Altamente improbabile che vi sia qualche lettore, per quanto disinteressato al country e con una presenza minima di cantautori USA negli scaffali, per cui Joe Ely è uno sconosciuto. Almeno il nome, se non altro perché rientra fra quelli recensiti di default su queste pagine, lo avrà orecchiato. Ma è assolutamente impossibile che non lo abbia mai ascoltato cantare. Avete presente Should I Stay Or Should I Go? La più rollingstoniana delle canzoni dei Clash era il terzo singolo tratto nell’82 da “Combat Rock”, a seguire l’exploit di Rock The Casbah, che non eguagliava ma comunque avvicinava. Sarà uno spot per una marca di jeans a trasformarla, di lì a dieci anni, nel più grande successo di sempre di una band a quel punto da lungi sciolta e a renderla inamovibile nel novero di quei cento-duecento pezzi fissi nelle rotazioni di un certo tipo di radio. Nel catalogo Clash Should I Stay Or Should I Go è un’anomalia, uno dei pochissimi brani in cui è Mick Jones la voce solista, con Joe Strummer a fare i cori. Non da solo. Con Joe Ely, che così arrivava a dividere uno studio con un gruppo per il quale aveva aperto innumerevoli date nel Regno Unito come oltre Atlantico, società di mutua ammirazione che aveva toccato un duplice apice nel 1980 con l’uscita di “Live Shots”, immortalato a Londra proprio in una serata di spalla a Strummer e soci, e nell’omaggio tributatogli da costoro in If Music Could Talk, quinta traccia della terza facciata del triplo “Sandinista!”: “There ain’t no better blend than Joe Ely and his Texas Men”. Se non vi fidate del sottoscritto…
Earle R. Ely nasce ad Amarillo il 9 febbraio 1947 e si trasferisce dodicenne in quella Lubbock che ancora oggi chiama casa. È una performance di Jerry Lee Lewis a fargli decidere cosa farà da grande anche se, non potendosi permettere un piano, imbraccia un violino prima, poi una chitarra. Fra lui e il sogno si frappone, quando ha quattordici anni, la tragica realtà della prematura scomparsa del padre e di un conseguente crollo nervoso della madre che fa sì che lui e un fratello debbano soggiornare per diversi mesi presso dei parenti. Abbandonati prematuramente gli studi contribuisce al bilancio domestico con il più umile dei lavori, lavapiatti. Lasciato quando il primo complesso semiprofessionale, tali Twilights dei quali non ci è giunto che il nome, comincia a rimediare abbastanza ingaggi da garantirgli introiti più dignitosi. Lasciati a loro volta, i Twilights, per una vita da vagabondo beat che lo porta in California, poi a New York, quindi (al seguito di una compagnia teatrale) in Europa. Torna a Lubbock nel 1971 e fa comunella – inizio di un felicissimo ménage à trois giunto ai giorni nostri – con Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore. Dei tre Joe è l’anima rock’n’roll, Butch quella folk, Jimmie Dale un’enciclopedia deambulante della country music. Si battezzano Flatlanders e rimediano un contratto con un’etichetta, la Plantation, che ha vissuto giorni di gloria ma è ormai in disarmo. Che è la ragione per la quale l’album che registrano nel 1972 – “All American Music” il programmatico titolo – non vedrà la luce che nel ’73. Luce? Quale luce? Esce solo in stereo 8 (!) e insomma fino al 1980, quando lo riediterà a 33 giri la britannica Charly smentendo quanti lo ritenevano una leggenda, non lo ascolterà nessuno. L’anno dopo ancora il nostro uomo si gioca la carta della carriera solista. Passando di mano in mano un demo arriverà nel 1976 fra quelle di un componente della band di Jerry Jeff Walker, che lo girerà al principale, che lo girerà a un dirigente della sua casa discografica, la MCA.
Stentavo a crederci, giacché è di un autore e interprete stratosferico universalmente annoverato fra i precursori del cosiddetto alt-country che stiamo parlando, ma le ristampe rimasterizzate pubblicate lo scorso 17 febbraio dallo stesso marchio che le portò nei negozi illo tempore di “Joe Ely” (1977), “Honky Tonk Masquerade” (1978) e “Down On The Drag” (1979) sono, per l’esordio e il suo seguito, le prime in vinile dal 1980 e, per quanto attiene il terzo LP, addirittura la prima in analogico. Se per un verso si potrebbe paradossalmente dirle inutili, giacché le copie d’epoca si trovano ancora con facilità e a un prezzo che è una frazione di quello scandaloso (attorno ai cinquanta euro!) richiesto per queste, e suonano già piuttosto bene, per un altro quantomeno offrono il destro, nell’attesa che pure il summenzionato “Live Shots”, “Musta Gotta Notta Lotta” (1981) e “Hi-Res” (1984) subiscano in ogni senso analogo trattamento, per spendere qualche riga per un debutto brillante, un classico totale e un buon lavoro di transizione. Decida chi ne è sprovvisto se farsi rapinare o rivolgersi al mercato dell’usato. Tutti e tre gli album hanno dieci canzoni in scaletta e in tutti e tre il titolare ne firma la metà, pescando parecchio per il resto nel repertorio di Butch Hancock (ben undici brani) e offrendo inoltre sue versioni di due pezzi di Jimmie Dale Gilmore (a trenta si arriva con un’esuberante resa di Honky Tonkin’ di Hank Williams e una bluesata di B.B.Q. & Foam di Ed Vizard). In tutti e tre danno man forte al titolare, oltre a una folla di turnisti, Lloyd Manes alla steel guitar, Jesse Taylor alle chitarre sia acustiche che elettriche, Gregg Wright al basso e Steve Keaton alla batteria, con Ponty Bone che si aggiunge a piano e fisarmonica a partire dal secondo. Gruppo tosto ed eclettico, ruspante e raffinato. Apici… Di “Joe Ely”: la travolgente I Had My Hopes Up High, il cajun Mardi Gras Waltz, il western swing All My Love. Ma, soprattutto, la meravigliosa ballata da border She Never Spoke Spanish To Me. Di “Honky Tonk Masquerade” (incluso nel 2005 nel delizioso 1001 Albums You Must Hear Before You Die): l’honky tonk Cornbread Moon, l’accorata con brio Boxcars, la squisitamente sentimentale title track, una I’ll Be Your Fool che sarebbe stata perfetta per Elvis, il rock’n’roll Fingernails. Di “Down On The Drag”: la dolente Fools Fall In Love, lo swamp-rock Crawdad Train, il valzer She Leaves You Were You Are. Tempo di scoprire Joe Ely, se per voi finora era solo un nome.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.453, maggio 2023. Il cantautore americano preferito dei Clash compie oggi settantasette anni.