbe una versione femminile di Chris Isaak) del formidabile “Ingénue”. Vi sfilano dieci ballate che avvincono senza fine con melodie alate e afflato sensuale.

White Zombie – La Sexorcisto: Devil Music Vol.1 (Geffen, 1992)

Un cocktail alla nitroglicerina di mastodontici riff chitarristici, ritmi serrati ma non troppo, scorci e squarci psichedelici, ricordi di no-wave, una voce gutturale che corteggia il grind, brandelli di trasmissioni radio, rumori di strada, effetti elettronici, scratching: in quale altra città avrebbe potuto essere brevettato (la miscela perfezionata in area indie per sette anni e tre album) se non a New York? Alla Grande Mela gli White Zombie hanno fornito una delle colonne sonore più efficaci (di una genialità a tratti zorniana) e maledettamente vere di sempre. Con loro il “day after” c’è già stato e allora, come recita il titolo del brano che apre questo disco, Welcome To Planet Motherfucker. In quei pazzi primi ’90, in cui tutto poteva succedere, “La Sexorcisto” finiva nei Top 30 statunitensi, sebbene mettendoci un anno.

Testi tratti da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. “Ingénue” e “La Sexorcisto” venivano pubblicati entrambi il 17 marzo 1992.

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Mark Lanegan (25/11/1964-22/2/2022)

Ho scritto un’infinità di volte di Mark Lanegan, sin da quando era il cantante degli Screaming Trees. Appena meno volte di quelle che l’ho visto dal vivo: la prima, e non solo a ragione di ciò la più indimenticabile, fu proprio con gli Screaming Trees. Di rado morte fu tanto annunciata ma un po’ ci si era illusi, dopo che il nostro uomo lo scorso anno era riuscito a schivare i dardi di una sorte oltraggiosa (potrai mica morire di covid dopo essere stato alcolista, tossicodipendente e, sul fronte della pandemia, negazionista?), che una volta di più potesse risorgere. “Oppressa dal fardello dei mali del mondo, ma pronta a librarsi verso il cielo”: così ebbi a descrivere la sua voce. Era ventun anni fa, suonava già come un epitaffio.

Screaming Trees – Buzz Factory (SST, 1989)

Anno intensissimo il 1988 per gli Screaming Trees. Troppo, tant’è che vanno in crisi e il bassista Van Conner li lascia per alcuni mesi, sostituito da Donna Dresch. Con questo organico e con Vic Makauskas in regia in luogo di Steve Fisk, i ragazzi di Ellensburg registrano un album il cui master va perduto in un passaggio di proprietà dello studio. Sembra un segno del destino. Il cantante Mark Lanegan, il chitarrista Gary Lee Conner e il batterista Mark Pickerel si adeguano e, con Van Conner di nuovo in squadra e Jack Endino al mixer, si mettono a lavorare ex novo. Il risultato è uno dei dischi più intensi dei tardi ’80, ispiratissimo nel suo pasticcio ormai D.O.C. di psichedelia, punk e hard rock. Non avessero scritto che Where The Twain Shall Meet e Black Sun Morning, gli Screaming Trees meriterebbero comunque una citazione nella storia del rock.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Scraps At Midnight (Sub Pop/Beggars Banquet, 1998)

“Terzo album solistico del cantante degli Screaming Trees”, recita l’adesivo sulla bella copertina di “Scraps At Midnight”, quasi dando per scontato ciò che scontato al momento attuale non è, ossia che gli Alberi Urlanti abbiano un futuro o almeno un presente. Immensi questi washingtoniani (lo stato, non la città), fra i primi a tentare quel recupero in chiave moderna dell’hard che andrà sotto il nome di grunge e che loro già praticavano intorno alla metà dello scorso decennio. In anticipo sui tempi all’inizio, un po’ vetusti oggi, mai premiati quanto avrebbero meritato. In un universo parallelo forse i Nirvana sono loro.

Per darvi un’idea del clima che si respira in questo disco, vi invito a ripensare alla rilettura che di Where Did You Sleep Last Night, di Lead Belly, diedero i Nirvana in “Unplugged” (tenendo presente che è vicinissima a quella che quattro anni prima ne offrì Lanegan, spalleggiato dai Nirvana stessi, nella sua prima uscita in proprio): è dunque blues dolente, ai limiti del catacombale, ciò che si ascolta in “Scraps At Midnight” (ove per blues siete pregati di intendere più una condizione dello spirito che le canoniche dodici battute). Pensate a Johnny Cash, a Leonard Cohen, a Nick Cave, a Tom Waits (Bell Black Ocean), allo Springsteen più crepuscolare (Last One In The World). Soltanto nella conclusiva Because Of This il suono si fa più pieno, la ritmica relativamente sostenuta, le elettriche mordono. Non raggi di sole che squarciano un cielo plumbeo, bensì fulmini che annunciano il divampare del temporale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.185, settembre 1998.

I’ll Take Care Of You (Sub Pop/Beggars Banquet, 1999)

È un album di altri tempi questo “I’ll Take Care Of You”, quarta uscita solistica del cantante degli Screaming Trees. Per umore, durata, scelta del repertorio: una parata di classici e/o dimenticate gemme country, soul e cantautoriali che riporta alla memoria per la rabbrividente intensità l’“Unplugged” dei Nirvana e per le atmosfere quel capolavoro dei Walkabouts, passato del tutto inosservato, chiamato “Satisfied Mind”. Anche quello disco per intero di cover e anche quello capace di esprimere l’essenza di chi lo ha realizzato meglio dei lavori autografi. Passati i giorni del sangue e delle lacrime con cui aveva in abbondanza irrorato i tre predecessori di questa meraviglia, Lanegan si scopre invecchiato e più sereno, o forse solo rassegnato a subire gli oltraggi della vita. Forse anche innamorato del suo ruolo di beautiful loser e, ora che ha rinunciato a essere Cobain, desideroso di studiare da Cohen. Per intanto caccia i fantasmi evocando quelli altrui, facendo Tim Hardin meglio di Tim Hardin in Shiloh Town e Fred Neil meglio di Fred Neil in Badi-Da e omaggiando la memoria di Jeffrey Lee Pierce con una Carry Home che lascia a bocca aperta. Stesso effetto che fa sentire un gruppo mediocre come i Leaving Trains, di cui riprende Creeping Coastline Of Lights, trasformato in uno indimenticabile come i Triffids. O Bobby Bland, Eddie Floyd e O. V. Wright riletti con tanta di quell’anima (in inglese si dice “soul”) che da uno della generazione del grunge non te lo saresti mai aspettato.

Roba di altri tempi, appunto. Inadatta a questi anni distratti, frenetici, superficiali. Se ne accorgeranno in pochi, ma per quei pochi vorrà dire molto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999.

Field Songs (Sub Pop/Beggars Banquet, 2001)

È una numerosa e composita congrega quella che fiancheggia Mark Lanegan in quello che è già il suo quinto album in proprio. Gente celeberrima come Ben Shepherd, che fu nei Soundgarden, e Duff McKagan, che era nei Guns N’Roses prima che divenissero una farsa. Mentre altri nomi risulteranno familiari soltanto a chi frequenta assiduamente l’underground a stelle e strisce. Tipo – doveroso citarlo dacché nei dischi del nostro uomo è presenza importante e immancabile – Mike Johnson, che fece parte dei Dinosaur Jr. seconda fase e ha all’attivo di suo alcuni pregevoli lavori. Non c’è stavolta, nemmeno nella pur cospicua lista dei ringraziamenti, nessun Screaming Trees ed è un altro segno che la vicenda degli Alberi Urlanti è stata consegnata agli archivi del rock. Settore: non furono mai famosi quanto avrebbero meritato. Questione di tempi sbagliati. Quando sbucarono da Ellensburg – dodicimila abitanti nell’estremo Nordovest degli Stati Uniti, nel pieno del nulla culturale più nulla che sia dato immaginare – al giro di boa degli ’80, il loro mischiare punk, hard e psichedelia, chitarre energiche e liriche e melodie di serpentina seduzione non aveva che poco pubblico e nemmeno un nome. Troverà l’uno e l’altro al passaggio di decennio: grunge. Proprio nell’anno di “Nevermind”, il ’91, agli Screaming Trees veniva offerto un contratto major, per la Epic, dopo che avevano già pubblicato cinque album su SST almeno uno dei quali (l’ultimo, “Buzz Factory”, dell’89) merita la qualifica di capolavoro. Avevano dato. I dischi seguenti li vedranno difendere le posizioni per poi ripiegare salvando in “Dust” (1996) l’onore e poco più. Mentre Lanegan fin dal ’90 intraprendeva una carriera solistica da subito generosa di pagine memorabili. Dovesse passarvi fra le mani (facile individuarlo se siete fans di Van Morrison), catturatelo quell’esordio chiamato “The Winding Sheet”. Sarà pure il meno riuscito della serie ma non fosse che per la penultima di una dozzina di tracce (non che le altre siano malvagie) merita l’acquisto. È una superba lettura di Where Did You Sleep Last Night di Lead Belly che precede di tre anni quella che i Nirvana sceglieranno come suggello del loro “Unplugged”. Doppio inchino, siccome alla versione datane dal Nostro concorse, non accreditato, proprio Kurt Cobain. Sta già tutta in quel blues catacombale la poetica che Lanegan estrinsecherà nelle opere seguenti, asciugando ulteriormente l’elettricità che aveva caratterizzato anche i momenti più accorati degli Screaming Trees.

“Whiskey For The Holy Ghost”, “Scraps At Midnight”, “I’ll Take Care Of You” le tappe successive. Lontanissimo il grunge. Spiriti affini Leonard Cohen, Tom Waits, Nick Cave. Così avrebbe suonato la “Music For A New Society” di John Cale l’avesse ispirata Robert Johnson. Il più grande? Quello che a oggi era l’ultimo. Un po’ paradossalmente, essendo fatto tutto di cover, pure il più personale: sfilata folkie di oscuri classici cantautorali (Tim Hardin, Dave Van Ronk, Tim Rose, tanto per non far nomi) e misconosciuti gioielli black (Bobby Bland, Eddie Floyd, O.V. Wright) accomunati dalla forma della ballata e da una voce sublime. Profonda, calda, dolente. Oppressa dal fardello dei mali del mondo, ma pronta a librarsi verso il cielo.

Ha un unico torto, “Field Songs”, ed è quello di andare dietro a un’opera probabilmente insuperabile, ma è bello quanto basta, cioè un bel po’, a conquistare a Mark Lanegan il secondo “disco del mese” consecutivo su queste pagine. Se avete amato “I’ll Take Care Of You”, amerete anche questo. Se ancora non conoscete Lanegan, bene, potrebbe svelarsi epifanico. Medesima la grana del predecessore, la differenza sta tutta in un minutaggio appena più generoso (siamo poco sopra i quaranta minuti) e nel fatto che i dodici brani sono questa volta autografi. Magari qualcuno scritto con altri ma bisogna andare a leggere i crediti per scoprire ad esempio, commuovendosi, che la morbida e morbosa tristezza di Kimiko’s Dream House è un altro omaggio, dopo quella Carry Home stracciacuore che inaugurava l’album prima, al compianto Jeffrey Lee Pierce. Fra gli apici di un lavoro che ai futuri compilatori di antologie offrirà piacevoli imbarazzi. Per quanto mi riguarda non potrei mai fare a meno della batteria ticchettante e dell’organo liquido e denso di swing di Pill Hill Serenade, del piano luccicante e della chitarra flamencata di Don’t Forget Me, di una Resurrection Song che è pura psichedelia pur essendo fatta, per gran parte del suo incedere, di sola voce e acustica. O del levitare su un bordone di Hammond di Blues For D. O della lamentosa, mesmerica, acida ossessione di Fix. Ma in realtà non potrei rinunciare a nessuna di queste dodici canzoni. Schegge d’Anima Americana fuori dal tempo e dunque destinate a restare immuni ai suoi oltraggi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 215, luglio/agosto 2001.

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Blues Funeral (4AD, 2012)

Se questo album fosse un singolo e i brani prescelti quelli giusti – ossia i primi in scaletta – già entro la prima metà di febbraio non avrei il minimo dubbio su quale sarebbe a fine 2012 il mio singolo dell’anno. Impossibile – credo – superare l’efficacia a livello contemporaneamente di impatto subitaneo e di capacità di imprimersi nella memoria dell’accoppiata The Gravedigger’s Song/Bleeding Muddy Water. E a decidere il lato A sarebbero esclusivamente le durate, a meno di non pensare di approntare un edit (a costo di sminuirne un po’ l’ipnotica incisività) dei 6’17” della seconda canzone: acida e solenne nenia appesa a una chitarra da brividi e tastiere ricercatamente fuori fuoco. Quanto alla prima è perfetta così, chitarre granitiche e una melodia sinuosa distese su una ritmica incalzante e – insomma – un prodigio di DNA mischiati fra Queens Of The Stone Age e Gun Club. Non che più avanti non ci siano, fra i dieci che completano il programma, altri pezzi che potrebbero funzionare benissimo su radio anche non necessariamente alternative. Due (guarda la combinazione…) in particolare e sono esattamente i due che meno e anzi mai ti saresti atteso dall’ex-cantante degli Screaming Trees. Se la Canzone del becchino pure agli Alberi Urlanti sarebbe potuta appartenere, da dove sbucano Ode To Sad Disco e Harborview Hospital? Sulla prima la dice lunga il titolo: batteria four-on-the-floor e sì, sono i Pet Shop Boys, per quanto alle prese con i Joy Division. La seconda sono gli U2 incrociati con i New Order. Ma tanto tanto tanto…

Per essere uno che formalmente non faceva un disco da leader da otto anni Mark Lanegan in questo lungo iato davvero non è rimasto con le mani in mano: tre gli album divisi con Isobel Campbell, cui bisogna aggiungere i due con i Soulsavers e la partecipazione al progetto Twilight Swingers, più qualche ospitata. Stakanovista magari no, ma slacker men che meno. Avendo frequentato ambiti musicali abbastanza diversi fra loro ci si poteva aspettare che, tornando ad agire da leader, si muovesse sui terreni consolidati da una discografia che prima di questa annovera, in poco più di due decenni, altre sei uscite maggiori. Be’, “Blues Funeral” non somiglia veramente a nessuno dei predecessori e ci sono altri episodi, oltre ai due dianzi menzionati, dei quali individueresti l’artefice giusto per via di quell’inconfondibile voce di ghiaia e catrame, temprata a whiskey e sigarette. Parlo ad esempio di Gray Goes Black e di Tiny Grain Of Truth, entrambe dal passo motoristico, così come St. Louis Elegy che lo bilancia però con suggestioni morriconiane, o dello stentoreo hard di Riot In My House, o ancora del tonitruante glam infiltrato di coretti Stones di Quiver Syndrome. Sicché quando il crepuscolare etno-blues zeppeliniano di Leviathan si affaccia al proscenio il fan di lunga data quasi tira un sospiro di sollievo: ecco infine di nuovo, a mezz’ora dal formidabile dittico d’apertura, qualcosa di familiare. Lanegan ha saputo osare e gliene va dato atto. Che “Blues Funeral” non colga sempre il bersaglio è peccato veniale di fronte a quello capitale della resa agli stereotipi.

Pubblicato per la prima volta su Venerato Maestro Oppure il 10 febbraio 2012.

Imitations (Vagrant, 2013)

Come se un cerchio si chiudesse… Non poteva certo immaginarselo Nick Cave quando nel 1986, stupendo tutti, dava alle stampe una collezione interamente di materiali altrui che stava inaugurando un canone. Da “Kicking Against The Pricks” in avanti di album di cover che, programmaticamente o meno, provano a svelare dell’interprete più di quanto non abbiano mai raccontato le sue opere autografe ne abbiamo ascoltati molti, forse anche troppi e forse giusto un paio parimenti ascrivibili alla categoria dei capolavori: nel ’93 “Satisfied Mind” dei Walkabouts, sei anni dopo “I’ll Take Care Of You” di Mark Lanegan. Passati quattordici ulteriori anni l’ex-voce degli Screaming Trees ci riprova e fra i dodici brani con cui si misura ce n’è uno – guarda un po’ – proprio di Nick Cave. Ammetterò che sul subito non l’ho riconosciuto e, trovandosi l’originale in “The Boatman’s Call”, che considero la cosa migliore prodotta dall’artista australiano nei ’90, scorrendo i crediti mi ha fatto strano. Poi ho riascoltato e ho capito. La Brompton Oratory di Cave è gotica e liturgica, di un’intensità quietamente bruciante. Quella di Lanegan, che pure non è che l’abbia stravolta, è crepuscolare e melò. Quasi non sembra la medesima canzone e dovrebbe essere un bene e invece no, giacché laddove una versione rivela tanto dell’autore l’altra dell’anima dell’interprete nulla fa trapelare. Ce lo certifica capace di arrangiamenti raffinati, ma non è che già non lo sapessimo. Nella distanza fra due messinscene nella prima delle quali ci si gioca la vita mentre nella seconda si gioca e basta si può cominciare a misurare il complessivo fallimento di “Imitations”. Titolo rivelatore e perciò infelice.

Più che a “Kicking Against The Pricks” in un paio di frangenti verso fondo corsa viene da pensare allo sciagurato “Après” di Iggy Pop: superkitsch il recitativo di Élégie funèbre, superorchestrata la superusurata Autumn Leaves. Ma non è che prima siano rose spinose e fiori del male, da sempre quelli che più ci interessano dovendoci fare un mazzo tanto. Se una tintinnante Mack The Knife si guadagna una stentata promozione in forza di una resa che si sgrana rugosa alla Johnny Cash, a una scarnificata You Only Live Twice lo stesso identico trucco non riesce. Se Deepest Shade evidenzia come nei Twilight Singers si possa rinvenire più degli American Music Club che non degli Afghan Whigs, Pretty Colors perde impietosamente il confronto con The Voice. Che ci può stare, laddove non si fa proprio una bella figura a farsi sotterrare – Solitaire, Lonely Street – da un Andy Williams qualunque. E allora? Nulla da salvare o possibilmente da applaudire? Tre-pezzi-tre, che fa un quarto appena del programma: giusto all’inizio, una Flatlands felpata e ipnotica che mi ha fatto ripromettere di riascoltarla Chelsea Wolfe e il delizioso valzer country (da Vern Gosdin) She’s Gone. Più avanti, una dolcissima I’m Not The Loving Kind che a chi la scrisse – John Cale – dovrebbe piacere. È qualcosa, non abbastanza. Lanegan ultimamente si è sovraesposto. Si può comprendere, sono i tempi a richiederlo, ma continuando a produrre a getto continuo materiali non all’altezza delle vertiginose medie d’antan andrà a finire che i suoi dischi cesseranno di essere un ascolto obbligato. Esito opposto rispetto a quello che si vorrebbe ottenere.

Pubblicato per la prima volta su Venerato Maestro Oppure il 24 ottobre 2013.

Una recensione dell’album in coppia con Duke Garwood “Black Pudding”, sempre del 2013, è recuperabile qui.

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