Archivi del mese: agosto 2022

Kings Of Convenience – Quando “quiet” era il “new loud”

Chissà se l’idea di chiamare “Quiet Is The New Loud” un secondo album che era quasi come fosse il primo (incredibilmente, il vero esordio non è nemmeno citato nella scheda che Wikipedia dedica al duo) venne a Erlend Øye o a Eirik Glambek Bøe. In scaletta un brano omonimo non c’è e i ragazzi (venticinque anni entrambi all’epoca) non ritennero di rimediare a posteriori. Chissà se avrebbero se no attirato l’attenzione della stampa inglese, fomentandone a tal punto l’entusiasmo che provò a inventarsi una scena che non c’era (frugo nella memoria e negli archivi e di gruppi degni di nota ne trovo tre: Turin Brakes e Stairsailor, che debuttavano in lungo quello stesso anno, e It’s Jo And Danny, che provarono a mettersi in scia quando erano stati in realtà i primi ad affacciarsi alla ribalta). È che un titolo così geniale avrebbe potuto inventarlo giusto un giornalista del “New Musical Express” con un futuro da pubblicitario di grido. È che dopo gli anni del grunge e del Britpop, dell’alt-rock e del post-rock, una musica principalmente di chitarre acustiche e armonie vocali pareva perfetta per un secolo che si affacciava alla storia potendo ancora (per pochissimo: fino all’11 settembre) fantasticare di essere altra cosa, e migliore, rispetto al precedente. “Il silenzio è il nuovo rumore”, si potrebbe provare a rendere, ma non rende. Sia come sia: tutti pazzi per i Kings Of Convenience nella primavera del 2001 e a riascoltarla oltre vent’anni dopo quella dozzina di canzoni fa ancora una formidabile figura. Di “nuovo” non regalava in realtà e naturalmente nulla, come chiunque minimamente avvertito e con magari in casa i dischi dei Belle And Sebastian oltre a quelli di Simon & Garfunkel e Nick Drake già allora sapeva, ma che scrittura! Che è quello che conta nel pop. Quello, e il sentimento.

Mica facile arrivare a conquistare le classifiche ─ in verità più nel resto d’Europa che le britanniche, anche se buttale via sessantamila copie ─ partendo da Bergen, che dopo Oslo è la seconda città della Norvegia ma vi sfido a puntare un indice verso una carta geografica e dire “è lì”. Lì dove copie ne bastano venticinquemila per appendere in casa un disco d’oro ed è difficile ai limiti dell’impossibile, proprio per le dimensioni ridotte del mercato (metà degli abitanti della Lombardia e un costo della vita proporzionato a una ricchezza che sconfina nell’opulenza), fare dell’essere musicisti più di un hobby. A meno, appunto, di partire. Erlend ed Eirik mandavano in avanscoperta prima dei demo, quindi tre singoli “made in Norway” e credevano di avere trovato l’America dove l’America è quando nel 2000 la Kindercore (di Athens, Georgia; vi diranno qualcosa nomi come Pylon e B-52’s, R.E.M. e Of Montreal) si offriva di pubblicare un CD di fatto antologico visto che quasi tutti i brani che raduna erano già apparsi sul trio di 7” di cui sopra. Copertina di rara bruttezza, “Kings Of Convenience” non merita l’elevato esborso (mentre scrivo c’è chi su Discogs prova a venderlo a quei duecento euro) necessario oggi per procurarselo. Le canzoni ci sono già, ben sei su dieci verranno ripresentate (e fa metà esatta del programma) in “Quiet Is The New Loud”, la magia ancora no. Quella che nella nuova versione di Winning A Battle, Losing The War si accende davvero, dopo che le chitarre da felpate si sono fatte guizzanti, quando a un minuto o poco più dalla fine entra la batteria. Che nella successiva, festosa a dispetto del titolo Toxic Girl è presente sin dalle prime battute. La batteria. Quella che fece tutta la differenza di questo mondo quando Tom Wilson decise nel 1965, senza manco avvisare gli interpreti, di aggiungerla a The Sound Of Silence e un brano passato del tutto inosservato l’anno prima rendeva Simon & Garfunkel (sempre i più citati quando si scrive dei Kings Of Convenience) delle superstar a loro insaputa, dalla sera alla mattina. Ciò che nel… come dire?… primo debutto era appena un bocciolo in questo secondo fiorisce grazie a poche quanto sapienti aggiunte: lì uno sbuffo di tromba, là un fremito di violoncello, un piano a ricamare, una batteria discreta ma decisa, una chitarra che abbandona il folk per avventurarsi nel jazz o azzardarsi brazileira. Come, l’ultima che ho detto, nella squisita Singing Softly To Me, in Leaning Against The Wall, in una The Girl From Back Then che è John Martyn alle prese con Antônio Carlos Jobim. Laddove Failure è un Nick Drake euforico come mai fu e Parallel Lines un Paul Simon al contrario più desolato che semplicemente malinconico. Non è saudade qui, piuttosto spleen, capite a me.

La notte è più buia subito prima dell’alba e nel 2001 nessuno avrebbe potuto garantire che per il vinile il sole sarebbe sorto ancora. Di “Quiet Is The New Loud” stamparono pochissime copie ed è a ragione di ciò che oggi per una in condizioni accettabili il prezzo si aggira sui settanta euro e una intonsa può arrivare a costare più del doppio. Risulta allora particolarmente gradita (ma il lettore interessato si affretti, per certo non ne hanno tirate di più) una riedizione arrivata nei negozi sotto Natale, griffata sempre Source, distribuita dalla Universal e con un prezzo di listino di eurelli 28. Tale e quale a “Riot On An Empty Street”, che in origine vedeva la luce nel 2004 e del predecessore forniva replica fors’anche più ispirata, tanto che in molti ritengono (sono d’accordo) sia questo e non quell’altro il capolavoro della coppia. Si presenta con una luminosissima (di nuovo: il titolo depista) Homesick che non potrebbe essere più Simon & Garfunkel nemmeno se fosse di Simon & Garfunkel, si congeda con una meditabonda The Build-Up che il featuring di Leslie Feist fa un po’ Suzanne Vega, in mezzo dispensa meraviglie come la pianistica e incalzante Misread, il valzer Stay Out Of Trouble, una Sorry Or Please dove Nick Drake incontra Paul Simon e una Live Long che in mano ad Al Stewart nell’Anno del Gatto avrebbe spopolato. Sistemata fra una I’d Rather Dance With You invero ballabile e una Surprise Ice rarefatta e quasi luttuosa. Nota di colore: più che in qualunque altro paese era da noi che l’album faceva strage di cuori, scalando le classifiche fino alla terza posizione. Quanto è vero che “amor ch’a nullo amato amar perdona”: dal 2012 Erlend Øye vive in Italia, a Siracusa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.439, febbraio 2022.

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Bloc Party – Alpha Games (Infectious)

Chi ben comincia è a metà dell’opera ma pure un po’ nei guai. Cominciavano benissimo i Bloc Party, che formatisi ufficialmente nel settembre 2003 (i quattro fondatori in realtà suonavano insieme da tempo) già entro fine anno si ritrovavano a esibirsi, su invito dei Franz Ferdinand, alle celebrazioni per il decimo compleanno della Domino. A metterli sotto contratto dopo un paio di singoli per marchi più piccoli era però la Wichita e ben gliene veniva visto che nel 2005 il debutto in lungo “Silent Alarm” era un successone sia di pubblico che di critica. Numero 3 e disco di platino nel Regno Unito, veniva candidato al Mercury Music Prize ed era “album dell’anno” per il “New Musical Express”. Diciassette anni dopo suona ancora ─ se non nuovo e del resto nuovo non suonava nemmeno allora, devoto com’è a Gang Of Four, Joy Division, U2 primevi ─ fresco, eccitante. Non sono mai riusciti a superarsi, i Londinesi (restano tuttavia ascoltabili e consigliabili “A Weekend In The City” del 2007 e “Four” del 2012), e nel 2018 cedevano alla nostalgia riportando in tour quel disco nella sua interezza e addirittura traendo dai concerti un live ricalcato sulla scaletta originale.

Sarà forse a ragione di ciò che “Alpha Games” sembra più un’estensione del lontano debutto che il seguito di “Hymns”, che nel 2016 insieme stupiva e lasciava perplessi sperimentando con r&b ed elettronica. Solo che le canzoni non sono di quel livello, manco lo avvicinano se non nel trittico iniziale Day Drinker/Traps/You Should Know The Truth. Che fa un quarto di un programma nel cui resto spiccano in negativo l’innodia sub-Coldplay di Of Things Yet To Come, in positivo se non altro perché spiazza l’atmosferico suggello un po’ Roxy Music The Peace Offering.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Linton Kwesi Johnson e la nascita della dub poetry

Compie oggi settant’anni Linton Kwesi Johnson, intellettuale, attivista, grande poeta prestato alla musica. Sfortunatamente da troppissimo aspettiamo invano da lui un disco nuovo, o un libro.

Forces Of Victory (Island, 1979)

L’immagine più emblematica di Linton Kwesi Johnson – attivista politico, intellettuale, poeta – è quella leggendaria che campeggia sulla copertina del suo primo album, “Dread Beat An’ Blood”, o per essere precisi sulla stampa che ne è da molto tempo disponibile e sostituisce la prima, pubblicata nel 1978 dalla Virgin con un davanti di confezione di gusto crassiano e a nome  Poet And The Roots: aria già allora professorale Linton è colto mentre, megafono in mano, arringa la folla davanti a una stazione di polizia. Aveva ventisei anni, da quindici risiedeva in Inghilterra, otto anni prima si era unito alle locali Pantere Nere, nel mentre contemporaneamente si guadagnava da vivere come contabile, studiava sociologia e poco dopo, contraltare britannico dei newyorkesi Last Poets, cominciava a scandire le sue rime sui ritmi elaborati da una congrega di percussionisti, i Rasta Love. Di tali rime in patwa – argomento la difficile situazione degli immigrati dalle Indie Occidentali sudditi di Elisabetta, affrontata con vivace verve polemica non scevra però di tocchi di tenero umorismo – riempiva due volumi, The Voices Of The Living And The Dead e, appunto, Dread Beat An’ Blood, che dopo che un libro diveniva un disco. È un lavoro di una rilevanza storica difficilmente sopravvalutabile, siccome è con esso che nasce la cosiddetta dub poetry, che con Michael Smith e Mutabaruka, Benjamin Zephaniah, Queen Majeeda e Jean Binta Breeze (quest’ultima una scoperta dello stesso Johnson) troverà altri validi esponenti. Musicalmente però non è eccezionale, le legnose basi poco più che uno sfondo al fluire delle rime.

È con “Forces Of Victory” che la collaborazione con Dennis Bovell, produttore abilissimo e figura di spicco, con i Matumbi, del reggae locale dei ’70 decolla sul serio, accompagnando ragionamenti e proclami con spartiti raffinati in cui nel dub si fanno largo seduzioni jazz. Le “forze della vittoria” sono quelle che animano quell’agostano carnevale caraibico di Notting Hill che tanto ispirò anche i Clash. Mirabili quanto sempre più distanziate repliche in “Bass Culture” (1980), “Making History” (1984), “Tings An’ Times” (1991).

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.20, inverno 2006.

Bass Culture (Island, 1980)

Caso raro di intellettuale prestato alla musica (viene in mente un altro nero, in America però: Gil Scott-Heron), Linton Kwesi-Johnson milita nelle Pantere Nere britanniche, lavora da contabile, studia sociologia e pubblica poesie (prima sul periodico “Race Today”, quindi in due volumi), che legge in giro facendosi talvolta accompagnare (i Last Poets un’evidente ispirazione) da un gruppo di percussionisti. Nel 1978 stringe con Dennis Bovell, collaboratore anche del Pop Group, produttore abilissimo e figura di spicco, con i Matumbi, del reggae locale dei ’70, un sodalizio destinato a segnarne l’intera vicenda discografica. “Dread Beat An’ Blood” sistema le cantilenanti rime in patwa (l’inglese spurio delle Indie Occidentali) di Johnson su dilatate scansioni in levare inventando una formula, la dub poetry, che il successivo “Forces Of Victory” perfezionerà aggiungendo spezie jazz. Ancora meglio “Bass Culture”, denuncia accorata ma anche carica di humour delle condizioni di vita degli immigrati porta su un dub di asciutta vigoria e nondimeno eccezionale godibilità. Un disco enorme nella sua semplicità. In una produzione via via sempre più rada, spiccano ancora “Making History”, dell’84, e “Tings An’ Times”, del ’91, musicalmente più ricchi ma meno intensi.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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I’m Bad Like John Lee Hooker

Continuerò a suonare fin quando ne sarò in grado, perché voglio tentare di tenere questa forma musicale in vita il più a lungo possibile. Ne sono ormai rimasti pochi in circolazione dei vecchi cantanti di blues. È mio desiderio che i più giovani ne assumano l’eredità.

Parole di John Lee Hooker raccolte dieci anni fa da Greg Drust della KCSB di Santa Barbara, California, e riportate nel libretto che accompagna il box Rhino “The Ultimate Collection: 1948-1990”. Sembrarono un congedo e invece no, dacché nei ’90, lungi dal limitarsi a godere una facoltosa vecchiaia resa spiacevole soltanto dagli inevitabili acciacchi ma per il resto splendida, Johnnie Lee è stato attivissimo. Seguitando a incidere (ricordo i benvenduti e pluripremiati “Mr. Lucky”, “Chill Out” e “Don’t Look Back”), a fare concerti e a raccogliere tributi, sia alla carriera che alla vitalità di un ultrasettuagenario che di andare in pensione non voleva saperne. Forse perché conscio che con lui, l’ultimo dei Maestri ancora respirante, pure il Blues si sarebbe avviato alla tomba. Sapendo sotto sotto, a dispetto delle profferte di rispetto per le giovani (insomma…) generazioni, che ciò che si suona oggi e viene così chiamato non è che un simulacro. Il che costituisce una ragione in più e anzi la ragione per essere tristi ora che il vecchio Hooker ci ha lasciati. Se n’è andato la notte dello scorso solstizio d’estate, serenamente, nel sonno. A ottantatré, ottantadue oppure ottant’anni e con gli ottantuno all’orizzonte e non pensiate che stia dando i numeri perché in verità fu lui a darli quando, poco più che un ragazzetto, alterò la carta di identità (ottanta dovrebbe dunque essere l’età giusta) per arruolarsi nell’esercito. Pronunciato spirito patriottico? Macché. Aveva solo notato che le ragazze erano più facili a concedersi a un uomo in uniforme. Congedato prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, al divampare del conflitto si guardò bene dal tornare sotto le armi. Codardia? Macché. Aveva solo riflettuto sul fatto che, con pochi altri uomini in circolazione, non sarebbe mai rimasto senza un lavoro e soprattutto senza qualche dolce figliola a ronzargli attorno. Il “ladies’ man” per antonomasia lo definiva Jas Obrecht, che è stato uno degli ultimi a intervistarlo, per “Mojo”. Uno da cui Keith Richards ha imparato anche sotto questo profilo, non solo in materia di riff tambureggianti e melodie sinuose. Il segreto, confidava Johnnie Lee, è essere sempre gentili e rispettosi. Conversando qualche tempo prima con Charles Shaar Murray, autore del fondamentale Boogie Man: John Lee Hooker In The American 20th Century, il nostro eroe se n’era uscito con un impagabile “sono stato sposato tre volte. No, quattro! Non riesco mai a ricordarmi”. E, no, il signor Alzheimer non c’entra.

Bluesman fra i più grandi di sempre Mister Hooker e se si parla di blues postbellico in quella lega di campioni in cui pochissimi altri nomi sono degni di figurare: Muddy Waters, Willie Dixon, Howlin’ Wolf e un po’ dietro i tre King e magari Elmore James. Però atipico. Tanto per cominciare l’opposto dello stereotipo del blues inteso come espressione del male di vivere: “mi sono svegliato questa mattina e mi sentivo bene” potrebbe essere un suo incipit esemplare.

Prosegue per altre 7.830 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.40, settembre 2001. John Lee Hooker nasceva un 22 agosto. Del 1912. Oppure del 1915. O del 1917. O del 1920. O, forse, del 1923. È ragionevolmente certo che ci lasciò il 21 giugno 2001.

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Ghost Power – Ghost Power (Duophonic Super 45s)

C’erano una volta i franco-britannici Stereolab e a dire il vero ci sarebbero di nuovo, ma da quando si sono rimessi insieme nel 2019 non hanno pubblicato nulla che non venisse dagli archivi: fra i gruppi di area post-rock uno dei più geniali e di sicuro (sensibilità pop spiccatissima) il più accessibile. E c’erano una volta pure i più sperimentali Dymaxion, americani, che pubblicarono giusto una manciata di singoli e il cui unico album (in realtà un’antologia) nel Regno Unito vedeva la luce su Duophonic, vale a dire per l’etichetta degli Stereolab. Era allora, nel 2000, che il co-leader dei primi, Tim Gane, e Jeremy Novak dei secondi stringevano un rapporto amicale. Per farlo diventare sodalizio artistico hanno atteso il 2020, quando lavorando il primo a Berlino e il secondo nella sua New York hanno cominciato a scambiarsi via Internet idee e parti strumentali. Offrivano subito un assaggio del potenziale della collaborazione con un 7” cui danno ora più cospicuo seguito con un album che ne riprende entrambe le facciate e aggiunge otto tracce inedite.

Non fosse che gli mancano la parola (è solo strumentale) e Lætitia Sadier, “Ghost Power” potrebbe essere il disco che dagli Stereolab riformati abbiamo finora aspettato invano: fantastico pastiche di pop, krautrock, kosmische musik, colonne sonore, new wave, 39’36” di cui però ben 15’05” occupati dall’odissea “deep in the outer space” di Astral Melancholy Suite. Per arrivarci passerete da genialate come Inchwork (gli Wire alle prese con una melodia di limpidezza kraftwerkiana), Grimalkin (John Barry e i Tangerine Dream che musicano insieme un capitolo di Star Wars) e Vertical Section (novella Popcorn, anche se non se ne accorgerà nessuno).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Il rapper Joe Tex

Nei lontani anni ’50, un’era che probabilmente a molti dei giovani acquirenti di dischi odierni pare remota come il Medio Evo, l’uomo conosciuto come il boss del blues era Big Joe Turner, un urlatore che trasmetteva un’eccitazione contagiosa ed ebbe una hit dopo l’altra con brani come Shake Rattle & Roll, Flip Flop & Fly e Corrine Corrina. Qualche tempo dopo il grande Ray Charles si affacciò alla ribalta, si prese il titolo e lo conservò a lungo, con classici quali I Got A Woman, What’d I Say, I Love Her So e tanti altri, troppo numerosi per elencarli qui e tutti scritti da lui stesso. Nei primi ’60 fu il turno del compianto Sam Cooke di diventare il boss, sbaragliando la concorrenza con canzoni come Chain Gang, Good News, Shake e Twistin’ The Night Away. Oggi che abbiamo superato metà decennio c’è un nuovo boss. Si chiama Joe Tex e si sta dimostrando degno degli illustri predecessori.

Scriveva così tal Bob Rolontz nelle note di copertina di quello che fu il secondo LP vero (non contando una raccolta frettolosamente assemblata dalla Checker per cavalcare l’onda) dell’uomo noto all’anagrafe della cittadina texana (Rogers) dove era nato l’8 agosto 1933 come Joseph Arrington Jr. e al resto del mondo come Joe Tex. Oggi, che sono passati da allora a momenti quattro decenni, per il curioso effetto prospettico dato dall’avere la musica “giovane” superato il mezzo secolo il 1966 ci pare più vicino di quanto non sembrasse il ’54 agli ascoltatori che portarono al secondo posto della graduatoria R&B, e al quinto di quella pop, Hold What You’ve Got, la canzone che aveva battezzato l’album prima di “The New Boss”, il debutto vero per il nostro uomo. Ma il suo nome è probabilmente meno familiare all’appassionato medio di quanto non fosse nel ’66 quello di Joe Turner, che del resto faceva ancora dischi, sebbene con successo calante, e avrebbe continuato a farne fino a un attimo prima di morire, settantaquattrenne nel 1985. Fosse vivo, Joe Tex settantaquattro anni non li avrebbe e al prossimo 13 agosto saranno ventidue dacché è scomparso. Fosse vivo, mi piace pensare, avrebbe entusiasmato i vecchi fans come le nuove generazioni con ritorni di fiamma prepotenti come quelli di un Solomon Burke o un Al Green. Invece se n’è andato troppo presto e in miseria, depredato dal fisco di ogni avere, lui che economicamente aveva sempre saputo gestirsi con una sapienza sconosciuta a quasi tutti gli altri passeggeri del treno del soul, lui che aveva avuto la fortuna rarissima di vedere coincidere le figure del discografico e del suo migliore amico. Un bianco, sapete? Invece se n’è andato troppo presto, lui che era stato soprannominato The Rapper, proprio mentre l’hip hop si faceva grande. E contrariamente a quel James Brown da cui molto fu imitato, e che molto a sua volta imitò, la nuova musica nera l’ha poco considerato, non riservandogli che di rado quell’omaggio definitivo che è il campionamento e dire che la materia prima sarebbe abbondantissima. Prima o poi la ricca vena aurifera verrà scoperta. Prima o poi succederà qualcosa e Joe Tex tornerà a essere considerato un colosso e non, al più, un simpatico minore. Mi piace pensarla così e offro il mio obolo.

Prosegue per altre 7.029 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.73, giugno 2004. Ricorre oggi il quarantesimo anniversario della scomparsa di Joe Tex. Non aveva che quarantasette anni.

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Spiritualized – Everything Was Beautiful (Bella Union)

Se hai fatto la storia del rock sei un grande con un grande problema: ogni tuo album verrà contestualizzato in un canone con apici ineguagliabili, per ogni brano che scrivi si assumerà a paragone il catalogo cui si aggiunge. Puoi fartene sopraffare ed era quanto accadeva a Jason Pierce ─ con Sonic Boom in quegli Spacemen 3 che nei secondi ’80 si inventavano un’inaudita psichedelia post-punk; e poi artefice nel ’97 con gli Spiritualized di “Ladies And Gentlemen… We Are Floating In Space” di una sorta di nuovo, fragoroso “Pet Sounds” ─ all’altezza del precedente “And Nothing Hurt”. Ottimo disco dalla cui lavorazione usciva però a tal punto stremato da dichiarare che sarebbe stato il suo ultimo.  Sempre a sentir lui (lo conferma che mentre quello lo si era atteso sei anni per il seguito ne sono bastati quattro) a “Everything Was Beautiful” si è approcciato con meno fisime da perfezionista e si parla di uno la cui ossessione per il dettaglio è leggendaria. Si vede che l’età (o saranno stati certi inciampi della vita) gli ha portato saggezza.

Il nono album in trent’anni degli Spiritualized non è certo il primo da procurarsi ma è quello cui riesce il miracolo di sintetizzare in sette pezzi e quarantaquattro minuti netti un sound cui concorrono il doo wop (chiara influenza nella traccia iniziale e migliore, Always Together With You, in transito dall’estatico al solenne, all’euforico) come i Suicide e molto di quanto sta in mezzo. Benvenuti, nel caso, in un universo in cui ha un senso che una canzone chiamata Let It Bleed (For Iggy) sia in debito più che con gli Stooges con la Motown, laddove ad aleggiare sulla conclusiva I’m Coming Home Again è lo spirito di Dr. John, che della compagnia fu parte pure in carne e ossa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Kurt Vile – (Watch My Moves) (Verve)

Chi si somiglia si piglia ma a somigliarsi troppo il rischio è di lasciarsi presto. È il caso di Adam Granduciel e Kurt Vile, che fondavano i War On Drugs con l’idea magnifica di mediare My Bloody Valentine e “Highway 61 Revisited”, declinando un rock fragoroso quanto melodico che però alla lunga si farà più che altro magniloquente, ricreazione di anni ’80 in fissa per Bruce Springsteen. Ma questo in tempi più recenti e già all’altezza del secondo album (2008) della band di Philadelphia Vile non era più co-leader ma un ospite e poi basta. Separazione amichevole, detto en passant. Commercialmente non c’è stata gara: i War On Drugs decollavano proprio con il primo lavoro post-Vile e i loro dischi hanno da allora venduto il decuplo di quelli di un ex- che nondimeno con il nono album in studio (contandone uno con Courtney Barnett) approda a un’etichetta non solo prestigiosa ma in area major. A sua lode: come i War On Drugs che passavano dalla Secretly Canadian alla Atlantic, senza sottostare a compromesso alcuno.

A proposito di Springsteen: qui Vile coverizza aggiungendoci un tocco acidulo l’oscura (uno scarto di “Born In The U.S.A.”) Wages Of Sin. A proposito di un altro tratto in comune con Granduciel: “(Watch My Moves)” ne conferma la logorrea, quindici brani uno dei quali è però un siparietto ambient sotto il minuto per 73’44” e fate voi la media. Si astiene da svolte adombrate dal delizioso girotondo pianistico alla Robyn Hitchcock della traccia inaugurale Goin On A Plane Today e da una seconda, Flyin (Like A Fast Train), molto Beck su beat hip hop ed è un peccato. Soprattutto perché canzoni come la byrdsiana Jesus On A Wire, una scintillante Say The World in cui cita i Talking Heads o lo shuffle loureediano Stuffed Leopard lo confermano autore di vaglia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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L’età aurea di Stevie Wonder

Non vi era alcuna ragione perché questo mese Scritti nell’Anima si occupasse di Stevland Judkins, ovvero Stevie Wonder. Non è uscito un nuovo album (l’ultimo in studio, “Conversation Peace”, è del ’95 e brutto quanto basta a non far bramare un successore), non è stato confezionato un cofanetto a riepilogo di una carriera comunque eccezionale (già fatto, nel ’99), non ha festeggiato un compleanno di quelli adatti alle celebrazioni (i suoi anni saranno cinquantaquattro il 13 maggio). Né c’erano altri anniversari in vista, siccome la scorsa estate mi sono fatto scappare l’occasione di cogliere a pretesto di un’apologia il trentennale dell’incidente automobilistico (no, simpaticoni: non guidava lui) che nella vicenda umana e artistica del Nostro segna uno spartiacque non dissimile da quello marcato per Dylan dalla caduta in moto del ’66. Non vi era alcuna ragione, se non che improvvisamente mi sono reso conto che dal settembre 2000 firmo una rubrica di musica nera e in tutto questo tempo (tolte casuali citazioni) non ho speso una parola per uno degli uomini che più hanno contribuito a formarne il canone. Mi è parso bizzarro. E poi, semplicemente, mi aveva colto la voglia di riascoltare lo Stevie Wonder già negli scaffali e mi urgeva una scusa per cacciare soldi per il mancante. A questo sono ridotto dopo due decenni di esercizio della professione di critico: per togliermi lo sfizio di metter su qualcosa per piacer mio e non per scriverne mi tocca… scriverne. Inventarmi un articolo. E chi poteva prevederlo? Ma non mi lamento, non potrei mentre il tredicenne Little Stevie invita il pubblico ad accompagnare battendo le mani Fingertips e mi viene da fare lo stesso, i piedi che partono come dotati di volontà loro, il primo sorriso che mi si affaccia sulle labbra dopo giorni quando non avrei proprio un cazzo da ridere, ma manco uno piccino così.

Non è però sullo Stevie Wonder enfant prodige del mendacemente titolato (visto che è del ’63) “12 Year Genius” che voglio diffondermi, non sulla stella bambina che collezionò numeri uno R&B e anche pop per tutti i ’60. Non che non fosse bravo, perbacco se lo era, però una puntata a Ray Charles l’ho già dedicata e insomma ci siamo capiti. Lo Stevie Wonder che mi interessa può essere raccontato dal giorno in cui compie ventun anni e quindi, per il sistema legale statunitense dell’epoca, diventa adulto. Non è particolare da poco: il passaggio alla maggiore età invalida i contratti e libera il soggetto da qualunque impegno assunto da minorenne. Chissà se ce l’ha presente Berry Gordy, padre padrone della Motown, quel giorno di maggio del 1971 in cui è anfitrione alla festa organizzata a Detroit per colui che è ancora il più giovane dei suoi talenti. Probabilmente non ci pensa. Che sia uno squalo, e dai denti affilatissimi, è fuori discussione, ma per il ragazzo prova un affetto genuino e, nei limiti della conduzione di una casa che è fabbrica di successi (l’accento va posto su “fabbrica” quanto su “successi”), lo ha sempre trattato bene. Little Stevie è uno di famiglia e in famiglia Gordy ha già chi ─ il cognato Marvin Gaye ─ lo sta stressando con smanie di indipendenza. Il giorno dopo torna a Los Angeles e in ufficio trova la lettera di un avvocato che lo informa di rappresentare l’ex-fanciullo e che costui intende ridiscutere gli accordi e ritiene di avanzare congrui crediti. Allibito alza il telefono. Risponde la moglie di Stevie, Syreeta Wright, già segretaria presso la Motown, e cade dalle nuvole. No che non sa niente della faccenda; sì, dev’essere un equivoco; Stevie è uscito ma appena torna ti chiama. Gordy aspetterà quella telefonata sei mesi. Ha trovato un pesce che intende mangiare, non essere mangiato, nemesi che deve parergli un incubo a occhi aperti.

Prosegue per altre 7.007 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.68, gennaio 2004. Il 6 agosto 1973 Stevie Wonder restava coinvolto un incidente stradale le cui conseguenze per qualche giorno facevano temere per la sua vita.

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Black President ─ Fela Kuti e la rivoluzione afrobeat

Alcuni anni fa (Lui era appena scomparso; ma vive: oh, se vive) mi trovai a dovermi occupare, per una nota enciclopedia rock, della redazione della scheda di Fela Kuti, con annessa dettagliata discografia. Ricordo quei giorni (perché ci misi giorni), trascorsi per la massima parte alle prese con l’impossibile missione di fare ordine (con poche e discordanti fonti a disposizione) in una produzione che per due buoni decenni fu torrenziale, come un incubo dal quale emersi con una lista di una sessantina di titoli e la consolatoria convinzione che, per quanti errori potessi avere commesso, nessuno sarebbe mai stato in grado di contestarmeli. Un incubo, ma un incubo pieno di felicità, siccome mentre smoccolavo come un portuale toscano fra fotocopie di sacri testi e ricerche in Internet la colonna sonora era quella che potete immaginare: paccate di album del nostro eroe prestatimi da un amico assai fornito (e subito registrati) e un tot di sapida robina che avevo già in casa. Felicità rinnovatasi più volte da allora e in particolare nelle ultime settimane, visto che il Black President è stato oggetto post mortem di un esteso programma di ristampe che ha raggiunto l’acme sul finire del 2002: l’ultima emissione Barclay/Universal ha portato a venticinque il totale dei titoli di Fela disponibili oggi in quel catalogo (e tanto ancora è reperibile presso altre case) e diversi di essi radunano due LP su un solo compact o regalano inediti sempre di vaglia. In nessun caso un problema il minutaggio, visto che il brano medio di Fela era molto lungo e il 33 giri standard molto corto e talvolta la stessa canzone ne occupava entrambe le facciate.

L’ho già scritto su queste stesse colonne un paio di mesi or sono, recensendo “Red Hot + Riot”, raccolta a scopo benefico in cui grandi del nu-soul, dell’hip hop, del jazz si sono misurati con il catalogo del defunto musicista nigeriano: l’afrobeat è più attuale che mai, campionato in mille e uno dischi di elettronica, citato a pie’ sospinto dalla nazione rap, propagandato con cognizione ed entusiamo da gente come Damon Albarn, fra l’altro ospite nell’ultimo e ottimo album di Tony Allen, che della musica di Fela Kuti fu a lungo il formidabile motore ritmico. Più attuale che mai è soprattutto la sua attitudine al cortocircuito culturale, al meticciato spinto, al transito continuo e bidirezionale di suggestioni sull’asse Africa-America e non solo. Oggi che la Nigeria, gigante di un centinaio di milioni di abitanti che potrebbe essere uno dei paesi più ricchi del mondo e invece no, è agli onori delle cronache giusto per la follia fondamentalista che ne tiene ostaggio vaste regioni è poi particolarmente importante ricordare il contributo alla musica del XX secolo dato da un suo figlio controverso ma complessivamente da ammirare, ammirare, ammirare. Oltretutto: genitore di un rampollo, Femi, che se ne sta dimostrando degno erede.

Fela nasce il 15 ottobre 1938 ad Abeokuta da una famiglia dell’aristocrazia yoruba distintasi sia per meriti musicali che nella lotta al colonialismo. All’attivo del nonno, il Reverendo JJ Ransome-Kuti, almeno ventidue 78 giri pubblicati nei tardi anni ’20 per la Zonophone. Il padre (anch’esso pastore protestante) Israel Oludotun è un eccellente pianista e il preside di una scuola che conterà fra i suoi allievi il premio Nobel Wole Soyinka. Fervente nazionalista, sarà fra le figure di spicco della campagna per l’indipendenza dal giogo britannico e con lui la moglie Funmilayo, straordinaria figura di femminista, fondatrice della Nigerian Women’s Union. Pure lei innamorata della musica e tuttavia è per studiare medicina che i due spediscono a Londra nel 1958 il figliolo prediletto.

Prosegue per altre 7.733 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.517, 21 gennaio 2003. Fela Kuti moriva venticinque anni fa a oggi, cinquantottenne.

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