Archivi del mese: Maggio 2012

Soulsavers – The Light The Dead See (V2)

Rich Machin e Ian Glover come alternativa alla solita, costosa clinica di disintossicazione? Viene da pensarci (e che peccato non abbiano avuto l’idea di cercare la Amy Winehouse prima che fosse troppo tardi), notando la propensione della coppia di produttori britannici che dal 2003 pubblica insieme dischi come Soulsavers a convocare, per dare voce ai suoi spartiti, gente con qualche problemino di dipendenza: Mark Lanegan non per uno ma per ben due album (e sarà un caso ma oggi sembra stare assai meglio) e adesso Dave Gahan. Della possibile collaborazione i tre discutevano per la prima volta nel 2009, nei camerini di un tour nel quale i Soulsavers dei Depeche Mode erano spalla, e che razza di stagione terribile era quella per il cantante, non solo alle prese con l’annoso vizietto dell’eroina ma sotto i ferri per un tumore. Sette vite come i gatti e forse qualcuna di più (non a caso proprio The Cat è il suo soprannome) ed essendo già sopravvissuto a infarti, overdose e tentativi di suicidio, Gahan offre probabilmente in “The Light The Dead See” la sua performance più rimarchevole di sempre. Il senso di spaesamento indotto dal sentire una voce che si è soliti associare a tutt’altre sonorità stagliarsi su paesaggi sonici da Far West gotico dell’anima non dura che un attimo: subito spazzato via dall’intensità dell’interpretazione.

Siccome i Soulsavers da lì arrivano, e una volta che un’etichetta è appiccicata hai voglia di inzupparla di solventi prima che si stacchi, capita ancora di vederli “taggati” alle voci “elettronica” e “downtempo”. Della prima in quest’album non vi è traccia, al secondo lo legano parentele vaghissime, nel senso che qualche suo scorcio qui e là potrebbe non parere corpo del tutto estraneo in un disco, per dire, dei Portishead. Ma ben altri sono i nomi che si affacciano alle labbra per raccontare queste musiche spesso morriconiane e mai quanto nel quietamente spettacolare incipit di La ribera, armonica che vibra affondando nel solenne abbraccio di un’orchestrazione ipercinematografica. Se Longest Day è un’ipotesi di Black Heart Procession che peccano squisitamente di magniloquenza, Presence Of God è più Nick Cave di Nick Cave e Just Try sono gli U2 “americani” al netto della retorica. Se Gone Too Far è un peccato sia sbocciata troppo tardi per sentirla da Johnny Cash, Take Me Back Home è Leonard Cohen restituito ai sogni country’n’western della sua gioventù. Se un peccato può essere rimproverato a “The Light The Dead See” è una certa uniformità di passo: fa ammirevole ammenda un dittico finale che in coda al valzer acustico scarno e soffuso di Take sistema il rock a gola infine spiegata di Tonight.

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Presi per il culto (13): George Brigman – Jungle Rot (Solid, 1975)

La sua musica è stata definita “psychedelic punk acid blues boogie”. O anche: “burning fuzz fried mutant space boogie”. L’hanno raccontata pure come “throwback fuzz guitar and swamp bass hoodoo” e davvero non si può dire che George Brigman non abbia sempre goduto di ottima stampa, conquistandosi cantori appassionati in almeno un paio di generazioni di critici americani. Nel 1982, sulle pagine di “Musician”, l’autorevole e di solito poco propenso ai superlativi David Fricke si spendeva per un album, “I Can Hear The Ants Dancin’”, pubblicato soltanto in cassetta fino ad azzardare che si aggirasse in territori non esplorati nemmeno dall’Experience. Infatuazione passeggera, uno di quegli abbagli da cui neanche il più posato degli studiosi di cose rock può andare del tutto esente? Macché. Tredici anni dopo e questa volta su “Rolling Stone”, occasione la prima stampa in vinile di un lavoro che ci metterà quell’altro tondo decennio a venire edito in CD, non arretrava di un passo e nostalgicamente ricordava di avere finito per sciuparlo quel nastro per quanto lo aveva fatto girare. Da lì a pochi mesi una penna ben più giovane ma di pari reputazione, Fred Mills, così si lasciava andare su “Magnet” scrivendo pur’egli di una ristampa: “Immaginate i Can, i Chrome, gli Stooges e Captain Beefheart che si mettono assieme per dare vita a una band di acid blues”. Nella frase prima sono citati i Blue Cheer, in quella successiva è chiamato in causa Slim Harpo. Stava parlando di “Jungle Rot”.

Perdenti si nasce. George Brigman lo fa a Baltimora, non il posto ideale negli Stati Uniti per costruirsi una carriera suonando se non si è disposti ad andare altrove, e nel 1954: troppo tardi per potersi ritagliare uno spazio nell’era aurea della psichedelia e dell’hard primevo; troppo presto per non farsene plasmare in maniera decisiva, con la conseguenza di scoprirsi poi su una diversa lunghezza d’onda rispetto a punk e new wave. È un concerto dei Cream cui assiste nel 1968 a chiarirgli cosa gli piacerebbe fare da grande. Da lì a breve sono altri britannici con radici nel blues ma la propensione ad alzare il volume e incattivire con estro il tutto, i Groundhogs di Anthony Charles “Tony T.S.” McPhee, a illuminarlo d’immenso. Per chiarire quanto profonda e duraturà sarà l’influenza basti annotare che chiamerà il principale dei suoi gruppi Split (come il quarto 33  giri dei Groundhogs), un altro Hogwash (come il settimo LP di costoro) e la fantomatica casa discografica che licenzierà il suo debutto Solid (come l’ottavo album di McPhee e sodali). E di chi la sola cover (Status People) mai pubblicata? Sì, avete indovinato. Deciso cosa fare da adulto, il ragazzetto fa trascorrere tre anni prima di passare dalle fantasticherie all’azione, in compenso sfoggiando a quel punto talento e/o stakanovismo bastanti a fargli padroneggiare perfettamente la chitarra elettrica in circa un anno. Quindi i ritmi si placano evidentemente di nuovo, se è vero come è vero che siamo nel 1972 e “Jungle Rot” non raggiungerà i negozi – pochi nella città del Nostro, pochissimi nel resto del Maryland, probabilmente nessuno altrove – che nel 1975. Non fosse per i lunghissimi capelli che il ventunenne autore già esibisce nelle due foto di copertina, sapendo la data all’ascolto si sarebbe tentati di cogliervi presagi di punk. Per certo a parte le chiome – capellutissimo pure il giovanotto posizionato alle spalle di George, il batterista Jeff Barrett – di hippy c’è meno di nulla in scatti che immergono in una decadenza urbana di ballardiana desolazione. Parte la traccia inaugurale e omonima e non è proto-industrial ciò che scaturisce dai solchi ma una collisione ognimmodo bella intimidente, testimone Iggy Pop, fra il Link Wray in anticipo di vent’anni sull’heavy metal e il Jimi Hendrix di dieci anni dopo, oppure prima. Bradipica, aguzza e malevola, DMT fa salire ulteriormente una tensione che permane altissima negli intrecci fra surf ed errebì bianco di Don’t Bother Me. Benvenuto allora il rilascio indotto da Schoolgirl, per quanto non sia che una piacevole canzoncina, un esercizio sui generis di seduzione post-adolescenziale. Si riparte con lo sferragliare del Bo Diddley apocrifo di I’ve Got To Know e resterà l’unico momento in cui si insinua un sentore di psichedelia, in forma di suggestione quicksilveriana. Tempo di girare il disco. I Feel Alright sa di Stooges non soltanto per il titolo, però degli Stooges in combutta con i Cream meno onanisti e più incendiari. (T.S.) è omaggio ancora più scoperto e avrete colto a chi. Che resta? Il folk-rock fuori dal coro di Worrying; il finto Muddy Waters tongue fermamente in cheek di I’m Married Too.

Rarissimi e offerti quando li si incontra a cifre da capogiro gli originali, “Jungle Rot” è stato bootlegato a più riprese e riedito legalmente per la prima e unica volta nel 2005, da Anopheles (vinile) e Bona Fide (CD). L’una e l’altra stampa si trovano ancora, a prezzi per il momento abbordabili e al posto vostro non ci penserei troppo su.

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Iggy Pop – Après (Vente Privée)

Sessantacinque anni compiuti da poco, Iggy Pop ha un problema: non ha ancora scelto cosa fare da grande e alla sua età è un bel cazzo di problema, trattandosi sostanzialmente di decidere che ricordo lasciare di sé. E mi chiedo se sia più ignobile seguitare a scondinzolare per palchi recitando per la milionesima volta I Wanna Be Your Dog (in mezzo al pubblico non si butta più dacché alla Carnegie Hall si schiantò in platea; ma cristo! ti lanci fra gli spettatori della Carnegie Hall e ti aspetti che quei coglioni ti prendano al volo?), oppure incautamente rammentare à tout le monde, e lo scrivo apposta in francese, lo iato qualitativo fra la produzione Stooges (tre-capolavori-tre; il quarto Stooges è come Scaruffi: non esiste) e la media di una discografia da solista con dentro ben poco di indimenticabile. Dopo un inizio esaltante (ma “The Idiot” e “Lust For Life” sono album di David Bowie quasi nella stessa misura in cui sono di Iggy), perennemente irrisolta fra il certamente comprensibile ma velleitario desiderio di forgiare nuove No Fun, nuove TV Eye, nuove Search And Destroy e l’ansia di distanziarsi da quel cliché. Ora corteggiando la new wave, ora un punk che senza di lui si fa fatica a immaginare, ora il metal. Non credo sia un caso: post-’77 l’unico disco grande sul serio del Nostro è “Brick By Brick”, in cui per una volta non faceva il verso né a se stesso né ad altri e, restando miracolosamente 100% Iggy, era Pop (power) come non mai.

Per quanto non il primo tentativo dell’uomo nato James Newell Osterberg di reinventarsi artista “adulto”, nel 2009 “Preliminaires” aveva lasciato di sasso gli astanti con il suo mischiare jazz tradizionale e chanson, scampoli di Brasile e inchini ideali a Leonard Cohen. Diciamo che si era stati benevoli nei suoi confronti. Diciamo che se n’era apprezzato il coraggio e lo si era archiviato in fretta. Ma dopo i preliminari, si sa, in genere si passa all’atto vero e proprio. Qui direttamente a un aborto di album con l’unico pregio di non durare che ventotto minuti. Fresco di sponsorizzazione very punk (testimonial per Paco Rabanne, pensa te), l’artefice ha pensato bene di convocare la stampa per denunciare, indignato, che la Virgin/EMI “Après” non gliel’ha voluto stampare e che è a ragione di ciò che, non potendo contare su una distribuzione fisica, il lavoro è disponibile solo in download. Caro Iggy, era probabilmente gente che ti vuole bene quella che ha provato a impedire l’uscita di questo obbrobrio. L’ha fatto per non esporti al ridicolo, non certo perché al botteghino (quand’è che hai avuto l’ultimo hit? ieri di mai?) sarebbe stato un flop. E invece tu, testardo, ce l’hai voluto infliggere a ogni costo (vabbé: sette euro) questo pugno di cover per la più parte cantate in un francese imbarazzante (è una pronuncia da Fiorello ad affondare l’unica che si sarebbe se no salvata, il classico di Brassens Les passantes) e appoggiate a un jazzetto da balera. Chissenefrega di ascoltare La javanaise fatta uguale a Gainsbourg ma peggio! O l’ennesima, immota Everybody’s Talkin’. O una Only The Lonely che cerca il confronto con Sinatra e naturalmente lo perde dieci a zero. Pensate sia il peggio? Vi dico soltanto che fa pure La vie en rose. E anche Michelle e a quel punto l’avvocato si alza (magari non si sarà capito, ma per me Iggy Pop resta nonostante tutto un eroe) e si gioca la carta della disperazione: l’infermità mentale.

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Mick Jagger in 29 dichiarazioni

Sappiamo che un sacco di gente non ci ama perché dice che siamo trasandati e non ci laviamo. E allora? Non sono obbligati a venirci a vedere, no? Se non gli piacciamo girino alla larga! (1964)

La scena musicale britannica è tremendamente noiosa al giorno d’oggi. Da secoli non accade nulla di nuovo o di eccitante. La musica pop è in un vicolo cieco perché è diventata un fenomeno troppo popolare a livello nazionale. Prima ci sono stati i Beatles, poi noi, ora non c’è nulla. (1965)

Quello che facciamo è rumore. Tutto qui. Potreste essere gentili e chiamarlo musica. (1965)

Una cosa che dirò stavolta a favore della stampa americana è che, a dispetto di tutte le assurdità scritte dai soliti idioti che vengono nei camerini a chiedere “Chi di voi è Ringo?”, riceviamo eccellenti recensioni. (1966)

Abbiamo scelto Jimmy Miller perché, a differenza di altri produttori, non è un egocentrico. Farà ciò che vogliamo noi e non soltanto quello che vuole lui. A parte questo, ho molto apprezzato il suo lavoro sui primi successi dello Spencer Davis Group. (1969)

Sapevamo da mesi che Brian era insoddisfatto; non si divertiva più, ed era arrivato il momento di sederci e parlarne. Così ne abbiamo discusso e si è deciso che la cosa migliore per lui sarebbe stata abbandonare il gruppo. (1969)

Sono così infelice per la morte di Brian. Così sconvolto, senza parole e triste. Qualcosa se n’è andato. Ho davvero perso qualcosa. Spero che Brian abbia trovato la pace. (1969)

Non ho nessuna fretta di “sistemarmi”. Potrò magari avere figli e sposarmi, ma starmene tranquillo mai. Non sono il tipo. (1970)

Se Dio vuole che io diventi una donna, allora lo diventerò. (1971)

Non mi diverto a essere un uomo sposato. Non sono d’accordo sull’idea della famiglia intesa come unità. Non l’approvo e trovo che non funzioni, che sia superata. (1972)

La maggior parte dei gruppi ha nei confronti del denaro l’atteggiamento spensierato che io ho avuto per circa otto anni… Non me ne curavo e basta. E nessuno dei manager che ho avuto si è mai preoccupato di pagare le tasse, anche se a me dicevano che le pagavano. Così dopo avere lavorato per otto anni ho scoperto alla fine che nessuno le aveva mai pagate e che dovevo al fisco una fortuna. E allora mi sono detto: “Fanculo, dovrò proprio lasciare questo paese”. Metà del denaro che ho guadagnato mi è stato rubato. Ci sono pochissime persone oneste nel business della musica. (1972)

A trentatré anni mollerò tutto. Quello è il momento in cui un uomo deve fare qualcos’altro. Cosa di preciso non lo so. È ancora un’idea allo stato embrionale, ma non avrà a che fare con il mondo dello spettacolo. Non voglio essere un cantante di rock’n’roll per tutta la vita. Non potrei sopportare di finire come Elvis Presley a cantare a Las Vegas per tutte quelle casalinghe e vecchie signore con la loro sporta. È davvero deprimente. A Elvis probabilmente piace. Buon per lui, se è quello che vuole. Ma non fa per me. (1972)

Essere all’altezza della tua immagine è l’aspetto più sfibrante delle tournée. L’unico modo per riuscirci è quello di rispecchiare sempre l’idea che la gente ha di Mick Jagger. Non costa fatica una volta che ci sei dentro, ma ti può rendere irritabile. È perché si è sempre sotto pressione che si finisce per essere sgarbati, presuntuosi. Quel che conta è non esagerare. Ma non credo che alla gente dispiaccia se sono presuntuoso: tutte le rockstar lo sono. (1972)

Ron Wood doveva soddisfare sia me che Keith. Io forse posso indovinare se uno è un buon chitarrista, ma Keith può sicuramente capirlo meglio di me. Wood è parso la scelta più ovvia, anche in considerazione del fatto che sia lui che Keith sono ottimi chitarristi ritmici. Questo permette un certo scambio di riff incrociati che prima non era possibile. Ed entrambi sono in grado di fare degli assoli; forse Keith dovrà farne di più di quando c’era Mick Taylor. (1975)

Non c’è davvero motivo di portare le donne in tournée, a meno che non abbiano un lavoro da svolgere. L’unica altra ragione è per scopare. Diversamente si annoiano… stanno in mezzo ai piedi e rompono il cazzo. (1975)

Non ci ho mai tenuto veramente a venire considerato il leader del gruppo. Ma in qualche modo fui io a diventare automaticamente il centro dell’attenzione, forse perché avevo le caratteristiche più facilmente riconoscibili. E a Brian questo non andò giù, avrebbe voluto essere lui il leader riconosciuto, ci teneva molto, molto più del sottoscritto. Penso che sia questo che ha fottuto Brian, il suo disperato bisogno di attirare l’attenzione della gente. Voleva essere ammirato e amato, e lo fu da un sacco di gente… ma per lui non era mai abbastanza. (1976)

Non lo sopporto, il rock’n’roll dei primordi. Non ascolto mai Elvis Presley, Chuck Berry, Carl Perkins o chiunque altro di quella generazione. Li ascoltavo quindici anni fa, tante grazie, non mi interessa ascoltarli ora. (1976)

Mi considero fortunato e una delle ragioni è perché quando canto, o suono, o recito, o qualsiasi altra cosa, mi sento un bambino di undici o dodici anni. Posso anche comportarmi come un uomo di trentaquattro, ma quando canto… torno indietro nel tempo. Penso sia così per molti musicisti, attori e ballerini. La gente ha invidia di questo. (1978)

Se definirci o no ancora un gruppo di successo dipende da su cosa lo misuri, il successo. Vendiamo più o meno due milioni di copie di ogni album. Niente, se lo paragoni ai Fleetwood Mac, ma ci sono tanti che non arrivano a ventimila copie di un LP; due milioni non è davvero malaccio. Penso che negli album subito prima di “Some Girls” le belle canzoni non mancassero: quello che mancava, probabilmente, era una direzione. (1979)

Il rock’n’roll dal vivo è una strana faccenda: a volte fai il figo, altre ci scherzi, altre ancora ti comporti da autentico pagliaccio. Tutte le volte che mi cambio di costume… ecco, mi fa venire in mente il music hall. Se sei a Broadway è consentito fare il buffone, sei un Attore, con la “a” maiuscola. Ma se sei un musicista rock… il pubblico pretende sempre che tu sia sincero, autentico. (1979)

È rarissimo che io prenda delle droghe. Non le amo affatto. La cocaina è merda: è facilissimo diventarne dipendenti. E costa cifre assurde! (1980)

Non ho mai invitato i giovani a provare eroina e cocaina e non lo farei mai. Non penso siano esperienze positive per una persona che sta crescendo. Per un adulto magari il discorso può essere un po’ diverso, ma un adolescente… non sarà mai in grado di controllarsi. Quando sei un ragazzo droghe e alcool possono essere influenze davvero distruttive. Non vanno assolutamente incoraggiate. Si è parecchio ricamato su Brown Sugar, ma non è per niente una canzone sulla droga, meno che mai sull’eroina. Parla, semplicemente, di una ragazza che mi capitò di conoscere in California. Leggiti con attenzione i testi che ho scritto: non ne troverai nessuno che esalta i cosiddetti paradisi artificiali. Al contrario, ti imbatterai in più di uno che li sconsiglia. Disapprovo le droghe pesanti, le ho sempre disapprovate e ti assicuro che non sto dicendo tutto questo perché ansioso di dare una ripulita alla mia immagine pubblica. Pensa a Connection, che ha un testo scritto da Keith che racconta quanto ti incasini la vita essere schiavo dell’eroina. Non è una canzone pro-droga: è decisamente anti. Sister Morphine, che è di Marianne Faithfull, parla di un incidente automobilistico principalmente e, sì, c’è qualche accenno all’“essere stonati” ma… è la vita. Ma non abbiamo in repertorio un solo brano che dica: “Dai, facciamoci come bestie”. (1982)

Spesso si sente affermare che molta gente che ha incontrato i Rolling Stones alla fine si è ritrovata nei guai: rovinata, morta, con problemi di droga e cose del genere. Che la band sarebbe una specie di forza malvagia che distrugge la vita delle persone. Io dico che, se cose del genere sono accadute, è stato per disgrazia. Non credo di essere uno che prende la gente e di proposito, o anche non di proposito, le rovina la vita. È inevitabile che nei rapporti ci siano delle rotture, che si creino dei casini… Molta gente, nell’ambiente artistico, ha problemi di droga e di stress. Non succede solamente fra i musicisti, è il mondo dello spettacolo in generale a essere stressante. Quando si fa quel genere di vita, a lungo andare, accadono delle disgrazie. Accadono, semplicemente, magari senza che nessuno abbia colpe specifiche. Quando mi domando “Io ho mai danneggiato qualcuno?” la risposta che mi do è “Se l’ho fatto, è stato senza rendermene conto”. Ma nessuno mi venga a dire, ad esempio, che ho rovinato Brian Jones. O, meno che mai, Marianne Faithfull. Marianne, c’è mancato poco che fosse lei ad uccidere me! Non so come ho fatto a uscire vivo da quella storia. Marianne Faithfull e Anita Pallenberg! Aiuto! (1985)

È stato Keith a insegnarmi a suonare la chitarra. Altre due persone, Ronnie Wood ed Eric Clapton, mi hanno dato una mano in un paio di occasioni. Avevo imparato circa tre accordi quando avevo dodici anni ma poi avevo lasciato perdere. Non pensavo di avere il talento per potere suonare. C’era già tanta gente che suonava, e allora mi sono messo a fare il cantante. In seguito, quando ho voluto riprovarci, Keith mi ha incoraggiato molto. Mi ha insegnato un mucchio di cose. Come solista non valgo granché, però alla ritmica me la cavo… Ma resto più un ballerino che un chitarrista. (1985)

Anche se non provi alcun piacere nell’offendere la gente, e io non sono certo il tipo cui piace farlo, se sei onesto finisci inevitabilmente per ferire qualcuno. È successo, succederà, ma io non ci provo gusto. Prendi Under My Thumb, che è considerata esemplare di un mio presunto atteggiamento maschilista. Bene, parla di una tipa che ci è andata giù pesante. La gente non si cura di ascoltare con attenzione. Racconta di una ragazza “che un tempo mi rese suo schiavo”. Non la trovo per niente misogina, io. E poi è ironica, noi inglesi siamo soliti prendere la vita così. (1985)

Gli LP d’esordio della maggior parte dei complessi sono freschi, pieni di entusiasmo, ma l’elenco delle loro qualità finisce lì. Se li si giudica con obiettività sono scadenti, perché il gruppo era ancora acerbo. Il primo album degli Stones non è male. Ha un bel sound, se si considera l’epoca in cui fu inciso, ma dopo un po’ che lo ascolti si fa noioso, perché musicalmente è troppo grezzo. Velocità e voglia di suonare sono le uniche cose che ha da offrire. (1985)

I nostri fans non amano le ballate. Non vogliono sentirle. Non da noi, per lo meno. Appena attacchiamo qualcosa di lento, loro vanno a cercare i panini. (1985)

Mi diverte suonare con gli Stones, ma sono arrivato al punto in cui mi fermo a pensare e mi rendo conto che sono stato con loro per molto tempo. Siamo insieme da ventitré anni. Davvero molto tempo. Ogni volta che voglio fare qualcosa al di fuori dal gruppo la gente dice: “Ecco, ha intenzione di andarsene”. Abbiamo lavorato un anno intero per dare alle stampe “Dirty Work”. Adesso sento la necessità di fare altre cose, in qualsiasi campo, cinema, video, concerti, libri, qualsiasi nuova esperienza. I Rolling Stones non sono l’unico interesse nella mia vita. Non ho più diciannove anni, quando tutto quello che desideravo era suonare in una band e farmi conoscere dal pubblico. Gli Stones hanno fatto tutto quello che dovevano fare e forse di più ancora. Ho raggiunto tutti i miei obiettivi. Sono orgoglioso del gruppo. Ma sento il bisogno di fare altre cose per mantenermi vivo. (1986)

Se abbiamo più o meno energia rispetto a venticinque anni fa è un quesito che non dovreste porre a noi bensì alle nostre donne. E, no, non facciamo tour solo per i soldi: ci state confondendo con gli Who. Quanto al fatto che questa sia o no la nostra ultima tournée lascio a voi pronosticarlo, tenendo conto che la domanda ci fu posta per la prima volta nel ’66. (1989)

 Fonti – “Best”, Roy Carr, Bill Flanagan, “Melody Maker”, “Musician”, “New Musical Express”, “Popster”, “Rock & Folk”, “Rolling Stone”. Traduzioni e assemblaggio miei. Pubblicato per la prima volta su “Satisfaction”, n.1, novembre 1994.

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Il Mucchio n.695

È in edicola il numero 695 del “Mucchio”. Ho contribuito con un intervento a latere di un’intervista a Luca Sapio e con recensioni degli ultimi album di Geoff Barrow & Ben Salisbury, Cornershop, Hospitality, Killing Joke, Of Monsters And Men, Frankie Rose e Sea + Air. Nella sezione “Classic Rock” firmo un articolo su Woody Guthrie e una “Pietra miliare” dedicata a “Graceland” di Paul Simon e mi occupo inoltre delle più recenti ristampe di Blind Alley e Blues Traveler.

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Non si esce vivi dagli anni ’80 (14)

Ho dedicato due articoli in vita mia ai Triffids. Il secondo uscì su “Blow Up” nel 1999, è oggettivamente assai più bello di questo ma purtroppo venne scritto  in una circostanza ben più triste, all’indomani della morte di David McComb. Per la mia generazione un piccolo Jim Morrison che visse un po’ di più di quell’altro ma ahilui non tantissimo. A questo primo pezzo sono però molto affezionato perché scriverlo fu una faticaccia tanto improba quanto piacevole. La preparazione incluse fra il resto un pomeriggio passato a casa di Federico Guglielmi registrando su una C7 una paccata di singoli australiani dei quali era probabilmente in quel momento l’unico possessore italiano. E forse lo è ancora.

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Bonnie “Prince” Billy – Hummingbird (Spiritual Pajamas)

In tutta franchezza: di Will Oldham aka Palace (Brothers, Music, Songs) ma soprattutto (dal 1999 pressoché esclusivamente) aka Bonnie “Prince” Billy mi ero un po’ stufato. Troppi, troppissimi dischi e un po’ troppo simili fra loro e soprattutto, dopo l’autentico capolavoro che per primo esibiva in copertina la griffe, ossia quel “I See A Darkness” di cui il Nostro promette/minaccia un’imminente rielaborazione, quasi mai baciati da un’ispirazione almeno paragonabile. Spesso collezioni di stereotipi incapaci di aggiungere alcunché a un canone da lungi concluso, impermeabile a qualsivoglia aggiunta significativa. Detto più prosasticamente: due palle… Anche perché uno può pure rifare sempre lo stesso disco, ma a patto di tirar fuori ogni tanto una canzone indimenticabile. E non mi sembra sia stato il caso. Poi, per carità, magari me li sono fatti scappare io per colpevole negligenza altri brani degni di essere rifatti da un Johnny Cash e, insomma, di entrare a pieno diritto in un catalogo maggiore di Americana.

Non saprei allora dire per quale ragione (non per averne letto; probabilmente per le particolari modalità di pubblicazione l’ultima uscita dell’uomo del Kentucky è a oggi passata inosservata) ho deciso di buttare un orecchio a questo EP: disponibile (si fa per dire; mille copie distribuite lo scorso 21 aprile, in occasione del “Record Store Day”) come 10” in vinile, e i pezzi sono in tal caso tre, oppure in download e si aggiunge una quarta traccia che è però una seconda versione (ognimmodo diversissima) di quella che battezza il tutto. La cosa migliore di Oldham da un sacco di tempo in qua? Magari pure perché si limita a fare l’interprete e lo fa invero splendidamente, alle prese all’inizio e alla fine con il Leon Russell di Hummingbird, prima reso come una collisione insensatamente bella di soul, psichedelia e country-gospel (immaginate: se Prince fosse stato uno della Band) e poi come una Knockin’ On Heaven’s Door alternativa. In mezzo, con una Tribulations (Estil C. Ball) dritta dai solchi di “O Brother, Where Art Thou?” e una Because Of Your Eyes (da Merle Haggard) che ticchetta blues rurale fra il languido e l’accorato. Un quarto d’ora in tutto e una tantum avrei gradito qualche minuto in più da costui.

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Miles Davis 1969-1975: brodo di cagne eretico

Una retrospettiva sulla rivoluzione elettrica davisiana che, per ragioni che oggi mi risultano incomprensibili (nel senso che proprio non me le ricordo), decisi di non includere in Scritti nell’anima. Consideratela una outtake.

Il Miles Davis odierno merita, per la musica che suona e per come si comporta quando la presenta dal vivo, la descrizione che Nietsche diede di Wagner: ‘Il più grande esempio di autodegradazione nella storia dell’arte’. Davis, nella prima metà della sua carriera, fece cose degne ed era per molti l’epitome dell’artista afroamericano incompromissorio, ma la sua caduta dalla Grazia è stata rovinosa – e applaudita. Come di norma accade, è stata la chiave del suo successo. Nello sforzo disperato di mantenersi ai vertici della musica moderna, di non rinunciare a uno stile di vita dispendioso, di continuare a essere ammirato per la genialità delle sue presunte innovazioni, Davis ha scelto di girare la schiena al bello e genuflettersi di fronte al commerciale.

Una volta un modello di eleganza, ora si presenta alla ribalta avvolto nei paramenti di costoso cattivo gusto del rock’n’roll. Passeggia per il palco, si mette testa a testa con il sassofonista mentre fanno un duetto, si piega e rimane a lungo in quella ridicola posizione, soffiando nella tromba rivolta al pavimento. Invita poi la sua percussionista bianca seminuda a fare una sorta di danza della giungla accompagnandosi con una talking drum. Mostra la lingua ai fotografi e dirige con cenni delle mani un flusso di banalità elettroniche. La sua tromba è amplificata in maniera tale che il suono che ne sortisce non può far altro che riflettere, con la sua decadenza, l’imputridimento della sua anima.

Concerti e dischi terribili a parte, Davis è diventato uno dei più notevoli leccapiedi del mondo dell’industria musicale, sempre pronto a prostituirsi come le donne che lo mantenevano quando era un tossico.

Per un attimo è stata una tentazione quasi irresistibile: mettere in fila i dischi di Miles Davis del periodo ’69-’75, dare a tutti cinque stellette (non che siano tutti capolavori ma la loro rilevanza è tale da non potere essere misurata con i criteri di valutazione ordinari) e accompagnare ciascuno con una stroncatura d’epoca. A epigrafe del tutto, quella frase di Fredrich von Schiller che recita: “Contro la stupidità degli Umani, nemmeno gli Dei possono nulla”. Avrebbe però voluto dire presupporre da parte dei lettori una conoscenza dell’opera davisiana che è probabilmente di un’esigua minoranza (anche se voglio credere che i più abbiano a casa “Bitches Brew” e tanti – spero – “On The Corner”) e non amo predicare ai convertiti escludendo gli altri. Non ho voluto però rinunciare, per la sua paradigmicità, a una citazione estesa di Stanley Crouch. Costui non ha nemmeno la scusante della contemporaneità che a volte acceca: scrive difatti nel 1990 (il frammento riportato attacca il Davis degli ’80, ma all’interno di un discorso più generale che riguarda l’opera del trombettista dal 1969 in avanti) e nella sua foga rancorosa neppure si rende conto di incappare in significative incongruenze. Falsifica la storia adducendo ragioni commerciali per una svolta stilistica che, dopo il passeggero entusiasmo suscitato da “Bitches Brew”, fu controproducente sul piano delle vendite. Accusa Miles Davis di sessismo dopo aver dato del frocio a Prince. Lo taccia di razzismo, mandandogli a fare compagnia i Public Enemy, e non si accorge che è un po’ sospetto che noti il colore della pelle, bianca, della sua percussionista (per inciso: Crouch è nero). Del resto, il Nostro ha sempre avuto i suoi problemi con i bianchi che lo accusavano di essere un assertore della supremazia nera e la sua gente che gli rinfacciava di usare musicisti bianchi. Quando si riesce a fare incazzare tutti, la regola è che si ha ragione. Nessuno ha fatto incazzare i critici quanto Miles Davis.

A ventisei anni dalla pubblicazione “On The Corner”, una delle opere d’arte più significative e influenti di questo secolo, prende due stellette (su cinque) sulla più prestigiosa delle guide al jazz, quella della Penguin. Medesima valutazione lo aveva salutato all’uscita su “Down Beat”: “ripetitivo e noioso”, lo aveva trovato il recensore. “Un insulto all’intelligenza della gente”, rincarò la dose Bill Cole, biografo di Davis. E non crediate che a essere sordi fossero (siano) solo i giornalisti, ché certi colleghi jazzisti non scherzavano. Questo è Stan Getz che parla di “On The Corner”: “È musica senza nessun valore. Non vuol dire nulla. Non c’è forma né contenuto e a malapena swinga. I solisti suonano mezzo tono sopra o sotto per sembrare moderni, ma non hanno fondamenta sulle quali costruire. Non c’è niente che sia logico. Niente”.

Mai avuto un buon rapporto con la critica, Miles Davis. Il suo primo contributo significativo all’evoluzione del jazz fu la partecipazione, con Dizzy Gillespie e Max Roach, alla registrazione di Billy’s Bounce/Now’s The Time di Charlie Parker, un 78 giri epocale. Così lo commentò “Down Beat”: “Queste due facciate sono ottimi esempi della nuova mania di Gillespie, del cattivo gusto e del fanatismo sconsiderato che sono propri di Dizzy quando il suo stile perde ogni freno. Solo Charlie Parker, che vale ben di più sotto il profilo musicale e comunque merita maggior credito di Gillespie come stilista, solo lui salva i brani dal disastro. Per di più, Dizzy è in forma assai scadente: con una cattiva ancia ed errori di emissione non scusabili non si farà mai del buon jazz. Il trombettista, chiunque sia il giovinetto traviato, suona Gillespie alla stessa maniera in cui la maggior parte dei ragazzi imitano il loro idolo: con tutti gli errori, o quasi, con assoluta mancanza di ordine e senso, adeguandosi ciecamente a qualsiasi acrobatismo tecnico”. Era il 1945, il “giovinetto traviato” aveva diciannove anni e prese subito la buona abitudine di non curarsi di quanto scrivevano di lui. Nondimeno da allora fino ai tardi ’60, pur fra qualche scambio di fendenti, la stampa idolatrò Miles e lo seguì dappresso in una carriera in costante divenire come nessun’altra.

Il Miles Davis che elettrifica la sua musica suscitando più scandalo di Bob Dylan ha alle spalle una storia ultraventennale e impareggiabile: fra i protagonisti del movimento bebop nell’immediato secondo dopoguerra, ha letteralmente inventato il cool jazz nel 1949 per poi darsi all’hard bop a metà anni ’50, al ritorno in scena dopo un primo ritiro, e aprire la strada al jazz modale nel 1959 con “Kind Of Blue”, album che in molti ritengono il massimo capolavoro della storia del genere. Non bastasse, ha fatto da levatrice a un paio di generazioni di musicisti, e sia sufficiente un nome per chiarire la sua rilevanza: John Coltrane. Da alcuni anni suona con quello che è a giudizio dei più il suo migliore quintetto di sempre: Wayne Shorter al sax, Herbie Hancock al piano, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Con codesti fiancheggiatori, tutti parecchio più giovani di lui (come sarà sempre da qui in avanti), ha messo insieme un gruzzolo di dischi, sia in studio che dal vivo, che sono annoverati da tutti fra le sue opere maggiori: più degli altri “ESP”, i due volumi di “Live At Plugged Nickel”, “Miles Smiles”, “The Sorcerer”. È però inquieto. Al giro di boa dei quarant’anni, per la prima volta si vede scavalcato nella ricerca di strade nuove per il jazz dalla pattuglia della cosiddetta “new thing” (l’ex-allievo Coltrane, Albert Ayler, Cecil Taylor) e il timore di venire considerato un sopravvissuto lo attanaglia. Lucrare sul passato non fa per lui: inconcepibile l’idea di tornare sui suoi passi, lo è altrettanto quella di perpetuare ulteriormente lo stile per il quale è applaudito in quel momento. Montano poi in lui il fastidio per la percentuale sempre più bassa di neri e di giovani nel suo pubblico, l’ammirazione per James Brown e Jimi Hendrix, il desiderio di recuperare le radici rhythm’n’blues.

Fin dal 1967 crebbe in me la voglia di dare un tocco chitarristico alla mia musica. Cominciai ad ascoltare molto James Brown e mi piaceva il modo in cui usava la chitarra. Ho sempre amato il blues. Ascoltavo Muddy Waters e B.B. King e cercavo di trovare un modo per incorporare elementi del loro stile nel mio. Avevo imparato tanto da Herbie, Tony, Wayne e Ron e ormai quanto appreso nei tre anni passati insieme era stato metabolizzato. Iniziavo dunque ad avvertire l’impulso a cambiare, anche se non sapevo ancora bene in quale direzione mi sarei mosso. L’unica cosa che mi era chiara era che nella mia musica avrebbe dovuto trovare spazio la chitarra e che sarebbe stato interessante amplificarla e studiare gli effetti dell’elettrificazione. Ogni volta che mi era possibile andavo a vedere Muddy Waters ed ero sempre più persuaso che qualcosa della sua musica dovesse entrare nella mia. Il suono di una batteria da pochi dollari, dell’armonica, i blues da due accordi. La mia musica con il quintetto si era fatta davvero astratta e per quanto fosse figo suonarla volevo tornare a casa.

Miles vuole essere ricco, vuole avere potere, e l’unico modo di ottenere certe cose è rimanere al vertice della propria professione. Non si è mai rassegnato all’idea di essere un ricordo, qualcuno che vai a vedere perché una volta ti piaceva. Vuole essere qualcuno che piace alla generazione del momento. E ha sempre fatto così… È uno che sa sempre inventare la musica giusta per la generazione di domani.” (Dave Holland)

Parlare per il Miles Davis di “In A Silent Way” di “svolta” è nel peggiore dei casi un grossolano errore, dettato da ignoranza o pregiudizio, e nel migliore una convenzione, tanto diffusa tuttavia che mi tocca in parte adeguarmi. Più che per lo stile esposto, “In A Silent Way” segna un momento di frattura per il personale: è il primo LP senza Ron Carter e l’ultimo con Tony Williams. La migliore sezione ritmica che sia mai stata al servizio del Nostro prendeva strade diverse. Ad ascoltare l’ultimo album in cui aveva suonato insieme, “Filles De Kilimanjaro”, appare però lampante che l’ennesima rivoluzione davisiana era già avviatissima. Con il senno di poi i prodromi sono individuabili addirittura in “ESP”, lavoro risalente al 1965 con un brano, Eighty One, in cui la batteria di Williams è inequivocabilmente rock. Quanto al 33 giri che precedette di pochi mesi “Filles”, vale a dire “Miles In The Sky”, nel corteggiamento alla nazione della Summer Of Love non si limitò a una copertina psichedelica: Hancock suona il piano elettrico, le cadenze di Williams sono implacabili e in uno dei quattro titoli, Paraphernalia, si fa largo la chitarra del giovanissimo George Benson.

Dicendo bene di “Filles De Kilimanjaro” e viceversa stroncando, oltre a tutto quanto gli è andato dietro, “In A Silent Way”, Stanley Crouch e la sua schiatta evidenziano tutta la loro livida malafede, dacché il primo suona molto più “rock” del secondo: parlano chiaro al riguardo la tastiera alla James Brown di Frelon Brun, il basso ostinato dell’ipnotica title-track e il tempo in 12/8 di Mademoiselle Mabry, prossimo tanto al blues di Chicago che ai complessi percussivi africani. In Tout De Suite, facendo convivere un valzer carico di swing con il secco incedere rock che caratterizzerà i Lifetime, Tony Williams verga con nove mesi di anticipo il suo addio al quintetto. Memorabile.

“In A Silent Way” ha un’andatura assai più quieta e finisce per risultare affine, nelle atmosfere, a quel “Kind Of Blue” che lo aveva preceduto esattamente di dieci anni. È un album dalle fragranze notturne, costruito su strati acquarellistici di tastiere (piano elettrico e organo, suonati da Hancock, da Chick Corea e dal nuovo arrivato Joe Zawinul) sui quali la tromba di Davis si staglia liricissima, echeggiando lo storico, orchestrale “Sketches Of Spain” (1960) ben più che i lavori a venire, nei quali sarà a sprazzi irosa e spesso tagliente come mai era stata. Aggiuntosi all’ultimissimo momento (solo il giorno prima delle registrazioni, effettuate il 18 febbraio 1969), John McLaughlin (secondo inglese e bianco del gruppo dopo Dave Holland, sostituto di Ron Carter) suona sofficemente funky in Shhh/Peaceful e crepuscolare nell’incipit della traccia omonima, laddove la sua chitarra dialoga con il piano elettrico con lingua piana e suadente.

La rivoluzione di “In A Silent Way” non è nella musica ma nell’uso della sala d’incisione. Piuttosto che registrare varie versioni dello stesso brano e scegliere poi la migliore come da sempre si faceva, il geniale produttore Teo Macero, in perfetta simbiosi con Davis, seleziona una serie di sequenze sonore e le taglia e cuce insieme come se stesse montando un film. La sacralità dell’Esecuzione viene per la prima volta posta in discussione. Frutto di estese manipolazioni, la versione finale che si ascolta su disco non sarà d’ora in avanti che una delle tante versioni finali possibili: un concetto che informa tutta la musica odierna.

Se a qualcuno non piace ciò che ho fatto, da qui a vent’anni può riprendere tutto in mano e rifarlo. Non esistono più prima take, seconda take eccetera. Tutto ciò che si suona in studio viene messo su nastro… L’unico momento in cui i registratori non sono in rec è quando riascoltiamo per scegliere quei frammenti che si prestano a essere accostati, creando un insieme coerente.” (Teo Macero)

“In A Silent Way” piace alla critica rock e non dispiace a quella jazz (solo a posteriori verrà visto come il principio della caduta), né a quel pubblico, tanto è vero che nel referendum di fine anno fra i lettori di “Down Beat” risulta il terzo migliore LP del 1969 (il primo è “Filles De Kilimanjaro”). Tocca a “Bitches Brew” evidenziare il conservatorismo del mondo del jazz, con il quale rompe sin dalla bellissima copertina di gusto afro-psichedelico. Più di quella (ve n’erano già state diverse altre di sapore hippie), risulta però spiazzante, per chi da Davis scioccamente si attendeva che si fermasse per sempre a My Funny Valentine, la musica: densa di ritmi funky e africani, fragrante di aromi etnici, sostenuta da un basso di fissità inaudita e sfregiata da una chitarra che ha accenti tanto latini che hendrixiani. Quanta musica, poi! Più di un’ora e mezza in cui perdersi.

È stato annotato da taluni che Pharaoh’s Dance, a lungo soffusa e circolare prima di cedere a un gioco di vuoti e pieni, quiete prima e dopo la tempesta di frenesie torridamente rock (McLaughlin è stellare), è una strana scelta come inizio, un anticlimax. Personalmente la trovo perfetta, perché sono proprio quei primi minuti a riallacciarsi e dare l’addio all’universo sonoro in qualche maniera ancora “classico” di “In A Silent Way”. Dopo, tutto diventa possibile: la fenomenale combinazione di grooves dallo spazio profondo e paesaggi sonici proto-ambient del brano che intitola il doppio e ne occupa per intero, con i suoi ventisette minuti, la seconda facciata e la batteria in levare e il tocco boogaloo di Spanish Key, il blues astratto di Miles Runs The Voodoo Down e l’implosione di Sanctuary.

Firma quest’ultima composizione Wayne Shorter, ultimo superstite dell’antico quintetto (Zawinul firma Pharaoh’s Dance; il resto è di Davis). Fiancheggiano il Nostro, la cui tromba è ora sorniona, ora torrenziale, i musicisti dell’album precedente, con un Herbie Hancock e un Tony Williams in meno (li rilevano Larry Young e Jack DeJohnette) e un sostanzioso “più” rappresentato da altri due batteristi (Lenny White e Charles Alias), un percussionista (Jim Riley),un secondo bassista (Harvey Brooks) e un clarinettista (Bennie Maupin).

Nella fitta campagna concertistica che seguirà la pubblicazione nell’aprile del 1970 di “Bitches Brew”, Davis si farà accompagnare da formazioni meno numerose. Al Fillmore West, in aprile, sono con lui Steve Grossman (sax; Wayne Shorter aveva lasciato in febbraio, così come Zawinul), Chick Corea, Keith Jarrett (organo), Dave Holland, Jack DeJohnette e Airto Moreira (percussioni). In giugno al Fillmore East si presenta senza Jarrett ma per il resto con i medesimi elementi. È in quei due mesi che si consuma la definitiva frattura con la stragrande maggioranza della critica jazz e larga parte del pubblico che lo aveva seguito sino a “In A Silent Way”. Documentati da due strepitosi doppi dal vivo (“Black Beauty” e “At Fillmore”) i concerti nei due locali di Bill Graham suscitano reazioni isteriche negli ambienti jazz: non soltando Davis va a suonare per la nazione rock, accettando di fare da spalla alla Band come a Laura Nyro, ma preme anche fino a fondo corsa sul pedale della contaminazione. Non vale che manchi l’esecranda chitarra di McLaughlin se la musica è sempre più compatta e poliritmica, autentica celebrazione sciamanica senza soluzione di continuità in cui in cui non si riesce più a riconoscere un tema (tant’è che i quattro lati di “At Fillmore” hanno come titoli i quattro giorni della settimana in cui furono registrati). Mentre un nuovo pubblico sembra accoglierlo a braccia aperte (“Bitches Brew” vende 400.000 copie negli Stati Uniti contro le 70.000 medie dei dischi del trombettista nel decennio precedente), il vecchio vede sempre più in Miles Davis un apostata.

Quando l’anno dopo vede la luce “A Tribute To Jack Johnson” (registrato il 7 aprile e l’11 novembre 1970) l’incomunicabilità fra Davis e la scena da cui proviene si fa totale. È l’album più sottovalutato del trombettista e uno dei primi che vi consiglio di procurarvi, dopo “On The Corner”, “Kind Of Blue”, “Bitches Brew”, “Birth Of The Cool”, “Sketches Of Spain” e uno fra “ESP” e “Filles De Kilimanjaro”: in quest’ordine; non vi sembreranno tanti una volta che li avrete. È il disco più chitarristico del Nostro: non accreditati in copertina (il primo lo è sull’edizione attuale, il secondo seguita a restare una presenza anonima) John McLaughlin e Sonny Sharrock inanellano riff e assoli prodigiosi, su una sezione ritmica bollente che vede all’opera il redivivo Herbie Hancock alle tastiere, Michael Henderson (già con Aretha Franklin e Stevie Wonder) al basso e Billy Cobham alla batteria. Davis – ultimo e supremo dei sacrilegi – applica filtri elettronici al suo strumento e pennella tocchi superbamente impressionistici. Quando la musica non è ferocemente hendrixiana (Right Off) è dilatata (Yesternow) come a pochissimi maestri della psichedelia e del krautrock è riuscito. Heavy me(n)tal jazz!

Dell’anno più frenetico della vita di Davis è ulteriore testimonianza l’ennesimo doppio, parte in studio e parte dal vivo, “Live/Evil”. Non fosse magnifico di suo (l’apice è What I Say, al quale i Television di “Marquee Moon” – come dire? – si ispireranno parecchio), meriterebbe l’acquisto anche soltanto per la meravigliosa copertina afromitologica. Il 1971 è un anno di pausa e difficile. Travagliato da problemi sentimentali e di salute (viene operato di calcoli), con l’eccezione di un tour europeo in autunno Miles Davis resta fermo. Nel gruppo si susseguono arrivi, partenze e ritorni. Pazienti ricerche negli archivi della Columbia hanno consentito di ricostruire il folto organico impegnato nelle sedute di registrazione del 1° e 6 giugno 1972 che frutteranno “On The Corner”: sempre presenti Henderson e DeJohnette, ci sono fra gli altri anche McLaughlin, Corea e Hancock, uno straripante Colin Walcott al sitar e un inedito Teo Macero, al sax oltre che dietro il mixer.

Nessuna di queste informazioni è presente sulla copertina della prima stampa dell’album, per un capriccio del Nostro, desideroso di rendere la vita dura ai critici. Quelli jazz, abbiamo visto come l’accolsero. La stampa rock ne parlò al contrario con entusiasmo. Le vendite partirono fortissimo (un sollievo per Davis e per la Columbia, dopo i risultati deludenti degli LP post-“Bitches Brew”), ma furono gravemente danneggiate dal nuovo stop imposto al trombettista da un incidente automobilistico. Il feeling perduto non sarà riconquistato che negli anni ’80.

“On The Corner” è all’apparenza compatto come un monolite, ma se ci guardi attraverso con attenzione è un prisma che non smette mai di mostrare nuove immagini. Vi convivono, inestricabilmente intersecate, le dimensioni in apparenza inconciliabili del duro funk di strada di George Clinton, di Sly Stone e di James Brown (la batteria di Black Satin riprende pari pari quella di Cold Sweat) e dell’avanguardia colta europea di Stockhausen (al cui culto, come a quello dei concerti per archi di Bach, Davis era stato iniziato dall’arrangiatore e violoncellista britannico Paul Buckmaster). Minimalista e nel contempo incredibilmente stratificato, lisergico e ritmicamente carico all’estremo, è il disco senza il quale sono inimmaginabili James White e James “Blood” Ulmer, i Material e i Defunkt, i Living Colour e i Public Enemy. Né esisterebbe, senza il Miles Davis ’69-’75, quella strana bestia mutante che chiamiamo post-rock.

Il resto di questa storia immalinconisce e voglio cavarmela in fretta. Fermato nel momento più improvvido dal fatidico incidente, Davis vede calare la sua popolarità. Mentre i suoi ex-gregari passano alla cassa – Shorter e Zawinul con i Weather Report, McLaughlin con la Mahavishnu Orchestra, Herbie Hancock con gli Head Hunters (il cui omonimo album d’esordio del 1974 è il più venduto della storia del jazz) – il trombettista si trova a volte a suonare in sale semivuote. Né i dischi sono esattamente dei campioni di vendite. Ma sono uno più bello dell’altro. Nel 1973 esce “In Concert”, esemplare alterego live di “On The Corner”. L’anno dopo è la volta del doppio in studio “Get Up With It”, con registrazioni che vanno dal maggio ’70 al giugno ’74 e la struggente elegia per Duke Elington di He Loved Him Madly, 32:16 di jazz psichedelico come mai se n’era udito e probabilmente mai più si udirà.

Il congedo è affidato a tre doppi dal vivo: “Dark Magus”, “Agharta” e “Pangaea”, il secondo e il terzo registrati in Giappone, il primo e il terzo a lungo disponibili solo là. In essi, tanto le intuizioni di “Bitches Brew” che quelle di “On The Corner” vengono portate alle estreme conseguenze.

In condizioni di salute (deve andare una volta di più sotto ai ferri per un’operazione all’anca) e mentali pessime, per cinque anni Davis vive da recluso, un amareggiato Howard Hughes preda della cocaina come lo era stato in gioventù dell’eroina. Ritornerà a incidere nel 1981 e farà ancora dischi eccellenti. Per la prima volta, però, la sua musica non racconterà più il futuro.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.7, settembre/ottobre 1998.

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Presi per il culto (12): Eddie And The Hot Rods – Teenage Depression (Island, 1976)

Sulla copertina di questo primo LP un tizio si punta una pistola a una tempia, su quella del successivo di un anno “Life On The Line” un altro ha il collo in un cappio: strane immagini per presentare uno dei gruppi più frizzanti – invero niente affatto depresso – di quella breve, formidabile epopea propedeutica al punk che fu il pub-rock. Volgarotto nella scelta del nome dall’ovvio sottinteso, spesso ironico nei testi e nei titoli. Fa fede la presa in giro del Bowie mitteleuropeo che nel gelido “Low” cantava Always Crashing In The Same Car, sfottuto quello stesso anno (il tumultuoso ’77) con un’alcolica e impagabile Ignore Them (Always Crashing In The Same Bar): caso esemplare di canzone che in nessun modo potrà mai essere brillante come il titolo e difatti finiva su un lato B.

La storia di Eddie And The Hot Rods prende le mosse da Canvey Island, immediati dintorni di Londra, nel 1975. Nessun Eddie figura in una formazione schierata a cinque che comprende il cantante Barrie Masters, l’armonicista Lew Lewis, il chitarrista Dave Higgs, il bassista Paul Gray e il batterista Steve Nicol. Le prime avvisaglie del punk (i Sex Pistols debutteranno in pubblico il 6 novembre) stanno scuotendo la capitale, che comincia a mettere in naftalina la boria del progressive con un pugno di formazioni – capifila i Dr. Feelgood, pur’essi di Canvey Island, che con il loro secondo 33 giri violano i Top 20 – che recuperano la semplicità del rock’n’roll primigenio  incrociandolo con il blues elettrico più scorticato e l’animalesco errebì di complessi dei ’60 come i Them, gli Animals, i primi Rolling Stones. Dopo gli anni dei concerti con l’orchestra il rock torna nelle strade o per meglio dire nei pub, siccome questi proletari in jeans e giacchetta di pelle non hanno accesso ai teatri e alle arene frequentate dalla tristanzuola armata barocco-sinfonica. E pub-rock sia, allora, e lode a precursori come Brinsley Schwarz e Ducks Deluxe. Rispetto a costoro Edoardo e le Verghe Calde suonano più grezzi, magnifici analfabeti del pentagramma con appena qualche nozioncella in più (che consente loro di dispiegare un più ampio ventaglio stilistico) rispetto al forrestgumpismo da due accordi (Eddie sa contare fino a tre) dei Ramones. Sul palco “spaccano” comunque altrettanto, con un repertorio diviso a metà fra brani autografi e riletture di canzoni altrui, e in pochi mesi si conquistano una solida popolarità locale. Il problema è ora trasporre su vinile la carica travolgente delle esibizioni dal vivo. Missione portata a compimento con il primo sette pollici, che esce nel gennaio del 1976 e regala due assalti all’arma bianca infiorettati da un’indiavolata armonica battezzati Writing On The Wall e Cruisin’ (In The Lincoln). In febbraio i nostri eroi suonano al Marquee, con i Pistols come supporto, ed è il segnale che dalla cadetteria delle promesse di quartiere sono passati alla serie A del rock albionico. Se n’è andato nel frattempo Lewis, perdita cui ovviano con un ulteriore incremento di irruenza. Due brani tratti dalla serata, una quasi commossa esecuzione di The Kids Are Alright dei maestri Who e una Been So Long dal passo incespicante, verranno inclusi nell’esordio adulto. Prima che questi veda la luce, verso fine anno, lo precederanno però un 45 giri, con sul davanti una calligrafica Wooly Bully (Sam The Sham & The Pharaohs) e sul retro una Horseplay incorniciata per l’ultima volta dall’armonica del transfuga, e un EP (sempre formato 7”) con altri quattro pezzi colti Live At The Marquee. Tutti cover e da urlo, a cominciare da una 96 Tears di Question Mark & The Mysterians che regge anche orba di Farfisa, proseguendo con una Get Out Of Denver di Bob Seger che ammette i  suoi debiti nei confronti di Chuck Berry e finendo con il medley-apoteosi fra Gloria dei Them e Satisfaction dei Rolling Stones.

Materiale da collezionisti gli originali, potete rinvenire questi brani nella stampa digitale attualmente disponibile (su Captain Oi!) di “Teenage Depression”: album che ha i suoi apici nel rock’n’roll a rotta di collo (come un Jerry Lee Lewis incazzato nero perché qualcuno gli ha fregato il piano) di Get Across To You, in una versione di Shake di Sam Cooke irriconoscibile e tanto anfetaminica da prefigurare appieno il punk, nella caracollante filastrocca All I Need Is Money, in una Double Chechin’ Woman che potrebbe essere del giovane Townshend e naturalmente nella traccia omonima: un inno.

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Simone Felice – Simone Felice (Team Love)

Provenienti da un luogo ammantato di Mito quali le Catskill Mountains, fratelli oltre che di nome di fatto, Ian, James e Simone Felice  (rispettivamente chitarra, fisarmonica e batteria) facevano in fretta a imporsi. Formatisi nel 2006 con un compagno di partite a dadi al basso (l’anno dopo l’arrivo di un violinista li rendeva un quintetto) pubblicavano al volo gli autoprodotti “iantown” (in realtà di fatto un lavoro solista di Ian) e “Through These Reins And Gone”. Complice un bel contorno di esibizioni per strada e nella metro prima che nei bar e nei club, bastavano a rendere i Felice Brothers una piccola sensazione dell’underground newyorkese. Seguivano l’ingresso nell’industria discografica ufficiale e nel breve volgere di tre anni ben altri quattro album: “Tonight At The Arizona”, “Adventures Of”, un omonimo e “Yonder Is The Clock”. Bel crescendo di qualità e riscontri commerciali, l’ultimo nei Top 20 USA e a quell’altezza tanta critica senza più cautele o giri di parole azzardava (e mi ci metto) un’affermazione forte: finalmente degli eredi per The Band. Questione non solo più di suono o immaginario ma di repertorio, ormai all’altezza. Risulterà allora alquanto spiazzante – un anno fa, di questi tempi – “Celebration, Florida”, quinto nella graduatoria principale di “Billboard” e agitato da pulsioni moderniste, fra un beat hip hop e una trama di elettronica. Comunque un bel disco, superato lo sconcerto iniziale. Presente solamente da ospite, Simone Felice aveva a quel punto lasciato la compagnia già da due anni. Dopo un paio di uscite a nome The Duke & The King, in coppia con Robert Burke, questo è il suo debutto in proprio.

Le proverbiali differenze musicali alla base della separazione artistica dai fratelli? Possibile, a giudicare da un disco che riprende il discorso all’incirca da “Yonder Is The Clock” o da appena prima. O c’entrerà forse qualcosa la salute che è poco dire malferma di questo trentaseienne che è anche un apprezzato scrittore, disastrato e miracolato assieme, quasi ucciso da un aneurisma a dodici anni e nel 2010 sottoposto a un’operazione chirurgica a cuore aperto dopo la scoperta di un difetto congenito che di nuovo lo portava a un nulla dal grande salto. “A quanto pare ero difettoso di fabbrica”, dice scherzandoci su. Disco che cominciava a concepire in quelle settimane di debolezza estrema ed emozioni indicibili: la sua primogenita nata una manciata di giorni dopo quello che avrebbe potuto essere il suo ultimo. E tutto ciò si coglie in “Simone Felice”? Direi di sì. In una malinconia che tutto avvolge, pure certi momenti esultanti. Nella piana dolcezza, nella serenità dell’insieme. E non in metafora si sente proprio alla fine, quando nel tessuto di chitarra acustica e archi di Splendor In The Grass si insinua un battito meccanico e no, non è il il suono di una drum machine bensì di una valvola cardiaca. Prima l’album aveva offerto fra il resto la metronomia blues di Hey Bobby Ray e lo slancio spiritual di You & I Belong, la serenata in forma di lamento o viceversa Courtney Love e il valzer Stormy-Eyed Sarah, una ballata in cui – unica – si riaffaccia The Band quale Dawn Brady’s Son e una Ballad Of Sharon Tate che rimanda ai R.E.M. depressi di “Automatic For The People”. Tatuato ed emaciato, in copertina Simone Felice fissa non si sa cosa: una prospettiva di anni lieti e tanti, è l’auspicio.

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