Lasciati gli Yardbirds nel novembre ’66, Jeff Beck pubblica alcuni singoli da solista prima di dare vita all’inizio del 1968 al fenomenale gruppo con il quale registrerà questo LP e (con un aggiustamento minimo di formazione) il seguente “Beck-Ola”: Rod Stewart alla voce, Nicky Hopkins al piano, Ron Wood al basso e Micky Waller alla batteria. Pur premiato da un buon riscontro di pubblico (negli USA è quindicesimo ed è certificato disco d’oro) “Truth” in retrospettiva appare opera sottovalutata (nuocerà alla sua fama postuma la qualità ondivaga e i frequenti cambi di direzione della successiva produzione del chitarrista) e non premiata per i suoi meriti nemmeno da vendite comunque modeste se paragonate a quelle di Cream e Led Zeppelin. Resta uno dei migliori esempi di un hard primevo immerso nel blues e capace di maneggiare con gusto folk e psichedelia.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
Domenica 28 giugno 1970, Bath, seconda giornata del festival di “blues e musica progressiva”. In centocinquantamila sono calati sulla cittadina del Somerset attirati da un cast stellare: Jefferson Airplane e Hot Tuna, Frank Zappa, Moody Blues, Byrds, Santana, Dr. John, Country Joe. E Led Zeppelin, per i quali quel Mangiafuoco di Peter Grant ha ottenuto il posto più alto in cartellone, attrazione principale, ultimi ad andare in scena e del resto sono o non sono il gruppo che a Natale dell’anno prima ha scalzato i Beatles dalla vetta delle classifiche USA? “II” vi ha rimpiazzato “Abbey Road” e da allora ha continuato a vendere a ritmi incredibili. Primo pure nella graduatoria britannica e nondimeno al manager e ai suoi protetti pare di non essere stati affatto, fino a quel punto, profeti in casa. La stampa li ha bistrattati, se non ignorati, e di conseguenza persino fra quanti hanno comprato il disco, e magari li stanno ora aspettando, c’è ancora chi crede siano americani. Tempo che le cose cambino. Nella strategia di conquista del suolo patrio, lo sbarco a Bath ha un ruolo chiave: dopo, più nessuno dovrà/potrà ignorare chi siano i Led Zeppelin. E siccome un regno vale una messa per essere lì si è rinunciato a due date oltre Atlantico, esibizioni a Boston e New Haven che avrebbero fruttato la rispettabile cifra di un quarto di milione di dollari, si è premurato di far sapere in giro Grant.
È stata una tipica giornata inglese di inizio estate, con un sole anche cattivo a fare capolino fra gli scrosci di pioggia. Ma poi si è alzato un venticello che sta adesso spazzando via le ultime nubi e ci si avvicina al tramonto immersi in una luce stupenda. Stanno suonando i Flock, penultimi, e il pubblico mostra di gradire il loro errebì venato di jazz e dalle ardite aperture classicheggianti. Tant’è che l’esibizione sta prolungandosi oltre il previsto. Un problema per Peter Grant, il cui piano è che il Dirigibile si levi in volo nell’istante esatto in cui il sole scomparirà dietro l’orizzonte. A estremi mali, estremi rimedi. Ordina al braccio destro Richard Cole di staccare la corrente e costui provvede nel bel mezzo di un assolo di violino. Dopo di che, si catapulta sul palco e comincia personalmente a sloggiarne la strumentazione degli stupefatti chicagoani. Quando uno dei loro tecnici accenna una protesta, un cazzotto bene assestato da uno degli energumeni che fiancheggiano Grant tronca la discussione. E così Robert Plant, riccioluta chioma dorata spiovente ben oltre le spalle su una camicia blu a pois, può accostarsi al microfono al momento giusto e salutare la platea con un “è bellissimo essere qui, in un festival all’aperto dove non è successo niente di spiacevole”. Occhiolino a Page, che dal suo canto sfoggia un completino campagnolo, cappotto grigio e cappello da bifolco, e un urlo belluino si scaglia verso un cielo che va prendendo i colori di un crepuscolo wagneriano. Con immane clangore parte una turbinosa canzone nuova, scritta in Islanda una settimana prima. Si chiama Immigrant Song ed è una fantasia guerriera in cui gli Zeppelin fanno la parte di invasori vichinghi che saccheggiano, violentano, incendiano. Pace e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ’70.
Volo magico numero uno
Sempre carino il giochino del “what if” e in tempi giurassici per questa rivista (numero 2, estate 2001) ci si divertì a farlo con i R.E.M. (fra l’altro: all’altezza del capolavoro “Automatic For The People”, 1992, John Paul Jones si ritrovò a scrivere degli arrangiamenti per costoro). Vi va di giocarlo con i Led Zeppelin? Tanto per cominciare ci si può chiedere proprio quanta strada avrebbero percorso con una ragione sociale meno efficace di quella suggerita da Keith Moon quando, nel marzo 1967, per un attimo il batterista degli Who vagheggiò un supergruppo con John Paul Jones al basso e un fenomenale terzetto di chitarristi: Jimmy Page, Jeff Beck, Ron Wood. Page terrà a mente. Vi basti sapere che gli altri nomi considerati a suo tempo furono Mad Dogs (lo userà Joe Cocker) e un tremendo Whoopee Cushion. Converrete che non sarebbe stata la stessa cosa. Ci si può poi interrogare su quali differenti pieghe avrebbe preso la storia del rock se nell’ordine: Robert Plant, che ancora non conosceva Page, fosse entrato negli Slade (che ci pensarono su ma poi decisero che era troppo effeminato); Terry Reid non lo avesse suggerito a Page quando declinò il suo invito a raggiungerlo nei New Yardbirds; John Bonham avesse preferito la paghetta mica male (quaranta sterline alla settimana) che gli allungava il cantautore Tim Rose, oppure una delle contemporanee offerte di Joe Cocker o Chris Farlowe. Giacché la delicatissima alchimia non avrebbe potuto prodursi e immaginatevela l’evoluzione del rock senza questi quattro cavalieri dell’Apocalisse fatti per correre uno a fianco dell’altro. Oppure: cosa sarebbe successo se il Dirigibile si fosse schiantato al suolo prima di quanto non accadde. Molto prima: il 31 dicembre 1968 quando, diretta da Portland a Seattle nel pieno di una delle peggiori tormente di neve che si ricordino da quelle parti, per un nonnulla la macchina con Richard Cole al volante e a bordo Peter Grant e gli Zeppelin al completo non cadde in un burrone. Un po’ prima: nel marzo 1975, quando una squilibrata di nome Squeaky Fromme dopo avere pedinato per qualche tempo Page decise di sparare invece a Gerald Ford, allora presidente degli Stati Uniti. Mentre invece si può ragionevolmente ipotizzare che un finale meno repentino e drammatico della vicenda o addirittura un non finale ─ perché sì, con un Bonham non defunto li si può pensare tuttora in circolazione i Led Zeppelin, non diversamente da Stones o Aerosmith ─ sarebbero stati, se è di rilevanza storica che si parla, ininfluenti. Già fu un congedo discograficamente minore in maniera imbarazzante il loro e poteva entrare negli ’80 e uscirne vivo (in questo senso: propositivo) chi più di chiunque plasmò i ’70? Né vale osservare che nei ’90 Jimmy Page e Robert Plant hanno licenziato due album strepitosi e uno tutto di canzoni nuove. Fondamentali difatti per la loro riuscita l’entusiasmo del ritrovarsi, la freschezza data dal doversi riscoprire dopo non essersi frequentati per quasi tre lustri.
Logico e illogico che dalla trasmissione di “Unledded” su MTV nell’ottobre 1994, con conseguente record di ascolti, le voci di una reunion si siano rincorse più che mai e forse non è stata apprezzata abbastanza l’onestà intellettuale fuori dal comune che indusse i due a non usare (al di là del fatto che mancasse John Paul Jones) la riverita sigla. Tormentone destinato ad andare avanti chissà per quanto ancora. Eppure, al prossimo 7 di luglio saranno trascorsi venticinque anni dall’ultimo concerto degli Zeppelin (appropriatamente tenutosi in quel di Berlino) e al 25 settembre altrettanti dalla prematura scomparsa di John “Bonzo” Bonham. Il 14 luglio saranno invece venti da “Live Aid” e dai venti minuti in cui, in mondovisione, Plant, Page e Jones divisero una ribalta e tre canzoni, evento non paragonabile, per il sensazionale impatto che ebbe, all’introduzione nella “Rock And Roll Hall Of Fame”, una faccenda del ’95. Insomma: ricorrevano un sacco di anniversari, se proprio bisognava inventarsi delle scuse per parlare di uno dei gruppi più seminali di sempre.
Uno dei più grandi chitarristi della storia del rock se n’è andato venerdì scorso nell’indifferenza generale. Non un articolo, non un trafiletto a ricordarlo. Giusto qualche post su Facebook.
The Misunderstood Before The Dream Faded (Cherry Red, 1982; antologia)
Una delle mille ragioni che abbiamo per idolatrare John Peel è questa: senza di lui i Misunderstood avrebbero avuto ancora meno della poca fortuna che ebbero e si sarebbero forse persi senza lasciare traccia alcuna. Era il 1966 quando le strade del gruppo e del dj (che non aveva ancora assunto il nome d’arte con il quale diverrà celebre e dunque girava come John Ravenscroft) si incrociavano. Acceso di sacro fuoco dalla ultraelettrica (con tanto di feedback come nei ’60 oseranno giusto i Velvet) e acidissima interpretazione del blues inscenata dai nostri eroi, Peel li convinceva a trasferirsi dalla California a Londra e tanto brigava che la Fontana si interessava a loro. Veniva registrato un demo con sei brani, due uscivano a 45 giri (il secondo per l’ensemble dopo uno pubblicato in patria) e i Misundestood – presenza scenica micidiale – divenivano dei beniamini del pubblico del Marquee. Attimo fuggente dopo il quale tutto andrà a ramengo. Restano due album postumi (il secondo è “Golden Glass”, uno Stood Still dell’84) a documentarne la grandezza ammannendo martellamenti selvaggi (Children Of The Sun, la feroce My Mind, una I’m Not Talking degna di Beefheart), spastiche dilatazioni (Who Do You Love) e ogni tanto un incantesimo alato (I Can’t Take You To The Sun) o uno scherzo (il gioioso beat Like I Do).
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.15, autunno 2004.
High Tide Sea Shanties (Liberty, 1969)
Immancabilmente citati fra i padri fondatori dell’hard come fra i massimi esponenti di una psichedelia disposta a farsi laterale rispetto al suo stesso essere – costituzionalmente – eccentrica, i britannici High Tide del cantante e chitarrista Tony Hill e del violinista Simon House altrettanto sacrosantamente finiscono per figurare in ogni trattazione che si rispetti del progressive. Questione oltre che di suono – compatto eppure articolato, in qualche inspiegabile maniera gradevole una volta violatane l’apparente impenetrabilità – di attitudine, di disponibilità a osare quanto all’epoca era inaudito e che di rado sarà replicato con efficacia e intensità paragonabili. “Sea Shanties” e il successivo di un anno “High Tide” restano fra gli esempi più memorabili di sempre di gotico in musica.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
“Saremmo potuti diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Dave Brock concedendosi a “Mojo” in occasione dei festeggiamenti per il trentennale di una band la cui complicata epopea il cantante, chitarrista e tastierista è stato l’unico a traversare per intero. Quindici ulteriori anni dopo l’astronave Hawkwind è ancora in volo, gli avvicendamenti nell’equipaggio continuano, ma in plancia di comando continua a sedere il capitano di sempre. Difficile credere che abbia mai davvero rimpianto ciò che sarebbe potuto essere (dopo che il singolo Silver Machine andò nel luglio ’72 al numero 3 delle classifiche britanniche) e invece non fu (dopo che nell’estate successiva toccò ritirare dai negozi Urban Guerilla per la sfortunata concomitanza fra il suo affacciarsi nei Top 40, appena uscito, e un’ondata di attentati dell’IRA). Non sono mai diventati come i Pink Floyd, gli Hawkwind, ma rappresenta ben più che un premio di consolazione l’essersi guadagnati un posto di assoluto rilievo nella storia del rock con la sequela pressoché perfetta dei primi otto LP: insieme, un ponte fra l’era della psichedelia e quella del punk e il luogo in cui quel mutaforma chiamato space rock assumeva la sua estetica più classica, iniettando dosi massicce di acido lisergico, anfetamine e immaginario SF nel giovane corpo dell’hard.
Nell’omonimo esordio a 33 giri dell’agosto ’70 tutto ciò è a malapena accennato. È nel successivo (ottobre 1971) “In Search Of Space” che il tipico suono Hawkwind sboccia, all’improvviso – nel paradigmatico assalto di You Shouldn’t Do That – e subito definito sin nei dettagli: basso singolarmente melodico e batteria dritta a propellere le esplorazioni di uno spazio profondo non solo interiore inscenate dalla chitarra di Brock e dai marchingegni elettronici manipolati da Dikmik Davies e Del Dettmar. Mentre il sax di Nik Turner ruggisce, creando ulteriori straniamenti. Se in You Know You’re Only Dreaming i Pink Floyd si metamorfizzano nei Black Sabbath, Master Of The Universe disvela quella disposizione geniale all’innodia che in Silver Machine troverà una sublimazione somma. Prima di una seconda metà di programma in cui gli psichedelici prendono il sopravvento sugli eccitanti e davanti alle porte del cosmo si disegnano trame elettroacustiche. “Doremi Fasol Latido” (novembre 1972) perfezionerà la formula, ma è qui che prende a delinearsi un canone straordinariamente influente.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.196, settembre 2014.
Gli U2 del grunge? Oltre che un tour di spalla ad accomunare il quintetto di Seattle al quartetto di Dublino sono la stabilità della formazione (mai più cambiata dacché nel ’98 Matt Cameron ne diventava il batterista dopo che ne avevano ruotati quattro) e l’appartenenza a una tradizione di rock “classico” cui Eddie Vedder e compagni si sono sempre mantenuti fedeli. Al contrario di Bono e soci che, deviando bruscamente verso l’elettronica con “Achtung Baby”, pubblicato in quello stesso formidabile ’91 in cui i Pearl Jam si erano poco prima affacciati alla ribalta con “Ten”, trovavano nuova linfa, rinviando di un decennio la trasformazione in macchiette. Che altro? Un cantante carismatico. La propensione a battersi per giuste cause (volando più basso rispetto a chi ha chiesto la cancellazione dei debiti del Terzo Mondo i Pearl Jam ingaggiavano singolar tenzone contro il monopolio del circuito concertistico nordamericano da parte di Ticketmaster; oggi sono in prima linea sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici). E poi? Ora farò inarcare sopraccigli, e ci sarà magari chi si arrabbierà proprio, ma a me pare che inoltrandosi nel nuovo secolo due band per tanti versi distantissime abbiano condiviso una totale… lo dico?… irrilevanza. Solo che, mentre i cinque lavori in studio pubblicati dagli Americani dopo “Binaural” (ultimo sfoggio di autentica grandezza) se nulla hanno aggiunto alla loro vicenda artistica nulla le hanno sottratto, i quattro dati alle stampe dopo l’ancor pregiato “All That You Can’t Leave Behind” gli Irlandesi bene, benissimo avrebbero fatto a risparmiarseli e risparmiarceli. L’ho detto.
Un quarto dello spazio a disposizione se n’è andato. E adesso? Riassumo la storia di un complesso che ha venduto ottantacinque milioni di album? Non si può darla per conosciuta da chiunque sta leggendo? Se se ne designa a inizio il momento fatidico in cui Jack Irons, allora con gli Eleven, allungava all’amico Eddie Vedder, allora benzinaio, un demo con cinque pezzi registrati dai chitarristi Mike McCready e Stone Gossard e dal bassista Jeff Ament, magari sì. Un eventuale biopic non potrebbe partire che da lì. Dal giovanotto che si entusiasma a tal punto da scrivere al volo dei testi per tre di quei brani solo strumentali (leggenda vuole che li mise su carta dopo averli pensati e memorizzati mentre cavalcava su una tavola da surf le onde del Pacifico) e rispedire a Seattle il nastro, dalla sua San Diego, con la voce sovraincisa. Veniva prontamente convocato per un’audizione “giù al nord” e a quel punto i Pearl Jam erano quasi cosa fatta, essendo il “quasi” la mancanza di un batterista. Bravissimo a perdere treni (stiamo parlando di uno che lasciò i Red Hot Chili Peppers nel pieno della lavorazione di “Mother’s Milk”), Irons aveva già declinato l’invito a unirsi al gruppo ed era Dave Krusen a sedersi dietro piatti e tamburi. Registrato fra il marzo e l’aprile del 1991, “Ten” usciva il 27 agosto. Occhio alla data: “Nevermind” arriverà nei negozi il 24 settembre ed è dunque destituita di fondamento la percezione che resta diffusa dei Pearl Jam come epigoni dei Nirvana o peggio, per i detrattori, una versione mainstream della banda Cobain costruita a tavolino per sfruttarne l’enorme successo. A parte che “Ten” è decisamente differente cosa rispetto a “Nevermind”, e con il suo parziale riallacciarsi a un canone di hard anni ’70 che i Nirvana sempre scansarono era in effetti più adatto sulla carta a platee estranee quando non ostili a punk e new wave, 1), “vendersi” non era nei programmi del giovane Vedder (che anzi da quella fama improvvisa si sentì destabilizzato) e, 2), Gossard e Ament vantavano cv inappuntabili anche per il più talebano fra i tifosi dell’underground. Incredibile che tuttora in tanti ignorino che i due di cui sopra erano stati, con gli esplosivi Green River, fra i pionieri della scena di Seattle (dal loro scioglimento nacquero anche i Mudhoney), e avevano poi fondato i Mother Love Bone. Se Andrew Wood, cantante di questi ultimi, non fosse uscito prematuramente e tragicamente di scena i Pearl Jam non sarebbero mai esistiti. Altro che imitatori! Altro che “poseurs”! Erano però accuse che bruciavano e alle quali i nostri eroi replicarono a modo loro, confezionando di fila tre album in cui prendevano le distanze da un debutto valido ma ineguale, con picchi altissimi ma pure qualche inciampo. Prima “Vs.” (1993), oltre che più ispirato assai più policromo, con il suo includere canzoni “alla R.E.M.” e rock tribali, accenni di funk e piccole deviazioni verso il blues. Quindi “Vitalogy” (’94), provocatoriamente reso disponibile dapprincipio solo in vinile quando il vinile era specie in via di estinzione, anticipato da Spin The Black Circle, cavalcata fra punk e metal dal potenziale radiofonico nullo, e contenente oltre a diverse ballate cabaret waitsiano e rock latino. Infine il capolavoro “No Code” (’96), parecchio influenzato da un altro capolavoro, “Mirror Ball”, frutto l’anno prima del sodalizio stretto con Neil Young. “Yeld” (’98) tirerà le somme, regalando fra il mirabile resto una Given To Fly nella quale i Pearl Jam sembrano una versione grunge… esatto… dei primi U2.
Poteva un gruppo simile allestire un banale “Best Of” con i brani più celebri? Edito nel 2004, “Rearviewmirror (Greatest Hits 1991-2003)” seguiva nei suoi due dischetti l’ordine cronologico (unica eccezione Yellow Ledbetter, retro nel ’92 di Jeremy, collocata a suggello) ma optava per dividere le sue due ore e ventitré minuti fra un primo CD intitolato “Up Side” e un secondo chiamato “Down Side”. Su uno i pezzi più tirati insomma e sull’altro le ballate, per quanto qualche canzone più schiettamente rock vi faccia capolino. L’antologia in questione è stata appena ristampata su due doppi LP acquistabili separatamente. Offre quasi tutti i cavalli di battaglia, aggiunge lati B, tre pezzi da colonne sonore e Last Kiss, cover di un brano del 1961 di Wayne Cochran che nel 2002 diventava a sorpresa il singolo di maggior successo dei Nostri (un numero 2 USA). Se volete avere in casa in vinile l’album più rappresentativo dei Pearl Jam vi tocca comprarne due e pure doppi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.
Nel titolo del primo brano del primo album il presagio di un destino tanto tragico quanto perseguito con attitudine ─ scientemente? ─ nichilista: We Die Young. Dei quattro che lo registrarono non sono da lungi più fra noi né il cantante Layne Staley, stroncato da una overdose di eroina e cocaina combinate presumibilmente il 5 aprile del 2002 (presumibilmente perché il corpo, già in stato di avanzata decomposizione, non veniva scoperto che due settimane dopo), a trentaquattro anni, né il bassista Mike Starr, scomparso quarantaquattrenne l’8 marzo 2011 per un’assunzione scriteriata di farmaci regolarmente acquistati con ricetta medica. Incredibile ma vero: da una band prona a eccessi tossici di ogni tipo Starr era stato allontanato già nel 1993, i sodali che mentivano pietosamente al riguardo sostenendo la versione ufficiale di dimissioni dovute a stress da troppo lavoro quando in realtà era stato accompagnato alla porta perché la sua dipendenza dalle droghe pesanti era fuori controllo. Farsi licenziare dagli Alice In Chains per avere esagerato con assortite polverine! Quanto suona grottesco, oltre che triste. Quando Staley lasciava questo mondo il complesso era in animazione sospesa da quattro anni, in speranzosa attesa che in qualche modo costui riemergesse dagli abissi in cui era sprofondato. Quattro anni dopo ancora, il chitarrista Jerry Cantrell richiamava il batterista originale, Sean Kinney, e il bassista che aveva preso il posto di Starr, Mike Inez, e trovata in William DuVall una voce adeguata alla bisogna rimetteva insieme la band. Gli Alice In Chains Mk II girano ormai da più anni di quanti non durò la prima incarnazione e hanno pubblicato altrettanti lavori in studio (tre): più che dignitosi e dagli ottimi riscontri mercantili (il penultimo, “The Devil Put Dinosaurs Here”, nel 2013 scalava la classifica di “Billboard” fino alla seconda posizione) ma che in verità nulla hanno aggiunto di rilevante a una vicenda che avrebbe potuto tranquillamente chiudersi in gloria nel 1996. Similmente a quella dei Nirvana, con un “MTV Unplugged”. Paradossalmente ma non troppo, e non sorprendentemente siccome i ragazzi fra il primo e il secondo album già avevano sistemato in discografia un EP acustico, “Sap”, con quattro ballate al limite del confessionale e fra il secondo e il terzo il mini di analoga concezione “Jar Of Flies”, l’apice artistico del più classicamente heavy metal dei gruppi della nidiata grunge. O quello o il precedente, omonimo “Alice In Chains”.
È fresco di ristampa, che ne ha celebrato con qualche mese di ritardo (usciva in origine nell’agosto ’90) il trentennale, quello che fu l’esordio a 33 giri del quartetto di Seattle. Ne sarà contento chi all’epoca magari non era ancora nato, o era un bambino, e oggi all’ascolto della musica in formato liquido preferisce (o almeno alterna) il più antico e in auge dei supporti fonografici, il caro vecchio vinile. E giustamente non era disposto a sborsare per l’edizione d’epoca di “Facelift” quei minimo centocinquanta euro che vengono richiesti su eBay o Discogs. Ne sarà contento chi al tempo quella stampa, che circolò pochissimo, non riuscì a procurarsela e dovette comprarsi il CD. E magari e anche di più chi invece ne ha una in casa e può ora, volendo, rivendersela: tecnicamente è nettamente inferiore a questa nuova versione che non soltanto è rimasterizzata ma distribuisce su quattro facciate in luogo che su due i cinquantaquattro minuti che assommano le dodici tracce in scaletta. Con ovvi benefici in termini di nitidezza e soprattutto dinamica. Per trenta euro o anche meno si potrà così godere rimessa a nuovo un’opera che, al di là di limiti che apparvero e restano innegabili per chiunque la ascolti con l’obiettività che non tutti i fans hanno (ma quasi tutti le preferiscono comunque “Dirt”, “Alice In Chains”, “MTV Unplugged”), appartiene per l’impatto che ebbe alla storia maggiore del rock.
A debuttare in lungo i Nostri arrivavano sbucando apparentemente dal nulla per chiunque non abitasse a Seattle, tutta dentro i confini cittadini o negli immediati dintorni una gavetta di un paio di anni di concerti molti dei quali di spalla ai già di una certa fama Mother Love Bone (per chi non li conoscesse: erano nati come i Mudhoney dalle ceneri dei Green River e due di loro daranno vita ai Pearl Jam). Il promoter dei Mother Love Bone, Randy Hauser, passava una cassetta di demo a Kelly Curtis e Susan Silver, manager dei Soundgarden, e tramite quelli una copia arrivava in Columbia. Clamoroso evidentemente il potenziale se non solo il quartetto veniva prontamente messo sotto contratto ma addirittura indicato come una priorità assoluta al reparto marketing. Panico, probabilmente, per una partenza commercialmente stentata, soltanto quarantamila le copie vendute nei primi sei mesi nei negozi, impasse che si sbloccava quando MTV metteva in heavy rotation il video di Man In The Box e l’11 settembre 1991, tredici giorni prima che i Nirvana pubblicassero “Nevermind”, “Facelift” era il primo disco prodotto da una scena grunge che a dire il vero gli Alice In Chains li schiferà sempre un po’, per la totale assenza in loro di qualsivoglia aggancio con il punk, a venire certificato d’oro. Almeno altri tre milioni le copie vendute da allora, di cui metà negli Stati Uniti. Non un capolavoro, si diceva, e però riascoltandolo da una lontanissima ultima volta (’98?) chi scrive lo ha trovato migliore di quanto non ricordasse. Con apici esemplari di un sound già perfettamente formato in una torpida Man In The Box e nelle ancora più sabbathiane Bleed The Freak e It Ain’t Like That, laddove Sea Of Sorrow evoca piuttosto i Led Zeppelin. E deviazioni apprezzabili nella menzionata all’inizio We Die Young, in scia ai primi Metallica, in una Put You dal riffeggiare e dall’ancheggiare rock’n’roll invece alla Aerosmith e nel crossover di marca Red Hot Chili Peppers I Know Somethin (Bout You). Non lo avrei detto: da recuperare.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021. Layne Staley ci lasciava, trentaquattrenne, il 5 aprile 2002. Qui sotto un link a un’intervista concessa dal sottoscritto nel settembre dello scorso anno al canale You Tube “About Grunge”, ideato e gestito dall’ottimo Cristiano Lucidi. Fra il tanto resto, molto dibattemmo proprio degli Alice In Chains.
Pieno di insicurezze quanto di un’incrollabile fiducia nei propri demoni, Henry Garfield aka Rollins schizza fuori dall’esperienza Black Flag con la velocità di una pallina da flipper e grondando adrenalina e testosterone dai bicipiti palestrati e dal torso tatuato. Dopo un esordio da solista che dice già tutto il titolo, “Hot Animal Machine”, assembla la Band e sarà una delle più formidabili (non proprio gioiosa, ma tant’è) macchine da guerra a battere i palcoscenici americani ed europei negli anni ’90. Annichilente e nel contempo elettrizzante l’impatto, sia visivo che sonico, con un Iggy Pop culturista che rimbalza in scena come impazzito, per poi assumere pose scultoree, e dietro il gruppo che pompa un hard che dire massiccio è poco e però ha un drive quasi funk e nelle pieghe sorprendenti raffinatezze jazz. “Life Time”, “Do It” (in parte dal vivo e con una travolgente cover dell’antico canto di battaglia dei Pink Fairies che lo intitola), “Hard Volume” e “Turned On” (da uno spettacolo a Vienna) sono i montanti che preparano il terreno al gancio da KO di “The End Of Silence”: apocalisse nutrita dal dolore per la tragica fine di un intimo di Rollins, Joe Cole, assassinato sotto gli occhi del cantante.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. A oggi sono trascorsi trent’anni esatti dalla pubblicazione di “The End Of Silence”.
Allontanato dai Black Sabbath poco dopo l’uscita di “Never Say Die” (che è un po’ come se i Rolling Stones a un certo punto avessero licenziato Mick Jagger), Ozzy Osbourne si prende una clamorosa rivincita con i primi due LP da solista, “Blizzard Of Ozz” e “Diary Of A Madman” (1980 e 1981), che minimo pareggiano i conti artisticamente con i coevi “Heaven And Hell” e “Mob Rules” degli ex-compagni e per quanto attiene le vendite li surclassano, già subito e infinitamente di più sul lungo periodo e nel mercato che più conta, quello statunitense. Fatto è che se i Sabbath hanno rimediato un ottimo rimpiazzo con Ronnie James Dio il cantante ha trovato il partner perfetto nel giovane e tecnicamente prodigioso chitarrista americano Randy Rhoads. Quando costui sfortunatamente muore, appena venticinquenne, in un incidente aereo Ozzy ne è devastato e perde in ogni senso la bussola. Da lì a fine decennio pubblicherà altri tre album in studio, di gran successo ma scarsa sostanza. Per un colpo d’ala che è autentica rinascita bisogna attendere il 1991 e servirà probabilmente da stimolo che il vecchio leone (lo si percepisce come tale quando non ha che quarantadue anni; ma è da venti in circolazione) accolga come una sfida l’emergere di una generazione quanto mai variegata (include il metal da classifica più bieco come la scena grunge e quella del cosiddetto crossover) che se vede in lui un nume tutelare lo considera però maturo per il pensionamento. Quale oltraggio! “No More Tears” arriva nei negozi cinque settimane dopo il “Black Album” dei Metallica e venderà un quarto di quello ma è un quarto che vale, soltanto negli USA, quei quattro milioni di copie. Ultimo ruggito, con il senno del poi, ma che ruggito.
Riedito saggiamente come doppio quando la stampa originale in vinile era assai penalizzata da una durata (cinquantasette minuti) non consona al supporto (però allora perché non aggiungere le due valide bonus che integravano l’edizione in CD del 2002?), l’album brilla per ispirazione e varietà, sistemando ─ per dire ─ dopo l’incendiaria Mr. Tinkertrain una I Dont’Want To Change The World più da Kiss che da Black Sabbath, facendo andare dietro alla ballata country (!) Mama, I’m Coming Home una Desire che il co-autore Lemmy Kilmister (è uno dei quattro brani sotto i quali figura la sua firma) si sarebbe potuto tenere per i Motörhead. Laddove se la title track e Hellraiser evocano con diversi accenti i Queen Zombie Stomp si azzarda funk in apertura. Suggella Road To Nowhere: sistemare nel settore “guilty pleasures”, rubricare alla voce “power ballad”.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.
L’ultimo album degli ZZ Top data 2012 e venne acclamato come un ritorno alla forma migliore per il trio texano, laddove il precedente “Mescalero” aveva raccolto invece recensioni tiepide, quando non negative, e pure i riscontri commerciali erano stati modesti per un gruppo che da tre decenni collezionava dischi d’oro, platino, persino diamante. Nove anni separarono i due album, da altrettanti attendiamo un successore per “La Futura”. Si materializzerà mai? Non dovesse accadere (i nostri eroi nel 2019 raccontavano in un’intervista radiofonica che ci stavano lavorando e Billy Gibbons, contattato da un quotidiano l’anno dopo, confermava; più nessuna notizia da allora) non sarà forse un male. Per due ragioni: una è che come suggello di una vicenda così importante “La Futura” sarebbe perfetto; l’altra è che se il frontman ci regala dischi come questo… be’, possiamo serenamente consegnarli alla Storia del rock, gli ZZ Top.
Per Gibbons è la terza uscita da solista, dopo il tanto atipico (contraddistinto da inedite influenze cubane) quanto poco convincente “Perfectamundo” (2015) e il più convenzionale, non indimenticabile ma gradevole, “The Big Bad Blues” (2018). Forte di undici solidi originali e una spumeggiante cover del classico tex-mex dei Texas Tornados Hey Baby, Que Paso, “Hardware” si posiziona una spanna o due sopra, non molto distante insomma da “La Futura” di cui, fosse uscito con il marchio della band, sarebbe stato degno seguito. Avrebbero fatto un figurone anche lì tracce come la scorticata My Lucky Card, una Shuffle, Step & Slide in scia all’immortale La Grange, il bluesone con organo soul Vagabond Man, una West Coast Junkie molto Link Wray, o il Morricone western Desert High.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.433, luglio/agosto 2021.
Probabilmente mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo e l’essenza di un sound come quella del primo e omonimo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. E Roger Corman o Mario Bava (da un cui film del 1963, I tre volti della paura, distribuito nel Regno Unito come Black Sabbath il quartetto di Birmingham aveva preso il nome abbandonando per strada una prima, anonima ─ Earth ─ ragione sociale), non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore della potenza e della suggestione di Black Sabbath, la canzone che oltre a ─ ahem ─ battezzarlo apre l’album d’esordio datato febbraio 1970 del quartetto formato dal cantante Ozzy Osbourne, dal chitarrista Tony Iommi, dal bassista Geezeer Butler e dal batterista Bill Ward non lo hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Non penso di esagerare se affermo che con una confezione meno indovinata il debutto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Eppure: una felice scelta di un qualche oscuro discografico, come svelerà già in una delle prime interviste Butler ammettendo che il gruppo si era limitato ad approvarla. Proprio da lì, almeno quanto dal riff di cui sopra e dalle atmosfere plumbee che permeano il disco, nasceva la leggenda dei Black Sabbath satanisti. Giustappunto poco più che una leggenda, operazione di marketing da inquadrare in quello che era il programma del quartetto, ossia forgiare una musica dalle apparenze malvagie capace di indurre in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore. È tutta rappresentazione ─ rientravano nel piano il vestirsi rigorosamente in nero e i crocefissi portati al collo e a lungo messi in bella mostra ─ ma a scorrere il repertorio storico del gruppo i peana al Diavolo risultano tutt’altro che maggioritari.
Anche di “Paranoid”, registrato in una pausa del “never ending tour” allora in corso nel giugno di quello stesso incredibile 1970 ai Regent Sound in Denmark Street, Londra, e nei negozi già in settembre si potrebbe dire che vanti una copertina indimenticabile, ma al contrario. Tanto è suggestiva quella del predecessore quanto risulta grottesca questa, con un tizio che salta fuori da un bosco immerso nel buio brandendo una sciabola lampantemente di plastica, un casco da motorino sulla testa, uno scombinato abbigliamento che vorrebbe essere da guerriero o supereroe ed è da deficiente. Dando a Cesare quel che è di Cesare: questa la idearono i nostri tamarri Fab Four, quando si pensava che l’album si sarebbe chiamato, come la prima canzone, War Pigs. La casa discografica statunitense (Warner Bros) poneva però il veto, quella britannica (Vertigo) lo appoggiava e così era dal secondo pezzo in scaletta che il 33 giri prendeva il titolo: un capolavoro per così dire involontario, buttato giù in venti minuti per fare numero e paradossalmente assurto a brano simbolo del quartetto. Paradossalmente perché, se con il procedere da bulldozer ci siamo, dura assai meno (2’48”) di qualunque altra canzone significativa dei Black Sabbath e non vanta né l’articolazione né gli scarti dinamici che caratterizzano invariabilmente le altre. Butler nemmeno l’avrebbe voluta sul disco, parendogli troppo zeppelliniana, una Communication Breakdown minore. Per la seconda volta nell’ancora breve saga del Sabba il caso giocava allora un ruolo decisivo nell’ascesa alla fama e nella costruzione del Mito. “Black Sabbath” resterà sempre più importante, semplicemente perché fu il primo, ma è questa la pietra miliare che Osbourne, Iommi, Butler e Ward hanno lasciato sulla Route 666 del rock. Dall’invenzione dello slowcore inscenata in partenza da una War Pigs che poi macina implacabile a quella Psychotic Reaction (Count Five; un classico del garage-punk) in versione nibelunga che è Fairies Wear Boots, passando per gli schizzi di Spagna scagliati in orbite extraterrestri di Planet Caravan, il viaggio dalle catacombe al Valhalla di Iron Man, il fosco caos organizzato di Electric Funeral e il ronzante assalto di Rat Salad. Diamante fra i diamanti di abbacinante luce nera Hand Of Doom, più canzoni in una e dentro un assolo da fare studiare a quanti dicono Tony Iommi un chitarrista mediocre. Può darsi. Però efficace ed espressivo mille volte più degli Steve Vai e dei Malmsteen e bisognerebbe allora mettersi d’accordo su cosa voglia dire mediocrità.
Per celebrare il cinquantennale di “Paranoid” la californiana Rhino ha riconfezionato in un lussuosissimo box in vinile (il vero bonus è il libro ora in formato 30×30 e con copertina rigida a corredo) la “Super Deluxe” in quadruplo CD del 2016. Invariate le scalette, i dischi adesso sono cinque, il primo dei quali riproduce pari pari la stampa originale americana, peraltro identica a quella britannica e immagino non ci sia o quasi lettore che già non la possegga. Di maggiore interesse per l’audiofilo è un secondo 33 giri che, discutibilmente ma intrigantemente, offre remixata in stereo la versione quadrifonica del 1974. Laddove per i cultori della band a consigliare un esborso accettabile (siamo un po’ sotto i cento euro) saranno le restanti sei facciate, testimonianza di due concerti tenutisi uno a Montreux, l’altro a Brussels.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020. A oggi sono trascorsi cinquantun anni dalla pubblicazione di “Paranoid”.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)