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Re Prince

Mi ha fregato ancora. Quando ero giovane e sciocco, a lungo sottovalutai l’Artista che era all’epoca conosciuto come Prince liquidandolo con qualche frase arrogante senza avergli in realtà dedicato l’attenzione che meritava, fermandomi all’apparenza kitsch e non cogliendo mai la brillantezza di brani che puntualmente scalavano le classifiche. Fino a Kiss, che non era brillante: era geniale. Correva l’anno 1986 e da allora innumerevoli volte sono andato a Canossa a rendere omaggio a quest’uomo, di cui tanto si è scritto e ciò nonostante resta un insondabile mistero. Mai però nella maniera estesa in cui mi appresto a farlo adesso che sono uno sciocco ormai prossimo alla mezza età. Fatto è che l’Artista Del Quale Un Tempo Alla Gente Importava Qualcosa (velenosa definizione di Howard Stern) mi ha per l’appunto fregato una volta di più, con un album uscito ufficialmente nel 2001 ma pressoché clandestino fino allo scorso autunno e che non avrei probabilmente mai ascoltato, io che ho quindici centimetri di scaffale occupati da dischi suoi e tutti quelli li ho comprati, non me ne avesse gentilmente fatto omaggio il distributore italiano. Prima di guadagnarsi un giro sul lettore, “The Rainbow Children” ha preso polvere per diversi giorni e rientrava nell’ordine naturale delle cose: in fondo stiamo parlando di uno che ha perso la bussola ─ si dice ─ diversi anni fa, il cui ultimo conclamato capolavoro è datato 1992 e che dopo il burrascoso divorzio dalla Warner a metà dello scorso decennio ha fatto di tutto per diventare l’Uomo Invisibile del Pop. Assenza totale dalle TV e dalle radio. Concerti fissati con pochi giorni di preavviso e non pubblicizzati. Dischi diffusi in qualche caso solo per tramite del suo sito Internet e, per quanto mi è stato dato di leggere, paurosamente ineguali, con sprazzi sì dell’antica grandezza ma soprattutto un’autoindulgenza senza più freni. Che diamine! Uno che non si sapeva nemmeno più come bisognava chiamarlo. E dunque “The Rainbow Children” era un album da ascoltare soltanto per verificare se le canzoni apprezzabili superassero oppure no quelle trascurabili e se valesse la pena di tenerlo in librerie mostruosamente ingombre. Giusto? Sbagliato.

Al primo ascolto mi è sembrato un disco con troppi materiali affastellati uno sull’altro, troppi bersagli puntati senza centrarne alcuno. Comunque interessante. Abbastanza. Al secondo ascolto ho cominciato a reputarlo alquanto buono anche se però… vuoi mettere “1999”, “Purple Rain”, “Parade”, “Sign O’The Times”, “Diamonds And Pearls”? Per intanto una cosa sapevo e cioè che di casa non sarebbe uscito. Terzo ascolto: improvvisamente, mi illumino di immenso. Quarto: peccato che sia datato 2001, peccato non poterlo quindi piazzare nella mia playlist annuale. Quinto e successivi: Prince un giorno mandò a Miles Davis un biglietto in cui, modestamente, si firmava “Dio”. Non so da voi, ma dalle parti di casa mia è tornato a esserlo.

È un album di una densità stordente, “The Rainbow Children”, sin dalla canzone che lo inaugura e battezza e che è non so quante altre canzoni intrecciate in una e tanto per cominciare un plagio bell’e buono (chiamatelo omaggio se volete) dello strumentale errebì per antonomasia Green Onions. Però intrecciato a del jazz, dalle parti del Dave Brubeck di “Time Out”. Però con delle voci che paiono citare i Manhattan Transfer che rifacevano i Weather Report. Però con una chitarra alla Jimi Hendrix. Però con un sax stile King Curtis. Però con un’altra chitarra che scommetteresti essere di Carlos Santana finché non diventa quella di Tony Iommi. Qualche altro milione di cose è successo nel frattempo e miliardi si preparano ad accadere, più di quanto potreste mai immaginare che si concentri in quattordici brani e settanta minuti netti. C’è una Muse 2 The Pharaoh che parte gospel e arriva rap e nel mezzo è pop, è soul, è jazz. C’è una Digital Garden che dall’exotica transita all’hard. C’è una Everywhere che mischia funk, jazz e musica latina inestricabilmente e come di rado si è udito. C’è una Last December che diresti di un redivivo Marvin Gaye fin quando non decidi che certo che no, questo è Ozzy Osbourne, impossibile sbagliarsi. Raccontato così, potrebbe dare l’idea di un gran guazzabuglio, di una sterile dimostrazione di virtuosismo di quelle che amava offrire Frank Zappa. È un concept oltretutto, un romanzo in musica questa storia dei bambini dell’arcobaleno, e si sa quanto farraginose risultino di norma operazioni siffatte. Ma voi non curatevi di quest’ultimo dettaglio come non vi ho badato io, che del resto mai ho fatto più che scorrere a grandi linee le complicatissime storie a fumetti che si snodavano sulle copertine dei dischi di George Clinton e p-funkadelica compagnia. Chissenefrega, fin quando swinga? E “The Rainbow Children” swinga da paura quand’anche cambia stile ogni poche battute con frenesia a momenti zorniana. Ci sono poi brani più lineari, di un’incisività che in altri tempi li avrebbe spediti in cima alle graduatorie di vendita: una The Work Pt.1 che è distillato di James Brown, una Mellow favolosamente sexy, una She Loves Me 4 Me ruffianamente M.O.R., una The Everlasting Now dall’incastro basso-batteria semplicemente travolgente. Sono canzoni che più ancora che l’artista portano ad ammirare l’uomo e la sua attitudine incompromissoria fino all’autolesionismo. Farebbero furore in mano a una multinazionale. Se il portafoglio di Prince di ciò non beneficerebbe forse più di tanto, per il suo ego vorrebbe dire parecchio. Sacrificato persino quello, ed è costui un egocentrico patologico, all’ansia creativa che lo sobilla. Questo signore merita rispetto.

(Dicono che Prince si prenda troppo sul serio 1 ─ Si sa: lui e Michael Jackson si sono sempre scrutati con diffidenza. Il primo non ha mai considerato il secondo un serio concorrente, aspirando piuttosto a essere contato fra i Marvin Gaye e i Miles Davis, e pur di evitare ogni raffronto rifiutò a suo tempo una barca di soldi dalla Coca Cola perché Jackson sponsorizzava la Pepsi. Il secondo ha viceversa cercato il confronto più volte, mostrando di patirlo. Deducete ciò che volete da questi due fatti: 1) Michael Jackson ha chiamato il suo primogenito Prince; 2) Michael Jackson una volta invitò Prince a cena a casa sua, presenti le sorelle Janet e LaToya, e Prince non gli rivolse quasi la parola, preferendo conversare e provarci con quest’ultima. Quando stava registrando “Bad”, Jackson invitò il nostro uomo a duettare con lui nel brano omonimo. Prince: “La prima frase di quella canzone è ‘Il tuo culo è mio’. Io gli dissi: ‘Chi la canta a chi? Perché di certo tu a me non la canti’. Da lì iniziarono i problemi”.)

Che Prince Roger Nelson sia a dir poco un eccentrico, che è un modo elegante per descrivere una persona che proprio “normale” non è, è sempre stato sotto gli occhi di tutti. È un argomento sul quale in linea di massima sorvolerò nelle cartelle a seguire, così come non scriverò di una complicata vita sentimentale che pure qualche riflesso sulla sua arte lo ha avuto e limiterò al minimo le annotazioni sui tanti musicisti che lo hanno affiancato negli anni e questo perché Prince sostanzialmente basta a se stesso: molti dei suoi dischi li ha non soltanto interamente composti, arrangiati e registrati da solo ma se li è pure cantati e suonati senza aiuto alcuno. Il punto è proprio questo: Prince basta a se stesso. Potesse decuplicarsi sul palco, lo farebbe. Potesse avere una relazione sentimentale a uno (direi che ce l’ha), non ne cercherebbe altre e l’aspetto più sgradevole della sua personalità è il modo in cui ha sempre liquidato collaborazioni e amicizie ogni volta che le ha pensate al capolinea: per interposta persona e chiudendo definitivamente, spesso senza un motivo. Leggendarie le bizze di questo narciso e per certo vivergli intorno non dev’essere facile. Ritengo tuttavia che ciò non debba interessarci, contano i dischi e di quelli parlerò. Che l’uomo abbia difficoltà a rapportarsi al mondo è affar suo. Si può magari essere dispiaciuti per lui ma la domanda è: non fosse sempre vissuto in un sostanziale isolamento (quello di un uomo solo al comando, non l’hughesiana follia di Jackson) che ha alimentato il suo stakanovismo, avrebbe prodotto la musica straordinaria che ha prodotto? Sarò egoista come lui ma mi va bene così. Credo comunque che sia felice. Credo che non si sia mai posto seriamente il problema.

I dischi, allora. Il primo album ha venticinque anni (il suo autore ne compirà quarantacinque il prossimo 7 giugno) e li dimostra.

Prosegue per altre 28.378 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.59, aprile 2003. Prince compirebbe oggi sessantacinque anni. Non fosse che…

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Il buio ai margini della città – I 45 anni splendidamente portati di “Darkness On The Edge Of Town”

L’abisso che divide “Darkness On The Edge Of Town” dal predecessore è scavato già da una copertina che immortala uno Springsteen stanco, lontano da quello sorridente, dall’espressione e dalla posa simpaticamente smargiasse, del disco prima. Era quello, in fondo, ancora un ragazzo pieno di illusioni romantiche che rispondeva alle sfide della vita con foga guascona. Tre anni dopo è un uomo alle prese con domande più grandi di lui e ineludibili, più o meno tutte, anche quelle più private, riguardanti il rapporto conflittuale fra lui e il padre, in rapporto con il Quesito per eccellenza degli Stati Uniti del dopo Kennedy: com’è che il Sogno Americano è andato in malora, e quando? Domanda che non permette, per citare il ritornello della dolente Something In The Night, che nulla sia “perdonato o dimenticato”. Se “Born To Run” era stato in un certo senso un American Graffiti, “Darkness”, pieno di sequenze notturne in bianco e nero e fortemente contrastate e cupo come solo “Nebraska” sarà, è davvero Furore. Il tono, in questo viaggio alla ricerca delle radici proletarie degli Springsteen, è quello del reportage e non fu casuale la scelta di caratteri da macchina da scrivere per titoli, note e testi. Nella voce del cantore di queste storie amare si avverte una desolazione (che pure non chiude del tutto le porte alla speranza) che stringe il cuore in una morsa, mentre alle sue spalle le chitarre stridono, organo e sax ululano funerei, la batteria pulsa come l’ingranaggio di un macchinario e giusto il piano di Bittan regala sprazzi di giocosità. Wow! Rock’n’roll.

La tensione drammatica è alta da subito. Nonostante Badlands sia scandita da un saltellante ritmo alla Bo Diddley la sua sostanziale fissità è l’opposto della spumeggiante gioia di vivere di una She’s The One, benché Springsteen canti “credo nell’amore che mi donasti/credo nella speranza che può salvarmi” e dichiari che “non c’è peccato nell’essere felici di esser vivi”. Un singolare contrasto con quei versi di Adam Raised A Cain, che deve la trama al film La valle dell’Eden e molto nella musica al classico soul Raise Your Hand (all’epoca una presenza fissa nei concerti), che recitano “nasci in questa vita scontando/i peccati del passato di qualcun’altro/Papà ha lavorato tutta la vita senz’altra paga/che il dolore”.

Una soffocante tristezza pervade Something In The Night e Racing In The Street, due ballate guidate dal piano che mostrano i vicoli ciechi dove sono andati a imbucarsi i corridori di Born To Run. Le inframmezza l’unico uptempo dell’album, Candy’s Room, che si apre su una voce desolata recitante sul tintinnare frenetico dei piatti della batteria e nel procedere si fa travolgente celebrazione dell’amore. Due canzoni in una, ricorderete: la migliore possibile.

Apre il secondo lato The Promised Land, che grazie al suo intreccio e alla successione di assoli è un brano esemplare per comprendere la dinamica dei rapporti fra gli strumenti della E Street Band. La Terra Promessa nella quale il protagonista dichiara di credere appare meno di un sogno, dacché la realtà è quella di Factory ─ cadenza industriale, pianoforte e l’organo di Federici che piange in lontananza ─ delle vite sacrificate a un sistema produttivo disumano. L’organo chiesastico e il gioco di vuoti e pieni, memori di Jungleland, di Streets Of Fire e l’incedere rock’n’roll di Prove It All Night introducono alla canzone che intitola il disco e lo conclude: la voce è indicibilmente mesta, la musica lentissima. Sembrerebbe che il film debba chiudersi con un fermo immagine: invece la pellicola, cigolando, si riavvia e il protagonista va a saldare il debito procuratogli dal volere cose “che possono essere trovate soltanto/nell’oscurità ai margini della città”.

Tratto da Bruce Springsteen – L’ultimo romantico del rock’n’roll. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.7, autunno 2002. Basato in parte su materiali usati in precedenza in Bruce Springsteen ─ Strade di fuoco (Giunti, 1998). Ristampato in Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. “Darkness On The Edge Of Town” compie oggi quarantacinque anni.

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Il magico 1968 dell’ippogrifo Pentangle

Registrato nell’autunno 1968 e pubblicato nel gennaio dell’anno dopo “Birthday Blues” resterà per due anni e mezzo l’ultima prova da solista di Bert Jansch, a quell’altezza occupato a tempo pieno dall’avventura Pentangle. Ha ragione Richie Unterberger quando osserva che è un po’ come ascoltare i Pentangle ma in una versione sbilanciata, con la ritmica consuetamente lì storta e là swingante ma senza la seconda chitarra a contrappuntare quella che da sola si prende il proscenio e senza la voce femminile tanto caratterizzante e, oggettivamente, infinitamente più suggestiva. Non è la migliore prova dell’autore né da solista né in un contesto di gruppo e nondimeno qualche articolo di vaglia al suo favoloso catalogo, oltre alla già citata I Am Lonely, lo aggiunge: una fiabesca Tree Song; la virtuosistica (dedica alla sua signora) Miss Heather Rosemary Sewell; una A Woman Like You che azzarda il raga; una traccia omonima squisitamente barocca benché in solitario e scandalosamente breve.

Non avrà a lungo un successore, il Blues del Compleanno, perché l’ippogrifo Pentangle (ha presente il lettore? bestia leggendaria che fonde in sé quattro diversi animali e qui sarebbero cinque, ma due sono il medesimo) a quel punto vola ormai altissimo. Ci sono voluti due americani per propiziarne l’ascesa verso empirei di stardom e immortalità: uno è Jo Lustig, manager di pochi scrupoli quanto di efficacissimo attivismo, capace di procurare alla band una copertura mediatica impressionante, su una stampa specializzata che al tempo decide fortune e sfortune così come da parte della BBC; l’altro è il produttore Shel Talmy, uno cui già gli Who e i Kinks dovevano non tanto ma tantissimo e scusate se è poco. Saranno però i Pentangle il suo capolavoro: firma la regia dei loro primi tre album e non ci si crede quanto suonino bene. Il primo in particolare, inciso con a disposizione appena quattro piste dentro le quali riusciva ad accomodare un sound pazzamente caleidoscopico. Questo sia subito chiaro: se routinariamente si indica nel quintetto, a pari merito con i Fairport Convention (uno scalino sotto gli Steeleye Span; la Incredible String Band un’altra roba), la massima espressione del folk-rock britannico è per convenzione, per comodità di discorso. Giustamente con chi glielo dice Danny Thomson si infuria e rivendica che trattavasi, semmai, di folk-jazz. Non tanto per l’uso da parte sua di un contrabbasso, e non di un basso elettrico, quanto per la preferenza data a tempi altri (che cambiano magari durante lo stesso pezzo) rispetto al canonico 4/4. Nei Pentangle quasi mai la ritmica è squadrata: ondeggia, swinga, prende abbrivi marziali. E certe sonorità e scale ─ di una chitarra elettrica che pare a volte un sitar; e ogni tanto è proprio un sitar a far capolino ─ che istintivamente l’ascoltatore di rock non può non collegare alla psichedelia arrivano in realtà dalle musiche indiane, arabe, magari dell’Est Europa. Fra l’altro: senza che ciò mai incida sulla stratosferica qualità delle performance, assai spesso la nostra combriccola si presenterà alla ribalta in stato di alterazione collettiva (in special modo i due chitarristi), ma alcolica, non di origine chimica.

Ancora Unterberger (in Eight Miles High, secondo tomo di una poderosa e imprescindibile storia del folk-rock) si spinge, un po’ spericolatamente, a dire i Pentangle i Beatles del versante britannico della scena. In questo senso ha ragione: che furono un gruppo in cui ciascuno dei cinque membri evidenziava una personalità forte, unica, chiaramente a sé rispetto alle altre quattro. Ci sta. Ma allora si può anche chiamarli i CSN&Y: per gli intrecci vocali e per l’abitudine di ricavare parentesi solistiche negli spettacoli dal vivo.

“The Pentangle” vede la luce a un anno quasi esatto (meno dieci giorni; il 17 maggio 1968) dal primo concerto. Chiaro che l’intesa si è affinata e, se la freschezza è da esordio, le si abbina la perfezione della macchina ampiamente rodata, ciascun ingranaggio funzionale all’armonioso muoversi d’assieme. Degli otto brani che compongono il succinto programma (trentuno minuti scarsi) solo metà è originale e inoltre ─ laddove Pentangling è sin dal titolo il manifesto di un suono mercuriale che scappa verso ogniddove fra momenti incantati, strappi e vortici ─ Bells e Waltz non sono che due (deliziose) scuse per esibire la magistrale padronanza dei rispettivi strumenti di Cox e Thompson. Mentre la pigramente arabeggiante Mirage è la versione per band di una peregrinazione di Jansch fra dune desertiche. Eppure: è un gruppo dalla personalità tanto straripante da evidenziarsi maggiormente nei materiali che rielabora: il gospel degli Staple Singers Hear My Call, girato jazz; i tradizionali Let No Man Steal Your Thyme e Way Behind The Sun, trascinati verso derive lisergiche da (per osare ulteriormente) Jefferson Airplane britannici; e Bruton Town, che parte minuetto e trasfigura in saga.

Proprio Bruton Town, e oltretutto relegata a fondo scaletta, è l’unica traccia del debutto presente nel disco dal vivo che, accoppiato a uno in studio, dà vita già entro fine anno al viceversa assai corposo seguito, “Sweet Child”. Scelta coraggiosa quella di uscirsene già con un doppio che giova alla crescente reputazione della band, se non a vendite che permangono modeste in rapporto all’entusiasmo di critica e pubblico pagante (ai concerti). La precedono lungo quaranta minuti undici brani inediti (la ristampa in CD oggi in catalogo offre lo spettacolo intero, chiarendo che da quel punto in poi l’esordio veniva ripreso quasi integralmente): resta forse il migliore riassunto di un canone capace di includere con disarmante naturalezza blues inacidati (l’autografa Market Song) come arcaici (il vivace omaggio a Furry Lewis Turn Your Money Green), ballate dal modernista (No More My Lord) al favolistico (Watch The Stars), una sinossi perfetta di folk barocco (Three Dances), mo-nu-men-ta-li riletture di due fra i massimi capolavori di Charles Mingus (Haitian Fight Song e Goodbye Pork Pie Hat) e poco dopo una performance a cappella di Jacqui McShee (So Early In The Spring) di una bellezza semplicemente paralizzante. Un gradito ritorno: The Time Has Come, adesso elettrica. Dal raffronto il 33 giri in studio risulta a momenti sminuito, a un primo ascolto almeno. Ma prolungandosi la frequentazione se ne evidenzia una seduzione più quieta quanto al pari persistente. Rappresentano apici stellari una canzone inaugurale e omonima dal sognante al turbinoso, l’ansiogeno strumentale (Thompson suona con l’archetto) Three Part Sing, il valzer sull’orlo della schizofrenia I’ve Got A Feeling (ispirato da Miles Davis), la ritmica Moon Dog, una Hole In The Coal che è di Ewan MacColl e parrebbe invece (ebbene sì e ancora) dell’adorato Mingus.

Dopo avere tanto seminato nel 1968 i Pentangle raccolgono nel 1969, con l’album che i più considerano il loro grande classico (tutti quelli che non gli preferiscono “Sweet Child”): “Basket Of Light”. Finalmente superstar, quinti nelle classifiche UK.

Tratto da Bert Jansch – La ballata di un enigma. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.237, febbraio 2018. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo, omonimo album dei Pentangle vedeva la luce il 17 maggio 1968, cinquantacinque anni fa.

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Feel Like Being A Silver Machine – Hawkwind, 1970-1977

La notizia è – sarebbe – che sono usciti due box degli Hawkwind. Peccato che celebrino due decenni durante i quali il gruppo, pur restando dignitoso, ha cessato di essere rilevante. La non-notizia allora è un’altra: gli Hawkwind si apprestano a festeggiare i loro primi quarant’anni. Incredibile ma vero.

Incredibile ma vero, al dio del rock (che ultimamente si sta facendo bestemmiare come non mai) piacendo, è che – a parte il povero Bob Calvert, che ci lasciava quarantatreenne nell’agosto ’88 – ci arrivino in condizioni smaglianti per dei signori in prevalenza più prossimi ai settanta che ai sessanta e che hanno vissuto una vita spericolata come nessuno mai. I due principali protagonisti della saga, il chitarrista Dave Brock e il sassofonista Nik Turner, si sono da tempo ritirati in campagna e immaginarseli agricoltori a menare un’esistenza scandita dai cicli della luce e delle stagioni è una visione surreale. Stiamo parlando di una delle band più quintessenzialmente metropolitane di sempre. Stiamo parlando dei compagni di merende di… state a sentire come il bassista Lemmy Kilmister racconta dell’approccio a un concerto londinese rimasto epocale, quello durante il quale furono incise le piste strumentali (la voce poi sostituita in studio) del singolo Silver Machine, un numero 3 nelle classifiche UK nel luglio 1972 e rimasto la più grande hit dei nostri squinternati eroi.

Io e Dikmik (Davies, il tastierista; NdA) eravamo pieni di dexedrina fino agli occhi, in piedi da quattro giorni e quattro notti e allora si cominciava a essere nervosi. Bisognava fare questo spettacolo e avevamo bisogno di calmarci. Così buttiamo giù del Mandrax, ma dopo un po’ ci piglia la noia e allora ci fumiamo un paio di cannoni di nero. Arriviamo alla Roundhouse e salta fuori dell’altro nero. Ci spariamo quell’altra decina di spinelli belli carichi a testa. Siamo di nuovo schizzati come bestie e per rilassarci caliamo altro Mandrax, tre pillole ciascuno. È stato a quel punto che ci hanno portato della coca… Cazzo, delle borse piene di coca. Be’, l’abbiamo assaggiata, naturale. Bussano al camerino per dirci che è ora di andare in scena e a quel punto ho il corpo talmente irrigidito da essere come paralizzato. Gli faccio: ‘Ehi, Dikmik! Non riesco più a muovermi!’. E lui: ‘Neanch’io! Figo, eh?

Pensate che quel concerto, registrazione di Silver Machine a parte, fu un disastro? Niente affatto. Chi c’era lo magnifica come un trionfo e, se credete siano ricordi falsati dalle sostanze assunte non solo dal gruppo ma più o meno dall’intera platea, in assenza di una macchina del tempo potete andare a toccare con orecchio il fenomenale “Space Ritual”, doppio live datato ’73, inequivocabile testimonianza di come una compagine per il resto sommamente disfunzionale messa su un palco riuscisse invariabilmente, in qualche pazzesco modo, a funzionare alla perfezione. Eccellenti in studio, trascendentali dal vivo: almeno in questo il ricorrente paragone con i Grateful Dead tiene. “Potevamo diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Brock nel 1999, concedendosi a “Mojo”. Furono invece i papà dei Sex Pistols.

Prosegue per altre 7.584 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.656, marzo 2009. “Space Ritual” vedeva la luce cinquanta esatti anni fa.

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Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell

Ho visto la freccia in cima alla porta./Diceva: ‘Questa terra è condannata,/da New Orleans a Gerusalemme’./Ho attraversato l’East Texas/dove molti martiri sono caduti/e so che nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell./Ho sentito il verso della civetta risuonare/mentre smontavano le tende,/le stelle sopra gli alberi spogli/suo unico pubblico./Le ragazze zingare che portano il carbone/sanno bene come pavoneggiarsi,/ma nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell.

Per bizzarra coincidenza è un 5 maggio il giorno in cui Bob Dylan registra Blind Willie McTell, o meglio la versione ─ ne esiste una precedente, del 18 aprile sempre del 1983 ─ di cui ci ha fatto dono solo otto anni più tardi includendola nella prima uscita delle “Bootleg Series”. È alle prese con “Infidels”, il disco che segnerà la sua rinascita dopo l’era fosca e ottusa di un’altra rinascita, quella cristiana, ed è incerto sul valore di un brano a proposito del quale dichiarerà che “non conosco nessuno che faccia questo tipo di canzoni” e, sant’iddio, sta parlando il signore che ha firmato una bazzecola come Like A Rolling Stone e rivoluzionato la storia della canzone popolare quel paio di volte. Talmente incerto ─ “non è incisa bene” e “non si è sviluppata come avrebbe dovuto” altre due inverosimili scuse ─ che in ultima istanza deciderà di escluderla dall’album, preferendole il comizio sionista di Neighborhood Bully: scelta fra le più autolesioniste in una vicenda che in materia di autolesionismo nulla si è fatta mancare. Ma il nastro passa di mano in mano (ne arriva una copia a Steve Wynn e sarà per tramite dei Dream Syndicate, artefici di una versione di elettrico, apocalittico fulgore, che avrò modo di ascoltarlo per la prima volta) e cresce la sua fama. Quando vedrà la luce ufficialmente al mondo toccherà interrogarsi sulla sanità mentale dell’autore, incapace di riconoscere la grandezza di una canzone come non ne componeva (né ne ha più composte) dai mezzi ’70 di “Blood On The Tracks”, se non dai mezzi ’60 di “Blonde On Blonde”. Però in una cosa aveva ragione: nessuno scrive canzoni così. Siamo al sovrumano, nell’afflato come nella qualità, e mi sia concesso citare al riguardo quel finissimo esegeta di Alessandro Carrera quando annota che Blind Willie McTell è “una conversazione desolata fra Dylan e lo spirito della terra, condotto sull’orlo della fine del tempo, davanti alla concreta e terrificante possibilità che anche l’immortalità stia per morire”. E con il bardo di Duluth la faccio finita qui, o quasi.

Ho guardato le grandi piantagioni bruciare,/sentito le fruste schioccare,/aspirato il dolce profumo delle magnolie in fiore/e ho visto i fantasmi delle navi negriere./Posso ancora ascoltare i lamenti delle tribù,/posso ancora ascoltare la campana del padrone/e nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.

Dicevo di una coincidenza: fosse stato ancora vivo, quel 5 maggio il bluesman georgiano avrebbe festeggiato l’ottantacinquesimo compleanno, oppure l’ottantaduesimo visto che sull’anno di nascita ─ 1898 o 1901 ─ le fonti sono discordi. Non l’unico dettaglio rimasto oscuro, avrete inteso se con il blues avete frequentazioni appena più che occasionali. Nemmeno si sa in verità quale fosse il suo vero nome. Per Carrera era nato Willy Samuel McTier, ma a prestar fede a Greg Ward sulla sua pietra tombale sta scritto “Eddie McTier”. Né è chiaro se fosse nato cieco o lo sia divenuto intorno ai vent’anni. Inoltre: confusi i resoconti intorno alle circostanze di una morte che lo colse ─ il 19 agosto 1959, pare ─ a tal punto dimenticato che solamente alcuni mesi dopo la notizia trapelava fra gli appassionati. Usciva un 33 giri su Bluesville, “Last Session”, quando mai in vita Blind Willie McTell aveva avuto la soddisfazione di avere un suo LP nei negozi. Presto il blues revival avrebbe regalato fama e denaro ai coetanei sopravvissutigli e fra costoro a diversi a lui inferiori. E nel 1971 la Allman Brothers Band avrebbe posto Statesboro Blues a incipit del classico e vendutissimo “At Fillmore East”. Ma fatemici arrivare e innanzitutto dicendovi perché sono qui a parlarvi di Willie il Cieco. È in circolazione dalla scorsa estate un cofanetto su JSP, “The Classic Years 1927-1940”. È economico, eccellentemente annotato, suona bene quanto si può pretendere da incisioni così vetuste. Ed è una delle più monumentali raccolte di blues, non solo pre-bellico, che siano mai state pubblicate.

Prosegue per altre 6.789 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.67, dicembre 2003. L’uomo noto con il nome d’arte di Blind Willie McTell nasceva il 5 maggio 1898. Il 5 maggio 1983 Bob Dylan registrava, con l’idea di includerlo nell’album “Infidels”, un omonimo brano dedicato al grande bluesman. Fino all’uscita nel marzo 1991 nel cofanetto “The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991”, che lo contiene, il pezzo resterà invece ufficialmente inedito.

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Il poeta nero numero uno James Brown

Lo hanno (si è) chiamato in tanti modi: il signor Dinamite, il più grande lavoratore del mondo dello spettacolo, il Fratello soul numero uno e infine il Padrino del soul. Ma la più suggestiva definizione di lui la diede Le Roi Jones mentre l’America bruciava e il nostro uomo alternativamente attizzava e spegneva incendi: più che il fratello soul, “il poeta nero numero uno”. Detto da uno che di poesia e di poeti se ne intende. Non si riferiva ovviamente alla qualità dei testi, che di norma sono stati minimali come gli spartiti che corredavano, ma al modo in cui quelle parole, unendosi a quelle musiche, divenivano qualcosa di infinitamente più grande, assumendo come è tipico del blues significati fra le righe più interessanti di ciò che esplicitamente dicono e andando a definire come a nessun altro è riuscito l’identità dell’Afroamericano del Novecento. Senza nemmeno volere. In azioni, parole, musica, James Brown è stato uno dei principali rivoluzionari del XX secolo ma non l’ha fatto apposta. L’individuo è in realtà quello che oggi diremmo un conservatore compassionevole, un povero cresciuto aspirando alla borghesia, non al sovvertimento del Sistema, ed è stata fino a un certo punto la sua stessa vita a dimostrare che quel sistema era aggredibile, migliorabile dall’interno. A patto di lavorare sodo. Se parliamo di politica e sociologia, così è se vi pare. Se invece parliamo di musica, e naturalmente parleremo più che altro di musica, James Brown è uno di quei pochi nomi, in qualunque ambito, di cui è impossibile sopravvalutare l’importanza, uno di quelli che senza di lui la storia sarebbe stata completamente diversa. Come ha giustamente annotato l’autore di The Death Of Rhythm & Blues, Nelson George, è stato un catalizzatore per tutte le generazioni successive di musicisti neri (non solo per i neri, dico io), ciascuno dei quali non è che un ramo dell’albero di cui lui costituisce le radici. In piccolo, piccolissimo per carità, James Brown è una delle ragioni per le quali accettai di occuparmi continuativamente di soul su queste pagine. Che diamine: è una delle ragioni per le quali continuo ad ascoltare musica, a scriverne, a essere quello che sono. Perché gli eroi hanno bisogno di gente che (sebbene indegnamente) ne canti le gesta e tutti noi (nel negarlo il punk sbagliava) abbiamo bisogno di eroi. James Brown per me lo è. Anche se le tristi vicende dei ’90 ne hanno crudelmente evidenziato tutta l’umana debolezza. Anche se non fu esattamente passione a primo incontro.

Mi piacque naturalmente alla follia in The Blues Brothers. Era Cleophus James il predicatore, annunciava “The day of the legends is in”, cantava il gospel The Old Landmark e lo schermo andava a fuoco. Bella partenza ma falsa. Disprezzavo, complessivamente, la disco, di cui costui veniva indicato come il massimo antesignano. Non capivo la no wave, che si diceva ─ e gli album dei Contortions, che rivaluterò soltanto a tre abbondanti lustri dagli eventi, lo confermavano ─ da lui influenzata. In ogni caso, i primi ’80 non erano un buon momento per fare la conoscenza del Padrino del soul, scadenti i suoi dischi di allora, per la più parte irreperibili i classici. Nel 1984 sottovalutai il duetto con Afrika Bambaataa Unity. L’anno dopo osservai Living In America scalare le classifiche, unico vero successo del decennio, discretamente schifato e per la mediocrità della canzone (non ho cambiato idea) e per il contesto cinematografico, la colonna sonora di Rocky IV, da cui proveniva. Però nel frattempo stava esplodendo l’hip hop. Pian piano me ne innamorai. James Brown era ovunque. Nel 1991 vedeva la luce “Star Time”, cofanetto quadruplo riccamente commentato, settantuno brani, cinque ore di musica e non un decimo di secondo da buttare. Per qualcuno è il più grande album di tutti i tempi. Per me è la raccolta ideale non solo per approcciarsi all’oggetto di questo esercizio devozionale ma per capire cosa vogliano dire soul, rhythm’n’blues, funk. Fu una folgorazione indimenticabile ed è l’antologia di black music definitiva.

James Brown nasce a Barnwell, South Carolina, il 3 maggio 1933 da una famiglia più che povera miserabile e per di più, per dirla elegantemente, disfunzionale. “Non avevo una vera madre e solo ogni tanto un genitore”, ricorderà. Ha quattro anni quando i suoi si separano e va ad abitare con il padre ad Augusta, Georgia, presto abbandonato pure da lui, che preferisce arruolarsi nell’esercito piuttosto che crescerlo, e tirato su da una sequela di parenti distratti fra cui una zia tenutaria di un bordello. Studia irregolarmente e con scarso profitto, lascia quindicenne e si sbatte per guadagnare qualche dollaro lustrando scarpe e spazzando pavimenti, raccogliendo cotone, lavando macchine e, premonizione di quanto lo attende, facendo il guitto per strada, cantando, ballando. Partecipa anche a competizioni per dilettanti e non di rado le vince. Da manuale che arrivino i guai con la legge. Nel 1949 viene sorpreso su un auto altrui e il giudice ha con lui la mano pesantissima, infliggendogli da un minimo di otto a un massimo di sedici anni ─ gli stessi che ha il reo! ─ di lavori forzati. Dispone inoltre, nemmeno si trovasse dinnanzi un mafioso, che i primi mesi vengano scontati in un istituto di massima sicurezza. Il ragazzo resterà dentro in realtà tre anni, per la più parte trascorsi nel non troppo rigido riformatorio di Toccoa, e come era accaduto decenni prima per Louis Armstrong sarà un’esperienza altamente formativa, una fortuna persino. Conosce là Bobby Byrd ed è la famiglia di costui a farsi garante per la libertà vigilata e a trovargli un lavoro in una fabbrica di automobili, la Lawson. Il giovanotto è diviso fra la passione per la musica e quella per lo sport. Sale per tre volte sul ring da peso gallo ma poi appende i guantoni al chiodo. Se la cava meglio con il baseball, dove avrebbe qualche possibilità di far carriera non ci si mettesse di mezzo un infortunio. Dio esiste.

Entra nei Gospel Starlighters dell’amico Bobby, quartetto localmente alquanto apprezzato che come tanti altri in quegli anni decide di passare dalla musica sacra a quella secolare e comincia a declinare doo wop e prodromi di errebì e rock’n’roll. Si ribattezzano prima Avons, quindi Flames, ed eleggono a loro principali idoli i Five Royales, Little Willie John (martire per il quale prima o poi spenderò superlativi, urla, furore e lacrime e di cui James Brown tesserà nel 1968 funebre elogio con il 33, uno dei suoi migliori e il più atipico, “Thinking About Little Willie John And A Few Nice Things”) e Hank Ballard e i suoi Midnighters. Hanno osservato questi ultimi fare impazzire una platea di ragazze ed esiste stimolo migliore per agognare la gloria? Al confine fra dilettantismo e professionismo hanno comunque già un manager, tal Barry Tremier, e registrano alcune facciate di cui si sono perse le tracce e che ne direbbe Indiana Jones di mettersi alla ricerca di quelle piuttosto che di cazzate come il Santo Graal? Una bella sera, siamo alla fine del 1954 o forse nei primi giorni del ’55, al Bill’s Rendezvous Club di Toccoa arriva Little Richard, non ancora personaggio di statura nazionale ma già un fenomeno nel Sud. Non annunciati né invitati, i Flames prendono possesso del palco nell’intervallo fra il primo e il secondo spettacolo e suscitano ovazioni fragorose ed eccitazione spasmodica. Little Richard si affaccia per scoprire la ragione di tutto quel casino. Il suo accompagnatore Fats Gonder pure. Si annota il nome del complesso e lo segnala al manager Clint Brantley. Quando questi perde Little Richard, decide di rifarsi occupandosi dei Flames. Li fa traslocare a Macon e in uno scantinato fa loro incidere il brano che dal vivo riscuote i maggiori consensi. Ballata pianistica prossima a un classicismo doo wop, Please Please Please è la rielaborazione non particolarmente ardita di un successo degli Orioles di tre anni prima, Baby Please Don’t Go. Gradevole eccome e però un’ombra, nulla più, di concerti in cui Brown è già mattatore: urla, grugnisce, salta, balla come un ossesso giocando con l’asta del microfono, buttandosi ginocchioni, sdraiandosi, strisciando, perché se lo fa Little Richard lui deve rifarlo moltiplicato. Pur così addomesticati i Flames sono graditi alle radio, che prendono a trasmettere il via via più scrocchiante acetato. Piace un sacco a Ralph Bass, che lo ascolta in un negozio di Atlanta, lavora per la King e ha seguito in studio gente come T-Bone Walker, Little Esther Phillips, Hank Ballard. Piace altrettanto a Don Robey della Duke Records di Houston e a Leonard Chess, che vorrebbe non limitare al solo blues di Chicago il catalogo dell’etichetta che da lui ha preso il nome. Un’offerta di Robey viene rigettata. Bass e Chess inscenano una gara non per modo di dire per approfittarne.

Prosegue per altre 20.971 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.52, settembre 2002. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.

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Charley Patton – L’eterno secondo

È la citazione citabile più citata di Keith Richards, memorabilità pari a quella del riff di (I Can’t Get No) Satisfaction: “Mai avuto problemi con le droghe, soltanto con la polizia”.  Fosse esistita una stampa musicale ai tempi suoi Charley Patton, che era una stella commercialmente di più che discreta luccicanza (essendo l’arte quello che era, cioè immortale), fosse puta caso stato intervistato avrebbe potuto serenamente affermare: “Mai avuto problemi con le donne, soltanto con i loro mariti”. Vita avventurosa ebbe il nostro eroe. Come quella del coevo Robert Johnson, avvolta dall’alone del Mito (ancorché entrambe siano state, in anni recenti, piuttosto ben documentate; in fondo c’è ancora gente in giro che li ha visti suonare) e prematuramente troncata da un destino cinico e baro. Sarebbe stata consona a Patton la dipartita toccata in sorte a Johnson, avvelenato da un marito geloso. Somma ironia per uno passato indenne (se non contiamo botte a sacchi e a sporte e un accoltellamento) per infinite risse da bar, un’intensa frequentazione con la cocaina e qualche arresto (mai avuto problemi con le droghe eccetera), defunse invece per un attacco cardiaco conseguenza di una febbre reumatica. Se esiste un al di là, da qualche parte vi si aggira un Charley Patton incazzato assai con Robert Johnson. Che diamine! Lui era arrivato primo ed è finito per risultare in tutto secondo.

Quando Patton incide le sue ultime facciate, a poche settimane dal fatale infarto, le registrazioni che faranno dell’uomo di Hellhound On My Trail una leggenda sporgono ancora di due anni nel futuro, ma quando un doppio LP per i tipi della statunitense Origin Jazz Library ne rende di nuovo reperibile, ventotto anni dopo, una ricca scelta di esecuzioni la Columbia (tutt’altra potenza poi) ha dato alle stampe da non molto quel “King Of The Delta Blues Singers” che eserciterà un’enorme influenza sulla generazione di ragazzotti inglesi, Clapton e Rolling Stones in primis, che entro breve avrà il mondo in punta di plettro. In Gran Bretagna si potrà ascoltare qualcosa del Nostro, grazie a una succinta compilazione Heritage, solo nel ’64. Troppo tardi. Continuo? La pubblicazione dell’integrale di Robert Johnson su CD è datata 1990. Un doppio che ha venduto a oggi oltre mezzo milione di copie. Quella di Charley Patton ─ un triplo ─ è storia di qualche mese fa e ha provveduto l’indipendente Catfish. Inimmaginabile che i conti si pareggino. È come se dalla luce abbagliante di Johnson quella di Patton venisse sempre obnubilata. Ve ne dico un’altra? Del primo, notoriamente, esistono due foto. Del secondo, una. E a questo punto mi scappa da ridere.

Prosegue per altre 8.508 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.41, ottobre 2001. Charley Patton moriva il 28 aprile 1934. Aveva quarantatré anni.

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I ritornelli tristi di Sandy Denny

Basta ritornelli tristi, No More Sad Refrains, cantava nel 1977 Sandy Denny (un blues, ovviamente) in “Rendezvous”, non sapendo che era un congedo. Sarebbe morta un anno dopo. Vivono i suoi dischi, quelli solistici appena ristampati con cospicue aggiunte.

Non era un anniversario di quelli che si prestano a celebrazioni, ventisette allo scorso 21 aprile gli anni trascorsi dacché Alexandra Elene MacLean Denny non è più di questa terra, cinque meno di quelli che passò fra noi, e non era dunque come nel 1998 quando della dipartita ricorreva il ventennale. Quella stessa Island che nel 1978 le aveva chiuso la porta in faccia, negandole un rinnovo di contratto, la ricordava con “Gold Dust”, commovente testimonianza dell’ultimo concerto, il 27 novembre ’77, pregevole a dispetto di una scaletta un po’ così. Ma da allora di colei di cui l’amico Marc Ellington disse che “poteva fare sembrare Janis Joplin, al confronto, una specie di Madre Teresa” non si è più smesso di parlare. Occasioni propizie le riedizioni allargate del catalogo dei Fairport Convention “storici”, e dunque anche dei quattro album con Sandy in squadra, e quindi, nel 2004, la pubblicazione del monumentale “A Boxful Of Treasures”, quintuplo con registrazioni live, demo e altre rarità che della ragazza offre un formidabile ritratto d’artista alternativo – o per meglio dire integrativo – rispetto a quello più noto. In un certo qual senso, si può però affermare che pure il ritorno nei negozi, con scalette significativamente allargate, di “The North Star Grassman And The Ravens”, “Sandy”, “Like An Old Fashioned Waltz” e “Rendezvous” faccia sì che della Denny si precisino meglio i contorni: non solo una rinnovatrice dell’idioma folk in terra di Albione, tant’è che negli ultimi due di folk quasi non ce n’è. E se resta indiscutibile che sia questa una Sandy Denny “minore”, se raffrontata a quella delle prove di gruppo, nondimeno così minore non fu e insomma qui ci sono le prove.

Ai Fairport enormi dei primi quattro LP e in particolare del secondo, terzo e quarto, pubblicati in un 1969 tragico e magico insieme, ho dedicato due pagine due anni e due mesi fa (n. 525, 18 marzo 2003) e a quell’articolo rimando. Qui riparto da lì, da “Liege & Lief”, “equivalente inglese di ‘Music From Big Pink’ della Band” all’indomani della cui pubblicazione Sandy lasciava, cogliendo tutti di sorpresa anche per i modi. Semplicemente, non si presentava all’imbarco del volo che avrebbe dovuto portarla a Copenhagen per un concerto. Sarebbe stata fatta salire a forza sul successivo, ubriaca, ma il divorzio era ormai consumato. Il più grande amico all’interno del gruppo, il chitarrista Richard Thompson, la prese con filosofia – “Forse è un bene. Le donne sono spesso umorali e chissà che non sia meglio avere una formazione tutta maschile.” – ma a posteriori pare evidente che i Fairport Convention unici e cruciali siano stati esclusivamente quelli con la Denny, gli altri al più un gruppo buono, anche ottimo, ma non speciale. Beffardo con loro il destino, siccome era quanto qualche mese prima aveva probabilmente salvato la vita alla cantante ad allontanarla. Ricorderà il lettore l’incidente automobilistico nel quale, il 12 maggio 1969, perivano il batterista Martin Lamble e la compagna di Thompson, Jeannie Franklyn. Sul furgone che portava il complesso a casa dopo uno spettacolo a Birmingham, Sandy avrebbe dovuto sedere dove era seduta costei, non fosse che aveva preferito viaggiare con il suo bello, Trevor Lucas, imponente australiano dalla dirompente personalità e all’epoca chitarrista degli Eclection. Ed era giusto la voglia di stare vicino a Lucas a spingere Sandy Denny – donna in apparenza forte, solare, e nell’intimo fragilissima: come Janis – a indurla ad abbandonare i Fairport. Era stata con loro diciotto mesi appena ed era bastato per inventare una via britannica al folk-rock.

Prosegue per altre 4.154 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.610, maggio 2005. Ricorre oggi il quarantacinquesimo anniversario della scomparsa dell’artista.

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Blues Against The Empire – Trentacinque anni di Hot Tuna

Ovvero: come fu che un dopolavoro – che poi in realtà era un “prima del lavoro” – si trasformò in una cosa più seria del lavoro stesso.

Dapprincipio non c’era nessun motivo per scrivere un articolo sugli Hot Tuna, se non che Stefano Isidoro aveva delle pagine da riempire in questo “Juke Box all’idrogeno”, mi ha chiesto se avevo voglia e qualche idea al riguardo e io gli ho risposto “mah… sì… boh…”. E lui: perché non fare una cosa sugli Hot Tuna, che erano una gran bella formazione oggi sconosciuta a tutti, eccetto a qualche reduce? Mi è sembrata un’ottima ragione, benché non mi senta ancora reduce e per certo Stefano Isidoro meno di me. Allora ho tirato fuori i dischi dagli scaffali e, mentre tornavano a girare sullo stereo a forse tre lustri dall’ultima volta a parte “Quah”, che è un album per il quale ho sempre avuto un affetto speciale ma non appartiene al gruppo bensì è l’esordio in proprio di Jorma, ho cercato il nome “Hot Tuna” nell’archivio in cui ho catalogato le riviste straniere comprate dal ’78 a oggi. Sconcertato, ho scoperto di non avere in casa nemmeno un articolo sulla seconda più nota, in realtà terza ma prima, avventura in comune di Jorma Kaukonen e Jack Casady. Persino un’indagine su Internet, dove un delirio apologetico non si nega né a un cane né a un porco, ha sortito risultati deludenti. Mi sono sembrate altre due ottime ragioni per scrivere qualcosa su di loro, vendicando nel mio piccolo lo scandalo di un progetto così poco considerato. E poi ho improvvisamente realizzato che sono esattamente trentacinque anni che questa storia è cominciata, bel numero che può essere detto tondo, come gli Hot Tuna quando suonavano acustici, o spigoloso, come quando accendevano gli amplificatori. Ed eccoci qua.

All’epoca non ero interessato al rock, a malapena tolleravo i Rolling Stones. Piuttosto, alle musiche etniche in generale e alla tradizione nordamericana in particolare.

Così Jorma Ludwik Kaukonen Jr., sessantaquattro anni il prossimo 23 dicembre, in una rara intervista concessa per il venticinquennale degli Hot Tuna ricordava di come fu con qualche perplessità che, nella primavera 1965, accettò l’invito del cantante e chitarrista Paul Kantner a unirsi a un complesso ancora senza nome che il cantante Marty Balin aveva appena messo in piedi, con tre carneadi che si defileranno presto, con l’intento minimo quanto squisitamente commerciale di fornire una colonna sonora alla serata di inaugurazione di un club, il Matrix, acquistato in quel di San Francisco. Era proprio Jorma – originario di Washington DC ma proveniente dal Texas dove aveva spesso accompagnato una sconosciuta cantante, una certa Janis Joplin – a battezzare il neonato combo, accorciando il nome di un bluesman immaginario, tal Blind Thomas Jefferson Airplane, creato dalla sua fantasia. Non mi diffonderò troppo su una vicenda oltretutto universalmente nota, se non per raccontare come vi venne coinvolto il suo concittadino John William Casady, detto Jack e sessantenne lo scorso 13 aprile, e di come quattro anni più tardi insieme i due daranno vita agli Hot Tuna per poi, trascorsi altri tre anni, staccarsi definitivamente dall’Aeroplano che stava per farsi Astronave. Per Jorma e Jack, i Jefferson Airplane non furono il primo gruppo condiviso. Imberbi (il secondo appena quindicenne) erano stati nei Triumphs, complessino nemmeno troppo amatoriale se è vero come è vero che arrivò a pubblicare un singolo: rock’n’roll, che non era per l’appunto l’amore né dell’uno né dell’altro, cresciuti consumando i dischi dell’estesa collezione di blues di un fratello maggiore del secondo, avido collezionista. E il primo arrivava dal bluegrass. Archiviata una storia non esattamente trionfale, a dispetto dell’ottimistico nome con il quale la si era siglata, Jorma si perfezionava all’università del blues cominciando giusto nel fatidico 1959 a studiare la tecnica del fingerpicking. Frequentando l’Antioch College conosceva John Hammond, un altro bianco per caso irrimediabilmente traviato dalla musica del diavolo, e Ian Buchanan, incontro prezioso perché, non potendosi permettere le lezioni dell’idolatrato Reverendo Gary Davis, il giovanotto poteva almeno apprenderle di seconda mano da uno che ne era stato allievo. Era così che imparava tutti i brani che finiranno nel 1970 nello splendido debutto degli Hot Tuna e tuttora si cruccia di non avere avuto la presenza di spirito di dedicare quel 33 giri al maestro. Ancora in un’istituzione scolastica ma domiciliata sulla Costa opposta, la University Of Santa Clara, conosceva Paul Kantner e sarebbe stato incontro, come abbiamo visto, pure più decisivo. Nel frattempo, rimasto nell’area di Washington, l’amico Jack dalla chitarra passava al basso, diventando presto bravo a sufficienza da accompagnare Ray Charles. Suonerà sempre il basso un po’ come una solista (abilità non granché gradita dal batterista dei Jefferson, Spencer Dryden, non contento di doversi caricare sulle spalle per intero il peso della ritmica) e per questo sarà strumentista apprezzato quanto il chitarrista Jorma, fors’anche più peculiare. Ai Jefferson Airplane serviva un bassista, Kaukonen consigliava Casady, il resto è Storia.

Prosegue per altre 9.907 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.76, settembre 2004. Jack Casady compie oggi settantanove anni.

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Il blues che era già rock’n’roll di Lightnin’ Hopkins

Come in tanti altri grandi del blues, in Lightnin’ Hopkins – nato Sam Hopkins il 15 marzo 1912, morto il 30 gennaio ’82 –  convivevano l’istintiva furbizia di chi, cresciuto in miseria, ha fatto un’arte del sapersi arrangiare e un’ingenuità disarmante. Pensate che per tutta la vita fu solito cedere per contanti le canzoni che scriveva, riuscendo così a campare sempre in maniera dignitosa ma perdendo una fortuna in diritti d’autore (i tanti brani, ad esempio, che sui suoi dischi sono firmati Bill Quinn sono in realtà autografi). Da cui, e non solo frutto di una straripante urgenza creativa, la consistenza abnorme della sua discografia: decine di LP e centinaia fra 45 e 78 giri usciti per un numero non meno esorbitante di etichette.

Il modo migliore e più economico per accostarsi all’opera di questo gigante delle dodici battute è mettersi in casa “Mojo Hand”, doppio CD Rhino in box corredato da un corposo libretto. È probabilmente la migliore raccolta possibile del Nostro in sole quaranta canzoni e l’unica che copra la sua vicenda artistica per intero e, grosso modo, in ordine cronologico, dalle prime registrazioni per la Alladin del novembre ’46 all’album per la Sonet del 1974. Arrivato a incidere già trentaquattrenne e con uno stile perfettamente formato nel quale si era consumata la transizione dal blues rurale insegnatogli da Blind Lemon Jefferson a una forma più urbana, nella sua trentennale carriera Hopkins non si discostò mai più di tanto (un peccato, ché gli accenti jazz di brani come I’ll Be Gone e Shaggy Dad fanno intravvedere esaltanti possibilità che rimasero inesplorate) dal nucleo primigenio della sua musica. Play With Your Poodle, incisa nel 1947 in trio con il pianista Thunder Smith e un batterista sconosciuto, esemplifica codesto stile come nessun altro dei più di mille titoli registrati: blues elettrico caratterizzato dal timbro acre della chitarra e da peculiari accenti boogie che lo fanno rock’n’roll molti anni prima che il termine entrasse in uso.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.

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