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Jah Live – Bob Marley a quarantatré anni dalla morte

In “Exodus”, che esce nel giugno 1977 ed è considerato l’apice della parabola artistica marleyana da quasi tutti quelli che non ritengono che quell’apice sia “Natty Dread”, il tema dell’esilio è presente sin dal titolo, argomento che fa capolino qui e là ed è centrale a una traccia omonima che chiude la prima facciata con toni spiazzantemente esultanti in luogo che dolenti, funkeggiando a rotta di collo e  sarà il primo brano del Nostro a venire massicciamente programmato dalle radio nere americane. Il lato A opta per l’impegno, dipanandosi prima della giubilante chiusura di cui sopra fra il lento skankeggiare di Natural Mystic e la melodia lieve ma ficcante di So Much Things To Say, la collisione di chitarre riverberate e fiati schizzati di Guiltiness e l’ondeggiante ipnosi di The Heathen, appesa al muro e al cielo da un assolo da manuale del nuovo chitarrista Junior Marvin: un piccolo Hendrix. Cambi facciata e il combattente, il polemista cede il passo al seduttore. Che si scatena nel ballo durante la festa di Jamming, si fa suadentissimo con Waiting In Vain e presumibilmente cattura la preda con la ballatona da Marvin Gaye datosi al country-blues Turn Your Lights Down Low. Per poi festeggiare tenerissimo (sono già arrivati i bambini?) con la filastrocca favolistica di Three Little Birds e fare universale quel sentimento privatissimo che è l’amore con una impossibilmente gioiosa One Love, che dopo dodici anni di ininterrotta permanenza in repertorio riconosce infine e ufficialmente il debito nei confronti della People Get Ready di Curtis Mayfield.

All’epoca, di “Kaya” (pubblicato nel marzo 1978 e numero 4 in Gran Bretagna migliorando di quattro posizioni il piazzamento del predecessore) si parlò come di un lavoro deludente e compromissorio, ricercatamente commerciale, una sensibile involuzione rispetto a “Exodus”. Capita ancora di leggerne in questi termini e ogni volta rido agro. Ma di quale involuzione si ciancia quando il disco è figlio di quelle stesse sedute (la scelta più logica sarebbe stata approntare un doppio) che avevano fruttato l’album prima? Giustamente acclamato come un capolavoro, ove altrettanto routinariamente “Kaya” viene detto un mezzo passo falso irredento dalla presenza del micidiale funky reggae party di Is This Love. È tempo di rivalutarlo e tanto. In particolare per una prima facciata ideale estensione, tolta la drammatica parentesi di Sun Is Shining, della seconda di “Exodus”, solo che qui prima di celebrare l’amore per la donna si celebra ─ Easy Skanking, la traccia omonima ─ quello per la ganja. Varrà la pena ricordarlo: per i rasta non una droga ma un sacramento. E del secondo lato vorrei citare almeno una gigiona e aromatizzata errebì Running Away e una Time Will Tell in cui torna il gusto dello spiritual. È ora di farla finita di scrivere scempiaggini su “Kaya” e visto che ci siamo pure sul doppio dal vivo (dicembre sempre ’78) “Babylon By Bus”: elefantiaco e troppo patinato e troppo rock, troppo questo e quello e blah blah blah. Ove per ogni chitarra in assolo sopra le righe c’è uno slargo dub (si ascolti la seconda metà di Exodus), per ogni successo un arrangiamento inedito e non di soli successi è fatto il cartellone.

Il seppure obbligato soggiorno londinese sarebbe in fondo felice per Marley, che lontano dalle tensioni giamaicane può rilassarsi, scrivere alcune delle sue canzoni più memorabili, dedicarsi più che mai al calcio nel tempo libero e in quello che avanza ancora alla più importante delle tante tresche extraconiugali, un torrido affaire con Cindy Breakspeare, Miss Mondo 1976 e non aggiungo altro. Sarebbe felice, non fosse per il dettaglio di una ferita a un piede che il Nostro si è procurato proprio giocando a pallone e non vuole saperne di guarire. Il 7/7/1977, data infausta che nella cosmologia rastafari è fortemente indiziata come quella del principio della fine del mondo, si fa visitare a Londra e il verdetto è preoccupante. C’è il serio rischio che si sviluppi un tumore e per scongiurarlo i medici consigliano l’amputazione dell’alluce. Marley è riluttante, anche per via dei precetti religiosi che osserva, a sottoporsi all’operazione. Non senza un secondo consulto. Il chirurgo che lo esamina a Miami sentenzia che basterà un trapianto di cute. Il suo destino è segnato.

Sono due ultimi LP le pietre miliari sulla strada che lo condurrà alla morte l’11 maggio dell’81. “Survival” (ottobre 1979) è il disco in cui si recupera l’impegno politico, in una chiave di panafricanismo spinto esplicitata sin da una copertina in cui sono riprodotte le bandiere degli stati del Continente Nero, tutti eccettuati quelli sotto il tallone di regimi coloniali o razzisti. Vi sfilano principalmente canzoni di lotta, da un’esuberante Zimbabwe a una corale Africa Unite, da una marziale Babylon System a una perentoria Wake Up And Live, ed è una parentesi la giocosamente autoreferenziale (un’ode al reggae stesso) One Drop. Se “Uprising” (giugno 1980) è un altro mezzo capolavoro, e non il congedo dimesso che rischiò di essere, lo dobbiamo a Chris Blackwell e pure di questo non potremo mai ringraziarlo abbastanza. Quando ne ascolta i nastri il capoccia della Island apprezza la malinconica ma pure scherzosa Pimper’s Paradise e la zuccherosamente innodica Forever Loving Jah, e ovviamente la disco in levare di Could You Be Loved che ha sopra tatuata in caratteri cubitali la parola “hit”, ma osserva che all’album manca qualcosa. Marley non replica, sorride e basta. Il giorno dopo torna in studio con Coming In From The Cold e Redemption Song. Ma sono anche tre concerti a farsi tappe verso l’ineluttabile.

Il 22 aprile 1978 i Wailers sono a Kingston, di nuovo, per “One Love Peace”, festival stavolta bi-partisan che auspica che nel dibattito politico nell’isola si torni a usare la forza del ragionamento e si metta da parte quella delle armi. Il colpo di scena si ha sulle note di Jamming, quando un Marley come in trance convoca sul palco gli acerrimi rivali Edward Seaga e Michael Manley e fa sì che si stringano la mano, prodigio fino a quel giorno pronosticato come appena più probabile della pace fra israeliani e palestinesi. Il 18 aprile 1980 è un’esibizione di Bob Marley & The Wailers a celebrare di fronte a una folla oceanica, nella capitale Harare, la caduta del regime razzista rhodesiano e con essa la nascita dello Zimbabwe. Il sipario cala nella già più volte menzionata Pittsburgh il successivo 23 settembre. Due giorni prima Marley ha avuto un malore a New York, mentre faceva jogging in Central Park. Il giorno prima gli hanno detto che ha un tumore al cervello e gli restano tre settimane di vita. Resisterà invece otto mesi, benché metastasi gli vengano poi trovate pure nel fegato e nei polmoni.

L’ultima foto lo coglie in una clinica bavarese il 31 marzo 1981 e, a vederlo magro come un internato in un lager e spaurito come un bambino, ti sale un groppo in gola. Ma poi ne scruti meglio lo sguardo e lo scopri così sereno che ti pare impossibile che quest’uomo sia morto. Non può morire uno come Bob Marley e difatti ventisei anni dopo è ancora fra noi: Jah live.

Tratto da Le canzoni di libertà e redenzione di Bob Marley. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune.

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Talkin’ All That Jazzmatazz (un omaggio a Guru)

“Quando ideai il progetto avevo già notato da tempo come un sacco di dj andassero alla ricerca sia di frasi melodiche che di break ritmici da riprendere in vecchi dischi jazz. Magnifico, veramente cool, e però io intendevo portare a un livello superiore il connubio fra i due generi musicali. Convocai allora alcuni di quegli stessi strumentisti per farli suonare di persona in un contesto hip hop. Invitai anche dei rapper e delle cantanti soul. Voleva essere solo un esperimento, ma in studio mi resi presto conto che ciò che stava venendo fuori sarebbe passato alla storia”: così l’artista nato Keith Edward Elam il 17 luglio 1961 raccontava la genesi di “Jazzmatazz Volume 1”, edito su Chrysalis il 18 maggio 1993 e si noti come il titolo annunciasse, e così sarà, che quella che il sottotitolo dichiarava essere “an experimental fusion of hip-hop and jazz” era solamente all’inizio. Un seguito arriverà nel ’95, un terzo capitolo vedrà la luce nel 2000, un quarto nel 2007, coinvolgeranno altri nomi altisonanti e pur senza eguagliarne né le vette né naturalmente l’impatto saranno tutto sommato all’altezza del prodigioso capostipite. Era il 2009 quando Guru rilasciava l’intervista da cui viene la citazione. Se ne andava il 19 aprile dell’anno dopo e tanto più addolorava la prematura dipartita perché accompagnata da una lettera testamentaria (apocrifa? la famiglia la ritiene tale) in cui lo scomparso attaccava con una vis polemica da togliere il fiato colui che per quasi due decenni era stato il suo sodale nei Gang Starr, Christopher Edward Martin, leggenda per fortuna ancora vivente con l’alias DJ Premier. Che non replicava. Dettagliare ulteriormente non è il caso e non solo perché, dato il contesto, risulterebbe inappropriato. Laddove con più ampi spazi sarebbe stato viceversa bello e utile illustrare adeguatamente come i 44’06” di un disco epocale rappresentassero sia un approdo che un punto di partenza. Esaltato dalla critica, l’album faceva numeri più che discreti ma lontani da quelli che a cavallo fra quello stesso anno e il successivo totalizzeranno i britannici US3 citando estesamente Herbie Hancock in Cantaloop, brano di apertura di “Hand On The Torch”. Su Blue Note, ossia per l’etichetta che “Jazzmatazz” omaggia sin dalla copertina. Tocca far di necessità virtù riducendo all’essenzialissimo il riassunto delle puntate precedenti di un incontro con i crismi dell’inevitabilità i cui prodromi più lontani possono essere fatti risalire addirittura ai tardi anni ’40: a Joseph Deighton Gibson Jr., conduttore radiofonico afroamericano di vasta popolarità noto come ─ udite udite ─ Jack the Rapper. O se no agli anni ’70 era aurea di Gil Scott-Heron: inarrivabile poeta che porgeva le sue rime su spartiti cui il jazz concorreva almeno nella stessa misura di soul e funk. O, come minimo, al 1989.

Nel debutto dei Gang Starr “No More Mr. Nice Guy” la seconda traccia è intitolata Jazz Music. L’ottava è un remix di Words I Manifest, pezzo già uscito in precedenza su un 12” e basato su Night In Tunisia di Dizzy Gillespie. Lì Guru e DJ Premier passano dalle parole ─ l’anno prima Talkin’ All That Jazz, brano incluso nel secondo album degli Stetsasonic “In Full Gear”, ha esplicitato una tendenza evidentemente in atto ─ ai fatti. Saranno in molti a seguirli ma non subito, anche perché il disco vende modestamente. Capita però che fra gli acquirenti ci sia Spike Lee, che gradisce al punto da ingaggiarli per la colonna sonora di Mo’ Better Blues. Jazz Thing, una collaborazione con Branford Marsalis, è il brano che la illumina e segnerà una svolta decisiva nella carriera di Guru e Premier, da qui in poi un mito che miracolosamente non deluderà mai, confezionando un capolavoro via l’altro, a partire dal ’91 e da “Step In The Arena”, quasi un secondo esordio. Anno cruciale quello: i canadesi Dream Warriors segnano una clamorosa doppietta con My Definition Of A Boombastic Jazz Style e Wash Your Face In My Sink, in cui riprendono rispettivamente Quincy Jones (Soul Bossa Nova) e Count Basie. Tristemente al passo di addio, Miles Davis nel a dire il vero non granché riuscito “Doo-Bop” affida la produzione a Easy Mo Bee. Ron Carter si fa complice del favoloso “The Low End Theory” degli A Tribe Called Quest ed è ulteriore eloquente certificazione di come, mentre il pubblico del jazz schifa la nuova black, i musicisti ne siano al contrario intrigati. Nel ’92 i veterani Eric B & Rakim ricorrono ai servigi di un contrabbassista non accreditato nel colossale “Don’t Sweat The Technique”, con il quale sfiorano i Top 20 USA. Nel ’93 gli invece debuttanti Digable Planets vanno al numero 15 con “Reachin’ (A New Refutation Of Time And Space)”, in cui campionano Don Cherry, Sonny Rollins, Art Blakey, Herbie Mann, Herbie Hancock, Grant Green e Rahsaan Roland Kirk. Quanto ai De La Soul, in “Bulhoone Mindstate” riciclano Eddie Harrison, Lou Donaldson, Duke Pearson e Milt Jackson e ospitano Maceo Parker.

Insomma: dichiarando “Jazzmatazz” un esperimento Guru un pochino barava, ma giusto un po’. Ormai maturi i tempi, fu grazie a quest’album che una pur minoritaria parte della platea di cui sopra se non si convertiva tout court all’hip hop quantomeno maturava per esso del rispetto. Prima fidandosi di un parterre de rois comprendente il trombettista Donald Byrd, i sassofonisti Courtney Pine e Gary Barnacle, il vibrafonista Roy Ayers, il pianista Lonnie Liston Smith, i chitarristi Ronny Jordan e Zachary Breaux (oltre alle cantanti Carleen Anderson, N’Dea Davenport e DC Lee). Poi arrendendosi a dieci tracce dallo swing e soprattutto dal groove irresistibili e tracimanti classe da ogni solco. A propositi di solchi: non più disponibile il meraviglioso box Capitol/Universal del 2018 che al programma originale aggiungeva un LP di strumentali e uno di bonus, chi non provvisto volesse avere “Jazzmatazz Volume 1” sul più nobile dei supporti può da qualche mese rivolgersi a un’ottima stampa dell’olandese Music On Vinyl. Chi scrive raramente ha riscontrato una differenza così marcata fra un’edizione in CD e una in vinile di un disco. Il secondo offre una scena sensibilmente più aperta, con molta più aria fra strumenti e voci.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022. Ricorre oggi il quattordicesimo anniversario della prematura scomparsa di Guru.

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Una breve trattazione della produzione anni ’90 di Nick Cave

Si sa: la notte è più buia subito prima dell’alba. Da “The Good Son” emana un lucore che avvince e commuove. Il faulkneriano And The Ass Saw The Angel è stato finalmente pubblicato e accolto da ovazioni. In Brasile con i Bad Seeds per tre date trionfali, Cave ha conosciuto la stilista Viviane Carneiro e si è innamorato. E non solo di lei ma anche della tentacolare e cosmopolita Sao Paulo, in cui si trasferisce. L’album vede la luce il 17 aprile 1990, ventitré giorni prima del primogenito di Nick e Viviane, Luke, e che sia stato registrato in Brasile si sente. Non soltanto perché gli fa da incipit un adattamento dell’inno protestante locale Foi na cruz, che squisitamente riassume il costante intrecciarsi in esso di gioia e malinconia, ma per un gusto per la melodia assolutamente inedito. Il rock è racchiuso nella deliziosa chitarra surfeggiante di The Hammer Song e nella frenesia di una The Witness Song inondata pure di gospel. Il resto sono pianoforti romantici e profluvi di archi, pop che aspira alla perfezione e la raggiunge in una The Ship Song dopo la quale l’autore avrebbe potuto ritirarsi: è la canzone immortale che crede di non avere ancora scritto.

So di andare controcorrente, ché “The Good Son” già all’uscita fu disco che non metteva d’accordo e in ogni caso raramente viene citato fra i migliori di Cave: a me pare sia ─ per densità emotiva, sapienza degli arrangiamenti, qualità delle singole tracce e articolazione d’assieme ─ la sua raccolta autografa nettamente più memorabile.

Narrativamente gli anni ’90 di Nick Cave offrono materiale infinitamente meno interessante degli ’80, essendo la vita domestica faccenda non eccitante da raccontare quanto la vita spericolata. È un Cave sempre più rispettabile e rispettato che li traversa raccogliendo riconoscimenti da ogni dove, chiudendo con rimpianti e dolcezza la relazione con Viviane e avviandone una fugace con Polly Jean Harvey, lasciandosi alle spalle il Brasile e cominciando a chiamare “casa” Londra. Incontra un nuovo grande e possibilmente definitivo amore nella modella Susie Bick, che gli darà due gemelli, e infine si riconcilia con la memoria del padre, colui che l’ha iniziato alla letteratura, morto giovane in un incidente automobilistico (poco più che adolescente, il figlio apprese la notizia in una stazione di polizia in cui era in stato di fermo). Musicalmente, regalano al contrario dischi ancora capaci di generare controversie. Magari non “Henry’s Dream”, del ’92, che riprende le atmosfere di “The Good Son” scurendole appena e vanta canzoni superbe ─ una Papa Won’t Leave You, Henry dal ritornello saporoso di Irlanda, la lugubre Loom Of The Land (i Walkabouts ne offriranno una versione stellare in “Satisfied Mind”) e la tesa e minacciosa Jack The Ripper ─ ma è danneggiato dalla produzione inusualmente piatta di David Briggs (Neil Young; alcuni brani faranno ben migliore figura nel bellissimo “Live Seeds”). Magari non “Let Love In”, del ’94, che un tantino in effetti si adagia in una routine di classe ma è divertente nella vorticosa Jangling Jack e nella garagista Thirsty Dog e, alle prese con il delicato tema della pedofilia, appiccica al muro e fa il cuore a brandelli con Do You Love Me?. Di sicuro “Murder Ballads”, del ’96, album a tema che finirà per essere di gran lunga l’articolo più venduto del catalogo (oltre un milione di copie), grazie a un duetto con PJ Harvey e soprattutto a uno con Kylie Minogue, nell’incantata e crudele Where The Wild Roses Grow. È un disco che non ho mai amato particolarmente, pur apprezzandone l’umorismo che non molti hanno colto, una Henry Lee che evoca congiuntamente Leonard Cohen e Jennifer Warnes, l’orroroso vaudeville di The Curse Of Millhaven, la tenerezza blues di The Kindness Of Strangers e, più che altro, la liturgica Death Is Not The End, in cui al nostro uomo riesce di nuovo il trucco di migliorare Bob Dylan, sebbene un Dylan di seconda o terza categoria. Fatto è però che in “Murder Ballads” fatico a individuare la consueta messa a nudo dell’anima e quello che scorgo è un bravo attore. In tanti lo hanno detto capolavoro, ma mi permetto di dissentire.

Se un capolavoro va individuato nella produzione dei ’90 è piuttosto “The Boatman’s Call”, che usciva nel 1997 e raccontava la fine di un amore e anzi due con una sincerità bruciante fino all’imbarazzo e toccante. Raccolta di ballate prevalentemente pianistiche, è il più scarno e intimo fra gli album di Nick Cave e davvero dopo brani di intensità indicibile come Into My Arms e People Ain’t No Good ci si può chiedere, con il titolo di un’altra canzone che tuffandosi in una tempesta di sentimenti non vi pesca che dolore: Where Do We Go Now But Nowhere?.

Tratto da Nick Cave – Nel ventre della bestia. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. “The Good Son” arrivava nei negozi trentaquattro anni fa a oggi.

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Uno spreco immane, un talento enorme – La vita breve di Notorious B.I.G.

L’omone nato Christopher George Latore Wallace e meglio noto come The Notorious B.I.G. veniva dichiarato morto alle ore una e quindici del 9 marzo 1997. Avrebbe compiuto venticinque anni il successivo 21 maggio.

Ready To Die (Bad Boy, 1994)

Talmente diversi da essere simili: tutti e due nati a New York ma il primo rimasto lì e il secondo trapiantato in California; quello piccolo e smilzo, questo un omaccione di duecento chili; entrambi personaggi di enorme visibilità e successo e i loro successi più grandi li coglieranno dopo una morte violenta che li sorprenderà a sei mesi l’uno dall’altro, il secondo appena e il primo non ancora venticinquenne. Benché fiumi di inchiostro siano stati sparsi e le inchieste, anche televisive, non si contino non sapremo probabilmente mai se l’uno – Christopher Wallace, in arte The Notorious B.I.G. – fu davvero il mandante dell’omicidio dell’altro – Tupac Shakur – e cadde a sua volta vittima di una rappresaglia da parte degli amici di quello che – tragica ironia – era stato per lui un amico. Prima che la faida fra le due Coste facesse parlare le armi piuttosto che i microfoni, prima che la rappresentazione della malavita da parte di chi non aveva mai troncato i legami con le cattive compagnie tornasse a farsi malavita e basta. Resta la rabbia per uno spreco insensato di talento, assai più vistoso nel caso di Notorious B.I.G. L’unico artista ad avere mai avuto da defunto quattro numeri uno. Più del monumentale ma ineguale “Life After Death”, è il debutto “Ready To Die” a consegnarlo agli annali dell’hip hop come uno dei suoi narratori più profondi, dei dicitori più fini.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.

Life After Death (Bad Boy, 1997)

L’uno minuto e nervoso, l’altro enorme, un Pantagruele di colore, e iroso: li separava una fiera rivalità (al punto che si parlò, probabilmente a vanvera, del secondo come possibile mandante dell’omicidio del primo) e nulla avevano in comune, fino al 9 marzo di quest’anno, se non un grande talento. Condividono ora, Tupac Shakur e Christopher Wallace (questo il vero nome di Notorius B.I.G.), una morte violenta e prematura. Non più solamente sceneggiatura fra pulp e blaxploitation, il gangsta rap ha per la seconda volta in pochi mesi lasciato le pagine musicali per approdare a quelle di cronaca nera.

È terribilmente difficile scrivere di “Life After Death” e, comprenderete, non solo perché è un album “più grande della vita”, come fu colui che l’ha consegnato alle stampe: due CD, ventiquattro titoli in scaletta, centodieci minuti da metabolizzare. Ci si perde in questo profluvio di basi fra p-funk, hardcore e moderno rhythm’n’blues e di rime taglienti, a volte vanagloriose, non di rado amare. Si arriva alla fine con l’impressione che non valga l’esordio “Ready To Die”, uno dei migliori dischi hip hop del ‘94, ma che nondimeno molto vi sia in esso di buono, a partire dai singoli Hypnotize e Sky’s The Limit. Ma è impossibile ascoltarlo senza farsi sopraffare dall’emozione e si finisce dunque per dubitare del proprio stesso giudizio. Un mezzo passo falso o una nuova pietra miliare? Di certo un lavoro inquietante perché fin dal titolo trasmette la sensazione che Notorius B.I.G. sapesse cosa stava per accadere, e fosse rassegnato al suo destino.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.170, maggio 1997.

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Alcune cose che ho scritto sugli Sparklehorse, a quattordici anni dalla morte di Mark Linkous

E così adesso Mark Linkous, l’uomo meglio noto come Sparklehorse, ha qualcos’altro in comune con Vic Chesnutt. A parte la collaborazione in “Dark Night Of The Soul”. A parte la malinconia che permea un catalogo decisamente meno cospicuo (quattro album “veri” in tutto). A parte una carrozzella, cui il nostro uomo era costretto per qualche tempo a metà ’90 essendo rimasto svenuto per quattordici ore in una posizione improbabile in una stanza d’albergo londinese, dopo avere mischiato valium con altre schifezze chimiche che pretenderebbero di curare i mali dell’anima. Ma dalla quale, diversamente dal povero Vic, riusciva dopo una serie di operazioni chirurgiche e tanta fisioterapia ad alzarsi. Adesso Vic Chesnutt e Mark Linkous condividono anche di avere posto fine volontariamente a delle vite gloriose e disperate. Il secondo ha giusto scelto un modo più spettacolare, sparandosi in pieno petto. Ci lascia un gruzzoletto di canzoni fragili e ispide come lui, qualcuna splendida a un crocevia sul quale convergevano Neil Young e Tom Waits, Johnny Cash e Skip Spence. Ci lascia un senso di inquietudine per l’incapacità di una generazione, che è poi quella di chi scrive e di non pochi fra i lettori, di diventare adulta – nel bene oltre che nel male – fino in fondo. Il terzo album degli Sparklehorse veniva intitolato nel 2001 “It’s A Wonderful Life”, come un classico di Frank Capra del ’46: quello in cui un angelo di serie B viene spedito sulla terra a guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio. Nessun angelo girava purtroppo dalla parti di Knoxville il pomeriggio dello scorso 6 marzo.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.669, aprile 2010.

Vivadixiesubmarinetransmissionplot (Capitol, 1995)

Dal sottobosco del rock americano, fertile anche in momenti di oggettiva stanca quale è quello che stiamo vivendo, emerge un talento di cui potremmo sentir parlare a lungo. Si chiama Mark Linkous e da alcuni mesi è confinato su una sedia a rotelle a causa di un singolare incidente che non raccontiamo per ragioni di spazio (tanto ne avrete già letto, o ne leggerete in futuro, altrove). Ma se il suo corpo è storpio (tornerà a camminare ma resterà zoppo) lo spirito di Mark è forte e vola alto. L’esordio dei suoi Sparklehorse è un disco di quelli che magari non ti colpiscono di primo acchito ma che finisci poi per riascoltare ossessivamente. Lavoro di maturità stupefacente per un autore giovane quale è il Nostro che, nel mentre richiama alla memoria tanti altri artisti, conserva sempre una sua peculiarità.

Qualche riferimento, allora, tanto per chiarire di cosa parliamo quando parliamo del nostro amore per questo figlio di minatori della Virginia. Pensate a dei Pavement più lineari e ai R.E.M. più suadenti, ai Big Star del terzo LP, a un nuovo Johnny Cash salito alla ribalta dopo il punk. Immaginate Neil Young accompagnato non dai Crazy Horse ma ora dai Pixies, ora dalle Throwing Muses. Scarnificate il tutto e immergetelo in una malinconia quasi morbosa. Heart Of Darkness sembra uscire da “Berlin”, capolavoro di Lou Reed datato 1973. Someday I Will Treat You Good da “Everybody Know This Is Nowhere”, Neil Young, 1968. Sono invece due delle più belle canzoni in cui possiate imbattervi in questo 1996, due delle tante memorabili offerteci da “Vivadixiesubmarinetransmissionplot”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.164, ottobre 1996.

It’s A Wonderful Life (Capitol, 2001)

Stesso titolo di un classico di Frank Capra del 1946, quello in cui un angelo di seconda categoria viene spedito sulla terra a cercare di guadagnarsi una promozione salvando un uomo dal suicidio, per il nuovo album della creatura di Mark Linkous. Scrivo queste righe basandomi su un’edizione provvisoria priva di note e senza un’anche minima cartella stampa e ignoro dunque se si tratti di una citazione, o se sia al contrario casuale. Quel che è certo è che pare evidente una certa affinità fra quella pellicola, una delle più problematiche e indubbiamente delle meno ottimistiche del grande regista americano, e l’amarognola visione della vita espressa dal nostro uomo in precedenza in piccoli capolavori chiamati “Vivadixiesubmarinetransmissionplot” e “Good Morning Spider”. Dischi che lo hanno collocato nella serie A e nelle zone alte di classifica di quel nuovo cantautorato a stelle e strisce che ha fra i suoi massimi alfieri Will Oldham e Bill Callahan.

Rispetto a quelli “It’s A Wonderful Life” paga il venir meno della gradita sorpresa indotta dalla scoperta prima e dalla conferma poi di un talento fuori dal comune. Linkous non cambia registro e la sua scrittura, devota a Neil Young come a Johnny Cash e a Tom Waits, fluisce in un alveo di quieta classicità facendo slalom, per la maggior parte del tempo e almeno per ora, fra le sabbie mobili degli stereotipi. Due scarti avvincenti: una Dog Door che trasloca Captain Beefheart nell’era del downtempo; il cigolante congedo Babies On The Sun. Vette di un lavoro che vanta ancora un discreto gruzzolo di canzoni coi fiocchi: l’incantato carillon che lo inaugura e intitola, l’incontro fra Dinosaur Jr. e Byrds di Piano Fire, il romanticismo in punta di dita di Apple Bed. Sarebbero pure belle, e parecchio Experiences, Little Fat Baby e Comfort Me, non fosse la devozione che esibiscono per il Neil Young di “After The Gold Rush” invero troppo marcata.

Ecco: a suscitare perplessità è che Linkous sembri accontentarsi di essere fra i prosecutori di una tradizione, quando inizialmente era parso intenzionato piuttosto a rinnovarla.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.447, giugno 2001.

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Un incontro di boxe nell’arena dell’amore – Il primo singolo di James Brown

“Please, Please, Please è in sostanza una specie di film che potrebbe ambientarsi nel santuario di ogni cuore spezzato.

È la peggiore cagata che io abbia mai ascoltato.” (Syd Nathan, a proposito di Please, Please, Please)

Se il suo autore e interprete non fosse stato tanto ostinato, invece che lanciarne la carriera Please, Please, Please altro non sarebbe rimasta che una noterella a pie’ di pagina nel libro (cui peraltro così di pagine ne sarebbero mancate diverse) della black music a cavallo fra anni ’50 e ’60. Una simpatica testimonianza d’epoca non più significativa di innumerevoli altre. Diverrà invece pian piano il culmine delle esibizioni live, in letture che come niente ne moltiplicheranno per dieci la durata – 2’43” la versione in studio. Per un verso dando modo ai musicisti di formazioni sempre più compatte di mostrare di cosa fossero capaci, per un altro permettendo al cantante di inscenare la più famosa delle sue pantomime.

Si può leggere come la storia di un uomo che implora la sua donna di riprenderlo con sé perché lui la ama troppo. Cade in ginocchio e implora pietà. Non ricevendone, si rialza lentamente, volta le spalle al mondo intero e si allontana singhiozzante nell’oscurità. Compare un amico che viene a confortarlo e gli copre le spalle con un mantello per proteggerlo, riscaldarlo, consolarlo. Ma proprio quando sembra che le speranze siano perdute per sempre l’uomo si sbarazza del mantello, guarda di nuovo in faccia il pubblico e la vita, guadagna il centro del palco e ancora una volta torna dal suo grande amore per supplicarla. Quell’uomo ero io e il mio Maestro di Cerimonie Danny Ray l’amico che mi sosteneva. E ogni volta che mi levavo il mantello il pubblico si scatenava. Quel rituale divenne un dramma teatrale che era in parte espiazione religiosa, in parte crisi romantica, in parte incontro finale di boxe nell’arena dell’amore.

Se vi è venuto in mente il wrestling, avete pensato bene: per la sceneggiata di cui sopra oltre che al solito Little Richard (che di suo aveva preso spunto dalla predicazione gospel più sfrenata) il nostro eroe si ispirava a un professionista di quel non-sport, la più sgargiante delle stelle dell’epoca, Gorgeous George. Se vi stupisce che un pezzo in origine molto passatista – dice Brown (Geoff) che persino Brown (James) inizialmente aveva dubbi sul suo valore – sia divenuto uno dei momenti chiave degli spettacoli di un rivoluzionario della musica, per intuire perché non dovete che dare un’occhiata ai titoli di coda di Blues Brothers 2000. O recuperare un DVD del “T.A.M.I. Show”. O se no fidarvi di chi c’era e lavorare di immaginazione, visto che figura sì in quasi tutti gli innumerevoli album live di un uomo la cui leggenda è fondata in gran parte proprio sulle performance dal vivo, ma in versioni sfortunatamente appena più lunghe (o talvolta persino più brevi) di quella in studio. Un delitto. In ogni caso: non subito, ma nell’arco di quattro anni, quelli durante i quali James Brown pubblicò un singolo via l’altro replicando un’unica volta il successo del primo, il pezzo veniva promosso da esecuzione obbligata, per concedere alla platea una di quelle sole due o tre canzoni che non si potevano non suonare, a sensazionale maratona che quella hit trascendeva. Trascendendo così pure la valutazione spietatamente negativa che Syd Nathan ne aveva dato. Con più di qualche buona ragione.

Venuto al mondo da una famiglia ebrea a Cincinnati nel 1904, Nathan in gioventù era stato batterista, ma non sufficientemente bravo da potere fare di quella passione un lavoro. Dopo essere stato agente immobiliare, impiegato in non ben specificate mansioni in un luna park, commesso in un banco di pegni e in una gioielleria, dopo avere messo su a metà anni ’30 un negozio di radio e fonografi in società con una sorella e il cognato, raggiungeva un fratello in Florida per dare vita con lui a un laboratorio fotografico. All’inizio del decennio seguente tornava però a Cincinnati e apriva il Syd’s Record Shop, entrando così dalla porta di servizio nel mondo della discografia. Passo seguente, nel 1943, era inaugurare la King Records. Scampata a un fallimento in culla grazie al soccorso economico parentale, e seguendo una traiettoria che la Stax replicherà, un’etichetta nata con l’idea di puntare il mercato country si allargava allora a quello dei cosiddetti race records. Insoddisfatto della qualità di stampa dei primi dischi, ordinati a una fabbrica del Kentucky, il nostro uomo già nel 1944 ne apriva una sua e cominciava a pressarli in proprio, con una velocizzazione dei tempi e un’ottimizzazione dei costi che naturalmente avranno un peso nel successo crescente dell’impresa. Più di tutto contava però l’eccezionale intuito da talent scout. Impressionante un’anche parziale lista dei nomi che scopriva o cui dava una seconda o terza possibilità: Wynonie Harris, Roy Brown, Lonnie Johnson, John Lee Hooker, Freddie King, Champion Jack Dupree, Little Esther Phillips, i Dominoes, Big Maybelle, i Five Kings, i Five Royales, Hank Ballard e Little Willie John in un ambito di musica nera, mentre per quanto riguarda un mercato hillbilly tutt’altro che abbandonato si possono segnalare almeno i Delmore e gli Stanley Brothers, Moon Mullican e Grandpa Jones. Imprenditore astuto, Syd Nathan prendeva inoltre a far registrare brani di repertorio country agli artisti neri e di blues e rhyhtm’n’blues ai bianchi, pure in questo straordinariamente in anticipo sui tempi. Per quanto vada sottolineato che non di preveggente visione utopica si trattava, bensì di un mero e riuscito calcolo commerciale volto a massimizzare gli introiti per le sue società di edizioni musicali. E che gli vuoi dire a uno così?

Sul momento restava a bocca aperta e non riusciva a dirgli nulla Ralph Bass, quando, dopo essersi tanto impegnato per fare firmare i Famous Flames per la Federal, una succursale della casa madre, si vedeva liquidato tanto brutalmente un brano in cui riponeva cieca fiducia. Avendolo fra l’altro sottoposto a un test che nella storia della popular music risulterà da lì in poi infallibile: l’ascolto proposto a un tot di ragazze, tutte invariabilmente e subito sedotte. Recuperato l’uso della parola, supplicava il boss di fare uscire il singolo almeno ad Atlanta, giusto per testare le acque. Al che, ineffabile Nathan ribatteva che no, lo avrebbe distribuito su base nazionale soltanto per il gusto di dimostrare a Bass quanto avesse torto. Mal gliene verrà. Cioè bene.

Sul retro Why Do You Do Me, graziosa quanto innocua (e volta ancora di più al passato in un anno che vedrà Elvis Presley collezionare i primi cinque di undici numeri uno consecutivi e due artisti di Nathan, Little Willie John e Bill Doggett, capeggiare la graduatoria R&B), Please, Please, Please vede la luce il 3 marzo 1956 e parrebbe, per la percezione che ne hanno gli artefici, che non se ne accorga nessuno. In Georgia, per le radio che ne avevano trasmesso l’acetato è roba vecchia e alle altre pare interessare poco. Delusi, e oltretutto furiosi perché il disco è uscito a nome James Brown & The Famous Flames riducendoli a gregari quando pensavano che sarebbe stato attribuito al gruppo, i ragazzi della band abbandonano in massa. Lo stesso leader va (torna?) a lavorare in una fabbrica di materiali plastici. Ma è questione di settimane. Le vendite prendono a levitare, cominciando da Atlanta, poi in Virginia, poi nella Bay Area. Il 21 aprile 1956 il singolo fa per la prima volta capolino nella classifica R&B di “Billboard”. La scalerà fino al numero 6 e complessivamente resterà nei Top 20 per diciannove settimane. Sarà ancora lì in luglio e a quell’altezza i Flames, naturalmente subito rimessisi insieme, avranno già registrato tracce bastanti a confezionare altri sei 45 giri, lati A e B. Nessuno dei quali avrà il benché minimo impatto. Ugualmente, raccoglieranno solo indifferenza tre ulteriori singoli. Nella primavera del 1957, a meno di un anno da quando Please, Please, Please li aveva apparentemente proiettati verso la fama, i Famous Flames non esistevano più se non come sigla. James Brown spendeva l’estate esibendosi in Florida in date di nessun prestigio, con poco pubblico. Quando il 18 settembre 1958 entrava in uno studio newyorkese per incidere, con un abbozzo di nuovo gruppo (Johnny Terry unico superstite della formazione precedente) e alcuni turnisti (fra i quali un chitarrista che già aveva cominciato a fare la storia del jazz: Kenny Burrell), ancora quattro facciate basteranno i titoli a dar conto del suo stato d’animo: Tell Me What I Did Wrong (dimmi cosa ho sbagliato); There Must Be a Reason (deve esserci una ragione); I’ve Got To Change (devo cambiare). Ma soprattutto: Try Me. Provami. E vedrai che non ti deluderò più.

Tratto da James Brown – Nero e fiero!, Vololibero, 2017. A seconda della fonte cui si dà credito, James Brown pubblicava il suo primo singolo il 3 o il 4 marzo di sessantotto anni fa.

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New York a Londra – Una notte perfetta con Lou Reed

È passato a momenti un quarto di secolo da “Rock’n’Roll Animal” e il gruzzoletto di LP dal vivo di Lou Reed ha assunto una consistenza quasi deadiana, con oscillazioni dal francamente superfluo (“Live In Italy”) all’oltraggiosamente indispensabile (“Take No Prisoners”: di rado titolo fu tanto programmatico). “Perfect Night Live In London” non ricade né in una categoria né nell’altra. Niente affatto inutile, esibisce come massima provocazione un arrangiamento molto scarno (senza gli archi che la fecero kitsch e meravigliosa) di Perfect Day nel momento in cui, a venticinque anni dall’uscita, diventava inopinatamente una hit.

È un Lou Reed inedito quello che emerge da “Perfect Night” e converrete che per un artista in circolazione dalla metà degli anni ’60 l’impresa è di per sé non da poco: raffinato e tendente all’acustico senza che ciò lo renda, vivaddio, un altro Eric Clapton. Ascoltate come Vicious, spogliata dall’elettricità glam dell’originale, suoni un bel po’ più perversa e minacciosa. È la punta di un album che spazia su tutta la carriera solistica del Nostro, regala tre inediti di buona grana e ha il merito di ricordarci che Coney Island Baby è la sua migliore ballata di sempre.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.6, luglio/agosto 1998. Lewis Allan Reed compirebbe oggi ottantadue anni non fosse che…

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Eminem – Piaccia o non piaccia, un classico

Il personaggio è di una rara antipatia e fa specie che la pelle bianca ne faccia spesso, se non perdonare, giustificare gli eccessi verbali, con commentatori di norma bianchi anch’essi sempre pronti a sottilizzare su dove finisca l’uomo Marshall Mathers e dove inizi l’artista Eminem. Su quanto sia creazione letteraria e interpretazione attoriale – umoristica! – e quanto genuina omofobia e una misoginia tale da fare sembrare femminista un talebano. I vari Ice Cube, Ice-T, Scarface, Snoop Doggy Dogg non se la sono mai cavata così a buon mercato. Ciò premesso, bisogna dare a Eminem quel che è di Eminem e riconoscergli un’abilità fuori dal comune nello sgranare rime e nel delineare ambienti e storie. Bisogna prendere nota del rispetto con cui lo guardano i protagonisti neri dell’hip hop. Da non dimenticare: una scoperta di Dr. Dre, supervisore di questo secondo album, epocale checché se ne pensi.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007. A oggi sono trascorsi venticinque anni dall’arrivo nei negozi di “The Slim Shady LP”.

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About A Boy – Il testamento di Kurt Cobain

Al produttore dello show che, richiesto di addobbare il palco con gigli, candele nere e un candeliere di cristallo, gli domandava perplesso “come se fosse un funerale?”, Kurt Cobain rispondeva con quattro parole soltanto: “Esattamente. Come un funerale”. Il che fa pensare che già sei mesi prima di porre fine alla sua vita tormentata il leader dei Nirvana avesse preso una decisione in tal senso. E come non ricordare che, in una session fotografica per un giornale francese durante il tour dell’appena uscito “In Utero”, mimò il suicidio con un’arma giocattolo? Successe poco prima o dopo lo spettacolo che MTV registrava il 18 novembre 1993, mandava in onda per la prima volta in dicembre e replicava un numero infinito di volte dopo quel tragico 8 aprile ’94 in cui un elettricista con un appuntamento per installare un sistema di allarme nella villa del musicista lo trovava cadavere. Mixato in 5.1 surround, con due brani espunti in origine dalla trasmissione televisiva e aggiunte alcune interviste e cinque canzoni tratte dal soundcheck, “MTV Unplugged In New York” vedrà la luce in DVD solo nel 2007. A trasformarlo in un album la Geffen ci aveva messo molto meno: lo pubblicava in CD e vinile (singolo, nonostante una durata sopra i venticinque minuti a facciata) il 1° novembre 1994. E chissà come fece a non venire in mente a nessuno quanto sarebbe sembrata di cattivo gusto un’uscita alla vigilia del giorno dei morti. Una settimana prima o dopo, no? Tant’è. Se Cobain voleva che quello che è rimasto il più inconvenzionale degli “Unplugged” risultasse testamentario (e non poteva non immaginare che sarebbe stata la prima delle pubblicazioni postume), ebbene, in nessun modo il suo congedo dal mondo sarebbe potuto risultare più pregnante. Se intendeva accrescere a dismisura il rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato – una sua carriera da solista in veste di cantautore folk-rock, un’evoluzione dei Nirvana un po’ alla R.E.M.; più in là non è possibile andare – gli è riuscito anche meglio. E significherà qualcosa se, ancora più che immaginarselo vivo e con ormai quasi il doppio degli anni che aveva quando ci lasciò, risulta arduo pensare che invecchiando avrebbe perso – come un Bill Corgan qualunque – il tocco magico. Più facile proiettarsi ancora più avanti nel tempo, ipotizzare che sarebbe stato invece un altro Neil Young. Un cavallo pazzo sempre e comunque, anche a settant’anni, fuori dagli schemi nel bene e nel male. Se, se, se…

Quel che è certo è che quando venne loro proposto a nessuno dei Nirvana, non soltanto al leader, piaceva l’idea di aggiungere il proprio nome al già lungo elenco di solisti e gruppi che, dal novembre 1989, si erano prestati a suonare in acustico nello show ideato dai produttori Robert Small e Jim Burns: il più popolare dei (oggi si direbbe) format della televisione al tempo in grado di decidere, trasmettendo o no un video e a seconda di quanti passaggi gli concedeva, il decollo di un disco o una carriera. Assai più della stampa e delle radio, commerciali o dei college che fossero. Piccolo dettaglio: molto più interessata MTV a fare comparire nel programma la band che con “Nevermind”, aveva cambiato per sempre l’approccio dell’industria discografica maggiore a quello che veniva chiamato underground, e da allora viene etichettato “alternative”, che viceversa. “Avevamo visto altre puntate e per la maggior parte non ci erano piaciute, perché quasi tutti quelli coinvolti si presentavano come se si trattasse di un normale concerto rock, però al Madison Square Garden, però in acustico”, ricorda il batterista Dave Grohl. E allora quando, dopo lunga trattativa, si decideva di accettare l’invito conditio sine qua non era che tutto si sarebbe dovuto fare secondo i desiderata di Cobain. Non del tutto convinto, a torto, che il fragoroso repertorio del gruppo potesse rendere ad amplificatori spenti (uno per sé in realtà lo terrà acceso, pur rinunciando alla chitarra elettrica). E determinato a non proporre, come quasi tutti quelli passati da quelle parti, la solita banale scaletta a base di successi, pezzi già ben noti al pubblico semplicemente riproposti in una veste più spoglia. Per quanto sia MTV che la Geffen potessero esserne scontente. Alla casa discografica in realtà andrà di lusso, perché si troverà così fra le mani un album pieno di brani altrimenti inediti (tutte le cover: ben sei) e con un resto di programma peculiare perché non soltanto in acustico ma con una scelta di canzoni fra le meno frequentate del repertorio, sole hit presenti Come As You Are e All Apologies. Di fatto, il quarto capitolo di una vicenda esauritasi troppo rapidamente e senza lasciare grandi margini a speculazioni postume, visto che i cassetti già erano stati svuotati con “Incesticide”. Con l’ulteriore punto a favore di rispolverare, e proprio in apertura, quell’unica canzone dell’esordio “Bleach”, About A Girl, in cui i Nirvana già erano i NIRVANA. Non a caso sarà il singolo.

A venticinque anni dall’uscita originale DGC e Universal hanno riportato nei negozi “MTV Unplugged In New York” in una speciale edizione in vinile con un enorme pregio e un brutto difetto. Partiamo dal primo: già il semplice fatto che i 53’50” che nel ’94 vennero compressi in due facciate si trovino ora distribuiti su tre fa suonare meglio il tutto, ma bisogna toccare con orecchio, alzando il volume il giusto, per rendersi conto quanto, e senza nemmeno bisogno di un remastering. La collocazione sul palco dei musicisti è di precisione impressionante e ogni minima sfumatura – dai saliscendi emotivi della voce al discreto armeggiare del violoncello, dallo scivolare delle dita sulle corde di a volte anche tre chitarre contemporaneamente al gioco di fino di una batteria capace di esserci senza mai esserci troppo – si coglie meravigliosamente. Il difetto? È che ci sia una quarta facciata, con le stesse bonus del DVD di cui sopra, prove sgangherate e costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. Da ascoltare una volta, con imbarazzo, e mai più. Quando tutto il resto è a suo modo perfetto pure quando la piccola imprecisione scappa. “Anche io andrò dove spira il vento freddo”, canta Cobain nella conclusiva Where Did You Sleep Last Night, da Leadbelly, e un groppo sale in gola. Scatta l’applauso. Proprio come a un funerale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.415, dicembre 2019. Non avesse scelto di smettere di intrattenerci, Kurt Cobain compirebbe oggi cinquantasette anni.

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Black Sabbath e satanismo – Genesi di una leggenda

Formalmente i Black Sabbath nascono un giorno di agosto del ’69 a bordo del traghetto che dall’Inghilterra sta portando ad Amburgo il cantante John Michael Osbourne (detto Ozzy; 3 dicembre 1948), il chitarrista Frank Anthony Iommi (per tutti Tony; 19 febbraio 1948), il bassista Terence Butler (meglio noto come Geezer; 17 luglio 1949) e il batterista William Ward (più familiarmente Bill; 5 maggio 1948). Nella città tedesca li attende un ingaggio di una settimana allo Star Club, esattamente il sordido localaccio nel quale, nel corso di ben più prolungati soggiorni, erano divenuti adulti i Beatles. Tutti quanti lungocriniti e tre su quattro baffuti, sicché appaiono più maturi di quanto non siano (non Ozzy, che il volto glabro fa sembrare il bambinone discolo che è), consumano le uniche droghe che è possibile e sensato consumare visto il luogo, vale a dire birra e sigarette, e discutono di musica e futuro. Di cosa suonare per potere avere una qualche speranza di guadagnarsene uno. Collettivamente noti come Earth, hanno urgenza sia di cambiare nome ─ per niente caratterizzante, anche se sempre meglio del primigenio e orrendo Polka Tulk, e oltretutto già usato da un’altra band che potrebbe intentare causa ─ che stile. Il blues è servito a rodarli e a procurare loro scritture, ma non c’è soddisfazione a eseguire materiali altrui o comunque derivativi e poi è indiscutibile: non è più alla moda. Bisogna cambiare per sopravvivere e hanno iniziato, mischiando al repertorio classico composizioni autografe in cui le scansioni rallentano, i riff si raddensano e si creano certe atmosfere… da horror cinematografico di serie B, genere di cui sono tutti appassionati, così come di occultismo spicciolo. Esemplare di questo agro stil novo è il pezzo che nei concerti raccoglie invariabilmente i maggiori consensi: Black Sabbath, titolo scippato all’edizione inglese di un film italiano del 1963, I tre volti della paura, di Mario Bava. Sulla strada per la sala prove un giorno Tony e Geezer sono passati davanti a un cinema che lo proiettava e il primo ha osservato al secondo: “Non ti sembra strano che la gente paghi per vedere qualcosa che la fa cacare sotto dallo spavento? Immagina se riuscissimo a creare una musica che ottenga lo stesso effetto. Che sembri… malvagia”. Fra una cicca e un rutto si decide: il titolo della canzone sarà la nuova ragione sociale, dopo Amburgo però e dopo avere onorato qualche contratto britannico già firmato. Ma ho corso e sarà il caso di fare alcuni passi indietro prima di compierne in avanti.

Uno per dire che il semplice fatto che gli Earth quel bel dì siano su quel battello in viaggio per la Germania denota che i quattro hanno una formidabile fede in se stessi e in particolare è Tony Iommi a essere convinto che orizzonti di gloria siano dietro l’angolo. Qualche mese prima il chitarrista ha ricevuto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare e l’ha rifiutata: invitato a unirsi ai già popolarissimi Jethro Tull in sostituzione del dimissionario Mick Abrahams, è stato per alcune settimane della compagnia, partecipando fra il resto alla carnascialesca kermesse stoniana del “Rock’n’Roll Circus”, ma poi ha preferito tornare alla base. E pensare che i suoi stessi amici lo avevano incoraggiato ad accettare, a non preoccuparsi di loro, a non farsi sfuggire un’occasione irripetibile. Logico che Osbourne, Butler e Ward se ne siano sentiti, oltre che lusingati, responsabilizzati.

Due… Nonostante la verde età i ragazzi vantano curriculum di una certa sostanza fin da prima degli Earth. A livello amatoriale Ozzy e Geezer, insieme in tali Rare Breed. A livello professionale Tony e Bill, entrambi per quattro anni nei Mythology, power-trio etichettato come… ahem… “la risposta del Cumberland alla Jimi Hendrix Experience” che sulla soglia del contratto discografico è malamente inciampato in un arresto collettivo per possesso di marijuana che lo ha sbattuto, in un giorno sfortunatamente povero di notizie rilevanti, sulle prime pagine dei quotidiani nazionali.

Per capire la determinazione eminentemente operaia che giocherà un ruolo cruciale nell’affermazione del Sabba Nero bisogna infine avere ben presenti il retroterra socio-culturale ─ suburbia urbana della più degradata ─ dei protagonisti di questa saga e in special modo il vissuto dei due principali, Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Il secondo ha disperato di potere coronare il sogno di divenire un musicista professionista il giorno in cui un incidente in fabbrica lo ha privato dell’ultima falange di medio e anulare della mano destra. Non sarebbe una tragedia non fosse che è un mancino e a suonare da “normale” proprio non ci riesce. Lo salva dalla depressione l’ex-principale che, oppresso dai sensi di colpa, lo va a trovare portando con sé un LP di Django Reinhardt e prima glielo fa ascoltare e poi gli racconta di come il celebre chitarrista zingaro avesse un problema analogo e anzi più serio. Iommi si entusiasma, si ingegna ad autocostruirsi due specie di ditali che applica alle dita mutilate e riprende a suonare. Un ulteriore problema che gli si presenta ─ la pressione che riesce a produrre sulle corde inevitabilmente non è quella ante handicap ─ è risolto accordando lo strumento un tono o anche più sotto il normale: escamotage che contribuirà in misura decisiva a definire il suono Black Sabbath, scuro e profondo come nessuno prima.

Quanto a Osbourne lo ha dichiarato innumerevoli volte: non avesse avuto successo avrebbe passato la vita dentro e fuori, ma più che altro dentro, le patrie galere. Famiglia poverissima, madre cronicamente depressa, padre alcolizzato (ma nondimeno un buon cristo che farà di tutto per aiutarlo nel momento in cui eleggerà la musica a possibile redenzione), una passione precoce lui stesso per l’alcool e ogni tipo di sostanza stordente, violenze sessuali subite (fuori dalle mura domestiche) ancora bambino. A quattordici anni ha tentato il suicidio. A diciassette è stato arrestato per furto ─ talmente consunti i guanti indossati per precauzione che ha lasciato impronte digitali ovunque ─ e ha passato in carcere un mese e mezzo. Dopo di che si è arrabattato con lavori occasionali: macellaio fra il resto. Se mai c’è stato uno nato per perdere eccolo: John Michael Osbourne.

Ma ritorniamo sul traghetto, scendiamone lievemente barcollanti con i nostri eroi e scopriamo che l’ingaggio è il più assurdo che abbiano rimediato a quel punto. Alla clientela di magnaccia e altri assortiti malavitosi, puttane e marinai sbronzi dello Star Club non importa un accidente di cosa suoni il gruppo di turno purché suoni, purché sul palco accada sempre qualcosa. Al massacrante, disumano ritmo di sette spettacoli al giorno (avete letto bene) i ragazzi si stufano presto di un repertorio ancora smilzo e cominciano a sperimentare manco fossero jazzisti della New Thing. Vale tutto, dai brani di tre minuti che diventano di mezz’ora agli assoli al pari dilatati, a volumi a mezza via fra la soglia della distorsione e quella del dolore. Un riff può essere stiracchiato per dieci minuti, oppure se ne possono sparare dieci in un minuto e Tony Iommi, che del riff contenderà il titolo di re a Keith Richards e Jimmy Page, deve probabilmente mettersene un congruo gruzzolo in saccoccia. Nessuno li ascolta sul serio, eppure è in quella fatidica settimana che i (non ancora) Black Sabbath scoprono improvvisamente di avere una personalità. Il bruco diventa farfalla. Naturalmente di ferro.

Al rientro a casa, il 22 di quello stesso mese, i quattro registrano un primo demo, con la supervisione di quel Gus Dudgeon che farà bei soldini con Elton John e David Bowie. Tal Jim Simpson se lo porta in giro per etichette ottenendo solo rifiuti. Non c’è da stupirsene, visto che sul nastrino incomprensibilmente sono finite due canzoni scadenti e che non rappresentano affatto il nuovo corso, una The Rebel che cita gli Hollies, figuratevi un po’, e la dedica a un manager il cui rapporto con i Nostri, ossequiando uno schema classico dello showbiz, finirà fra carte bollate e tribunali, di A Song For Jim. Che è un blues-rock basato sul piano, figuratevi un po’ 2. Però dal vivo i quattro pestano e tirano come dannati, sempre più coesi, una macchina da guerra cui il passaparola sta conquistando un buon seguito nel cosiddetto underground. Fa capolino in questa storia Tony Hall, amico di Simpson ed ex-dj di Radio Luxembourg con la voglia di passare dall’altra parte della barricata. È lui a tirare fuori i soldi, seicento sterline, per incidere non un secondo nastrino dimostrativo ma un LP e poi si vedrà che farne. Gli studi prenotati per due giorni sono i londinesi Trident, buchetto in Wardour Street, quartiere di Soho, che a dispetto di un’apparenza dimessa vanta tecnologie all’avanguardia e l’unico otto piste operante in Gran Bretagna nel 1969. Qualche mese prima hanno lavorato lì nientemeno che i Beatles. I ragazzi sono diventati un modello di efficienza: a registrare l’album impiegano un giorno solo e il secondo è speso mixandolo con la fondamentale regia di Rodger Bain, che curerà la produzione anche dei due 33 giri successivi. Adesso un disco c’è e si tratta di trovare chi lo pubblichi. Alla Philips mostrano un certo interesse, ma svanisce presto quando un singolo ─ su un lato Evil Woman, che sull’album ci sarà; sull’altro Wicked World che ne verrà invece esclusa ─ per la sussidiaria Fontana non ottiene riscontri significativi. Potrebbe già essere tutto finito, ingloriosamente, non fosse che nel programma di uscite della Vertigo, il marchio progressive di casa Philips, si apre all’improvviso un buco nel quale Simpson è lesto a infilare i suoi protetti. Il 13 febbraio 1970 ─ ça va sans dire: un venerdì ─ “Black Sabbath” è nei negozi del Regno Unito. La campagna concertistica che l’ha preceduto e lo segue, intensificandosi ulteriormente, paga dividendi al di là di ogni previsione: entra in breve in classifica ─ a fine aprile è al numero 8, performance strepitosa per degli esordienti che oltretutto con la stampa si sono presi subito male ─ e ci resterà per cinque mesi, praticamente fin quando non arriverà “Paranoid” a dargli il cambio: numero uno in Gran Bretagna, 12 negli USA, dove il debutto aveva fermato la sua corsa a un comunque straordinario ventitreesimo posto. A proposito di Stati Uniti: il quartetto vi sbarcherà una prima volta in luglio, a registrazioni del secondo LP già completate. Le poche decine di spettatori dei primi concerti diventeranno nel giro di qualche data centinaia, quindi migliaia. Quando i Black Sabbath ci torneranno, nel febbraio dell’anno seguente, su istigazione della loro casa discografica americana, la Warner Bros, quattro semplici parole campeggeranno sui manifesti annuncianti gli spettacoli: “Louder than Led Zeppelin”.

Dovrei a questo punto aprire un’ampia parentesi e, rubando il mestiere all’ottimo Sergio Varbella, diffondermi sul cambiamento che all’incrocio fra ’60 e ’70 interessa il modo di concepire le copertine dei 33 giri rock. Che a tutto il ’67 vedono obbligatoriamente effigiato il solista o il complesso che ne sono titolari e gradualmente relegano queste foto sul retro o all’interno della confezione, fino a farle a volte sparire del tutto, sostituendole con immagini che intendono evocare la musica proposta. Non è però il luogo e vi basti, se non ci avevate mai fatto caso, l’avere acquisito codesta informazione. Quel che mi preme qui sottolineare è che forse mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo, l’essenza di un sound come quella del primo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. Roger Corman o lo stesso Mario Bava non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore come Black Sabbath la canzone che apre “Black Sabbath” l’album non l’hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e dice bene il Wilkinson quando annota che così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Da lì a qualche minuto da uno stato di catatonia si passerà, con uno dei più magistrali cambi di andatura che la storia del rock ricordi, a uno di terrorizzata frenesia.

Non credo di esagerare se dichiaro che con una confezione meno indovinata l’esordio adulto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Affermo l’ovvio appuntando che l’avvento del CD ha avuto come principale conseguenza nefasta quella di cancellare l’arte della bella copertina. In questo caso è di un capolavoro a sé che stiamo discorrendo, che il formato ridotto mortifica in maniera e misura inaccettabili, e mi piace sottolinearlo in un momento in cui il farsi immateriale della musica ─ con il download ─ le infligge un’ultima e fatale umiliazione. Così è se vi pare e chiamatemi pure nostalgico. Ma tornando al Sabba Nero… ci credereste? Che l’album esca in tal guisa è una felice scelta di un qualche oscuro discografico: “Abbiamo dato la nostra approvazione quando ce l’hanno sottoposta, ma non siamo stati noi a ideare la confezione”, ammette nel marzo 1970 il buon Geezer in un’intervista a un quotidiano locale. Uomini maledettamente fortunati che viene il sospetto che un qualche patto faustiano dovessero averlo firmato sul serio.

Missione ai limiti dell’impossibile andare dietro a un incipit tanto memorabile senza accusare cali di tensione, ma “Black Sabbath” per gran parte del suo svolgimento ci riesce, cedendo giusto per qualche minuto sul principio del secondo lato, con quella Evil Woman già citata perché scelta sciaguratamente dalla Fontana per tastare il terreno a 45 giri. Non una brutta canzone (fra l’altro una cover, dagli americani Crow), sia chiaro, ma la cantabilità scanzonata e il piglio boogie la rendono un corpo estraneo al resto dell’opera. All’armonica crepitante, alla chitarra granitica, alla batteria tumultuosa dell’hard definitivamente post-blues di The Wizard. Alla sarabanda a tempo di valzer che si slabbra in litania stregona di Behind The Wall Of Sleep. All’assolo di basso che danza l’attacco di N.I.B. prima di instradarla su una terra di mezzo fra melodramma e metallurgia. Al dark-folk psichedelico precipitato nell’Ade da un’elettrica che è lava, lama e marmo e un basso che rotola sfrenato di Sleeping Village. Alla qui estatica e lì rovinosa collisione Zeppelin-Cream (a un certo punto citati esplicitamente) di Warning, una rilettura di Aynsley Dunbar di cui confesso di non conoscere la versione originale. Di non essere nemmeno riuscito a scoprire da dove l’abbiano prelevata Iommi e soci.

Sul testo di N.I.B. vorrei spendere qualche parola, magari partendo da un titolo che più avanti i Sabbath stessi sosterranno riferirsi alla barbetta appuntita (“nib” vuol dire “pennino”) esibita al tempo da Bill Ward. Ma chiedete lumi a qualunque adepto e sicuro vi risponderà che trattasi di acronimo per Nativity In Black. Sia come sia: la canzone narra una vicenda di seduzione letteralmente diabolica, con Satana che si dà un gran daffare per persuadere una ragazza a mettersi con lui. E tanto dice e briga, fra il resto cambiando pure nome, riprendendo quello di Lucifero in memoria dell’angelo che era stato, che alla fine la fanciulla cede alle lusinghe. “Vecchio satiro!”, esulta l’ascoltatore politicamente scorretto, che non aveva potuto non notare un certo senso di disperazione insinuarsi nel corteggiamento portato avanti dal Maligno. Che attore! Ha finto di struggersi per fare più facilmente cadere la preda ai suoi piedi. Non fosse che, con fenomenale rovesciamento prospettico, finiamo per capire che no, non era finzione, era davvero innamorato della ragazza e disposto addirittura a cambiare vita pur di farsi accettare da lei. Un bravo diavolo, più Andy Capp, se vi riesce di immaginare un Andy Capp genuinamente con il cuore in mano, che non Faust. Uno con cui potreste chiacchierare al pub e che al terzo boccale vi metterebbe sotto il naso, orgoglioso, le foto dei figli.

La leggenda dei Black Sabbath satanisti è, giustappunto, poco più che una leggenda. Un’operazione di marketing da inquadrare nel manifesto programmatico del quartetto, quello delineato alcune cartelle fa di forgiare una musica dalle apparenze malvagie che induca in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore.

Tratto da “Black Sabbath – Rock da camera (a gas)”. Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.27, autunno 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo album del quartetto di Birmingham compie oggi cinquantaquattro anni. Non li dimostra.

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