
Sono passati quarant’anni e un numero imprecisato di mesi ─ le tante biografie non riescono a mettersi d’accordo sulla data del debutto in proprio: era l’aprile del ’66 oppure il luglio? ─ dacché Lucio Battisti esordiva a 45 giri. Etichetta Ricordi, copertina ammiccante a Dylan anche se probabilmente al tempo se ne accorsero in dieci, a riascoltarlo oggi Per una lira/Dolce di giorno non pare questa gran cosa. Sono due bittarelli con un sentore di soul freschi e graziosi ma in fondo non così diversi da tante produzioni coeve, a parte che i testi osano qualcosa di più in malizia. E un po’ scandalizzarono difatti: la prima nella versione byrdsiana e più lenta dei Ribelli, cui l’aveva girata Celentano dopo che i due autori invano avevano provato a convincerlo a inciderla lui; la seconda in quella dei Dik Dik, che la sistemarono sul retro di un successone chiamato Sognando la California. Poche migliaia viceversa gli esemplari andati via (forse addirittura poche centinaia) del singolo di Lucio e dunque niente per un’epoca in cui i dischi si vendevano eccome, altro che oggi. Per darvi un’idea: quando nel 1968 l’Equipe 84 totalizzerà mezzo milione di copie di Nel cuore, nell’anima si griderà al fallimento, quasi al disastro, visto che il 45 giri prima, 29 settembre, era arrivato a superare il milione. Ehi! Due pezzi di Battisti/Mogol i suddetti, che all’altezza del glorioso “insuccesso” di Vandelli e soci ne avevano già piazzato un’altra mezza dozzina a una piccola folla di interpreti ottenendo puntualmente riscontri commerciali importanti. Se il Battisti autore sembrava già inarrestabile e una miniera d’oro per l’industria, stentava a decollare il cantante: ritirato il secondo sette pollici, centomila copie vendute del terzo (poca roba, avrete inteso), nemmeno entrato in classifica il quarto, di modesto impatto il quinto benché supportato da una partecipazione a Sanremo. La svolta era segnata nella primavera del 1969 dal sesto, Acqua azzurra, acqua chiara sul lato A, Dieci ragazze sul retro, un terzo posto e quasi cinque mesi di permanenza in graduatoria. A quel punto la rivoluzione inscenata nella musica italiana da Battisti e Mogol era in pieno essere. Durerà dieci abbondanti anni ancora. Per dieci abbondanti anni non ci sarà praticamente settimana senza almeno una canzone della coppia di Re Mida in classifica, cantata da Lucio Battisti oppure no. E a distanza di due decenni e mezzo ancora, adesso che quando vendi diecimila copie di qualcosa nel Bel Paese i discografici si sfregano le mani tutti soddisfatti e stappano bottiglie, annualmente di dischi di Battisti se ne vendono in media un trecentomila. Fa quasi mille al giorno. Ne avete minimo uno in casa pure voi. Tiratelo fuori. Suonatelo. Ecco, potete scommettere che in questo preciso istante altri stanno facendo la stessa cosa. Non ci si libererà mai da quei due, grazie a dio.

Io vivrò senza te
Naturalmente ricordo benissimo il modo in cui Lucio Battisti uscì dalla mia ─ dalla nostra ─ vita. Lo smarrimento che mi colse quando alle tredici del 9 settembre 1998, accesa la TV per guardare uno dei principali TG nazionali, mi trovai davanti uno schermo nero con giusto una scritta di saluto a campeggiare e sotto le note di Emozioni. Mi pare che la mandarono per intero, quattro minuti e quarantaquattro secondi senza una parola dello speaker, una cosa mai vista e insomma anche uscendo di scena il Lucio da Poggio Bustone riusciva a essere inaudito. Si fossero fermati lì! A quello straordinario pezzo di televisione indimenticabile di suo. Si fossero limitati a dare la notizia, che arrivava inattesa nonostante si fosse capito che, per uscire da un eremitaggio durato oltre tre lustri ed entrare in un ospedale pubblico, qualcosa di serio l’artista reatino doveva averlo. Sin dal 29 agosto gli inviati delle televisioni erano accampati davanti al San Paolo di Milano e voci incontrollabili si rincorrevano senza che nulla di ufficiale venisse detto. Poi un comunicato stampa, venticinque parole. Si fossero fermati lì! A un servizio di cinque minuti, di dieci, magari a un’edizione del telegiornale dedicata integralmente alla notizia, per poi spegnere le luci e fare calare un rispettoso silenzio su una persona che dello stare in silenzio, lasciando che a parlare fossero le canzoni, aveva fatto uno stile di vita. E invece no. Si avviava sgangherato il carrozzone delle celebrazioni pelose con aggrappati individui di ogni risma. Facevano a botte per una comparsata sotto i riflettori illustri nullità e fra esse, puntuali, quanti sul nostro uomo non avevano mai esitato a spalar maldicenze. Era tutta una gara al “io che lo conoscevo bene”, “io che senza di me”, “io… io… io…”: miserabili accattoni di polvere di stelle. Partiva il karaoke e vai con le dieci ragazze che per me potranno bastare. Un programma via l’altro e l’auditel impazzita con numeri da finale di coppa del mondo di calcio, perché poi la gente ─ quella vera ─ a Lucio voleva bene sul serio e, pur schifato, non potevi fare a meno di guardare. Fino e oltre alle esequie, avvenute il 12 in presenza di quelle venti persone che avevano diritto di stare lì, soltanto gli affetti intimi, i più cari. Fino e oltre a quel primo 29 settembre senza Battisti, con le auto della polizia di ronda intorno a un cimitero sotto assedio, mentre altre volanti facevano il possibile per impedire che nella villa al Dosso da lungi loro ritiro privilegiato il riservatissimo lutto della donna che gli era stata accanto per quasi tre decenni venisse disturbato.
Non ricordo invece come fu che ci entrò Lucio Battisti, nella mia vita. In verità mi sembra ci sia sempre stato e che fosse dappertutto, con quelle canzoni così orecchiabili che le poteva cantare un bambino e difatti le cantavo a squarciagola con gli altri e mi pareva di capirle, più o meno. Perché oltre il cancello della colonia estiva l’uomo che passava con il carretto e gridava “Gelati!” c’era e, allo stesso modo, all’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri e io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli. Però mi piace pensare che anche all’altezza dei miei nove, dieci, undici anni qualcosa mi lasciasse perplesso, mi facesse riflettere. Come potevano le malinconie (dolcissime poi!) correre nelle praterie? Che ci azzeccavano i tarli con la mente? E si sono mai visti appassire dei fiori stampati su un vestito? Le canzoni degli altri non ti facevano arrovellare così. Poi è arrivata l’adolescenza e Battisti era immancabile nei pomeriggi tristissimi passati facendo tappezzeria alle feste di altri e altre, chiedendomi perché mi avessero invitato e soprattutto perché ci fossi andato, che tanto non c’era niente da fare, io con quella tipa lì non sarei mai riuscito a spiccicare una parola. Una consolazione che ci fosse lui a inframmezzare una se no mortale colonna sonora rigorosamente a base di Baglioni e Bee Gees, Sorrenti e “Dark Side Of The Moon”. Mi sarebbe piaciuto di più ascoltare quegli altri di Pink Floyd, quelli di “The Piper At The Gates Of Dawn”, che però sembrava garbassero solo a me, oppure Bob Marley ma da noi se lo filavano ancora in pochi. I Clash o Lou Reed, appena scoperti, erano fuori discussione. Però, dai, Battisti non era malaccio in fondo. Anche quei pezzi lì con la cassa in quattro da discoteca e che però se paragonati ai successi dance che imperversavano avevano una fluidità tutta loro, e un’italianità, e non sapevano di plastica, e che belle le parole, sempre. Si mormora che Battisti sia fascista. Lo fosse, dovrei cambiare stazione (dura trovarne una che non lo manda mai) ogni volta che lo trasmettono alla radio e fargli propaganda contro? Ma in fondo a dirlo sono i medesimi che hanno dato del nazista a Lou Reed, dimenticandosi che è ebreo, portando a prove i capelli corti e ossigenati e i Ray-Ban, e mi sa proprio che non è vero. Se lo è me ne frego. Ecco, mi sono appena fatto una battuta da solo, posso sgattaiolare via senza salutare e in ogni caso non se ne accorgerà nessuno.
Eppure credo di essere arrivato ai trent’anni senza avere un disco di Lucio Battisti. È che mi sembrava di conoscerli già tutti a memoria ed era un’ottima scusa per non comprarli. Tanto erano solo canzonette, no? Non so come mai a un certo punto ho cominciato a mettermeli in casa uno dopo l’altro. Forse per nostalgia di un tempo, remoto come un sogno, in cui la sottilissima linea che separa l’essere un giovane promettente da un fallito di mezza età era lontana all’orizzonte. Forse perché, essendomi conquistato del rock tutto o quasi lo scibile imprescindibile, potevo cominciare, fra questa e quella esplorazione dei suoi perimetri esterni, a togliermi qualche sfizio. È stato allora con qualcosa di assai simile allo sbalordimento che ho iniziato a rendermi conto di quanto fossero complesse e geniali nella loro costruzione le canzonette di cui sopra, piene di deviazioni subitanee e intarsi, modernissime. Istantanee nel loro porgersi e tuttavia al centesimo ascolto differenti da come erano apparse al novantanovesimo. Degne di essere pronunciate nello stesso respiro affamato di ineffabile con cui esali la litania Ray Davies, Brian Wilson, Arthur Lee, Bob Dylan, Lennon/McCartney, Burt Bacharach, Phil Spector.
Prosegue per altre 60.345 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.23, autunno 2006. Fosse ancora fra noi, Lucio Battisti compirebbe oggi ottant’anni.