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Rock The Country – Il primo Joe Ely

Altamente improbabile che vi sia qualche lettore, per quanto disinteressato al country e con una presenza minima di cantautori USA negli scaffali, per cui Joe Ely è uno sconosciuto. Almeno il nome, se non altro perché rientra fra quelli recensiti di default su queste pagine, lo avrà orecchiato. Ma è assolutamente impossibile che non lo abbia mai ascoltato cantare. Avete presente Should I Stay Or Should I Go? La più rollingstoniana delle canzoni dei Clash era il terzo singolo tratto nell’82 da “Combat Rock”, a seguire l’exploit di Rock The Casbah, che non eguagliava ma comunque avvicinava. Sarà uno spot per una marca di jeans a trasformarla, di lì a dieci anni, nel più grande successo di sempre di una band a quel punto da lungi sciolta e a renderla inamovibile nel novero di quei cento-duecento pezzi fissi nelle rotazioni di un certo tipo di radio. Nel catalogo Clash Should I Stay Or Should I Go è un’anomalia, uno dei pochissimi brani in cui è Mick Jones la voce solista, con Joe Strummer a fare i cori. Non da solo. Con Joe Ely, che così arrivava a dividere uno studio con un gruppo per il quale aveva aperto innumerevoli date nel Regno Unito come oltre Atlantico, società di mutua ammirazione che aveva toccato un duplice apice nel 1980 con l’uscita di “Live Shots”, immortalato a Londra proprio in una serata di spalla a Strummer e soci, e nell’omaggio tributatogli da costoro in If Music Could Talk, quinta traccia della terza facciata del triplo “Sandinista!”: “There ain’t no better blend than Joe Ely and his Texas Men”. Se non vi fidate del sottoscritto…

Earle R. Ely nasce ad Amarillo il 9 febbraio 1947 e si trasferisce dodicenne in quella Lubbock che ancora oggi chiama casa. È una performance di Jerry Lee Lewis a fargli decidere cosa farà da grande anche se, non potendosi permettere un piano, imbraccia un violino prima, poi una chitarra. Fra lui e il sogno si frappone, quando ha quattordici anni, la tragica realtà della prematura scomparsa del padre e di un conseguente crollo nervoso della madre che fa sì che lui e un fratello debbano soggiornare per diversi mesi presso dei parenti. Abbandonati prematuramente gli studi contribuisce al bilancio domestico con il più umile dei lavori, lavapiatti. Lasciato quando il primo complesso semiprofessionale, tali Twilights dei quali non ci è giunto che il nome, comincia a rimediare abbastanza ingaggi da garantirgli introiti più dignitosi. Lasciati a loro volta, i Twilights, per una vita da vagabondo beat che lo porta in California, poi a New York, quindi (al seguito di una compagnia teatrale) in Europa. Torna a Lubbock nel 1971 e fa comunella – inizio di un felicissimo ménage à trois giunto ai giorni nostri – con Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore. Dei tre Joe è l’anima rock’n’roll, Butch quella folk, Jimmie Dale un’enciclopedia deambulante della country music. Si battezzano Flatlanders e rimediano un contratto con un’etichetta, la Plantation, che ha vissuto giorni di gloria ma è ormai in disarmo. Che è la ragione per la quale l’album che registrano nel 1972 – “All American Music” il programmatico titolo – non vedrà la luce che nel ’73. Luce? Quale luce? Esce solo in stereo 8 (!) e insomma fino al 1980, quando lo riediterà a 33 giri la britannica Charly smentendo quanti lo ritenevano una leggenda, non lo ascolterà nessuno. L’anno dopo ancora il nostro uomo si gioca la carta della carriera solista. Passando di mano in mano un demo arriverà nel 1976 fra quelle di un componente della band di Jerry Jeff Walker, che lo girerà al principale, che lo girerà a un dirigente della sua casa discografica, la MCA.

Stentavo a crederci, giacché è di un autore e interprete stratosferico universalmente annoverato fra i precursori del cosiddetto alt-country che stiamo parlando, ma le ristampe rimasterizzate pubblicate lo scorso 17 febbraio dallo stesso marchio che le portò nei negozi illo tempore di “Joe Ely” (1977), “Honky Tonk Masquerade” (1978) e “Down On The Drag” (1979) sono, per l’esordio e il suo seguito, le prime in vinile dal 1980 e, per quanto attiene il terzo LP, addirittura la prima in analogico. Se per un verso si potrebbe paradossalmente dirle inutili, giacché le copie d’epoca si trovano ancora con facilità e a un prezzo che è una frazione di quello scandaloso (attorno ai cinquanta euro!) richiesto per queste, e suonano già piuttosto bene, per un altro quantomeno offrono il destro, nell’attesa che pure il summenzionato “Live Shots”, “Musta Gotta Notta Lotta” (1981) e “Hi-Res” (1984) subiscano in ogni senso analogo trattamento, per spendere qualche riga per un debutto brillante, un classico totale e un buon lavoro di transizione. Decida chi ne è sprovvisto se farsi rapinare o rivolgersi al mercato dell’usato. Tutti e tre gli album hanno dieci canzoni in scaletta e in tutti e tre il titolare ne firma la metà, pescando parecchio per il resto nel repertorio di Butch Hancock (ben undici brani) e offrendo inoltre sue versioni di due pezzi di Jimmie Dale Gilmore (a trenta si arriva con un’esuberante resa di Honky Tonkin’ di Hank Williams e una bluesata di B.B.Q. & Foam di Ed Vizard). In tutti e tre danno man forte al titolare, oltre a una folla di turnisti, Lloyd Manes alla steel guitar, Jesse Taylor alle chitarre sia acustiche che elettriche, Gregg Wright al basso e Steve Keaton alla batteria, con Ponty Bone che si aggiunge a piano e fisarmonica a partire dal secondo. Gruppo tosto ed eclettico, ruspante e raffinato. Apici… Di “Joe Ely”: la travolgente I Had My Hopes Up High, il cajun Mardi Gras Waltz, il western swing All My Love. Ma, soprattutto, la meravigliosa ballata da border She Never Spoke Spanish To Me. Di “Honky Tonk Masquerade” (incluso nel 2005 nel delizioso 1001 Albums You Must Hear Before You Die): l’honky tonk Cornbread Moon, l’accorata con brio Boxcars, la squisitamente sentimentale title track, una I’ll Be Your Fool che sarebbe stata perfetta per Elvis, il rock’n’roll Fingernails. Di “Down On The Drag”: la dolente Fools Fall In Love, lo swamp-rock Crawdad Train, il valzer She Leaves You Were You Are. Tempo di scoprire Joe Ely, se per voi finora era solo un nome.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.453, maggio 2023. Il cantautore americano preferito dei Clash compie oggi settantasette anni.

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Bob Weir – Ace (Rhino)

Formalmente il 1972 è il secondo anno dal 1967 dell’omonimo esordio in cui i Grateful Dead non si presentano nei negozi con un nuovo LP in studio, visto che nel ’71 hanno pubblicato un altro lavoro omonimo ma dal vivo e il 5 novembre raddoppieranno e anzi triplicheranno con “Europe ’72”. Ormai esauriti i festeggiamenti per le vendite (oltre tre milioni di copie) totalizzate nel 1970 dall’epocale accoppiata “Workingman’s Dead”/”American Beauty” che ha promosso i ragazzi dallo status di culto diffuso a quello di superstar, alla Warner fanno buon viso a cattivo gioco e si accontentano, fiduciosi a ragione che non si tratti di indizi di un’incipiente crisi di rapporti, di tre uscite di singoli componenti del gruppo. Noblesse oblige il primo a debuttare, in gennaio, è il leader Jerry Garcia e “Garcia” è sotto ogni aspetto un disco da solista. L’ultimo sarà in settembre il batterista Mickey Hart, in quel momento in congedo provvisorio dalla band, con il viceversa corale (chilometrico l’elenco dei crediti) “Rolling Thunder”. Quattro mesi dopo Garcia e altrettanti prima di Hart era toccato a Bob Weir.

Appena ristampato per celebrarne un po’ in ritardo il cinquantennale in un’edizione rimasterizzata che in CD è doppia e aggiunge una spumeggiante esecuzione live del disco immortalata il 3 aprile 2022 dall’attuale gruppo del Nostro, i Wolf Bros (rinforzati per l’occasione da una sezione di archi e fiati), “Ace” giustifica l’avverbio in capo a questa segnalazione con il suo essere in tutto tranne che di nome non solo un album dei Dead, presenti quasi al completo a dar manforte all’ispiratissimo titolare, ma una delle loro migliori prove in studio di sempre. Tant’è che sette dei suoi otto brani verranno inglobati stabilmente nelle scalette dei concerti.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.453, maggio 2023.

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The Ballad Of Delaney & Bonnie

Delaney Bramlett e Bonnie Lynn O’Farrell, bianchi neri dentro, si conoscono a fine 1967 a Los Angeles. Lui, ventottenne, è passato dai Champs prima di approdare agli Shindogs. Lei, ventitreenne, è stata la prima Ikette non di colore. Tempo una settimana e hanno messo su famiglia e una band coi fiocchi che comprende Bobby Whitlock alle tastiere e l’eccezionale sezione ritmica formata da Carl Radle al basso e Jim Gordon alla batteria. Li mette sotto contratto la Stax. Inciso con la crema dei turnisti di Memphis, “Home” esce nel maggio 1969 ed è sapidissimo pasticcio di soul e rock, blues e gospel, errebì e funky cucinato alla maniera sudista. Sfortunatamente vende quasi nulla. Tutto finito? Macché. Li ingaggia la Elektra e nel giro di due mesi l’al pari esuberante “The Original” è nei negozi. George Harrison ascolta un test pressing, si entusiasma e li arruola nei ranghi della Apple. Peccato che l’accordo venga invalidato dal fatto che Delaney & Bonnie sono ancora a libro paga dell’etichetta di Jac Holzman, contratto sciolto quando Delaney minaccia di morte Holzman. Dall’avere due case discografiche la coppia passa ad averne nessuna. Tutto finito? Macché. Si fa avanti la Atlantic, firmano per la succursale ATCO ed entro fine anno si ritrovano in tour di spalla ai Blind Faith, supergruppo appena nato e già sull’orlo del dissolvimento. Ben più che con la sua band Eric Clapton si diverte a suonare con i Nostri, che schierano una formazione ampliata a dismisura da una sontuosa sezione fiati, da Rita Coolidge ai cori, da un altro mostro sacro quale Dave Mason dei Traffic alla terza (!) chitarra.

Con in scaletta (ad aprirla) un solo brano dai due lavori in studio, l’esplosivo rhythm’n’blues Things Get Better, “On Tour” viene registrato nella tappa inglese del 7 dicembre. Quando vedrà la luce nel marzo 1970 risulterà prematuro testamento più che cronaca, visto che Slowhand porterà Whitlock, Radle e Gordon nei Derek & The Dominos, Harrison se ne farà fiancheggiare in “All Things Must Pass”, Leon Russell metterà la sola ritmica al servizio del Joe Cocker di “Mad Dogs And Englishmen”. Dagli amici mi guardi Iddio! Consolazione non da poco tuttavia che, oltre a vendere parecchio al tempo, “On Tour” resti nella considerazione generale uno dei più bei live della storia del rock. E della black no? Valga come paradigma l’incrocio di chitarre hard, ritmica funk, fiati soul e voci da chiesa di Comin’ Home.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021.

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Il primo (il più sottovalutato, il meno ascoltato) Ry Cooder

Per non avere che ventitré anni il Ry Cooder che debutta nel 1970 da solista vanta un cv non solo corposo ma strepitoso: a parte un omonimo LP, inciso nel 1966 per una Columbia che assurdamente lo chiudeva in un cassetto e non lo recupererà che nel ’92, con i Rising Sons, quintetto fra folk-rock e country-blues elettrico con Taj Mahal, è stato il fulcro della prima Magic Band di Captain Beefheart, si è prestato da strumentista al Randy Newman di “12 Songs” e a Judy Collins in un tour che ha fruttato un live, ha collaborato con Van Dyke Parks e i Little Feat e, quel che più conta, a lungo è stato il sesto (o settimo, contando Ian Stewart) Rolling Stones (Love In Vain su “Let It Bleed” e Sister Morphine su “Sticky Fingers” gli apporti più importanti). Quando infine si ritrova per conto proprio incide un LP che può essere detto acerbo soltanto a confronto di certi capolavori successivi, gemma da sgrezzare (negli anni il blues dell’era della Depressione How Can A Poor Man Stand Such Times And Live? acquisterà dal vivo ben altra pregnanza, da spiritual) ma che già abbaglia e soprattutto rappresenta un manifesto d’artista cui l’estensore resterà fedele almeno finché non si farà sequestrare dal mondo del cinema. Raramente sarà autore (qui firma giusto Available Space, stantuffante e giocosa e in cui sei corde gli bastano per evocare una marching band) preferendo reinterpretare, sottraendoli ai curatori museali per restituirli alla vita, esempi fra i più vari dell’immenso patrimonio della musica popolare americana. Più avanti confezionerà dischi “a tema”. Qui essendo il primo opta per bighellonare qui e là, inserendo in un programma di undici tracce per scarsa mezzoretta anche un contemporaneo, Randy Newman, con la vignetta country Old Kentucky Home. È alle prese con i materiali più oscuri che sfodera un’originalità di accenti già unica: il Woody Guthrie di Do Re Mi riletto con una ritmica rock e dietro archi che guizzano, il Lead Belly di Pig Meat trasfigurato in pigra marcetta dixieland. Se il cantato non è il suo forte la prodigiosa tecnica fingerpicking esibita in Police Dog Blues di Blind Blake più che compensa. E dove non c’è la voce, come nella conclusiva Dark Is The Night di Blind Willie Johnson, sospesa e drammatica, pure l’ascoltatore resta senza parole.

Si rimane senza fiato anche scoprendo che era da più o meno metà anni Ottanta che “Ry Cooder” non veniva riedito in vinile (non contando un box del 2014, manca dai negozi pure come CD dal ’95). Una terza ragione per applaudire la Speakers Corner, essendo la prima che questa stampa nella sua ruvidezza suona eccellentemente e la seconda che a 32 euro al pubblico i titoli dell’etichetta tedesca sono diventati, per l’impazzito mercato odierno, economici.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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Yola – Stand For Myself (Easy Eye Sound)

Se ha un difetto o meglio un problema, “Stand For Myself”, è che deve fare i conti con lo stratosferico “Walk Through Fire”, che nel 2019 lasciava molti attoniti dinnanzi a un debutto che pareva sbucare dal nulla. Quando in realtà l’artefice, l’allora trentacinquenne Yolanda Quartey, da Bristol e non da Memphis o comunque dal profondo Sud degli States come si scommetterebbe ascoltandola, aveva già alle spalle una lunga carriera da corista (Massive Attack e Chemical Brothers) e da cantante dei Phantom Limb (due i lavori in studio e un live). Più profeta allora nella sua patria ideale che in quella vera, la signora: ben quattro le candidature ai Grammy e fra esse una nella categoria “Best Americana Album” e due, per Faraway Look, nelle sezioni “Best American Roots Performance” e “Best American Roots Song” (la quarta? “Best New Artist”). Il che ingenerava però un grosso equivoco e non valeva a giustificarlo che il disco fosse stato inciso a Nashville: che si trattasse di country quando il country è sì presente ma è indubitabilmente alla voce “soul” che Yola va catalogata.

Prodotto come l’esordio da Dan Auerbach dei Black Keys, “Stand For Myself” si presenta con una copertina che fa sospettare che per l’artista sia cambiato il decennio di riferimento, i ’70 e non più i ’60. Il che non è. Fra i dodici brani in scaletta giusto una Dancing Away In Tears gustosamente da Studio 54 va in tale direzione. Il resto ricalca il predecessore, con apici nella ballatona Barely Alive, nell’errebì al galoppo Diamond Studded Shoes, in una Great Divide sentimentale con afflato gospel, nella scheggia di Stax Break The Bough, nella grintosa e conclusiva traccia omonima. Manca solo l’effetto sorpresa, insomma.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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Flying Burrito Brothers – I Velvet Underground del country-rock

Nel libretto di un CD che nel 1997 riportava nei negozi dopo un’ultradecennale assenza il debutto dei Flying Burrito Brothers accoppiandolo senza aggiunte al successivo “Burrito Deluxe”, Sid Griffin scrive di “The Gilded Palace Of Sin” che al tempo dell’uscita a inizio 1969 non vendette che cinquantamila copie e tuttavia “come con il primo album dei Velvet Underground si direbbe che ogni singolo acquirente abbia poi formato una band ispirato da quanto aveva ascoltato”. Sapeva di cosa stava parlando, giacché lui fondò i Long Ryders. La “y” in luogo della “i” nella ragione sociale omaggio a quei Byrds da cui provenivano due dei quattro Burrito originali, il leader Gram Parsons e il principale fiancheggiatore, Chris Hillman. La ristampa di cui sopra era per il mercato britannico. Negli USA incredibilmente il disco che, portando a maturazione le intuizioni dei Byrds di “Notorious Byrd Brothers” e “Sweetheart Of The Rodeo”, completava la prima e cruciale redazione del canone di ciò che da allora chiamiamo country-rock in compact disc vedrà la luce per la prima volta solo tre ulteriori anni dopo e nel contesto di un doppio, “Hot Burritos! The Flying Burrito Brothers Anthology 1969-1972”, che raccoglie (questo regalando diverse bonus e di valore) i primi tre LP di un complesso all’altezza del terzo con sempre dentro due ex-Byrds (il secondo Michael Clarke) ma già orfano di Parsons: talento immane che tragicamente ci lasciava, il 19 settembre 1973, così giovane da non guadagnarsi nemmeno l’inclusione nel famigerato “club dei 27”, giacché era nato il 5 novembre 1946. Prestate occhio alla copertina qui a fianco: il capanno davanti al quale stazionano i nostri Fab Four ─ gli altri due sono il maestro di steel guitar “Sneaky” Pete Kleinow e il bassista Chris Ethridge ─ e da cui fanno capolino due belle figliole sorgeva nel parco nazionale di Joshua Tree, California meridionale. Parsons si butterà via a pochi chilometri da lì, andando in overdose da morfina mischiata a tequila, e sempre a pochi chilometri da lì due amici dopo averne trafugato il corpo (!) fatto portare a New Orleans dal patrigno cercheranno maldestramente di cremarlo. Finale di storia fra i più romanzeschi negli annali del rock. Ma torniamo a “The Gilded Palace Of Sin”, che a voler essere pignoli ancora aspetta di essere riedito singolarmente su CD negli USA, visto che a oggi l’unica versione in digitale è un SACD del 2017, ma in compenso solo negli ultimi dieci anni ha avuto nel mondo quattro ristampe in vinile fra le quali addirittura, qui in Italia, una da edicola per DeAgostini nel 2018. Mentre l’ultima e freschissima nel momento in cui scrivo, datata già 2021, è “made in the USA”, A&M come quella d’epoca.

Anche i ricchi piangono e infanzia e adolescenza di Cecil Ingram Connors, rampollo di famiglia che dire benestante è un eufemismo, è segnata da drammi di quelli che infliggono ferite inguaribili. Ha dodici anni quando il padre, eroe di guerra, si toglie la vita un’antivigilia di Natale, diciotto quando la madre che si è risposata con Robert Parsons (il ragazzo ha scelto di assumere il cognome del patrigno) muore di cirrosi epatica, si potrebbe dire suicida lei pure ma lentamente, una bottiglia alla volta. Fra tutti i giorni possibili, sceglie per andarsene quello in cui il figlio si diploma. Il ragazzo si iscrive alla Harvard University. Non ci crederete: a teologia. Dura un semestre prima che l’amore per la musica, cui si è accostato a nove anni studiando pianoforte, la prima chitarra imbracciata da lì a poco, lo sequestri definitivamente. Ha già suonato rock’n’roll e poi folk in una teoria di gruppetti fra l’amatoriale e il semiprofessionistico, unisce le due passioni e quella per il country fondando quella International Submarine Band che a posteriori sarà giustamente considerata, per quanto acerba, seminale. Quando il debutto a 33 giri per la LHI di Lee Hazlewood “Safe At Home” vede la luce nel marzo 1968 il complesso già non esiste più. Gram si è unito ai Byrds e sarà avventura brevissima, questione di mesi ma bastanti a fargli imprimere un marchio indelebile (al di là dei soli due brani su undici firmati, ma uno è il capolavoro Hickory Wind) su “Sweetheart Of The Rodeo”. Lascia la compagnia ufficialmente perché rifiuta di seguirla in un tour nel Sudafrica allora sotto il giogo dell’apartheid ed è nobile motivazione che però forse non nasconde altro che la voglia di dare vita a un progetto tutto suo volto a completare la compenetrazione di country e rock (mondi che nella temperie culturale sessantottina si osservano da lontano e con sospetto) che ha iniziato a tramare con la banda sempre più di Roger McGuinn.

È uno di quegli album di cui non puoi in nessun modo sopravvalutare l’influenza esercitata nell’abbondante mezzo secolo trascorso dalla pubblicazione, “The Gilded Palace Of Sin”. Dagli Eagles, che ne svilupperanno la formula trasformandone il rame in oro zecchino a livello di vendite, alla pattuglia di riottosi virgulti, da Dwight Yoakam a Steve Earle, che proverà a metà ’80 a prendersi Nashville e ancora più su, fino a quegli Uncle Tupelo con i quali un decennio ancora dopo si comincerà a parlare di alt-country, tutti nell’ambito che inventò o perlomeno finì di inventare gli debbono qualcosa. Il che fa quasi passare in secondo piano che sia un disco bellissimo, parata di indiscutibili classici che a due peculiari riletture di brani simbolo del soul, Do Wright Woman da Aretha Franklin e Dark End Of The Street da James Carr (la seconda singolarmente esultante visto il tema) unisce nove composizioni autografe (la firma di Parsons sotto tutte, quella di Hillman ad affiancarla in sei) una più favolosa dell’altra. Insieme coeso di parti che prese una per una parrebbero anche parecchio distanti: lo shuffle incalzante di Christine’s Tune che inaugura ben altra cosa rispetto al liturgico errebì di Hippie Boy che suggella, il valzer Sin City lontano universi dalle stilettate di fuzz infitte nel cuore pulsante di tenerezza di Wheels. Paradigmatiche le due Hot Burrito che si danno il cambio sulla seconda facciata: la #1 avrebbe potuto rifarla Sinatra; la #2 un’esilarante ipotesi di garage-country.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.428, febbraio 2021. Non fosse morto indecentemente giovane, Gram Parsons compirebbe oggi settantacinque anni.

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Lone Star State Of Mind (in memoria di Nanci Griffith)

Sfogliando l’ultimo numero di “Blow Up” apprendo con grande ritardo e dispiacere che lo scorso 13 agosto ci ha lasciato, oltretutto alquanto prematuramente, un’autrice e interprete della quale mi capitò spesso di scrivere e sono difatti ben cinque le recensioni che posso recuperare dai miei archivi. Non giungo ad annoverare Nanci Griffith fra le artiste che mi hanno cambiato la vita ma per certo mi ha donato ore piacevoli, emozioni non da poco.

Lone Star State Of Mind (MCA, 1987)

Da sempre artista più di culto che di massa, apprezzatissima da colleghi e colleghe cui ha regalato più successi di quanti non ne abbia avuti lei in prima persona (uno per tutti: Listen To The Radio, portato in classifica da Kathy Mattea), Nanci Griffith si muove nell’ambito di un country con poco a che vedere con gli stereotipi nashvilliani, senza un eccesso negli arrangiamenti, più prossimo a Steve Earle o a Lyle Lovett che a Garth Brooks, memore della lezione di Gram Parsons, che si è abbeverato e tuttora si abbevera alle fonti di Bob Dylan e John Prine e ha aperto la strada a interpreti moderni quali Wilco e 16 Horsepower. Fra i diversi articoli di livello di un catalogo senza cadute, abbiamo scelto quello che fu il primo di quattro LP per la MCA. Disponibile dal 2003, oltre che singolarmente, in un economico doppio, “The Complete MCA Studio Recordings”.

Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.19, autunno 2005.

The Complete MCA Studio Recordings (MCA Nashville, 2003)

Festeggia bene i suoi cinquant’anni benissimo portati Nanci Griffith, con un doppio CD che a parte un live raduna tutto quanto pubblicò, in quattro album, per la MCA fra il 1987 e il 1991, con la gradita aggiunta di tre rarità fra cui una brillante Wooden Heart tratta dal tributo a Presley (“The Last Temptation Of Elvis”) organizzato dal “New Musical Express”. Artista più “di culto” che di successo vero, la Griffith, e difatti dopo l’esperienza major, cui giungeva dopo un poker di LP per piccole quando non minuscole case specializzate, tornerà in alveo indipendente dove tuttora naviga: nondimeno apprezzatissima, oltre che dallo zoccolo duro del fandom, da colleghi e colleghe che spesso e volentieri hanno pescato nel suo repertorio talvolta tramutandolo in oro (ci pensava ad esempio Kathy Mattea a portare in classifica Listen To The Radio), o di cui ha a sua volta ripreso (l’interprete vale non meno dell’autrice, cioè parecchio) qualche brano. Ci si imbatte in nomi importanti scorrendo i crediti di “The Complete MCA Studio Recordings”: Phil Everly, Billy Joe Walker, Bernie Leadon, Albert Lee, Jerry Donahue, Tanita Tikaram.

L’ambito è quello di un country che a dispetto della ragione sociale dell’etichetta che riedita queste quarantasei canzoni ha in realtà poco a che vedere con gli stereotipi nashvilliani. Sobrio negli arrangiamenti, devoto a Gram Parsons come a John Prine, prossimo a Steve Earle e Lyle Lovett per citare campioni di una generazione successiva, sa porgersi con una grazia che non ne depotenzia l’intensità.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.238, settembre 2003.

Winter Marquee (Rounder, 2002)

Racconta la Griffith nel libretto di questo live (non il primo in una carriera del resto ormai venticinquennale) di avere imparato a suonare la chitarra da bambina guardando un programma in TV. La prima canzone che apprese? La sigla della trasmissione, un pezzo di quell’irrisolto e tragico Bob Dylan + Che Guevara che fu Phil Ochs, What’s That I Hear. Incredibile, ma vero, è che non ne avesse mai inciso una versione finora, e dire che della sua folta discografia fanno parte due album tutti di materiali altrui. Si trattava allora di pagare un debito e si cominciò a registrare i concerti del tour della scorsa primavera giusto per mettere su nastro quella canzone lì. Avrete inteso come è andata a finire: un CD discretamente pieno (quattordici brani e quasi un’ora di durata; deplorevole però che la versione in DVD contenga quattro canzoni in più, una delle quali inedita) che può essere un’ottima introduzione, con il suo sapiente alternare cover, classici conclamati e brani ingiustamente poco considerati oppure nuovi, a questa signora del country meno appiattito sui suoi stereotipi.

What’s That I Hear, di cui vengono esaltate le qualità melodiche, è il penultimo titolo in scaletta e precede il caracollante passo di White Freight Liner dell’amatissimo Townes Van Zandt. Le altre tre cover presenti sono una languida e calorosa Speed Of The Sound Of Loneliness di John Prine, una Boots Of Spanish Leather di Bob Dylan di sommessa epicità e la sognante Good Night, New York di Julie Gold (Emmylou Harris vi è ospite). Il resto sono originali di spigliata cantabilità (più di tutti Listen To The Radio) e sentimento ed eleganza sommi. Un disco delizioso.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.512, 3 dicembre 2002.

Hearts In Mind (New Door/Universal, 2004)

Se dopo essere sembrata per una vita una ragazzina Nanci Griffith sulla copertina di “Hearts In Mind” comincia per la prima volta a dimostrare gli anni che ha, e che non sono pochi (essendo io un gentiluomo e lei una signora non vi dirò quanti; solo che il primo LP risale al 1978), l’album con cui torna in area major dopo avere trovato ospitalità alla Rounder per il precedente “Winter Marquee” non evidenzia viceversa ruga alcuna: maturo come ha da essere il lavoro di chi fa dischi da un quarto di secolo, però con una vivacità da esordiente.

In Italia la Griffith è poco conosciuta, un prezioso segreto per quanti frequentano quel cantautorato che può essere iscritto in area country ma del country nashvilliano, per noi indigeribile quanto di enorme successo là, rigetta stereotipi e orpelli. Un po’ diversamente vanno le cose negli Stati Uniti, se è vero che, fra due soggiorni in ambito indipendente, per tre lustri filati è stata domiciliata presso due diverse multinazionali e ora ritrova casa presso una terza. “Hearts In Mind” ha le carte in regola per propiziarne il rilancio, generoso com’è di brani immediatamente memorabili e da subito, dalla ballatona Simple Life, che persino sulle radio più conservatrici (che Nancy l’hanno in uggia anche per certe sue prese di posizione) potrebbe trovare frequenti passaggi. Il che non toglie che delle tredici canzoni in programma sia quella cui si potrebbe rinunciare senza grandi rimpianti, mentre al contrario spiacerebbe davvero fare a meno di una Angels di fragranze ispaniche, di una Heart Of Indochine che ricorda Norah Jones come di una Beautiful che rimanda all’altra Jones, Rickie Lee, di una scintillante e gigiona I Love This Town o del tex-mex Last Train Home. Ad esempio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.252, dicembre 2004.

Ruby’s Torch (Rounder, 2006)

Fra poco trentennale la carriera di Nanci Griffith, quarantennale se si conta dacché cominciò a cantare in locali di Austin nei quali legalmente nemmeno avrebbe avuto il diritto – dal basso dei suoi entusiastici quattordici anni – di entrare. Tutto questo tempo e diciassette album in studio e due dal vivo dopo (con una prevalenza di uscite major ma anche diverse in alveo indipendente, questa compresa) la Griffith sa ancora stupire e deliziare. Tutto questo tempo dopo resta nel cuore soprattutto una fan, e dunque un’interprete, e in seconda battuta un’autrice sopraffina con il curioso destino di cogliere i successi più grandi – lei che Nashville non ha mai accettato del tutto, lei che meriterebbe di vedersi annoverata fra le influenze dell’alt-country e invece no – per interposta persona. Era ad esempio Kathy Mattea a portare in classifica prima Love At The Five & Dime, poi Listen To The Radio, mentre a rendere una hit Outbound Plane provvedeva Suzy Bogguss. Già due i suoi dischi fatti interamente di rivisitazioni di “Other Voices” e altre le ha sparse un po’ ovunque. “Ruby’s Torch” è quasi – delle undici canzoni che allinea Nanci ne ha scritte due – il terzo. Indice di continuità? Un’altra celebrazione delle radici folk? Uno squisito esperimento invece, “un sogno fattosi realtà”, spiega nel libretto.

Lo avrete intuito dal titolo. È una raccolta di “torch songs”, fra le altre ben tre di Tom Waits e la classicissima In The Wee Small Hours Of The Morning (che conoscerete da Sinatra), rese con raffinato sentimento. Con archi e ottoni a prevalere per una volta sulle chitarre. Roba che sulla copertina dovrebbero attaccare un adesivo con il nome del whiskey da abbinare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.275, gennaio 2007.

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L’allegra ciurma di Commander Cody (in memoria di George Frayne, 19/7/1944-26/9/2021)

Formatisi nel Michigan nel 1967, Commander Cody (al secolo George Frayne) e i suoi Lost Planet Airmen (sigla prelevata da una serie che include classici del cinema di serie D quali Zombies Of The Stratosphere) devono trasferirsi a San Francisco per rimediare infine, nel 1971, un contratto (appropriatamente con un’etichetta, la Paramount, diramazione di un noto studio di Hollywood). L’esordio con il singolo Hot Rod Lincoln è in compenso col botto, visto che il brano entra nei Top 10 di “Billboard”. A dare sostanza alla fama del gruppo più che i comunque apprezzabili “Lost In The Ozone”, “Hot Licks, Cold Steel & Truckers’ Favorites” e “Country Casanova” provvedono concerti allegri e incandescenti in cui western swing ed errebì, blues e rockabilly, honky tonk e boogie si fondono indissolubilmente. Che nei ragazzi batta un cuore texano è evidente e non è quindi un caso che lo stato della Stella Solitaria li adotti con entusiasmo. Registrato nel novembre 1973 agli Armadillo World Headquarters di Austin e pubblicato nel marzo dell’anno dopo “Live From Deep In The Heart Of Texas” è memorabile in toto, a partire dalla copertina.

Scritto per Rock: 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012, ma poi escluso dalla lista finale. Il Comandante ci ha lasciati ieri, settantasettenne.

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L’uomo della pioggia (RIP Michael Chapman (24/1/1941-10/9/2021)

Classe 1941, Michael Chapman pubblica tuttora dischi con cadenze da giovincello, fa concerti e alla fine di ogni tour torna nel remoto villaggio del Northumbria dove vive dacché i proventi dell’album dopo questo, “Fully Qualified Survivor”, gli permisero di acquistarci una cascina. A lungo patrimonio di pochi, gli anni ’10 del nuovo secolo lo hanno visto intervistato a destra e a manca e fatto oggetto di un documentario, lui che già aveva avuto la soddisfazione di scoprire che artisti di altre generazioni (più giovani, tipo Thurston Moore, o parecchio più giovani, come Devendra Banhart) lo considerano un maestro. Può volgersi all’indietro, questo superbo chitarrista usualmente catalogato alla voce “folk progressivo” ma che ha suonato di tutto, fino all’improv più radicale, e guardare con orgoglio al percorso fatto. Prima tappa (datato 1969, griffato Harvest) questo stupendo “Rainmaker”. Assemblato con il cruciale contributo di altri musicisti stellari (per dire: al basso si alternavano Rick Kemp e Danny Thompson, in un paio di brani dietro la batteria sedeva Aynsley Dunbar) il disco parla la lingua di un folk elettrico ed elettrizzante, pregno di blues, disposto a concedersi al country. L’avessero fatta i Led Zeppelin, la traccia che gli dà il titolo la conoscerebbe chiunque.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Steve Earle & The Dukes – J.T. (New West)

Non ascolterete in questo 2021 canzone più straziante di quella che suggella il terzo tributo che un grandissimo cantautore quale è Steve Earle dedica a un altro autore con i crismi dell’eccezionalità. Ancora fresco, del marzo 2019, quel “Guy” con cui il nostro uomo omaggiava Guy Clark, morto settantaquattrenne nel 2016 per un linfoma, era di dieci anni prima la collezione di riletture di Townes Van Zandt, spentosi cinquantaduenne nel ’97 per avere troppo chiesto al suo fisico in un’esistenza matta e disperatissima, “Townes”. Steve Earle era talmente legato a costui da chiamare il suo primogenito Justin Townes. Ed ecco, proprio a Justin Townes, che dal padre aveva purtroppo ereditato oltre al talento la propensione a eccessi alcolici e dipendenze chimiche e a ragione di ciò è scomparso lo scorso 20 agosto, appena trentottenne, è dedicato “J.T.”. Dieci brani di un ragazzo mai diventato adulto davvero e a fondo corsa uno autografo ─ Last Words: felpato, luttuoso blues ─ di onestà, pregnanza, dolcezza sconvolgenti. Un dirsi addio da genitore a figlio nell’attesa di ritrovarsi che lascia annichiliti.

Non avrebbe mai voluto registrarlo un disco così, Steve Earle (o magari sì ma fra qualche anno, in onore di un riottoso allievo capace invecchiando di superare lo sregolato maestro), e non avrei mai voluto scriverne io, che tante volte ho avuto la fortuna di recensire sia Earle Sr che Earle Jr. Che poi sia un album bellissimo, collezione di country autorale propenso a commerci con folk e blues (solo saltuariamente con il rock: il tradizionalista in famiglia era quello giovane) era scontato. Che delle dieci canzoni riprese da sei dei nove album pubblicati da Justin Townes ben quattro arrivino da uno intitolato “The Good Life” aggiunge un tocco di agra ironia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.

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