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Sommersi da salvare – Il peculiare heavy rock dei primi King’s X

Metti che il tuo esordio non vada via come il pane (piazzamento migliore nella classifica di “Billboard” un numero 144: poca cosa pure in un’era in cui i dischi si vendevano eccome, altro che streaming) e che però venga eletto “album dell’anno” da “Kerrang!”, testata di riferimento per ogni metallaro del globo terracqueo. Metti che il seguito si comporti un po’ meglio commercialmente (negli USA un numero 123, cinquantaduesimo nel Regno Unito) senza per questo farti perdere i favori della critica (quarta migliore uscita per il giornale sunnominato e nelle playlist di innumerevoli altre riviste, inclusa una non strettamente di settore come “Sounds”). Metti che il disco dopo ancora allarghi la tua platea al punto di persuadere la major che fino ad allora si era limitata a distribuirti a ingaggiarti direttamente. E metti che giusto sul finire dell’anno di pausa che ti sei concesso una certa concezione e tradizione del rock “pesante” cui, pur vantando un sound di rimarchevole peculiarità, indubbiamente appartieni vengano spazzate via da una rivoluzione chiamata grunge, nel mentre pure il crossover sale sugli scudi e impazza. Nel mondo nuovo disegnato a cavallo fra il ’91 e il ’92 da “Nevermind”, “Ten”, “Badmotorfinger”, “Blood Sugar Sex Magik” (ma pure dal Doppio Nero dei Metallica) improvvisamente sei diventato obsoleto. Potresti in realtà ricavarti egualmente una tua nicchia, ma sei intellettualmente troppo onesto per corteggiare quel mercato particolarissimo, di cui molti ignorano persino l’esistenza ma che dà da vivere a tanti: quello del cosiddetto – gigantesca contraddizione in termini – christian rock. Ed ecco perché i King’s X non sono mai diventati “gli Stryper che vale la pena ascoltare”.

Lo ammetto: benché sia stato un loro cultore della prim’ora ignoravo che i King’s X fossero… siano ancora insieme e oltretutto nella formazione – Ty Tabor alla chitarra, Doug Pinnick al basso e nella maggior parte dei pezzi voce solista, Jerry Gaskill alla batteria – schierata nei dischi di una breve era semi-aurea e già rodatissima allora, visto che i tre nascevano come The Edge a Springfield, Missouri, addirittura nel 1979 e diventavano Sneak Preview quando quattro anni più tardi si trasferivano in Texas (sono rimasti lì), ragione sociale con la quale nell’84 pubblicavano  un omonimo 33 giri mai ristampato e che le rare volte che fa capolino su Discogs strappa dai duecento euro in su. Un po’ colpa loro: pubblicato lo scorso 2 settembre il loro tredicesimo lavoro in studio ha visto la luce a qualcosa come quattordici anni dal dodicesimo. Un po’ di più colpa mia ma pure sempre loro, giacché il debutto su Atlantic del ’92, omonimo, dei loro primi quattro album è nettamente il meno convincente e già “Faith Hope Love”, del ’90, li aveva visti in flessione rispetto ai primi due LP. Smettevo di seguirli e chissà se mi sono perso qualcosa. In compenso, fatti girare a decenni dall’ultima volta “Out Of The Silent Planet” e “Gretchen Goes To Nebraska”, usciti in origine entrambi su Megaforce rispettivamente nel febbraio 1988 e nel maggio 1989, mi sono sembrati belli come allora, non invecchiati affatto perché fuori dal tempo, appartenenti a una dimensione unicamente loro. Assolutamente da recuperare per chi non li conosce, da rispolverare per chi li ha in casa. Il primo è stato ristampato una sola volta, dalla Metal Blade nel 2017 e in formato doppio 12”, benché non duri che 43’32”. Non faticherete tuttavia a recuperarne una copia d’epoca e non dovreste pagarla più di venticinque-trenta euro (ma anche soltanto dieci su una bancarella dell’usato). Soldi in ogni caso ben spesi. Concept alquanto sui generis di argomento fantascientifico (il titolo omaggia un romanzo di C.S. Lewis), sistema in apertura un capolavoro di raga in scia ai Popol Vuh etnici che trasmuta in hard del più epico chiamato In The New Age e da lì a una Visions che suggella adombrando un thrash di impronta Voivod non smette mai di stupire: ad esempio innestando un riff degno degli AC/DC in una With A Hammer che, non contenta di mediare fra psichedelia e progressive, cala sul tavolo pure l’asso di una coralità gospel; con What Is This?, che indifferentemente farebbe un figurone nel catalogo dei Cream come in quello dei Guns N’Roses; con Shot Of Love, che sono dei Black Sabbath ossessionati dai Beatles. Sono cinque brani su dieci, mezzo programma, e non fosse che lo spazio va assottigliandosi li avrei citati tutti. Concept dalle origini meno nobili (un racconto scritto da Gaskill) ma narrativamente più coeso, il seguito vedrà i nostri eroi incredibilmente superarsi, aprendo nuovamente con un raga (la continuità rispetto al predecessore rimarcata dal fatto che come quello si intitola: Out Of The Silent Planet) e piazzando nel prosieguo meraviglie come Over My Head (i Queen alle prese con Jimi Hendrix), Everybody Knows A Little Bit Of Something (funk-metal da Living Colour al top), The Difference (quasi una outtake dell’immortale David Crosby di “If I Could Only Remember My Name”), Mission (novella Tales Of Brave Ulysses), Pleiades (bluesata e jangly) e The Burning Down (cavalcata hardelica fra l’onirico e il marziale). “Gretchen Goes To Nebraska” è stato appena riedito, su quattro facciate invece di due per incrementare la dinamica dei suoi 51’58”, dalla Music For Vinyl, in tiratura limitata e al prezzo onesto per il folle mercato odierno di quaranta euro. Regolatevi.

Un argomento è rimasto in sospeso. Al tempo si sapeva i King’s X ferventi cristiani ma si apprezzava il loro vivere la fede senza darsi al proselitismo e anzi in maniera problematica: da cui, ad esempio, il duro attacco ai telepredicatori in Mission e l’omaggio a Galileo Galilei in Pleiades. Avendo sempre esternato il dubbio che fra quanti la proclamano stentoreamente (tipo gli Stryper, ecco) molti lo facciano con vili secondi fini, dalla scena christian rock venivano da subito guardati con sospetto. Ne subiranno la scomunica quando nel ’98 Pinnick farà coming out. Oggi costui si dice agnostico e Gaskill lo stesso. Solamente Tabor pare frequenti ancora la chiesa, ma conservando per i bigotti del sano disprezzo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Black Sabbath e satanismo – Genesi di una leggenda

Formalmente i Black Sabbath nascono un giorno di agosto del ’69 a bordo del traghetto che dall’Inghilterra sta portando ad Amburgo il cantante John Michael Osbourne (detto Ozzy; 3 dicembre 1948), il chitarrista Frank Anthony Iommi (per tutti Tony; 19 febbraio 1948), il bassista Terence Butler (meglio noto come Geezer; 17 luglio 1949) e il batterista William Ward (più familiarmente Bill; 5 maggio 1948). Nella città tedesca li attende un ingaggio di una settimana allo Star Club, esattamente il sordido localaccio nel quale, nel corso di ben più prolungati soggiorni, erano divenuti adulti i Beatles. Tutti quanti lungocriniti e tre su quattro baffuti, sicché appaiono più maturi di quanto non siano (non Ozzy, che il volto glabro fa sembrare il bambinone discolo che è), consumano le uniche droghe che è possibile e sensato consumare visto il luogo, vale a dire birra e sigarette, e discutono di musica e futuro. Di cosa suonare per potere avere una qualche speranza di guadagnarsene uno. Collettivamente noti come Earth, hanno urgenza sia di cambiare nome ─ per niente caratterizzante, anche se sempre meglio del primigenio e orrendo Polka Tulk, e oltretutto già usato da un’altra band che potrebbe intentare causa ─ che stile. Il blues è servito a rodarli e a procurare loro scritture, ma non c’è soddisfazione a eseguire materiali altrui o comunque derivativi e poi è indiscutibile: non è più alla moda. Bisogna cambiare per sopravvivere e hanno iniziato, mischiando al repertorio classico composizioni autografe in cui le scansioni rallentano, i riff si raddensano e si creano certe atmosfere… da horror cinematografico di serie B, genere di cui sono tutti appassionati, così come di occultismo spicciolo. Esemplare di questo agro stil novo è il pezzo che nei concerti raccoglie invariabilmente i maggiori consensi: Black Sabbath, titolo scippato all’edizione inglese di un film italiano del 1963, I tre volti della paura, di Mario Bava. Sulla strada per la sala prove un giorno Tony e Geezer sono passati davanti a un cinema che lo proiettava e il primo ha osservato al secondo: “Non ti sembra strano che la gente paghi per vedere qualcosa che la fa cacare sotto dallo spavento? Immagina se riuscissimo a creare una musica che ottenga lo stesso effetto. Che sembri… malvagia”. Fra una cicca e un rutto si decide: il titolo della canzone sarà la nuova ragione sociale, dopo Amburgo però e dopo avere onorato qualche contratto britannico già firmato. Ma ho corso e sarà il caso di fare alcuni passi indietro prima di compierne in avanti.

Uno per dire che il semplice fatto che gli Earth quel bel dì siano su quel battello in viaggio per la Germania denota che i quattro hanno una formidabile fede in se stessi e in particolare è Tony Iommi a essere convinto che orizzonti di gloria siano dietro l’angolo. Qualche mese prima il chitarrista ha ricevuto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare e l’ha rifiutata: invitato a unirsi ai già popolarissimi Jethro Tull in sostituzione del dimissionario Mick Abrahams, è stato per alcune settimane della compagnia, partecipando fra il resto alla carnascialesca kermesse stoniana del “Rock’n’Roll Circus”, ma poi ha preferito tornare alla base. E pensare che i suoi stessi amici lo avevano incoraggiato ad accettare, a non preoccuparsi di loro, a non farsi sfuggire un’occasione irripetibile. Logico che Osbourne, Butler e Ward se ne siano sentiti, oltre che lusingati, responsabilizzati.

Due… Nonostante la verde età i ragazzi vantano curriculum di una certa sostanza fin da prima degli Earth. A livello amatoriale Ozzy e Geezer, insieme in tali Rare Breed. A livello professionale Tony e Bill, entrambi per quattro anni nei Mythology, power-trio etichettato come… ahem… “la risposta del Cumberland alla Jimi Hendrix Experience” che sulla soglia del contratto discografico è malamente inciampato in un arresto collettivo per possesso di marijuana che lo ha sbattuto, in un giorno sfortunatamente povero di notizie rilevanti, sulle prime pagine dei quotidiani nazionali.

Per capire la determinazione eminentemente operaia che giocherà un ruolo cruciale nell’affermazione del Sabba Nero bisogna infine avere ben presenti il retroterra socio-culturale ─ suburbia urbana della più degradata ─ dei protagonisti di questa saga e in special modo il vissuto dei due principali, Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Il secondo ha disperato di potere coronare il sogno di divenire un musicista professionista il giorno in cui un incidente in fabbrica lo ha privato dell’ultima falange di medio e anulare della mano destra. Non sarebbe una tragedia non fosse che è un mancino e a suonare da “normale” proprio non ci riesce. Lo salva dalla depressione l’ex-principale che, oppresso dai sensi di colpa, lo va a trovare portando con sé un LP di Django Reinhardt e prima glielo fa ascoltare e poi gli racconta di come il celebre chitarrista zingaro avesse un problema analogo e anzi più serio. Iommi si entusiasma, si ingegna ad autocostruirsi due specie di ditali che applica alle dita mutilate e riprende a suonare. Un ulteriore problema che gli si presenta ─ la pressione che riesce a produrre sulle corde inevitabilmente non è quella ante handicap ─ è risolto accordando lo strumento un tono o anche più sotto il normale: escamotage che contribuirà in misura decisiva a definire il suono Black Sabbath, scuro e profondo come nessuno prima.

Quanto a Osbourne lo ha dichiarato innumerevoli volte: non avesse avuto successo avrebbe passato la vita dentro e fuori, ma più che altro dentro, le patrie galere. Famiglia poverissima, madre cronicamente depressa, padre alcolizzato (ma nondimeno un buon cristo che farà di tutto per aiutarlo nel momento in cui eleggerà la musica a possibile redenzione), una passione precoce lui stesso per l’alcool e ogni tipo di sostanza stordente, violenze sessuali subite (fuori dalle mura domestiche) ancora bambino. A quattordici anni ha tentato il suicidio. A diciassette è stato arrestato per furto ─ talmente consunti i guanti indossati per precauzione che ha lasciato impronte digitali ovunque ─ e ha passato in carcere un mese e mezzo. Dopo di che si è arrabattato con lavori occasionali: macellaio fra il resto. Se mai c’è stato uno nato per perdere eccolo: John Michael Osbourne.

Ma ritorniamo sul traghetto, scendiamone lievemente barcollanti con i nostri eroi e scopriamo che l’ingaggio è il più assurdo che abbiano rimediato a quel punto. Alla clientela di magnaccia e altri assortiti malavitosi, puttane e marinai sbronzi dello Star Club non importa un accidente di cosa suoni il gruppo di turno purché suoni, purché sul palco accada sempre qualcosa. Al massacrante, disumano ritmo di sette spettacoli al giorno (avete letto bene) i ragazzi si stufano presto di un repertorio ancora smilzo e cominciano a sperimentare manco fossero jazzisti della New Thing. Vale tutto, dai brani di tre minuti che diventano di mezz’ora agli assoli al pari dilatati, a volumi a mezza via fra la soglia della distorsione e quella del dolore. Un riff può essere stiracchiato per dieci minuti, oppure se ne possono sparare dieci in un minuto e Tony Iommi, che del riff contenderà il titolo di re a Keith Richards e Jimmy Page, deve probabilmente mettersene un congruo gruzzolo in saccoccia. Nessuno li ascolta sul serio, eppure è in quella fatidica settimana che i (non ancora) Black Sabbath scoprono improvvisamente di avere una personalità. Il bruco diventa farfalla. Naturalmente di ferro.

Al rientro a casa, il 22 di quello stesso mese, i quattro registrano un primo demo, con la supervisione di quel Gus Dudgeon che farà bei soldini con Elton John e David Bowie. Tal Jim Simpson se lo porta in giro per etichette ottenendo solo rifiuti. Non c’è da stupirsene, visto che sul nastrino incomprensibilmente sono finite due canzoni scadenti e che non rappresentano affatto il nuovo corso, una The Rebel che cita gli Hollies, figuratevi un po’, e la dedica a un manager il cui rapporto con i Nostri, ossequiando uno schema classico dello showbiz, finirà fra carte bollate e tribunali, di A Song For Jim. Che è un blues-rock basato sul piano, figuratevi un po’ 2. Però dal vivo i quattro pestano e tirano come dannati, sempre più coesi, una macchina da guerra cui il passaparola sta conquistando un buon seguito nel cosiddetto underground. Fa capolino in questa storia Tony Hall, amico di Simpson ed ex-dj di Radio Luxembourg con la voglia di passare dall’altra parte della barricata. È lui a tirare fuori i soldi, seicento sterline, per incidere non un secondo nastrino dimostrativo ma un LP e poi si vedrà che farne. Gli studi prenotati per due giorni sono i londinesi Trident, buchetto in Wardour Street, quartiere di Soho, che a dispetto di un’apparenza dimessa vanta tecnologie all’avanguardia e l’unico otto piste operante in Gran Bretagna nel 1969. Qualche mese prima hanno lavorato lì nientemeno che i Beatles. I ragazzi sono diventati un modello di efficienza: a registrare l’album impiegano un giorno solo e il secondo è speso mixandolo con la fondamentale regia di Rodger Bain, che curerà la produzione anche dei due 33 giri successivi. Adesso un disco c’è e si tratta di trovare chi lo pubblichi. Alla Philips mostrano un certo interesse, ma svanisce presto quando un singolo ─ su un lato Evil Woman, che sull’album ci sarà; sull’altro Wicked World che ne verrà invece esclusa ─ per la sussidiaria Fontana non ottiene riscontri significativi. Potrebbe già essere tutto finito, ingloriosamente, non fosse che nel programma di uscite della Vertigo, il marchio progressive di casa Philips, si apre all’improvviso un buco nel quale Simpson è lesto a infilare i suoi protetti. Il 13 febbraio 1970 ─ ça va sans dire: un venerdì ─ “Black Sabbath” è nei negozi del Regno Unito. La campagna concertistica che l’ha preceduto e lo segue, intensificandosi ulteriormente, paga dividendi al di là di ogni previsione: entra in breve in classifica ─ a fine aprile è al numero 8, performance strepitosa per degli esordienti che oltretutto con la stampa si sono presi subito male ─ e ci resterà per cinque mesi, praticamente fin quando non arriverà “Paranoid” a dargli il cambio: numero uno in Gran Bretagna, 12 negli USA, dove il debutto aveva fermato la sua corsa a un comunque straordinario ventitreesimo posto. A proposito di Stati Uniti: il quartetto vi sbarcherà una prima volta in luglio, a registrazioni del secondo LP già completate. Le poche decine di spettatori dei primi concerti diventeranno nel giro di qualche data centinaia, quindi migliaia. Quando i Black Sabbath ci torneranno, nel febbraio dell’anno seguente, su istigazione della loro casa discografica americana, la Warner Bros, quattro semplici parole campeggeranno sui manifesti annuncianti gli spettacoli: “Louder than Led Zeppelin”.

Dovrei a questo punto aprire un’ampia parentesi e, rubando il mestiere all’ottimo Sergio Varbella, diffondermi sul cambiamento che all’incrocio fra ’60 e ’70 interessa il modo di concepire le copertine dei 33 giri rock. Che a tutto il ’67 vedono obbligatoriamente effigiato il solista o il complesso che ne sono titolari e gradualmente relegano queste foto sul retro o all’interno della confezione, fino a farle a volte sparire del tutto, sostituendole con immagini che intendono evocare la musica proposta. Non è però il luogo e vi basti, se non ci avevate mai fatto caso, l’avere acquisito codesta informazione. Quel che mi preme qui sottolineare è che forse mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo, l’essenza di un sound come quella del primo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. Roger Corman o lo stesso Mario Bava non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore come Black Sabbath la canzone che apre “Black Sabbath” l’album non l’hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e dice bene il Wilkinson quando annota che così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Da lì a qualche minuto da uno stato di catatonia si passerà, con uno dei più magistrali cambi di andatura che la storia del rock ricordi, a uno di terrorizzata frenesia.

Non credo di esagerare se dichiaro che con una confezione meno indovinata l’esordio adulto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Affermo l’ovvio appuntando che l’avvento del CD ha avuto come principale conseguenza nefasta quella di cancellare l’arte della bella copertina. In questo caso è di un capolavoro a sé che stiamo discorrendo, che il formato ridotto mortifica in maniera e misura inaccettabili, e mi piace sottolinearlo in un momento in cui il farsi immateriale della musica ─ con il download ─ le infligge un’ultima e fatale umiliazione. Così è se vi pare e chiamatemi pure nostalgico. Ma tornando al Sabba Nero… ci credereste? Che l’album esca in tal guisa è una felice scelta di un qualche oscuro discografico: “Abbiamo dato la nostra approvazione quando ce l’hanno sottoposta, ma non siamo stati noi a ideare la confezione”, ammette nel marzo 1970 il buon Geezer in un’intervista a un quotidiano locale. Uomini maledettamente fortunati che viene il sospetto che un qualche patto faustiano dovessero averlo firmato sul serio.

Missione ai limiti dell’impossibile andare dietro a un incipit tanto memorabile senza accusare cali di tensione, ma “Black Sabbath” per gran parte del suo svolgimento ci riesce, cedendo giusto per qualche minuto sul principio del secondo lato, con quella Evil Woman già citata perché scelta sciaguratamente dalla Fontana per tastare il terreno a 45 giri. Non una brutta canzone (fra l’altro una cover, dagli americani Crow), sia chiaro, ma la cantabilità scanzonata e il piglio boogie la rendono un corpo estraneo al resto dell’opera. All’armonica crepitante, alla chitarra granitica, alla batteria tumultuosa dell’hard definitivamente post-blues di The Wizard. Alla sarabanda a tempo di valzer che si slabbra in litania stregona di Behind The Wall Of Sleep. All’assolo di basso che danza l’attacco di N.I.B. prima di instradarla su una terra di mezzo fra melodramma e metallurgia. Al dark-folk psichedelico precipitato nell’Ade da un’elettrica che è lava, lama e marmo e un basso che rotola sfrenato di Sleeping Village. Alla qui estatica e lì rovinosa collisione Zeppelin-Cream (a un certo punto citati esplicitamente) di Warning, una rilettura di Aynsley Dunbar di cui confesso di non conoscere la versione originale. Di non essere nemmeno riuscito a scoprire da dove l’abbiano prelevata Iommi e soci.

Sul testo di N.I.B. vorrei spendere qualche parola, magari partendo da un titolo che più avanti i Sabbath stessi sosterranno riferirsi alla barbetta appuntita (“nib” vuol dire “pennino”) esibita al tempo da Bill Ward. Ma chiedete lumi a qualunque adepto e sicuro vi risponderà che trattasi di acronimo per Nativity In Black. Sia come sia: la canzone narra una vicenda di seduzione letteralmente diabolica, con Satana che si dà un gran daffare per persuadere una ragazza a mettersi con lui. E tanto dice e briga, fra il resto cambiando pure nome, riprendendo quello di Lucifero in memoria dell’angelo che era stato, che alla fine la fanciulla cede alle lusinghe. “Vecchio satiro!”, esulta l’ascoltatore politicamente scorretto, che non aveva potuto non notare un certo senso di disperazione insinuarsi nel corteggiamento portato avanti dal Maligno. Che attore! Ha finto di struggersi per fare più facilmente cadere la preda ai suoi piedi. Non fosse che, con fenomenale rovesciamento prospettico, finiamo per capire che no, non era finzione, era davvero innamorato della ragazza e disposto addirittura a cambiare vita pur di farsi accettare da lei. Un bravo diavolo, più Andy Capp, se vi riesce di immaginare un Andy Capp genuinamente con il cuore in mano, che non Faust. Uno con cui potreste chiacchierare al pub e che al terzo boccale vi metterebbe sotto il naso, orgoglioso, le foto dei figli.

La leggenda dei Black Sabbath satanisti è, giustappunto, poco più che una leggenda. Un’operazione di marketing da inquadrare nel manifesto programmatico del quartetto, quello delineato alcune cartelle fa di forgiare una musica dalle apparenze malvagie che induca in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore.

Tratto da “Black Sabbath – Rock da camera (a gas)”. Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.27, autunno 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo album del quartetto di Birmingham compie oggi cinquantaquattro anni. Non li dimostra.

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I grandi insuccessi di Terry Reid

Il 13 novembre compie settant’anni l’artista che, nell’arco di una carriera iniziata tredicenne, probabilmente ha perso più treni di chiunque altro. Ma ogni volta lasciando in stazione qualcosa di meraviglioso. Ufficio oggetti smarriti.

Oggi come oggi a Londra di interessante non ci sono che i Beatles, i Rolling Stones e Terry Reid.

Non è certo (dipende da a chi date credito) chi affermò quanto sopra: se Aretha Franklin o il suo produttore Tom Dowd, che assistevano fianco a fianco a un concerto del giovanissimo autore, interprete, cantante, chitarrista e ne uscivano entusiasti. Chiunque fu, Lady Soul o Dowd (che dell’album che i più ritengono il disco imprescindibile di Reid, misconosciuto classico del suo tempo e fuori dal tempo, si troverà a curare la regia), ovviamente esagerava. A mettersi a fare un elenco ragionato, pur minimo, di quanto accadeva nella capitale britannica nel 1968, anno favoloso per antonomasia, c’è di che farsi cogliere dalle vertigini. Nondimeno la frase è significativa in quanto chiarisce che, 1), il giovincello era già ben più che una promessa e, 2), all’epoca non ci si chiedeva se sarebbe diventato una star, ma solamente quando. Eppure già le cose stavano andando per il verso sbagliato, l’esordio a 33 giri assurdamente pubblicato soltanto negli USA (nel Regno Unito non vedrà la luce che nel 1992, in CD; non esiste una stampa UK del primo Terry Reid in vinile) e non all’altezza, causa una scaletta raffazzonata e la mancanza di una guida sicura, unita a qualche interferenza fuori luogo, del produttore Mickie Most, del clamoroso potenziale del titolare. A quel punto un veterano.

Nato a Huntingdon, una cittadina del Cambridgeshire, figlio unico di una coppia trasferitasi in quell’area prevalentemente rurale (risiede nella minuscola Holywell) e dal clima mite fuggendo un Nord grigio non solo per il meteo cronicamente avverso ma per le miniere anche a cielo aperto, Terry diletta il parentame che l’ha raggiunta e i vicini cantando, bambino, in ogni occasione sociale si presenti. Vince una gara che ha in palio come premio due magnum di champagne e la prima delusione, come un presagio di quanto il destino ha in serbo per lui, è che non abbia ancora l’età per potere assaggiare il prezioso nettare. Dodicenne chiede in regalo al padre una chitarra e la ottiene: una da pochi soldi. La promessa è che se si impegnerà abbastanza a imparare a suonarla lo strumento verrà sostituito con uno di maggior pregio. Non passa che un anno e già può maneggiare una passabile Hofner, elettrica, naturalmente con tanto di amplificatorino. Avete gettato un occhio al calendario? Avanzano al proscenio i Beatles e in men che non si dica il ragazzetto ne sa riprodurre alla perfezione il repertorio. Impressionato, papà gli compra una Gretsch professionale e un amplificatore Vox. Per il resto del decennio gli farà quando necessario da autista, improvvisandosi, da primo fan che è diventato, roadie e tour manager.

La scarna bibliografia in mio possesso (un’intervista al “Comston Lode” del 1979 e una a “Record Collector” del ’92, materiali usciti in questo decennio su “Uncut”, “Louder”, “Shindig”, “Wax Poetics” e “Mojo”; poco altro) non tramanda ai posteri le generalità dei due (presumibilmente) coetanei che fiancheggiarono Terry Reid nei Redbeats: in ogni caso qualcosa più di un complessino scolastico se venivano ingaggiati per una residenza in un locale di St Ives e si ritrovavano ad aprire spettacoli in zona dei Kinks e degli Hollies, niente di meno. Il che dava al nostro allora quattordicenne eroe l’opportunità di conoscere Graham Nash (sei anni e mezzo più ─ si fa per dire ─ anziano) e gettare i semini di un rapporto che da lì a un decennio frutterà un raccolto meraviglioso. Sia come sia: una sera a vedere i Redbeats va Peter Jay, stellina cadente giacché i suoi Jaywalkers hanno colto la loro unica hit tre anni prima (e già sembra un secolo) con Can Can ’62, una produzione griffata Joe Meek. Dopo quattro insuccessi di fila la Decca li ha scaricati e l’approdo alla Piccadilly (un sottomarchio Pye) ne ha sanzionato la retrocessione nella serie cadetta della discografia isolana. Da lì Jay vorrebbe risalire aggiornando un sound, fra pop e rock’n’roll, ormai obsoleto nel panorama ridisegnato dai Fab Four, dal beat, dall’onda montante del British Blues. Oltre che chitarrista già extraordinaire, Terry Reid ha una voce eccezionalmente matura per la sua età. Versatile. Soprattutto: negra. Ideale per la rotta verso lidi soul ed errebì che intendono intraprendere i Peter Jay’s Jaywalkers. Gli viene offerto il posto e accetta, lasciando gli studi regolari per iscriversi all’università della vita. On the road, per cominciare. Difficilissimo il primo esame, che supera brillantemente: un tour come supporto dei Rolling Stones riguardo al quale ha sempre raccontato di non essere riuscito ad ascoltare una singola nota degli illustri quanto scapestrati mentori (sono stati loro a scegliersi i gruppi spalla; il favoloso cartellone è completato da Yardbirds e Ike & Tina Turner) per via del wall of sound di urla del pubblico femminile. Lega principalmente con Keith Richards ed è il principio di un’amicizia che dura a oggi. La Columbia offre un contratto ai ragazzi che non frutterà però, e fuori tempo massimo per come suona, che un singolo di modesto impatto, datato 1967.

Recuperato nel 2006 nella doppia antologia EMI “Super Lungs (The Complete Studio Recordings 1966-1969”, The Hand Don’t Fit The Glove replica all’incirca il poppetto fuori moda da cui i Jaywalkers avrebbero disperatamente voluto affrancarsi. Infinitamente superiore un retro, This Time, con organo ficcante e fiati avvolgenti, Terry che gioca a fare Curtis Mayfield non avendo ancora scoperto Al Green. Molto meglio pure i quattro inediti sistemati in apertura di raccolta. Più della comunque godibile, sbarazzina It’s Gonna Be Morning, una I’ll Take Care Of You alla Otis Redding, una Funny How Time Sleeps Away parimenti Stax (sul secondo CD una versione alternativa più Old Blue Eyes che blue-eyed soul) e l’esultante (propulsa da un basso irresistibile) Just Walk In My Shoes. La band si scioglie, la Columbia si tiene stretto il cantante e all’inizio dell’anno dopo lo fa esordire a 45 giri. Di nuovo, meglio il lato B ─ una Fires Alive autografa e dal vago sentore di psichedelia ─ che il brano portante, la ballata alla Walker Brothers Better By Far. Il botteghino non premia e il contratto viene stracciato.

Il lancio di una monetina può cambiarti la vita. In quel momento soci, il primo in prepotente ascesa, il secondo viceversa prossimo a farsi superare da un mondo che gira sempre più veloce mentre lui resterà fermo, Peter Grant e Mickie Most si sono giocati Terry Reid a testa e croce. Ha vinto il secondo (il primo si prende ciò che resta degli Yardbirds e il lettore avvertito avrà inteso che in realtà il vincitore è lui) e ne è diventato il manager. È l’uomo che ha scoperto gli Animals, ha messo gli Herman’s Hermits in competizione con i Beatles, fatto ricchi i Nashville Teens e Brenda Lee e giocato un ruolo decisivo nell’ascesa allo stardom di Donovan. È fresco di lancio della carriera da solista di Jeff Beck ma a permetterglielo è stato il suo mandare a catafascio proprio gli Yardbirds. Discografico della vecchia scuola nonostante ancora debba compiere trent’anni (Grant ne ha trentatré) ha come formato di elezione il singolo e non si rende conto (o piuttosto ne è disgustato) che è l’album lo strumento che il rock ha scelto per farsi forma d’arte adulta (pensateci un attimo: ricordate un solo LP degli Animals o degli Yardbirds che possa dirsi una pietra miliare? non ve n’è, se volete avere il meglio del loro catalogo è alle antologie che dovete rivolgervi). Per lui una canzone deve durare massimo tre minuti e addirittura sta meditando di lasciare il rock per concentrarsi sul pop. Su cose tipo la sunnominata Better By Far, che l’etichetta già certifica una “Mickie Most Production”.

Bizzarro allora, quasi più che esca solamente negli Stati Uniti (e in Canada, e in Nuova Zelanda) quando il titolare è nome fra i più chiacchierati in patria, che da “Bang, Bang You’re Terry Reid” non vengano tratti 45 giri. In special modo considerando che i brani che sciupano un debutto che sarebbe per il resto efficace, e avrebbe potuto farsi memorabile con una scaletta oltre che accorciata (cinquantuno minuti; tanta roba per gli standard del tempo: troppa) meglio congegnata, li ha con ogni evidenza fortissimamente voluti il produttore. Per il futuro che ha in testa per il suo artista, che vede come un novello Scott Walker dalle inflessioni moderatamente soul, le cover della quasi title track, Bang Bang (My Baby Shot Me Down) (Sonny & Cher) e Something’s Gotten Hold Of My Heart (Gene Pitney) sarebbero dei lati A perfetti. Terry, che vorrebbe invece inserirsi nel filone eminentemente chitarristico del nascente hard, fa il possibile per personalizzare la prima ─ incattivendola, inacidandola ─ ma nulla può alle prese con una seconda di natura quintessenzialmente melò e dunque distantissima dalle sue corde. I due pezzi in questione sono sistemati in apertura e chiusura di prima facciata e il contrasto rispetto alle altre due riletture di brani altrui che occupano gran parte della seconda non potrebbe essere più stridente: sfilano nell’ordine una delle più dilatate e ruvide Season Of The Witch (da Donovan) che si ricordino e ─ in medley con un’autografa Writing On The Wall che parte liturgica per quindi farsi fanfara ─ una Summertime Blues (da Eddie Cochran) quasi all’altezza dell’appropriazione che da lì a due anni ne faranno gli Who del “Live At Leeds”. Entrambe sfondano il muro dei dieci minuti e ci si domanda se Most fosse in studio quando vennero registrate e come mai ne approvò (ma per fortuna!) l’inclusione nel disco. Sorge spontaneo il sospetto che già stesse perdendo interesse per l’artefice. Che firma le sei canzoni che completano il programma e fra le quali c’è dell’ottimo (Without Expression, rifatta già quell’anno dagli Hollies e che verrà ripresa anche da REO Speedwagon e John Mellencamp; una Sweater che anticipa la fascinazione a venire per il Brasile), del buono (l’incantata Erica; una Loving Time degna dei coevi Trinity di Brian Auger) e del prescindibile (Tinker Taylor e When You Get Home, rispettivamente hard e soul-rock sui generis).

Quest’uomo avrebbe potuto avere la mia vita! Ma non so se gli sarebbe piaciuta.

Il conto in banca magari sì.

(scambio di battute fra Robert Plant e Terry Reid in un club di Los Angeles dove il primo aveva raggiunto il secondo sul palco; 2004)

Non c’è niente da fare: fra i non molti che lo conoscono, almeno di nome, per tutti Terry Reid è colui che si fece sfuggire l’occasione di diventare la voce dei Led Zeppelin. Di che amareggiarsi l’esistenza fino all’ultimo dei propri giorni, no? L’interessato non la vede così, ritenendosi piuttosto quello che i Led Zeppelin li mise insieme. Nessun rimpianto, solo orgoglio.

Prosegue per altre 20.232 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.258, novembre 2019. Terry Reid festeggia oggi il settantaquattresimo compleanno.

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The Damned – Darkadelic (Ear Music)

Primo gruppo del punk britannico a esordire sia a 45 giri che a 33, ad andare in tour negli USA, a dirsi addio e a rimettersi insieme e tutto questo dall’ottobre 1976 al tardo autunno ’78, non avessero dato alle stampe che New Rose e “Damned Damned Damned” i nostri eroi (il leader era Brian James, che a conti fatti delle oltre due dozzine di musicisti transitati per le fila della band è uno di quelli che ci ha trascorso meno tempo; da lì in poi sarà Dave Vanian) apparterrebbero comunque alla storia maggiore del rock. Sono invece ostinatamente andati avanti, sciogliendosi e riformandosi immediatamente dopo un numero infinito di volte (né si contano i tour “di addio”), e appartengono ancora alla sua attualità. Ogni tanto pubblicano un album in studio (questo è il dodicesimo, quarto nel nuovo secolo) e immancabilmente qualche frescone fermo al ’77 si stupisce che di punk ci sia poco o nulla. Eccetto lo spirito, quello sì. Cosa poteva esserci di più anticonformista e dunque punk rispetto a un punk subito diventato “the new normal” che farsi produrre in pieno 1977 un LP da uno dei Pink Floyd, ossia il complesso della vecchia guardia più detestato dai giovani ribelli o presunti tali? E pazienza se “Music For Pleasure” non soddisfò né i ragazzi né Nick Mason.

“Darkadelic” è sorta di summa di un canone cui da subito concorse il beat (retro di New Rose una cover di Help! dei Beatles) e che si arricchiva via via con robusti apporti di garage, glam, pop, psichedelia e persino progressive, un’attitudine gotica ad amalgamare il tutto. Nei frangenti migliori va a posizionarsi a un incrocio su cui convergono Paul Roland, Who e Cult, nei peggiori finisce in zona “Rocky Horror Picture Show”. Ma ai Damned si perdona tutto.

Pubblicato su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Feel Like Being A Silver Machine – Hawkwind, 1970-1977

La notizia è – sarebbe – che sono usciti due box degli Hawkwind. Peccato che celebrino due decenni durante i quali il gruppo, pur restando dignitoso, ha cessato di essere rilevante. La non-notizia allora è un’altra: gli Hawkwind si apprestano a festeggiare i loro primi quarant’anni. Incredibile ma vero.

Incredibile ma vero, al dio del rock (che ultimamente si sta facendo bestemmiare come non mai) piacendo, è che – a parte il povero Bob Calvert, che ci lasciava quarantatreenne nell’agosto ’88 – ci arrivino in condizioni smaglianti per dei signori in prevalenza più prossimi ai settanta che ai sessanta e che hanno vissuto una vita spericolata come nessuno mai. I due principali protagonisti della saga, il chitarrista Dave Brock e il sassofonista Nik Turner, si sono da tempo ritirati in campagna e immaginarseli agricoltori a menare un’esistenza scandita dai cicli della luce e delle stagioni è una visione surreale. Stiamo parlando di una delle band più quintessenzialmente metropolitane di sempre. Stiamo parlando dei compagni di merende di… state a sentire come il bassista Lemmy Kilmister racconta dell’approccio a un concerto londinese rimasto epocale, quello durante il quale furono incise le piste strumentali (la voce poi sostituita in studio) del singolo Silver Machine, un numero 3 nelle classifiche UK nel luglio 1972 e rimasto la più grande hit dei nostri squinternati eroi.

Io e Dikmik (Davies, il tastierista; NdA) eravamo pieni di dexedrina fino agli occhi, in piedi da quattro giorni e quattro notti e allora si cominciava a essere nervosi. Bisognava fare questo spettacolo e avevamo bisogno di calmarci. Così buttiamo giù del Mandrax, ma dopo un po’ ci piglia la noia e allora ci fumiamo un paio di cannoni di nero. Arriviamo alla Roundhouse e salta fuori dell’altro nero. Ci spariamo quell’altra decina di spinelli belli carichi a testa. Siamo di nuovo schizzati come bestie e per rilassarci caliamo altro Mandrax, tre pillole ciascuno. È stato a quel punto che ci hanno portato della coca… Cazzo, delle borse piene di coca. Be’, l’abbiamo assaggiata, naturale. Bussano al camerino per dirci che è ora di andare in scena e a quel punto ho il corpo talmente irrigidito da essere come paralizzato. Gli faccio: ‘Ehi, Dikmik! Non riesco più a muovermi!’. E lui: ‘Neanch’io! Figo, eh?

Pensate che quel concerto, registrazione di Silver Machine a parte, fu un disastro? Niente affatto. Chi c’era lo magnifica come un trionfo e, se credete siano ricordi falsati dalle sostanze assunte non solo dal gruppo ma più o meno dall’intera platea, in assenza di una macchina del tempo potete andare a toccare con orecchio il fenomenale “Space Ritual”, doppio live datato ’73, inequivocabile testimonianza di come una compagine per il resto sommamente disfunzionale messa su un palco riuscisse invariabilmente, in qualche pazzesco modo, a funzionare alla perfezione. Eccellenti in studio, trascendentali dal vivo: almeno in questo il ricorrente paragone con i Grateful Dead tiene. “Potevamo diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Brock nel 1999, concedendosi a “Mojo”. Furono invece i papà dei Sex Pistols.

Prosegue per altre 7.584 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.656, marzo 2009. “Space Ritual” vedeva la luce cinquanta esatti anni fa.

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Blues Against The Empire – Trentacinque anni di Hot Tuna

Ovvero: come fu che un dopolavoro – che poi in realtà era un “prima del lavoro” – si trasformò in una cosa più seria del lavoro stesso.

Dapprincipio non c’era nessun motivo per scrivere un articolo sugli Hot Tuna, se non che Stefano Isidoro aveva delle pagine da riempire in questo “Juke Box all’idrogeno”, mi ha chiesto se avevo voglia e qualche idea al riguardo e io gli ho risposto “mah… sì… boh…”. E lui: perché non fare una cosa sugli Hot Tuna, che erano una gran bella formazione oggi sconosciuta a tutti, eccetto a qualche reduce? Mi è sembrata un’ottima ragione, benché non mi senta ancora reduce e per certo Stefano Isidoro meno di me. Allora ho tirato fuori i dischi dagli scaffali e, mentre tornavano a girare sullo stereo a forse tre lustri dall’ultima volta a parte “Quah”, che è un album per il quale ho sempre avuto un affetto speciale ma non appartiene al gruppo bensì è l’esordio in proprio di Jorma, ho cercato il nome “Hot Tuna” nell’archivio in cui ho catalogato le riviste straniere comprate dal ’78 a oggi. Sconcertato, ho scoperto di non avere in casa nemmeno un articolo sulla seconda più nota, in realtà terza ma prima, avventura in comune di Jorma Kaukonen e Jack Casady. Persino un’indagine su Internet, dove un delirio apologetico non si nega né a un cane né a un porco, ha sortito risultati deludenti. Mi sono sembrate altre due ottime ragioni per scrivere qualcosa su di loro, vendicando nel mio piccolo lo scandalo di un progetto così poco considerato. E poi ho improvvisamente realizzato che sono esattamente trentacinque anni che questa storia è cominciata, bel numero che può essere detto tondo, come gli Hot Tuna quando suonavano acustici, o spigoloso, come quando accendevano gli amplificatori. Ed eccoci qua.

All’epoca non ero interessato al rock, a malapena tolleravo i Rolling Stones. Piuttosto, alle musiche etniche in generale e alla tradizione nordamericana in particolare.

Così Jorma Ludwik Kaukonen Jr., sessantaquattro anni il prossimo 23 dicembre, in una rara intervista concessa per il venticinquennale degli Hot Tuna ricordava di come fu con qualche perplessità che, nella primavera 1965, accettò l’invito del cantante e chitarrista Paul Kantner a unirsi a un complesso ancora senza nome che il cantante Marty Balin aveva appena messo in piedi, con tre carneadi che si defileranno presto, con l’intento minimo quanto squisitamente commerciale di fornire una colonna sonora alla serata di inaugurazione di un club, il Matrix, acquistato in quel di San Francisco. Era proprio Jorma – originario di Washington DC ma proveniente dal Texas dove aveva spesso accompagnato una sconosciuta cantante, una certa Janis Joplin – a battezzare il neonato combo, accorciando il nome di un bluesman immaginario, tal Blind Thomas Jefferson Airplane, creato dalla sua fantasia. Non mi diffonderò troppo su una vicenda oltretutto universalmente nota, se non per raccontare come vi venne coinvolto il suo concittadino John William Casady, detto Jack e sessantenne lo scorso 13 aprile, e di come quattro anni più tardi insieme i due daranno vita agli Hot Tuna per poi, trascorsi altri tre anni, staccarsi definitivamente dall’Aeroplano che stava per farsi Astronave. Per Jorma e Jack, i Jefferson Airplane non furono il primo gruppo condiviso. Imberbi (il secondo appena quindicenne) erano stati nei Triumphs, complessino nemmeno troppo amatoriale se è vero come è vero che arrivò a pubblicare un singolo: rock’n’roll, che non era per l’appunto l’amore né dell’uno né dell’altro, cresciuti consumando i dischi dell’estesa collezione di blues di un fratello maggiore del secondo, avido collezionista. E il primo arrivava dal bluegrass. Archiviata una storia non esattamente trionfale, a dispetto dell’ottimistico nome con il quale la si era siglata, Jorma si perfezionava all’università del blues cominciando giusto nel fatidico 1959 a studiare la tecnica del fingerpicking. Frequentando l’Antioch College conosceva John Hammond, un altro bianco per caso irrimediabilmente traviato dalla musica del diavolo, e Ian Buchanan, incontro prezioso perché, non potendosi permettere le lezioni dell’idolatrato Reverendo Gary Davis, il giovanotto poteva almeno apprenderle di seconda mano da uno che ne era stato allievo. Era così che imparava tutti i brani che finiranno nel 1970 nello splendido debutto degli Hot Tuna e tuttora si cruccia di non avere avuto la presenza di spirito di dedicare quel 33 giri al maestro. Ancora in un’istituzione scolastica ma domiciliata sulla Costa opposta, la University Of Santa Clara, conosceva Paul Kantner e sarebbe stato incontro, come abbiamo visto, pure più decisivo. Nel frattempo, rimasto nell’area di Washington, l’amico Jack dalla chitarra passava al basso, diventando presto bravo a sufficienza da accompagnare Ray Charles. Suonerà sempre il basso un po’ come una solista (abilità non granché gradita dal batterista dei Jefferson, Spencer Dryden, non contento di doversi caricare sulle spalle per intero il peso della ritmica) e per questo sarà strumentista apprezzato quanto il chitarrista Jorma, fors’anche più peculiare. Ai Jefferson Airplane serviva un bassista, Kaukonen consigliava Casady, il resto è Storia.

Prosegue per altre 9.907 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.76, settembre 2004. Jack Casady compie oggi settantanove anni.

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“Il” classico di Jeff Beck (24/6/1944-10/1/2023)

Lasciati gli Yardbirds nel novembre ’66, Jeff Beck pubblica alcuni singoli da solista prima di dare vita all’inizio del 1968 al fenomenale gruppo con il quale registrerà questo LP e (con un aggiustamento minimo di formazione) il seguente “Beck-Ola”: Rod Stewart alla voce, Nicky Hopkins al piano, Ron Wood al basso e Micky Waller alla batteria. Pur premiato da un buon riscontro di pubblico (negli USA è quindicesimo ed è certificato disco d’oro) “Truth” in retrospettiva appare opera sottovalutata (nuocerà alla sua fama postuma la qualità ondivaga e i frequenti cambi di direzione della successiva produzione del chitarrista) e non premiata per i suoi meriti nemmeno da vendite comunque modeste se paragonate a quelle di Cream e Led Zeppelin. Resta uno dei migliori esempi di un hard primevo immerso nel blues e capace di maneggiare con gusto folk e psichedelia.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Più grandi dei Beatles? Ascesa e caduta dei Led Zeppelin

Domenica 28 giugno 1970, Bath, seconda giornata del festival di “blues e musica progressiva”. In centocinquantamila sono calati sulla cittadina del Somerset attirati da un cast stellare: Jefferson Airplane e Hot Tuna, Frank Zappa, Moody Blues, Byrds, Santana, Dr. John, Country Joe. E Led Zeppelin, per i quali quel Mangiafuoco di Peter Grant ha ottenuto il posto più alto in cartellone, attrazione principale, ultimi ad andare in scena e del resto sono o non sono il gruppo che a Natale dell’anno prima ha scalzato i Beatles dalla vetta delle classifiche USA? “II” vi ha rimpiazzato “Abbey Road” e da allora ha continuato a vendere a ritmi incredibili. Primo pure nella graduatoria britannica e nondimeno al manager e ai suoi protetti pare di non essere stati affatto, fino a quel punto, profeti in casa. La stampa li ha bistrattati, se non ignorati, e di conseguenza persino fra quanti hanno comprato il disco, e magari li stanno ora aspettando, c’è ancora chi crede siano americani. Tempo che le cose cambino. Nella strategia di conquista del suolo patrio, lo sbarco a Bath ha un ruolo chiave: dopo, più nessuno dovrà/potrà ignorare chi siano i Led Zeppelin. E siccome un regno vale una messa per essere lì si è rinunciato a due date oltre Atlantico, esibizioni a Boston e New Haven che avrebbero fruttato la rispettabile cifra di un quarto di milione di dollari, si è premurato di far sapere in giro Grant.

È stata una tipica giornata inglese di inizio estate, con un sole anche cattivo a fare capolino fra gli scrosci di pioggia. Ma poi si è alzato un venticello che sta adesso spazzando via le ultime nubi e ci si avvicina al tramonto immersi in una luce stupenda. Stanno suonando i Flock, penultimi, e il pubblico mostra di gradire il loro errebì venato di jazz e dalle ardite aperture classicheggianti. Tant’è che l’esibizione sta prolungandosi oltre il previsto. Un problema per Peter Grant, il cui piano è che il Dirigibile si levi in volo nell’istante esatto in cui il sole scomparirà dietro l’orizzonte. A estremi mali, estremi rimedi. Ordina al braccio destro Richard Cole di staccare la corrente e costui provvede nel bel mezzo di un assolo di violino. Dopo di che, si catapulta sul palco e comincia personalmente a sloggiarne la strumentazione degli stupefatti chicagoani. Quando uno dei loro tecnici accenna una protesta, un cazzotto bene assestato da uno degli energumeni che fiancheggiano Grant tronca la discussione. E così Robert Plant, riccioluta chioma dorata spiovente ben oltre le spalle su una camicia blu a pois, può accostarsi al microfono al momento giusto e salutare la platea con un “è bellissimo essere qui, in un festival all’aperto dove non è successo niente di spiacevole”. Occhiolino a Page, che dal suo canto sfoggia un completino campagnolo, cappotto grigio e cappello da bifolco, e un urlo belluino si scaglia verso un cielo che va prendendo i colori di un crepuscolo wagneriano. Con immane clangore parte una turbinosa canzone nuova, scritta in Islanda una settimana prima. Si chiama Immigrant Song ed è una fantasia guerriera in cui gli Zeppelin fanno la parte di invasori vichinghi che saccheggiano, violentano, incendiano. Pace e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ’70.

Volo magico numero uno

Sempre carino il giochino del “what if” e in tempi giurassici per questa rivista (numero 2, estate 2001) ci si divertì a farlo con i R.E.M. (fra l’altro: all’altezza del capolavoro “Automatic For The People”, 1992, John Paul Jones si ritrovò a scrivere degli arrangiamenti per costoro). Vi va di giocarlo con i Led Zeppelin? Tanto per cominciare ci si può chiedere proprio quanta strada avrebbero percorso con una ragione sociale meno efficace di quella suggerita da Keith Moon quando, nel marzo 1967, per un attimo il batterista degli Who vagheggiò un supergruppo con John Paul Jones al basso e un fenomenale terzetto di chitarristi: Jimmy Page, Jeff Beck, Ron Wood. Page terrà a mente. Vi basti sapere che gli altri nomi considerati a suo tempo furono Mad Dogs (lo userà Joe Cocker) e un tremendo Whoopee Cushion. Converrete che non sarebbe stata la stessa cosa. Ci si può poi interrogare su quali differenti pieghe avrebbe preso la storia del rock se nell’ordine: Robert Plant, che ancora non conosceva Page, fosse entrato negli Slade (che ci pensarono su ma poi decisero che era troppo effeminato); Terry Reid non lo avesse suggerito a Page quando declinò il suo invito a raggiungerlo nei New Yardbirds; John Bonham avesse preferito la paghetta mica male (quaranta sterline alla settimana) che gli allungava il cantautore Tim Rose, oppure una delle contemporanee offerte di Joe Cocker o Chris Farlowe. Giacché la delicatissima alchimia non avrebbe potuto prodursi e immaginatevela l’evoluzione del rock senza questi quattro cavalieri dell’Apocalisse fatti per correre uno a fianco dell’altro. Oppure: cosa sarebbe successo se il Dirigibile si fosse schiantato al suolo prima di quanto non accadde. Molto prima: il 31 dicembre 1968 quando, diretta da Portland a Seattle nel pieno di una delle peggiori tormente di neve che si ricordino da quelle parti, per un nonnulla la macchina con Richard Cole al volante e a bordo Peter Grant e gli Zeppelin al completo non cadde in un burrone. Un po’ prima: nel marzo 1975, quando una squilibrata di nome Squeaky Fromme dopo avere pedinato per qualche tempo Page decise di sparare invece a Gerald Ford, allora presidente degli Stati Uniti. Mentre invece si può ragionevolmente ipotizzare che un finale meno repentino e drammatico della vicenda o addirittura un non finale ─ perché sì, con un Bonham non defunto li si può pensare tuttora in circolazione i Led Zeppelin, non diversamente da Stones o Aerosmith ─ sarebbero stati, se è di rilevanza storica che si parla, ininfluenti. Già fu un congedo discograficamente minore in maniera imbarazzante il loro e poteva entrare negli ’80 e uscirne vivo (in questo senso: propositivo) chi più di chiunque plasmò i ’70? Né vale osservare che nei ’90 Jimmy Page e Robert Plant hanno licenziato due album strepitosi e uno tutto di canzoni nuove. Fondamentali difatti per la loro riuscita l’entusiasmo del ritrovarsi, la freschezza data dal doversi riscoprire dopo non essersi frequentati per quasi tre lustri.

Logico e illogico che dalla trasmissione di “Unledded” su MTV nell’ottobre 1994, con conseguente record di ascolti, le voci di una reunion si siano rincorse più che mai e forse non è stata apprezzata abbastanza l’onestà intellettuale fuori dal comune che indusse i due a non usare (al di là del fatto che mancasse John Paul Jones) la riverita sigla. Tormentone destinato ad andare avanti chissà per quanto ancora. Eppure, al prossimo 7 di luglio saranno trascorsi venticinque anni dall’ultimo concerto degli Zeppelin (appropriatamente tenutosi in quel di Berlino) e al 25 settembre altrettanti dalla prematura scomparsa di John “Bonzo” Bonham. Il 14 luglio saranno invece venti da “Live Aid” e dai venti minuti in cui, in mondovisione, Plant, Page e Jones divisero una ribalta e tre canzoni, evento non paragonabile, per il sensazionale impatto che ebbe, all’introduzione nella “Rock And Roll Hall Of Fame”, una faccenda del ’95. Insomma: ricorrevano un sacco di anniversari, se proprio bisognava inventarsi delle scuse per parlare di uno dei gruppi più seminali di sempre.

Prosegue per altre 54.216 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.17, primavera 2005.

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Misunderstood (per Tony Hill)

Uno dei più grandi chitarristi della storia del rock se n’è andato venerdì scorso nell’indifferenza generale. Non un articolo, non un trafiletto a ricordarlo. Giusto qualche post su Facebook.

The Misunderstood Before The Dream Faded (Cherry Red, 1982; antologia)

Una delle mille ragioni che abbiamo per idolatrare John Peel è questa: senza di lui i Misunderstood avrebbero avuto ancora meno della poca fortuna che ebbero e si sarebbero forse persi senza lasciare traccia alcuna. Era il 1966 quando le strade del gruppo e del dj (che non aveva ancora assunto il nome d’arte con il quale diverrà celebre e dunque girava come John Ravenscroft) si incrociavano. Acceso di sacro fuoco dalla ultraelettrica (con tanto di feedback come nei ’60 oseranno giusto i Velvet) e acidissima interpretazione del blues inscenata dai nostri eroi, Peel li convinceva a trasferirsi dalla California a Londra e tanto brigava che la Fontana si interessava a loro. Veniva registrato un demo con sei brani, due uscivano a 45 giri (il secondo per l’ensemble dopo uno pubblicato in patria) e i Misundestood – presenza scenica micidiale – divenivano dei beniamini del pubblico del Marquee. Attimo fuggente dopo il quale tutto andrà a ramengo. Restano due album postumi (il secondo è “Golden Glass”, uno Stood Still dell’84) a documentarne la grandezza ammannendo martellamenti selvaggi (Children Of The Sun, la feroce My Mind, una I’m Not Talking degna di Beefheart), spastiche dilatazioni (Who Do You Love) e ogni tanto un incantesimo alato (I Can’t Take You To The Sun) o uno scherzo (il gioioso beat Like I Do).

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.15, autunno 2004.

High Tide Sea Shanties (Liberty, 1969)

Immancabilmente citati fra i padri fondatori dell’hard come fra i massimi esponenti di una psichedelia disposta a farsi laterale rispetto al suo stesso essere – costituzionalmente – eccentrica, i britannici High Tide del cantante e chitarrista Tony Hill e del violinista Simon House altrettanto sacrosantamente finiscono per figurare in ogni trattazione che si rispetti del progressive. Questione oltre che di suono – compatto eppure articolato, in qualche inspiegabile maniera gradevole una volta violatane l’apparente impenetrabilità – di attitudine, di disponibilità a osare quanto all’epoca era inaudito e che di rado sarà replicato con efficacia e intensità paragonabili. “Sea Shanties” e il successivo di un anno “High Tide” restano fra gli esempi più memorabili di sempre di gotico in musica.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Quando l’astronave Hawkwind entrò in orbita (per Nik Turner, 26/8/1940-10/11/2022)

“Saremmo potuti diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Dave Brock concedendosi a “Mojo” in occasione dei festeggiamenti per il trentennale di una band la cui complicata epopea il cantante, chitarrista e tastierista è stato l’unico a traversare per intero. Quindici ulteriori anni dopo l’astronave Hawkwind è ancora in volo, gli avvicendamenti nell’equipaggio continuano, ma in plancia di comando continua a sedere il capitano di sempre. Difficile credere che abbia mai davvero rimpianto ciò che sarebbe potuto essere (dopo che il singolo Silver Machine andò nel luglio ’72 al numero 3 delle classifiche britanniche) e invece non fu (dopo che nell’estate successiva toccò ritirare dai negozi Urban Guerilla per la sfortunata concomitanza fra il suo affacciarsi nei Top 40, appena uscito, e un’ondata di attentati dell’IRA). Non sono mai diventati come i Pink Floyd, gli Hawkwind, ma rappresenta ben più che un premio di consolazione l’essersi guadagnati un posto di assoluto rilievo nella storia del rock con la sequela pressoché perfetta dei primi otto LP: insieme, un ponte fra l’era della psichedelia e quella del punk e il luogo in cui quel mutaforma chiamato space rock assumeva la sua estetica più classica, iniettando dosi massicce di acido lisergico, anfetamine e immaginario SF nel giovane corpo dell’hard.

Nell’omonimo esordio a 33 giri dell’agosto ’70 tutto ciò è a malapena accennato. È nel successivo (ottobre 1971) “In Search Of Space” che il tipico suono Hawkwind sboccia, all’improvviso – nel paradigmatico assalto di You Shouldn’t Do That – e subito definito sin nei dettagli: basso singolarmente melodico e batteria dritta a propellere le esplorazioni di uno spazio profondo non solo interiore inscenate dalla chitarra di Brock e dai marchingegni elettronici manipolati da Dikmik Davies e Del Dettmar. Mentre il sax di Nik Turner ruggisce, creando ulteriori straniamenti. Se in You Know You’re Only Dreaming i Pink Floyd si metamorfizzano nei Black Sabbath, Master Of The Universe disvela quella disposizione geniale all’innodia che in Silver Machine troverà una sublimazione somma. Prima di una seconda metà di programma in cui gli psichedelici prendono il sopravvento sugli eccitanti e davanti alle porte del cosmo si disegnano trame elettroacustiche. “Doremi Fasol Latido” (novembre 1972) perfezionerà la formula, ma è qui che prende a delinearsi un canone straordinariamente influente.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.196, settembre 2014.

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