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The Ballad Of Delaney & Bonnie

Delaney Bramlett e Bonnie Lynn O’Farrell, bianchi neri dentro, si conoscono a fine 1967 a Los Angeles. Lui, ventottenne, è passato dai Champs prima di approdare agli Shindogs. Lei, ventitreenne, è stata la prima Ikette non di colore. Tempo una settimana e hanno messo su famiglia e una band coi fiocchi che comprende Bobby Whitlock alle tastiere e l’eccezionale sezione ritmica formata da Carl Radle al basso e Jim Gordon alla batteria. Li mette sotto contratto la Stax. Inciso con la crema dei turnisti di Memphis, “Home” esce nel maggio 1969 ed è sapidissimo pasticcio di soul e rock, blues e gospel, errebì e funky cucinato alla maniera sudista. Sfortunatamente vende quasi nulla. Tutto finito? Macché. Li ingaggia la Elektra e nel giro di due mesi l’al pari esuberante “The Original” è nei negozi. George Harrison ascolta un test pressing, si entusiasma e li arruola nei ranghi della Apple. Peccato che l’accordo venga invalidato dal fatto che Delaney & Bonnie sono ancora a libro paga dell’etichetta di Jac Holzman, contratto sciolto quando Delaney minaccia di morte Holzman. Dall’avere due case discografiche la coppia passa ad averne nessuna. Tutto finito? Macché. Si fa avanti la Atlantic, firmano per la succursale ATCO ed entro fine anno si ritrovano in tour di spalla ai Blind Faith, supergruppo appena nato e già sull’orlo del dissolvimento. Ben più che con la sua band Eric Clapton si diverte a suonare con i Nostri, che schierano una formazione ampliata a dismisura da una sontuosa sezione fiati, da Rita Coolidge ai cori, da un altro mostro sacro quale Dave Mason dei Traffic alla terza (!) chitarra.

Con in scaletta (ad aprirla) un solo brano dai due lavori in studio, l’esplosivo rhythm’n’blues Things Get Better, “On Tour” viene registrato nella tappa inglese del 7 dicembre. Quando vedrà la luce nel marzo 1970 risulterà prematuro testamento più che cronaca, visto che Slowhand porterà Whitlock, Radle e Gordon nei Derek & The Dominos, Harrison se ne farà fiancheggiare in “All Things Must Pass”, Leon Russell metterà la sola ritmica al servizio del Joe Cocker di “Mad Dogs And Englishmen”. Dagli amici mi guardi Iddio! Consolazione non da poco tuttavia che, oltre a vendere parecchio al tempo, “On Tour” resti nella considerazione generale uno dei più bei live della storia del rock. E della black no? Valga come paradigma l’incrocio di chitarre hard, ritmica funk, fiati soul e voci da chiesa di Comin’ Home.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021.

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Il primo (il più sottovalutato, il meno ascoltato) Ry Cooder

Per non avere che ventitré anni il Ry Cooder che debutta nel 1970 da solista vanta un cv non solo corposo ma strepitoso: a parte un omonimo LP, inciso nel 1966 per una Columbia che assurdamente lo chiudeva in un cassetto e non lo recupererà che nel ’92, con i Rising Sons, quintetto fra folk-rock e country-blues elettrico con Taj Mahal, è stato il fulcro della prima Magic Band di Captain Beefheart, si è prestato da strumentista al Randy Newman di “12 Songs” e a Judy Collins in un tour che ha fruttato un live, ha collaborato con Van Dyke Parks e i Little Feat e, quel che più conta, a lungo è stato il sesto (o settimo, contando Ian Stewart) Rolling Stones (Love In Vain su “Let It Bleed” e Sister Morphine su “Sticky Fingers” gli apporti più importanti). Quando infine si ritrova per conto proprio incide un LP che può essere detto acerbo soltanto a confronto di certi capolavori successivi, gemma da sgrezzare (negli anni il blues dell’era della Depressione How Can A Poor Man Stand Such Times And Live? acquisterà dal vivo ben altra pregnanza, da spiritual) ma che già abbaglia e soprattutto rappresenta un manifesto d’artista cui l’estensore resterà fedele almeno finché non si farà sequestrare dal mondo del cinema. Raramente sarà autore (qui firma giusto Available Space, stantuffante e giocosa e in cui sei corde gli bastano per evocare una marching band) preferendo reinterpretare, sottraendoli ai curatori museali per restituirli alla vita, esempi fra i più vari dell’immenso patrimonio della musica popolare americana. Più avanti confezionerà dischi “a tema”. Qui essendo il primo opta per bighellonare qui e là, inserendo in un programma di undici tracce per scarsa mezzoretta anche un contemporaneo, Randy Newman, con la vignetta country Old Kentucky Home. È alle prese con i materiali più oscuri che sfodera un’originalità di accenti già unica: il Woody Guthrie di Do Re Mi riletto con una ritmica rock e dietro archi che guizzano, il Lead Belly di Pig Meat trasfigurato in pigra marcetta dixieland. Se il cantato non è il suo forte la prodigiosa tecnica fingerpicking esibita in Police Dog Blues di Blind Blake più che compensa. E dove non c’è la voce, come nella conclusiva Dark Is The Night di Blind Willie Johnson, sospesa e drammatica, pure l’ascoltatore resta senza parole.

Si rimane senza fiato anche scoprendo che era da più o meno metà anni Ottanta che “Ry Cooder” non veniva riedito in vinile (non contando un box del 2014, manca dai negozi pure come CD dal ’95). Una terza ragione per applaudire la Speakers Corner, essendo la prima che questa stampa nella sua ruvidezza suona eccellentemente e la seconda che a 32 euro al pubblico i titoli dell’etichetta tedesca sono diventati, per l’impazzito mercato odierno, economici.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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Yola – Stand For Myself (Easy Eye Sound)

Se ha un difetto o meglio un problema, “Stand For Myself”, è che deve fare i conti con lo stratosferico “Walk Through Fire”, che nel 2019 lasciava molti attoniti dinnanzi a un debutto che pareva sbucare dal nulla. Quando in realtà l’artefice, l’allora trentacinquenne Yolanda Quartey, da Bristol e non da Memphis o comunque dal profondo Sud degli States come si scommetterebbe ascoltandola, aveva già alle spalle una lunga carriera da corista (Massive Attack e Chemical Brothers) e da cantante dei Phantom Limb (due i lavori in studio e un live). Più profeta allora nella sua patria ideale che in quella vera, la signora: ben quattro le candidature ai Grammy e fra esse una nella categoria “Best Americana Album” e due, per Faraway Look, nelle sezioni “Best American Roots Performance” e “Best American Roots Song” (la quarta? “Best New Artist”). Il che ingenerava però un grosso equivoco e non valeva a giustificarlo che il disco fosse stato inciso a Nashville: che si trattasse di country quando il country è sì presente ma è indubitabilmente alla voce “soul” che Yola va catalogata.

Prodotto come l’esordio da Dan Auerbach dei Black Keys, “Stand For Myself” si presenta con una copertina che fa sospettare che per l’artista sia cambiato il decennio di riferimento, i ’70 e non più i ’60. Il che non è. Fra i dodici brani in scaletta giusto una Dancing Away In Tears gustosamente da Studio 54 va in tale direzione. Il resto ricalca il predecessore, con apici nella ballatona Barely Alive, nell’errebì al galoppo Diamond Studded Shoes, in una Great Divide sentimentale con afflato gospel, nella scheggia di Stax Break The Bough, nella grintosa e conclusiva traccia omonima. Manca solo l’effetto sorpresa, insomma.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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Flying Burrito Brothers – I Velvet Underground del country-rock

Nel libretto di un CD che nel 1997 riportava nei negozi dopo un’ultradecennale assenza il debutto dei Flying Burrito Brothers accoppiandolo senza aggiunte al successivo “Burrito Deluxe”, Sid Griffin scrive di “The Gilded Palace Of Sin” che al tempo dell’uscita a inizio 1969 non vendette che cinquantamila copie e tuttavia “come con il primo album dei Velvet Underground si direbbe che ogni singolo acquirente abbia poi formato una band ispirato da quanto aveva ascoltato”. Sapeva di cosa stava parlando, giacché lui fondò i Long Ryders. La “y” in luogo della “i” nella ragione sociale omaggio a quei Byrds da cui provenivano due dei quattro Burrito originali, il leader Gram Parsons e il principale fiancheggiatore, Chris Hillman. La ristampa di cui sopra era per il mercato britannico. Negli USA incredibilmente il disco che, portando a maturazione le intuizioni dei Byrds di “Notorious Byrd Brothers” e “Sweetheart Of The Rodeo”, completava la prima e cruciale redazione del canone di ciò che da allora chiamiamo country-rock in compact disc vedrà la luce per la prima volta solo tre ulteriori anni dopo e nel contesto di un doppio, “Hot Burritos! The Flying Burrito Brothers Anthology 1969-1972”, che raccoglie (questo regalando diverse bonus e di valore) i primi tre LP di un complesso all’altezza del terzo con sempre dentro due ex-Byrds (il secondo Michael Clarke) ma già orfano di Parsons: talento immane che tragicamente ci lasciava, il 19 settembre 1973, così giovane da non guadagnarsi nemmeno l’inclusione nel famigerato “club dei 27”, giacché era nato il 5 novembre 1946. Prestate occhio alla copertina qui a fianco: il capanno davanti al quale stazionano i nostri Fab Four ─ gli altri due sono il maestro di steel guitar “Sneaky” Pete Kleinow e il bassista Chris Ethridge ─ e da cui fanno capolino due belle figliole sorgeva nel parco nazionale di Joshua Tree, California meridionale. Parsons si butterà via a pochi chilometri da lì, andando in overdose da morfina mischiata a tequila, e sempre a pochi chilometri da lì due amici dopo averne trafugato il corpo (!) fatto portare a New Orleans dal patrigno cercheranno maldestramente di cremarlo. Finale di storia fra i più romanzeschi negli annali del rock. Ma torniamo a “The Gilded Palace Of Sin”, che a voler essere pignoli ancora aspetta di essere riedito singolarmente su CD negli USA, visto che a oggi l’unica versione in digitale è un SACD del 2017, ma in compenso solo negli ultimi dieci anni ha avuto nel mondo quattro ristampe in vinile fra le quali addirittura, qui in Italia, una da edicola per DeAgostini nel 2018. Mentre l’ultima e freschissima nel momento in cui scrivo, datata già 2021, è “made in the USA”, A&M come quella d’epoca.

Anche i ricchi piangono e infanzia e adolescenza di Cecil Ingram Connors, rampollo di famiglia che dire benestante è un eufemismo, è segnata da drammi di quelli che infliggono ferite inguaribili. Ha dodici anni quando il padre, eroe di guerra, si toglie la vita un’antivigilia di Natale, diciotto quando la madre che si è risposata con Robert Parsons (il ragazzo ha scelto di assumere il cognome del patrigno) muore di cirrosi epatica, si potrebbe dire suicida lei pure ma lentamente, una bottiglia alla volta. Fra tutti i giorni possibili, sceglie per andarsene quello in cui il figlio si diploma. Il ragazzo si iscrive alla Harvard University. Non ci crederete: a teologia. Dura un semestre prima che l’amore per la musica, cui si è accostato a nove anni studiando pianoforte, la prima chitarra imbracciata da lì a poco, lo sequestri definitivamente. Ha già suonato rock’n’roll e poi folk in una teoria di gruppetti fra l’amatoriale e il semiprofessionistico, unisce le due passioni e quella per il country fondando quella International Submarine Band che a posteriori sarà giustamente considerata, per quanto acerba, seminale. Quando il debutto a 33 giri per la LHI di Lee Hazlewood “Safe At Home” vede la luce nel marzo 1968 il complesso già non esiste più. Gram si è unito ai Byrds e sarà avventura brevissima, questione di mesi ma bastanti a fargli imprimere un marchio indelebile (al di là dei soli due brani su undici firmati, ma uno è il capolavoro Hickory Wind) su “Sweetheart Of The Rodeo”. Lascia la compagnia ufficialmente perché rifiuta di seguirla in un tour nel Sudafrica allora sotto il giogo dell’apartheid ed è nobile motivazione che però forse non nasconde altro che la voglia di dare vita a un progetto tutto suo volto a completare la compenetrazione di country e rock (mondi che nella temperie culturale sessantottina si osservano da lontano e con sospetto) che ha iniziato a tramare con la banda sempre più di Roger McGuinn.

È uno di quegli album di cui non puoi in nessun modo sopravvalutare l’influenza esercitata nell’abbondante mezzo secolo trascorso dalla pubblicazione, “The Gilded Palace Of Sin”. Dagli Eagles, che ne svilupperanno la formula trasformandone il rame in oro zecchino a livello di vendite, alla pattuglia di riottosi virgulti, da Dwight Yoakam a Steve Earle, che proverà a metà ’80 a prendersi Nashville e ancora più su, fino a quegli Uncle Tupelo con i quali un decennio ancora dopo si comincerà a parlare di alt-country, tutti nell’ambito che inventò o perlomeno finì di inventare gli debbono qualcosa. Il che fa quasi passare in secondo piano che sia un disco bellissimo, parata di indiscutibili classici che a due peculiari riletture di brani simbolo del soul, Do Wright Woman da Aretha Franklin e Dark End Of The Street da James Carr (la seconda singolarmente esultante visto il tema) unisce nove composizioni autografe (la firma di Parsons sotto tutte, quella di Hillman ad affiancarla in sei) una più favolosa dell’altra. Insieme coeso di parti che prese una per una parrebbero anche parecchio distanti: lo shuffle incalzante di Christine’s Tune che inaugura ben altra cosa rispetto al liturgico errebì di Hippie Boy che suggella, il valzer Sin City lontano universi dalle stilettate di fuzz infitte nel cuore pulsante di tenerezza di Wheels. Paradigmatiche le due Hot Burrito che si danno il cambio sulla seconda facciata: la #1 avrebbe potuto rifarla Sinatra; la #2 un’esilarante ipotesi di garage-country.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.428, febbraio 2021. Non fosse morto indecentemente giovane, Gram Parsons compirebbe oggi settantacinque anni.

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Lone Star State Of Mind (in memoria di Nanci Griffith)

Sfogliando l’ultimo numero di “Blow Up” apprendo con grande ritardo e dispiacere che lo scorso 13 agosto ci ha lasciato, oltretutto alquanto prematuramente, un’autrice e interprete della quale mi capitò spesso di scrivere e sono difatti ben cinque le recensioni che posso recuperare dai miei archivi. Non giungo ad annoverare Nanci Griffith fra le artiste che mi hanno cambiato la vita ma per certo mi ha donato ore piacevoli, emozioni non da poco.

Lone Star State Of Mind (MCA, 1987)

Da sempre artista più di culto che di massa, apprezzatissima da colleghi e colleghe cui ha regalato più successi di quanti non ne abbia avuti lei in prima persona (uno per tutti: Listen To The Radio, portato in classifica da Kathy Mattea), Nanci Griffith si muove nell’ambito di un country con poco a che vedere con gli stereotipi nashvilliani, senza un eccesso negli arrangiamenti, più prossimo a Steve Earle o a Lyle Lovett che a Garth Brooks, memore della lezione di Gram Parsons, che si è abbeverato e tuttora si abbevera alle fonti di Bob Dylan e John Prine e ha aperto la strada a interpreti moderni quali Wilco e 16 Horsepower. Fra i diversi articoli di livello di un catalogo senza cadute, abbiamo scelto quello che fu il primo di quattro LP per la MCA. Disponibile dal 2003, oltre che singolarmente, in un economico doppio, “The Complete MCA Studio Recordings”.

Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.19, autunno 2005.

The Complete MCA Studio Recordings (MCA Nashville, 2003)

Festeggia bene i suoi cinquant’anni benissimo portati Nanci Griffith, con un doppio CD che a parte un live raduna tutto quanto pubblicò, in quattro album, per la MCA fra il 1987 e il 1991, con la gradita aggiunta di tre rarità fra cui una brillante Wooden Heart tratta dal tributo a Presley (“The Last Temptation Of Elvis”) organizzato dal “New Musical Express”. Artista più “di culto” che di successo vero, la Griffith, e difatti dopo l’esperienza major, cui giungeva dopo un poker di LP per piccole quando non minuscole case specializzate, tornerà in alveo indipendente dove tuttora naviga: nondimeno apprezzatissima, oltre che dallo zoccolo duro del fandom, da colleghi e colleghe che spesso e volentieri hanno pescato nel suo repertorio talvolta tramutandolo in oro (ci pensava ad esempio Kathy Mattea a portare in classifica Listen To The Radio), o di cui ha a sua volta ripreso (l’interprete vale non meno dell’autrice, cioè parecchio) qualche brano. Ci si imbatte in nomi importanti scorrendo i crediti di “The Complete MCA Studio Recordings”: Phil Everly, Billy Joe Walker, Bernie Leadon, Albert Lee, Jerry Donahue, Tanita Tikaram.

L’ambito è quello di un country che a dispetto della ragione sociale dell’etichetta che riedita queste quarantasei canzoni ha in realtà poco a che vedere con gli stereotipi nashvilliani. Sobrio negli arrangiamenti, devoto a Gram Parsons come a John Prine, prossimo a Steve Earle e Lyle Lovett per citare campioni di una generazione successiva, sa porgersi con una grazia che non ne depotenzia l’intensità.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.238, settembre 2003.

Winter Marquee (Rounder, 2002)

Racconta la Griffith nel libretto di questo live (non il primo in una carriera del resto ormai venticinquennale) di avere imparato a suonare la chitarra da bambina guardando un programma in TV. La prima canzone che apprese? La sigla della trasmissione, un pezzo di quell’irrisolto e tragico Bob Dylan + Che Guevara che fu Phil Ochs, What’s That I Hear. Incredibile, ma vero, è che non ne avesse mai inciso una versione finora, e dire che della sua folta discografia fanno parte due album tutti di materiali altrui. Si trattava allora di pagare un debito e si cominciò a registrare i concerti del tour della scorsa primavera giusto per mettere su nastro quella canzone lì. Avrete inteso come è andata a finire: un CD discretamente pieno (quattordici brani e quasi un’ora di durata; deplorevole però che la versione in DVD contenga quattro canzoni in più, una delle quali inedita) che può essere un’ottima introduzione, con il suo sapiente alternare cover, classici conclamati e brani ingiustamente poco considerati oppure nuovi, a questa signora del country meno appiattito sui suoi stereotipi.

What’s That I Hear, di cui vengono esaltate le qualità melodiche, è il penultimo titolo in scaletta e precede il caracollante passo di White Freight Liner dell’amatissimo Townes Van Zandt. Le altre tre cover presenti sono una languida e calorosa Speed Of The Sound Of Loneliness di John Prine, una Boots Of Spanish Leather di Bob Dylan di sommessa epicità e la sognante Good Night, New York di Julie Gold (Emmylou Harris vi è ospite). Il resto sono originali di spigliata cantabilità (più di tutti Listen To The Radio) e sentimento ed eleganza sommi. Un disco delizioso.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.512, 3 dicembre 2002.

Hearts In Mind (New Door/Universal, 2004)

Se dopo essere sembrata per una vita una ragazzina Nanci Griffith sulla copertina di “Hearts In Mind” comincia per la prima volta a dimostrare gli anni che ha, e che non sono pochi (essendo io un gentiluomo e lei una signora non vi dirò quanti; solo che il primo LP risale al 1978), l’album con cui torna in area major dopo avere trovato ospitalità alla Rounder per il precedente “Winter Marquee” non evidenzia viceversa ruga alcuna: maturo come ha da essere il lavoro di chi fa dischi da un quarto di secolo, però con una vivacità da esordiente.

In Italia la Griffith è poco conosciuta, un prezioso segreto per quanti frequentano quel cantautorato che può essere iscritto in area country ma del country nashvilliano, per noi indigeribile quanto di enorme successo là, rigetta stereotipi e orpelli. Un po’ diversamente vanno le cose negli Stati Uniti, se è vero che, fra due soggiorni in ambito indipendente, per tre lustri filati è stata domiciliata presso due diverse multinazionali e ora ritrova casa presso una terza. “Hearts In Mind” ha le carte in regola per propiziarne il rilancio, generoso com’è di brani immediatamente memorabili e da subito, dalla ballatona Simple Life, che persino sulle radio più conservatrici (che Nancy l’hanno in uggia anche per certe sue prese di posizione) potrebbe trovare frequenti passaggi. Il che non toglie che delle tredici canzoni in programma sia quella cui si potrebbe rinunciare senza grandi rimpianti, mentre al contrario spiacerebbe davvero fare a meno di una Angels di fragranze ispaniche, di una Heart Of Indochine che ricorda Norah Jones come di una Beautiful che rimanda all’altra Jones, Rickie Lee, di una scintillante e gigiona I Love This Town o del tex-mex Last Train Home. Ad esempio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.252, dicembre 2004.

Ruby’s Torch (Rounder, 2006)

Fra poco trentennale la carriera di Nanci Griffith, quarantennale se si conta dacché cominciò a cantare in locali di Austin nei quali legalmente nemmeno avrebbe avuto il diritto – dal basso dei suoi entusiastici quattordici anni – di entrare. Tutto questo tempo e diciassette album in studio e due dal vivo dopo (con una prevalenza di uscite major ma anche diverse in alveo indipendente, questa compresa) la Griffith sa ancora stupire e deliziare. Tutto questo tempo dopo resta nel cuore soprattutto una fan, e dunque un’interprete, e in seconda battuta un’autrice sopraffina con il curioso destino di cogliere i successi più grandi – lei che Nashville non ha mai accettato del tutto, lei che meriterebbe di vedersi annoverata fra le influenze dell’alt-country e invece no – per interposta persona. Era ad esempio Kathy Mattea a portare in classifica prima Love At The Five & Dime, poi Listen To The Radio, mentre a rendere una hit Outbound Plane provvedeva Suzy Bogguss. Già due i suoi dischi fatti interamente di rivisitazioni di “Other Voices” e altre le ha sparse un po’ ovunque. “Ruby’s Torch” è quasi – delle undici canzoni che allinea Nanci ne ha scritte due – il terzo. Indice di continuità? Un’altra celebrazione delle radici folk? Uno squisito esperimento invece, “un sogno fattosi realtà”, spiega nel libretto.

Lo avrete intuito dal titolo. È una raccolta di “torch songs”, fra le altre ben tre di Tom Waits e la classicissima In The Wee Small Hours Of The Morning (che conoscerete da Sinatra), rese con raffinato sentimento. Con archi e ottoni a prevalere per una volta sulle chitarre. Roba che sulla copertina dovrebbero attaccare un adesivo con il nome del whiskey da abbinare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.275, gennaio 2007.

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L’allegra ciurma di Commander Cody (in memoria di George Frayne, 19/7/1944-26/9/2021)

Formatisi nel Michigan nel 1967, Commander Cody (al secolo George Frayne) e i suoi Lost Planet Airmen (sigla prelevata da una serie che include classici del cinema di serie D quali Zombies Of The Stratosphere) devono trasferirsi a San Francisco per rimediare infine, nel 1971, un contratto (appropriatamente con un’etichetta, la Paramount, diramazione di un noto studio di Hollywood). L’esordio con il singolo Hot Rod Lincoln è in compenso col botto, visto che il brano entra nei Top 10 di “Billboard”. A dare sostanza alla fama del gruppo più che i comunque apprezzabili “Lost In The Ozone”, “Hot Licks, Cold Steel & Truckers’ Favorites” e “Country Casanova” provvedono concerti allegri e incandescenti in cui western swing ed errebì, blues e rockabilly, honky tonk e boogie si fondono indissolubilmente. Che nei ragazzi batta un cuore texano è evidente e non è quindi un caso che lo stato della Stella Solitaria li adotti con entusiasmo. Registrato nel novembre 1973 agli Armadillo World Headquarters di Austin e pubblicato nel marzo dell’anno dopo “Live From Deep In The Heart Of Texas” è memorabile in toto, a partire dalla copertina.

Scritto per Rock: 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012, ma poi escluso dalla lista finale. Il Comandante ci ha lasciati ieri, settantasettenne.

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L’uomo della pioggia (RIP Michael Chapman (24/1/1941-10/9/2021)

Classe 1941, Michael Chapman pubblica tuttora dischi con cadenze da giovincello, fa concerti e alla fine di ogni tour torna nel remoto villaggio del Northumbria dove vive dacché i proventi dell’album dopo questo, “Fully Qualified Survivor”, gli permisero di acquistarci una cascina. A lungo patrimonio di pochi, gli anni ’10 del nuovo secolo lo hanno visto intervistato a destra e a manca e fatto oggetto di un documentario, lui che già aveva avuto la soddisfazione di scoprire che artisti di altre generazioni (più giovani, tipo Thurston Moore, o parecchio più giovani, come Devendra Banhart) lo considerano un maestro. Può volgersi all’indietro, questo superbo chitarrista usualmente catalogato alla voce “folk progressivo” ma che ha suonato di tutto, fino all’improv più radicale, e guardare con orgoglio al percorso fatto. Prima tappa (datato 1969, griffato Harvest) questo stupendo “Rainmaker”. Assemblato con il cruciale contributo di altri musicisti stellari (per dire: al basso si alternavano Rick Kemp e Danny Thompson, in un paio di brani dietro la batteria sedeva Aynsley Dunbar) il disco parla la lingua di un folk elettrico ed elettrizzante, pregno di blues, disposto a concedersi al country. L’avessero fatta i Led Zeppelin, la traccia che gli dà il titolo la conoscerebbe chiunque.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Steve Earle & The Dukes – J.T. (New West)

Non ascolterete in questo 2021 canzone più straziante di quella che suggella il terzo tributo che un grandissimo cantautore quale è Steve Earle dedica a un altro autore con i crismi dell’eccezionalità. Ancora fresco, del marzo 2019, quel “Guy” con cui il nostro uomo omaggiava Guy Clark, morto settantaquattrenne nel 2016 per un linfoma, era di dieci anni prima la collezione di riletture di Townes Van Zandt, spentosi cinquantaduenne nel ’97 per avere troppo chiesto al suo fisico in un’esistenza matta e disperatissima, “Townes”. Steve Earle era talmente legato a costui da chiamare il suo primogenito Justin Townes. Ed ecco, proprio a Justin Townes, che dal padre aveva purtroppo ereditato oltre al talento la propensione a eccessi alcolici e dipendenze chimiche e a ragione di ciò è scomparso lo scorso 20 agosto, appena trentottenne, è dedicato “J.T.”. Dieci brani di un ragazzo mai diventato adulto davvero e a fondo corsa uno autografo ─ Last Words: felpato, luttuoso blues ─ di onestà, pregnanza, dolcezza sconvolgenti. Un dirsi addio da genitore a figlio nell’attesa di ritrovarsi che lascia annichiliti.

Non avrebbe mai voluto registrarlo un disco così, Steve Earle (o magari sì ma fra qualche anno, in onore di un riottoso allievo capace invecchiando di superare lo sregolato maestro), e non avrei mai voluto scriverne io, che tante volte ho avuto la fortuna di recensire sia Earle Sr che Earle Jr. Che poi sia un album bellissimo, collezione di country autorale propenso a commerci con folk e blues (solo saltuariamente con il rock: il tradizionalista in famiglia era quello giovane) era scontato. Che delle dieci canzoni riprese da sei dei nove album pubblicati da Justin Townes ben quattro arrivino da uno intitolato “The Good Life” aggiunge un tocco di agra ironia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.

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Il talento grande e la vita buttata via di Justin Townes Earle (4/1/1982-20/8/2020)

Ricevo una richiesta di amicizia su Facebook. Come al solito prima di accettarla do un’occhiata al profilo di chi me l’ha inviata e ai contatti che abbiamo in comune. Il profilo è chiuso, con solo pochi post visibili. Rispondo egualmente positivamente e lo riapro. Ed è così che vengo a sapere, con due settimane di ritardo, della morte (del resto comunicata al mondo soltanto il 23 agosto) di uno dei migliori cantautori americani under 40. Dipartita tanto prematura quanto tristemente prevedibile per cosa l’ha causata. Eri proprio il figlio di tuo padre, Justin Townes. Lui ha avuto più fortuna, tu avresti dovuto imparare, dai suoi errori e dai tuoi.

Midnight At The Movies (Bloodshot, 2009)

È un nome pesante da portare: Townes, come un carissimo amico di famiglia. Townes Van Zandt. Arte immane, esistenza da maledetto, morte prematura. Fra i grandi cantautori americani il più misconosciuto ma pure, da chi sa, il più riverito. E va da sé che sia pesantissimo pure il cognome, se chi ti ha generato è Steve Earle: uno che ha rivoluzionato il country come pochi mai nonché un altro con un’inclinazione pericolosa, emendata un attimo prima che fosse troppo tardi, per la vita spericolata. Giusto in apertura di Mama’s Eyes, quarta traccia di dodici di questo suo secondo album, il rampollo ammette, fra l’orgoglioso e il rassegnato, che “sono il figlio di mio padre/non ho mai saputo quando tenere la bocca chiusa/ma non frego nessuno/sono proprio il figlio di mio padre”. A fare il figlio di suo padre ci si è messo sin da ragazzino, prestissimo nella band paterna, i Dukes, e altrettanto precocemente titolare di un record ineguagliabile, essendosi fatto licenziare per avere ecceduto con l’eroina e visto l’ambito ce ne voleva. Cinque overdose prima di compiere ventun anni e l’ultima quasi fatale, il giovanotto capiva infine che di papà altre erano le cose da imitare.

Oppure no, nel senso che pur muovendosi nel country Steve e Justin Townes non hanno granché in comune, il primo più propenso al rock, il secondo che parrebbe sul subito assai più passatista. È un’impressione che a un ascolto attento e consapevole si rivela però errata e clamorosamente. Similmente al primo John Prine – ed ecco uno di cui sul serio può essere considerato l’erede: più che di Steve, più che di Townes – il ragazzo ha un approccio alla tradizione fresco e innovativo. Mischia all’interno del suo perimetro, la infiltra senza parere di altro, dall’antico (il ragtime) al moderno (certo indie pop). What I Mean To You l’avrebbe potuta scrivere un Randy Newman, They Killed John Henry o Halfway To Jackson le si sarebbe potute ascoltare da Johnny Cash.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.645, aprile 2009.

Harlem River Blues (Bloodshot, 2010)

Se un Dio esiste, deve avere a un certo punto posto la mano sul capino di cazzo imbrillantinato di Justin Townes Earle e, tirandolo su per i capelli, sottratto di peso a una morte che stava per coglierlo quando gli anni trascorsi su questa terra dal rampollo di cotanto padre – Steve: ex-tossico, ex-alcolizzato e uno dei più emozionanti cantori e cantautori dell’America dell’ultimo quarto di secolo – non erano che venti. Sopravvissuto a una prima, una seconda, una terza, una quarta overdose, il ragazzo incredibilmente se la cavava per il rotto della cuffia pure con la quinta e a quel punto decideva che altro di papà bisognava imitare. Siamone grati, al Dio di cui sopra. Naturalmente non avremmo mai avuto consapevolezza di che razza di talento ci saremmo se no persi, ma saperlo ora toglie il fiato come un’ascesa che pare irresistibile dacché il ragazzotto nel 2007 si autoproduceva un mini cui sono poi andati dietro tre album questo compreso, tutti su Bloodshot, uno per anno.

Mi trovo in imbarazzo a dovere dare un voto ad “Harlem River Blues” dopo avere speso superlativi e un bell’“8” per il precedente “Midnight At The Movies”. Un po’ meno variegato (non che non sia piuttosto vario; però in un range stilistico più ristretto) evidenzia in compenso un ulteriore salto di qualità della scrittura e nondimeno… be’, sopra l’“8” secondo me si dovrebbe andare solo per dischi che si individua fra i migliori dell’anno e si scommette che segneranno un decennio. Quattro ascolti non mi bastano per sbilanciarmi tanto. Per intanto qui mi sembra ci siano comunque canzoni colossali: come una traccia omonima che infiltra soul in uno shuffle rockabilly, una Working For The MTA che è Woody che incontra Bruce, una Slippin’ And Slidin’ da Età dell’Oro della Stax.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.316, novembre 2010.

Single Mothers (Vagrant, 2014)

Le apparenze ingannano. Con quella faccia da nerd che ha stenteresti a dare a questo giovanotto più di venticinque anni e invece il prossimo 4 gennaio saranno trentatré. Immagineresti che nella vita non abbia fatto nulla di più pericoloso per la salute che trangugiare junk food in lunghe notti insonni trascorse davanti allo schermo di un computer, quando invece cominciava a collezionare overdose da eroina quando era sì e no maggiorenne e arrivato a ventuno contava la quinta, che rischiava di essere l’ultima in tutti i sensi visto che per pochissimo non si rivelava fatale. Dopo di che il ragazzetto metteva più o meno la testa a posto ma molto “più o meno”, visto che con sconcerto leggo che negli ultimi tempi era tornato a flirtare pericolosamente con alcool e sostanze. Leggo anche che ora è di nuovo “pulito” e spero sia la volta buona. Fino ad oggi la vita del figlio di quell’altro talentuoso disperato di Steve Earle si potrebbe riassumere con il titolo di un classico del cantautore maledetto USA per antonomasia Townes (ma guarda! no, non è una combinazione) Van Zandt: “High, Low And In Between”.

Da sempre più country che non rock rispetto a papà, nel precedente “Nothing’s Gonna Change The Way You Feel About Me Now” (quarto e ultimo lavoro su Bloodshoot prima di un infruttuoso e tumultuoso passaggio dalle parti della Communion e dell’approdo alla Vagrant), Justin Townes aveva come traslocato Memphis a Nashville, in un disco dal suono denso e pregno di soul. Lì lo accompagnavano sino a una dozzina di musicisti, qui al massimo tre in una decina di canzoni perlopiù scarne e malinconiche, non di rado sull’orlo della depressione e se è questo l’effetto che gli fa essersi sposato l’anno scorso non oso immaginare cosa sarà l’album in cui racconterà il divorzio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.357, novembre 2014.

Kids In The Street (New West, 2017)

È chiaramente un affare di famiglia e non soltanto perché il padre di Justin Townes, Steve, è uno degli artisti di punta del cantautorato rock USA degli ultimi trent’anni (il figlio degli ultimi dieci). Datato 2014, il terzultimo lavoro del rampollo è intitolato “Single Mothers”. Il successore, del 2015, lo aveva chiamato “Absent Fathers”. Adesso questo “Kids In The Street” ed è impossibile, vista la biografia dell’ormai qualcosa più che giovanotto (trentacinquesimo compleanno festeggiato in gennaio), non pensare che è della sua vita, direttamente o in metafora, che ci parla: di un’infanzia trascorsa affidato alla madre; di un padre perso nella battaglia contro assortite dipendenze che cominciava a farsi carico dei suoi doveri solo quando Justin Townes stava entrando in un’adolescenza a sua volta marchiata dall’abuso di alcool ed eroina. Vita spericolata, in cui a una prima redenzione è andata dietro una ricaduta nei vecchi vizi. Avrà definitivamente rimesso la testa a posto ora che è anche lui genitore?

Accantonando analisi testuali che al lettore italiano interessano poco (e sarebbero pure difficili da compiere, essendo la recensione basata su un advance senza nemmeno i crediti), la prima cosa che salta all’orecchio è come questo album nuovo sia musicalmente assai più vario e vivace dei due immediati predecessori. Lo chiarisce subito il rock’n’roll sexy e sferragliante Champagne Corolla, eletto a inaugurare il programma e a fare da apripista sul web. Da lì all’avvolgente e sospesa There Go A Fool, cui sono affidati i saluti, è un florilegio di jingle jangle pop e marcette dixie, ballatone country, blues arcaici, briosi ballabili rock. Leggo di una cover di Graceland di Paul Simon designata inizialmente a congedo, ma non ne trovo traccia: peccato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.388, giugno 2017.

The Saint Of Lost Causes (New West, 2019)

“Una volta che hai premuto il grilletto non puoi far tornare indietro la pallottola”, riflette il protagonista della cupissima Appalachian Nightmare, che avendo ucciso un poliziotto quell’unica volta che ha sparato in vita sua si ritrova assediato in una stanza di un motel e sa che non ne uscirà vivo, se non per passare in galera il resto della sua esistenza. “Fra tutti i miei rimpianti i due peggiori sono non aver trattato meglio mia madre e il primo buco”, aggiunge, prima di rivolgere una preghiera al Creatore e, presumibilmente, farla finita. Che il tutto sia cantato, o più che altro recitato in questo caso, da uno che andò cinque volte in overdose prima di compiere ventun anni e l’ultima gli fu quasi fatale (dopo di che ha messo la testa a posto; più o meno) aggiunge all’assieme un’eco ulteriormente sinistra. Chissà se con sua madre Justin Townes ha avuto/ha un rapporto migliore rispetto al delinquente di cui sopra. Con l’illustre padre la relazione è sempre stata un po’ complicata. Buon per noi che al figliolo Steve Earle abbia trasmesso non solo debolezze ma anche il talento. Ne costituiscono fenomenale certificazione gli otto album con questo che Earle Jr ha pubblicato a partire dal 2008. Media altissima e a doverne consigliare uno solo non si saprebbe quale. Proprio “The Saint Of Lost Causes”?

Per certo è un lavoro che segna una piccola cesura nella carriera del Nostro. Il più vendibile, per l’immediatezza di alcune canzoni, prima fra le quali quella che lo inaugura e intitola sistemandosi da qualche parte fra Joe Henry e Chris Isaak e a ruota le ballate country Morning In Memphis e Frightened By The Sound. Il più rock, con gli schietti rockabilly Ain’t Got No Money e Flint City Shake It e il tagliente blues Dont’ Drink The Water.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.412, settembre 2019.

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John Prine (10/10/1946-7/4/2020) in due album, il primo e l’ultimo

You’ve been enjoying a pretty amazing run over the past few years. Your last album became your highest charting LP and got several Grammy nominations. You’ve been playing to big crowds…

“Seems I can’t do any wrong these days. About five years ago, I was thinking about, not retiring, but just kicking back and doing fewer shows. But ever since I brought out ‘The Tree Of Forgiveness’ we’re doing everything we can just to keep up with it. It’s still selling after 18 months, I’m getting a lot of young kids coming to the shows, and in turn they’re going back and listening to my old stuff.”

(Dall’ultima intervista concessa da John Prine, pubblicata da “Mojo” sul numero di marzo 2020.)

John Prine (Atlantic, 1971)

Per essere uno che dei diciotto lavori in studio pubblicati dopo questo è riuscito a piazzarne solo uno nei Top 100 di “Billboard” (“Common Sense” nel 1975; peraltro uno dei meno apprezzati dai suoi estimatori), se ne è tolte di soddisfazioni John Prine. Di morali soprattutto in un secolo nuovo che, oltre all’introduzione nel 2003 nella “Nashville Songwriters Hall Of Fame”, lo ha visto collezionare due Grammy e quattro vittorie agli “Americana Music Honors & Awards”. Di monetarie sin dai lontani anni ’70 che inaugurava con questo meraviglioso debutto, ignorato appunto dalle classifiche ma in compenso apprezzatissimo da colleghi in cerca di brani da far loro (d’altro canto: alla Atlantic era approdato su raccomandazione di Kris Kristofferson). Se lui di hit in prima persona non ne ha mai avute, a elencare chi lo ha coverizzato non basterebbero un paio di colonne di questo volume e basti allora citare un paio di nomi ovvi (Johnny Cash e Bonnie Raitt) e un paio molto meno (Bette Midler e Paul Westerberg). “John Prine” contiene alcune delle sue composizioni classiche e fra esse due fra le più memorabili di tutte: l’agrodolcissima Donald And Lydia e la sconvolgente Sam Stone, ritratto visto con gli occhi del figlio di un reduce dal Vietnam precipitato negli abissi della tossicodipendenza.

Pubblicato per la prima volta su Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

The Tree Of Forgiveness (Oh Boy, 2018)

Sulla copertina del suo diciannovesimo lavoro in studio l’uomo che nientemeno che Bob Dylan paragonò nientemeno che a Marcel Proust sembra anche più vecchio dei settantun anni che ha. D’altra parte: tanta grazia che questo disco – prima raccolta di materiali autografi da tredici anni in qua, dopo una di standard country e una di duetti con voci femminili – veda la luce, giacché l’autore è sopravvissuto a un cancro ai polmoni quasi tre lustri dopo averne sconfitto uno della pelle. È alla radioterapia che lo aiutava a sbarazzarsi del primo che dobbiamo una voce più profonda e roca che negli album che lo hanno consegnato alla storia della canzone d’autore americana del Novecento: l’epocale, omonimo esordio del 1971; il quasi altrettanto meraviglioso “Sweet Revenge”, del ’73; in seconda battuta il sorprendente (schiettamente rockabilly, però solo per metà di brani suoi) “Pink Cadillac”, del ’79. A quella, più che alle sigarette cui ha dovuto giocoforza rinunciare e che rimpiange talmente da pregustare, nella conclusiva delle dieci tracce che sfilano in “The Tree Of Forgiveness”, quella che per prima cosa si fumerà non appena ammesso in paradiso: una lunghissima, nove miglia.

Alternativamente recitata e cantata e musicalmente sgangheratella, When I Get To Heaven è il solo mezzo passo falso – perdonabile; paradossalmente, ben altra pregnanza evidenziava Prine scrivendo a venticinque anni appena un capolavoro di canzone sull’invecchiare quale Hello In There – in un disco se no strepitoso. Fra il resto due pezzi con la statura del classico istantaneo: Caravan Of Fools potrebbe confondersi in un “Best Of” di Johnny Cash, The Lonesome Friends Of Science in uno di Townes Van Zandt.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.399, giugno 2018.

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