Una retrospettiva sulla rivoluzione elettrica davisiana che, per ragioni che oggi mi risultano incomprensibili (nel senso che proprio non me le ricordo), decisi di non includere in Scritti nell’anima. Consideratela una outtake.

“Il Miles Davis odierno merita, per la musica che suona e per come si comporta quando la presenta dal vivo, la descrizione che Nietsche diede di Wagner: ‘Il più grande esempio di autodegradazione nella storia dell’arte’. Davis, nella prima metà della sua carriera, fece cose degne ed era per molti l’epitome dell’artista afroamericano incompromissorio, ma la sua caduta dalla Grazia è stata rovinosa – e applaudita. Come di norma accade, è stata la chiave del suo successo. Nello sforzo disperato di mantenersi ai vertici della musica moderna, di non rinunciare a uno stile di vita dispendioso, di continuare a essere ammirato per la genialità delle sue presunte innovazioni, Davis ha scelto di girare la schiena al bello e genuflettersi di fronte al commerciale.
Una volta un modello di eleganza, ora si presenta alla ribalta avvolto nei paramenti di costoso cattivo gusto del rock’n’roll. Passeggia per il palco, si mette testa a testa con il sassofonista mentre fanno un duetto, si piega e rimane a lungo in quella ridicola posizione, soffiando nella tromba rivolta al pavimento. Invita poi la sua percussionista bianca seminuda a fare una sorta di danza della giungla accompagnandosi con una talking drum. Mostra la lingua ai fotografi e dirige con cenni delle mani un flusso di banalità elettroniche. La sua tromba è amplificata in maniera tale che il suono che ne sortisce non può far altro che riflettere, con la sua decadenza, l’imputridimento della sua anima.
Concerti e dischi terribili a parte, Davis è diventato uno dei più notevoli leccapiedi del mondo dell’industria musicale, sempre pronto a prostituirsi come le donne che lo mantenevano quando era un tossico.”
Per un attimo è stata una tentazione quasi irresistibile: mettere in fila i dischi di Miles Davis del periodo ’69-’75, dare a tutti cinque stellette (non che siano tutti capolavori ma la loro rilevanza è tale da non potere essere misurata con i criteri di valutazione ordinari) e accompagnare ciascuno con una stroncatura d’epoca. A epigrafe del tutto, quella frase di Fredrich von Schiller che recita: “Contro la stupidità degli Umani, nemmeno gli Dei possono nulla”. Avrebbe però voluto dire presupporre da parte dei lettori una conoscenza dell’opera davisiana che è probabilmente di un’esigua minoranza (anche se voglio credere che i più abbiano a casa “Bitches Brew” e tanti – spero – “On The Corner”) e non amo predicare ai convertiti escludendo gli altri. Non ho voluto però rinunciare, per la sua paradigmicità, a una citazione estesa di Stanley Crouch. Costui non ha nemmeno la scusante della contemporaneità che a volte acceca: scrive difatti nel 1990 (il frammento riportato attacca il Davis degli ’80, ma all’interno di un discorso più generale che riguarda l’opera del trombettista dal 1969 in avanti) e nella sua foga rancorosa neppure si rende conto di incappare in significative incongruenze. Falsifica la storia adducendo ragioni commerciali per una svolta stilistica che, dopo il passeggero entusiasmo suscitato da “Bitches Brew”, fu controproducente sul piano delle vendite. Accusa Miles Davis di sessismo dopo aver dato del frocio a Prince. Lo taccia di razzismo, mandandogli a fare compagnia i Public Enemy, e non si accorge che è un po’ sospetto che noti il colore della pelle, bianca, della sua percussionista (per inciso: Crouch è nero). Del resto, il Nostro ha sempre avuto i suoi problemi con i bianchi che lo accusavano di essere un assertore della supremazia nera e la sua gente che gli rinfacciava di usare musicisti bianchi. Quando si riesce a fare incazzare tutti, la regola è che si ha ragione. Nessuno ha fatto incazzare i critici quanto Miles Davis.
A ventisei anni dalla pubblicazione “On The Corner”, una delle opere d’arte più significative e influenti di questo secolo, prende due stellette (su cinque) sulla più prestigiosa delle guide al jazz, quella della Penguin. Medesima valutazione lo aveva salutato all’uscita su “Down Beat”: “ripetitivo e noioso”, lo aveva trovato il recensore. “Un insulto all’intelligenza della gente”, rincarò la dose Bill Cole, biografo di Davis. E non crediate che a essere sordi fossero (siano) solo i giornalisti, ché certi colleghi jazzisti non scherzavano. Questo è Stan Getz che parla di “On The Corner”: “È musica senza nessun valore. Non vuol dire nulla. Non c’è forma né contenuto e a malapena swinga. I solisti suonano mezzo tono sopra o sotto per sembrare moderni, ma non hanno fondamenta sulle quali costruire. Non c’è niente che sia logico. Niente”.
Mai avuto un buon rapporto con la critica, Miles Davis. Il suo primo contributo significativo all’evoluzione del jazz fu la partecipazione, con Dizzy Gillespie e Max Roach, alla registrazione di Billy’s Bounce/Now’s The Time di Charlie Parker, un 78 giri epocale. Così lo commentò “Down Beat”: “Queste due facciate sono ottimi esempi della nuova mania di Gillespie, del cattivo gusto e del fanatismo sconsiderato che sono propri di Dizzy quando il suo stile perde ogni freno. Solo Charlie Parker, che vale ben di più sotto il profilo musicale e comunque merita maggior credito di Gillespie come stilista, solo lui salva i brani dal disastro. Per di più, Dizzy è in forma assai scadente: con una cattiva ancia ed errori di emissione non scusabili non si farà mai del buon jazz. Il trombettista, chiunque sia il giovinetto traviato, suona Gillespie alla stessa maniera in cui la maggior parte dei ragazzi imitano il loro idolo: con tutti gli errori, o quasi, con assoluta mancanza di ordine e senso, adeguandosi ciecamente a qualsiasi acrobatismo tecnico”. Era il 1945, il “giovinetto traviato” aveva diciannove anni e prese subito la buona abitudine di non curarsi di quanto scrivevano di lui. Nondimeno da allora fino ai tardi ’60, pur fra qualche scambio di fendenti, la stampa idolatrò Miles e lo seguì dappresso in una carriera in costante divenire come nessun’altra.
Il Miles Davis che elettrifica la sua musica suscitando più scandalo di Bob Dylan ha alle spalle una storia ultraventennale e impareggiabile: fra i protagonisti del movimento bebop nell’immediato secondo dopoguerra, ha letteralmente inventato il cool jazz nel 1949 per poi darsi all’hard bop a metà anni ’50, al ritorno in scena dopo un primo ritiro, e aprire la strada al jazz modale nel 1959 con “Kind Of Blue”, album che in molti ritengono il massimo capolavoro della storia del genere. Non bastasse, ha fatto da levatrice a un paio di generazioni di musicisti, e sia sufficiente un nome per chiarire la sua rilevanza: John Coltrane. Da alcuni anni suona con quello che è a giudizio dei più il suo migliore quintetto di sempre: Wayne Shorter al sax, Herbie Hancock al piano, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Con codesti fiancheggiatori, tutti parecchio più giovani di lui (come sarà sempre da qui in avanti), ha messo insieme un gruzzolo di dischi, sia in studio che dal vivo, che sono annoverati da tutti fra le sue opere maggiori: più degli altri “ESP”, i due volumi di “Live At Plugged Nickel”, “Miles Smiles”, “The Sorcerer”. È però inquieto. Al giro di boa dei quarant’anni, per la prima volta si vede scavalcato nella ricerca di strade nuove per il jazz dalla pattuglia della cosiddetta “new thing” (l’ex-allievo Coltrane, Albert Ayler, Cecil Taylor) e il timore di venire considerato un sopravvissuto lo attanaglia. Lucrare sul passato non fa per lui: inconcepibile l’idea di tornare sui suoi passi, lo è altrettanto quella di perpetuare ulteriormente lo stile per il quale è applaudito in quel momento. Montano poi in lui il fastidio per la percentuale sempre più bassa di neri e di giovani nel suo pubblico, l’ammirazione per James Brown e Jimi Hendrix, il desiderio di recuperare le radici rhythm’n’blues.

“Fin dal 1967 crebbe in me la voglia di dare un tocco chitarristico alla mia musica. Cominciai ad ascoltare molto James Brown e mi piaceva il modo in cui usava la chitarra. Ho sempre amato il blues. Ascoltavo Muddy Waters e B.B. King e cercavo di trovare un modo per incorporare elementi del loro stile nel mio. Avevo imparato tanto da Herbie, Tony, Wayne e Ron e ormai quanto appreso nei tre anni passati insieme era stato metabolizzato. Iniziavo dunque ad avvertire l’impulso a cambiare, anche se non sapevo ancora bene in quale direzione mi sarei mosso. L’unica cosa che mi era chiara era che nella mia musica avrebbe dovuto trovare spazio la chitarra e che sarebbe stato interessante amplificarla e studiare gli effetti dell’elettrificazione. Ogni volta che mi era possibile andavo a vedere Muddy Waters ed ero sempre più persuaso che qualcosa della sua musica dovesse entrare nella mia. Il suono di una batteria da pochi dollari, dell’armonica, i blues da due accordi. La mia musica con il quintetto si era fatta davvero astratta e per quanto fosse figo suonarla volevo tornare a casa.”
“Miles vuole essere ricco, vuole avere potere, e l’unico modo di ottenere certe cose è rimanere al vertice della propria professione. Non si è mai rassegnato all’idea di essere un ricordo, qualcuno che vai a vedere perché una volta ti piaceva. Vuole essere qualcuno che piace alla generazione del momento. E ha sempre fatto così… È uno che sa sempre inventare la musica giusta per la generazione di domani.” (Dave Holland)
Parlare per il Miles Davis di “In A Silent Way” di “svolta” è nel peggiore dei casi un grossolano errore, dettato da ignoranza o pregiudizio, e nel migliore una convenzione, tanto diffusa tuttavia che mi tocca in parte adeguarmi. Più che per lo stile esposto, “In A Silent Way” segna un momento di frattura per il personale: è il primo LP senza Ron Carter e l’ultimo con Tony Williams. La migliore sezione ritmica che sia mai stata al servizio del Nostro prendeva strade diverse. Ad ascoltare l’ultimo album in cui aveva suonato insieme, “Filles De Kilimanjaro”, appare però lampante che l’ennesima rivoluzione davisiana era già avviatissima. Con il senno di poi i prodromi sono individuabili addirittura in “ESP”, lavoro risalente al 1965 con un brano, Eighty One, in cui la batteria di Williams è inequivocabilmente rock. Quanto al 33 giri che precedette di pochi mesi “Filles”, vale a dire “Miles In The Sky”, nel corteggiamento alla nazione della Summer Of Love non si limitò a una copertina psichedelica: Hancock suona il piano elettrico, le cadenze di Williams sono implacabili e in uno dei quattro titoli, Paraphernalia, si fa largo la chitarra del giovanissimo George Benson.
Dicendo bene di “Filles De Kilimanjaro” e viceversa stroncando, oltre a tutto quanto gli è andato dietro, “In A Silent Way”, Stanley Crouch e la sua schiatta evidenziano tutta la loro livida malafede, dacché il primo suona molto più “rock” del secondo: parlano chiaro al riguardo la tastiera alla James Brown di Frelon Brun, il basso ostinato dell’ipnotica title-track e il tempo in 12/8 di Mademoiselle Mabry, prossimo tanto al blues di Chicago che ai complessi percussivi africani. In Tout De Suite, facendo convivere un valzer carico di swing con il secco incedere rock che caratterizzerà i Lifetime, Tony Williams verga con nove mesi di anticipo il suo addio al quintetto. Memorabile.
“In A Silent Way” ha un’andatura assai più quieta e finisce per risultare affine, nelle atmosfere, a quel “Kind Of Blue” che lo aveva preceduto esattamente di dieci anni. È un album dalle fragranze notturne, costruito su strati acquarellistici di tastiere (piano elettrico e organo, suonati da Hancock, da Chick Corea e dal nuovo arrivato Joe Zawinul) sui quali la tromba di Davis si staglia liricissima, echeggiando lo storico, orchestrale “Sketches Of Spain” (1960) ben più che i lavori a venire, nei quali sarà a sprazzi irosa e spesso tagliente come mai era stata. Aggiuntosi all’ultimissimo momento (solo il giorno prima delle registrazioni, effettuate il 18 febbraio 1969), John McLaughlin (secondo inglese e bianco del gruppo dopo Dave Holland, sostituto di Ron Carter) suona sofficemente funky in Shhh/Peaceful e crepuscolare nell’incipit della traccia omonima, laddove la sua chitarra dialoga con il piano elettrico con lingua piana e suadente.
La rivoluzione di “In A Silent Way” non è nella musica ma nell’uso della sala d’incisione. Piuttosto che registrare varie versioni dello stesso brano e scegliere poi la migliore come da sempre si faceva, il geniale produttore Teo Macero, in perfetta simbiosi con Davis, seleziona una serie di sequenze sonore e le taglia e cuce insieme come se stesse montando un film. La sacralità dell’Esecuzione viene per la prima volta posta in discussione. Frutto di estese manipolazioni, la versione finale che si ascolta su disco non sarà d’ora in avanti che una delle tante versioni finali possibili: un concetto che informa tutta la musica odierna.
“Se a qualcuno non piace ciò che ho fatto, da qui a vent’anni può riprendere tutto in mano e rifarlo. Non esistono più prima take, seconda take eccetera. Tutto ciò che si suona in studio viene messo su nastro… L’unico momento in cui i registratori non sono in rec è quando riascoltiamo per scegliere quei frammenti che si prestano a essere accostati, creando un insieme coerente.” (Teo Macero)
“In A Silent Way” piace alla critica rock e non dispiace a quella jazz (solo a posteriori verrà visto come il principio della caduta), né a quel pubblico, tanto è vero che nel referendum di fine anno fra i lettori di “Down Beat” risulta il terzo migliore LP del 1969 (il primo è “Filles De Kilimanjaro”). Tocca a “Bitches Brew” evidenziare il conservatorismo del mondo del jazz, con il quale rompe sin dalla bellissima copertina di gusto afro-psichedelico. Più di quella (ve n’erano già state diverse altre di sapore hippie), risulta però spiazzante, per chi da Davis scioccamente si attendeva che si fermasse per sempre a My Funny Valentine, la musica: densa di ritmi funky e africani, fragrante di aromi etnici, sostenuta da un basso di fissità inaudita e sfregiata da una chitarra che ha accenti tanto latini che hendrixiani. Quanta musica, poi! Più di un’ora e mezza in cui perdersi.
È stato annotato da taluni che Pharaoh’s Dance, a lungo soffusa e circolare prima di cedere a un gioco di vuoti e pieni, quiete prima e dopo la tempesta di frenesie torridamente rock (McLaughlin è stellare), è una strana scelta come inizio, un anticlimax. Personalmente la trovo perfetta, perché sono proprio quei primi minuti a riallacciarsi e dare l’addio all’universo sonoro in qualche maniera ancora “classico” di “In A Silent Way”. Dopo, tutto diventa possibile: la fenomenale combinazione di grooves dallo spazio profondo e paesaggi sonici proto-ambient del brano che intitola il doppio e ne occupa per intero, con i suoi ventisette minuti, la seconda facciata e la batteria in levare e il tocco boogaloo di Spanish Key, il blues astratto di Miles Runs The Voodoo Down e l’implosione di Sanctuary.
Firma quest’ultima composizione Wayne Shorter, ultimo superstite dell’antico quintetto (Zawinul firma Pharaoh’s Dance; il resto è di Davis). Fiancheggiano il Nostro, la cui tromba è ora sorniona, ora torrenziale, i musicisti dell’album precedente, con un Herbie Hancock e un Tony Williams in meno (li rilevano Larry Young e Jack DeJohnette) e un sostanzioso “più” rappresentato da altri due batteristi (Lenny White e Charles Alias), un percussionista (Jim Riley),un secondo bassista (Harvey Brooks) e un clarinettista (Bennie Maupin).

Nella fitta campagna concertistica che seguirà la pubblicazione nell’aprile del 1970 di “Bitches Brew”, Davis si farà accompagnare da formazioni meno numerose. Al Fillmore West, in aprile, sono con lui Steve Grossman (sax; Wayne Shorter aveva lasciato in febbraio, così come Zawinul), Chick Corea, Keith Jarrett (organo), Dave Holland, Jack DeJohnette e Airto Moreira (percussioni). In giugno al Fillmore East si presenta senza Jarrett ma per il resto con i medesimi elementi. È in quei due mesi che si consuma la definitiva frattura con la stragrande maggioranza della critica jazz e larga parte del pubblico che lo aveva seguito sino a “In A Silent Way”. Documentati da due strepitosi doppi dal vivo (“Black Beauty” e “At Fillmore”) i concerti nei due locali di Bill Graham suscitano reazioni isteriche negli ambienti jazz: non soltando Davis va a suonare per la nazione rock, accettando di fare da spalla alla Band come a Laura Nyro, ma preme anche fino a fondo corsa sul pedale della contaminazione. Non vale che manchi l’esecranda chitarra di McLaughlin se la musica è sempre più compatta e poliritmica, autentica celebrazione sciamanica senza soluzione di continuità in cui in cui non si riesce più a riconoscere un tema (tant’è che i quattro lati di “At Fillmore” hanno come titoli i quattro giorni della settimana in cui furono registrati). Mentre un nuovo pubblico sembra accoglierlo a braccia aperte (“Bitches Brew” vende 400.000 copie negli Stati Uniti contro le 70.000 medie dei dischi del trombettista nel decennio precedente), il vecchio vede sempre più in Miles Davis un apostata.
Quando l’anno dopo vede la luce “A Tribute To Jack Johnson” (registrato il 7 aprile e l’11 novembre 1970) l’incomunicabilità fra Davis e la scena da cui proviene si fa totale. È l’album più sottovalutato del trombettista e uno dei primi che vi consiglio di procurarvi, dopo “On The Corner”, “Kind Of Blue”, “Bitches Brew”, “Birth Of The Cool”, “Sketches Of Spain” e uno fra “ESP” e “Filles De Kilimanjaro”: in quest’ordine; non vi sembreranno tanti una volta che li avrete. È il disco più chitarristico del Nostro: non accreditati in copertina (il primo lo è sull’edizione attuale, il secondo seguita a restare una presenza anonima) John McLaughlin e Sonny Sharrock inanellano riff e assoli prodigiosi, su una sezione ritmica bollente che vede all’opera il redivivo Herbie Hancock alle tastiere, Michael Henderson (già con Aretha Franklin e Stevie Wonder) al basso e Billy Cobham alla batteria. Davis – ultimo e supremo dei sacrilegi – applica filtri elettronici al suo strumento e pennella tocchi superbamente impressionistici. Quando la musica non è ferocemente hendrixiana (Right Off) è dilatata (Yesternow) come a pochissimi maestri della psichedelia e del krautrock è riuscito. Heavy me(n)tal jazz!
Dell’anno più frenetico della vita di Davis è ulteriore testimonianza l’ennesimo doppio, parte in studio e parte dal vivo, “Live/Evil”. Non fosse magnifico di suo (l’apice è What I Say, al quale i Television di “Marquee Moon” – come dire? – si ispireranno parecchio), meriterebbe l’acquisto anche soltanto per la meravigliosa copertina afromitologica. Il 1971 è un anno di pausa e difficile. Travagliato da problemi sentimentali e di salute (viene operato di calcoli), con l’eccezione di un tour europeo in autunno Miles Davis resta fermo. Nel gruppo si susseguono arrivi, partenze e ritorni. Pazienti ricerche negli archivi della Columbia hanno consentito di ricostruire il folto organico impegnato nelle sedute di registrazione del 1° e 6 giugno 1972 che frutteranno “On The Corner”: sempre presenti Henderson e DeJohnette, ci sono fra gli altri anche McLaughlin, Corea e Hancock, uno straripante Colin Walcott al sitar e un inedito Teo Macero, al sax oltre che dietro il mixer.
Nessuna di queste informazioni è presente sulla copertina della prima stampa dell’album, per un capriccio del Nostro, desideroso di rendere la vita dura ai critici. Quelli jazz, abbiamo visto come l’accolsero. La stampa rock ne parlò al contrario con entusiasmo. Le vendite partirono fortissimo (un sollievo per Davis e per la Columbia, dopo i risultati deludenti degli LP post-“Bitches Brew”), ma furono gravemente danneggiate dal nuovo stop imposto al trombettista da un incidente automobilistico. Il feeling perduto non sarà riconquistato che negli anni ’80.
“On The Corner” è all’apparenza compatto come un monolite, ma se ci guardi attraverso con attenzione è un prisma che non smette mai di mostrare nuove immagini. Vi convivono, inestricabilmente intersecate, le dimensioni in apparenza inconciliabili del duro funk di strada di George Clinton, di Sly Stone e di James Brown (la batteria di Black Satin riprende pari pari quella di Cold Sweat) e dell’avanguardia colta europea di Stockhausen (al cui culto, come a quello dei concerti per archi di Bach, Davis era stato iniziato dall’arrangiatore e violoncellista britannico Paul Buckmaster). Minimalista e nel contempo incredibilmente stratificato, lisergico e ritmicamente carico all’estremo, è il disco senza il quale sono inimmaginabili James White e James “Blood” Ulmer, i Material e i Defunkt, i Living Colour e i Public Enemy. Né esisterebbe, senza il Miles Davis ’69-’75, quella strana bestia mutante che chiamiamo post-rock.
Il resto di questa storia immalinconisce e voglio cavarmela in fretta. Fermato nel momento più improvvido dal fatidico incidente, Davis vede calare la sua popolarità. Mentre i suoi ex-gregari passano alla cassa – Shorter e Zawinul con i Weather Report, McLaughlin con la Mahavishnu Orchestra, Herbie Hancock con gli Head Hunters (il cui omonimo album d’esordio del 1974 è il più venduto della storia del jazz) – il trombettista si trova a volte a suonare in sale semivuote. Né i dischi sono esattamente dei campioni di vendite. Ma sono uno più bello dell’altro. Nel 1973 esce “In Concert”, esemplare alterego live di “On The Corner”. L’anno dopo è la volta del doppio in studio “Get Up With It”, con registrazioni che vanno dal maggio ’70 al giugno ’74 e la struggente elegia per Duke Elington di He Loved Him Madly, 32:16 di jazz psichedelico come mai se n’era udito e probabilmente mai più si udirà.
Il congedo è affidato a tre doppi dal vivo: “Dark Magus”, “Agharta” e “Pangaea”, il secondo e il terzo registrati in Giappone, il primo e il terzo a lungo disponibili solo là. In essi, tanto le intuizioni di “Bitches Brew” che quelle di “On The Corner” vengono portate alle estreme conseguenze.
In condizioni di salute (deve andare una volta di più sotto ai ferri per un’operazione all’anca) e mentali pessime, per cinque anni Davis vive da recluso, un amareggiato Howard Hughes preda della cocaina come lo era stato in gioventù dell’eroina. Ritornerà a incidere nel 1981 e farà ancora dischi eccellenti. Per la prima volta, però, la sua musica non racconterà più il futuro.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.7, settembre/ottobre 1998.
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