Archivi del mese: luglio 2016

E una pioggia color porpora cadrà

Era un 27 luglio, l’anno il 1984, quando Purple Rain usciva nelle sale americane. Resta un filmetto inguardabile (ancorché di enorme successo) se non come testimonianza di un’epoca. La relativa colonna sonora in compenso parve da subito, a molti, enorme e non ha fatto da allora che crescere di statura: con il senno del poi, non solo un album chiave per capire gli anni ’80 ma una pietra miliare nella storia della popular music tutta.

Prince & The Revolution - Purple Rain

Chi non c’era non può lontanamente immaginare quanto fosse onnipresente nell’84 “Purple Rain”, colonna sonora di un film men che modesto (null’altro che una sfilata di stereotipi da rock movie) e a dispetto di ciò pur’esso trionfatore al botteghino (settanta milioni di dollari nei soli Stati Uniti ed era costato quanto un videoclip). Il disco, che sta in piedi benissimo senza immagini, è invece un indiscutibile classico, dalle voci declamanti su un bordone d’organo che conducono a uno scatenato funk hardelico di Let’s Go Crazy a quelle declinanti gospel del sognante finale della title track, lunga, malinconica e infinitamente seducente ballatona dalle fragranze blues. È nel complesso come se Marvin Gaye facesse festa con Jimi Hendrix (quello romantico di Little Wing), come se Stevie Wonder incontrasse il George Clinton versante Funkadelic e insieme scrivessero una West Side Story negra. Dal sentimentalismo trattenuto e poetico di The Beautiful Ones si passa al ficcante riff di Computer Blue, da una Darling Nikki che alterna carezze e lamate a una When Doves Cry che fu la canzone che spinse l’album in classifica osando l’inosabile in materia di musica nera: niente basso.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti 2012.

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Hüsker Dü: Songs And Stories

Roberto Curti - Hüsker Dü

Bob Mould che fa da babysitter (si può immaginare come) a uno strafatto Johnny Thunders quando degli Hüsker Dü freschi di debutto a 45 giri si ritrovano a suonare di spalla all’ex-New York Dolls. Un alticcio John Cale che si affaccia nei camerini dopo un loro concerto californiano e si offre di curare l’esordio a 33 giri dei ragazzi (purtroppo non se ne farà nulla; la mente vacilla al pensiero di ciò che sarebbe potuto essere e non fu). Le copie di “Metal Circus” impagabilmente autografate al contrario per adeguarsi all’immagine di copertina. La penuria di nastri che si palesa in studio quando il trio è alle prese con la registrazione del monumentale “Zen Arcade” e che viene risolta sovraincidendo una bobina che immortalava uno spettacolo televisivo dei Bee Gees. La rivoluzione che sul serio inizia davanti a uno specchio nel proprio bagno, come da note di “Warehouse: Songs And Stories”, per un Mould che una bella mattina si guarda, non si piace e decide che è ora di farla finita con la bottiglia. Prima George Martin (!!!) e poi Pete Townshend (!) candidati alla produzione del successore di “Warehouse” e, per favore, speditemi subito nella dimensione parallela nella quale gli Hüskers, prima di inevitabilmente implodere per l’incompatibilità umana fra i due leader, hanno aggiunto un ulteriore capitolo al loro folgorante romanzo. Bob Mould che dà del bugiardo a Cobain quando già Cobain è morto. Grant Hart che spesso va a trovare tal William S. Burroughs e gli racconta barzellette. Burroughs replica discettando di armi da fuoco e pagherei per avere dei nastri delle conversazioni fra i due ex-tossici.

Ecco: le centosessanta pagine di Hüsker Dü, terzo tomo della collana Director’s Cut pubblicata dalle edizioni che da quasi vent’anni ogni mese mandano in edicola “Blow Up”, sono piene di aneddoti simili e dettagli fulminanti (si potrebbe, per dire, stilare una playlist dei plagi “creativi” di Mould e Hart che vengono segnalati e ci sarebbe da divertirsi assai). E tutto ciò contribuisce la sua parte a rendere appassionante la lettura di un volume dove Roberto Curti (autore noto soprattutto a chi ama certo cinema italiano di genere) non intende fare letteratura ma semplicemente offrire fatti (puntigliosamente) e opinioni (ovviamente le sue: ben circostanziate). Nondimeno lo fa con uno stile di asciutta eleganza che solo chi come lui si è trovato davanti un foglio bianco da riempire sa quanto sia difficile da raggiungere. Alle prese con un’epopea giunta ai giorni nostri sia per la straordinaria influenza che il trio Mould/Hart/Norton continua a esercitare che in forza delle carriere solistiche dei primi due (il libro è diviso quasi esattamente a metà fra le vicende del gruppo e quanto è andato dietro al suo scioglimento), Curti acchiappa il lettore per la collottola, senza sembrare, e lo porta d’un fiato fino in fondo. Spiegando perfettamente – fra le righe e non e abilmente scansando la retorica cui l’argomento facilmente si sarebbe prestato – perché per chi visse “quegli anni importanti” al solo nominarli, gli Hüsker Dü, si “riapra una ferita nel petto, lì a sinistra”. Nel suo piccolo è una prova magistrale e in Italia colma un vuoto. Chi legge senza problemi l’inglese e vorrà eventualmente approfondire, potrà poi porre mano alla però troppo egomaniaca autobiografia di Bob Mould See A Little Light: The Trail Of Rage And Melody e all’ancora disponibile Hüsker Dü: The Story Of The Noise-Pop Pioneers Who Launched Modern Rock di Andrew Earles. Ma non ne avrà davvero bisogno. (Tuttle, pp.162, € 10)

Chi a “Blow Up” è abbonato ha ricevuto Hüsker Dü in omaggio con il numero estivo (luglio/agosto) della rivista. Gli altri potranno acquistarlo – eccezionalmente – in edicola nelle principali città italiane ancora per circa due mesi. Chi non riuscisse a trovarlo può ordinarlo qui.

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Il voodoo-rock (eccetera) di Screamin’ Jay Hawkins

Screamin' Jay Hawkins - At Home With

Nel 1951 il ventiduenne Jalacy Hawkins, da Cleveland, nutre ancora qualche speranza di riuscire a realizzare l’uno o l’altro dei suoi principali sogni: diventare cantante d’opera, oppure pugile professionista. Per intanto c’è chi gli apre una porta non di servizio per il mondo dello spettacolo e perché non approfittarne? Avendo già frequentato i teatri più scalcinati del vaudeville, il non ancora Screamin’ Jay si vede offrire un ingaggio da pianista più valletto da uno dei primi e più grandi chitarristi elettrici jazz, Tiny Grimes. Gli piace e gli è ulteriormente utile quando, nel giro di appena un anno, si trova a esordire discograficamente da leader e da subito non è proprio canonico jazz quello che si trova a eternare. La definitiva svolta arriverà quattro ulteriori anni dopo con quella I Put A Spell On You cui la sua fama resterà sempre legata. L’intenzione di registrarla a mo’ di ballata raffinata e accorata andava a farsi benedire quando tanto lui che i musicisti si ubriacavano da bestie e dovreste averlo presente il risultato: una mini-epopea orrorosa e cialtrona, primo esempio che si ricordi di voodoo-rock. L’inizio di una leggenda poi nutrita a performance fra il buffonesco e il grand guignol, con il Nostro uso a farsi depositare sulla ribalta dentro una bara dalla quale usciva brandendo un teschio.

“At Home With” fu, nel 1958, il suo primo album, rimasto a lungo senza successori. Esageratamente ineguale per il gusto odierno, sa nondimeno ancora divertire moltissimo con il suo agitarsi senza posa fra uno scorcio ellingtoniano e del melò latino, il più esplosivo dei blues e cosine da music hall. Però meglio per una volta le tante bonus regalate da questa riedizione Hoodoo, fra le quali spicca una Little Demon che è più Cramps che Elvis, compreso l’Elvis più sfrenato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.313, luglio/agosto 2010. Di Screamin’ Jay Hawkins, scomparso il 12 febbraio 2000, ricorre oggi l’ottantasettesimo anniversario della nascita.

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Dream Baby Dream

Per Alan Vega, che ci ha lasciati ieri a settantotto anni e solo iddio sa come ha fatto ad arrivarci, a settantotto anni. Qui provavo a spiegare perché i Suicide sono stati uno dei gruppi più importanti della storia tanto del rock che dell’elettronica. E, alquanto paradossalmente, pure del pop.

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Love Will Always Tear Us Apart

Per Ian Curtis, che oggi avrebbe compiuto sessant’anni.

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Audio Review n.377

Audio Review 377

È in edicola da alcuni giorni il numero 377 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di DJ Shadow, Marissa Nadler, Hugo Race, Eli Paperboy Reed e Spain e di un cofanetto dei Budgie.

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Have A Little Faithfull (Marianne)

Marianne Faithfull

Ricorre oggi un anniversario alquanto singolare. Era un 8 di luglio, del 1970, quando una giovane, bellissima, sciocca e naturalmente disperata Marianne Faithfull cercava di suicidarsi, con un’overdose di barbiturici. Tentativo che non riusciva davvero per un nulla, giacché la ragazza restava alcuni giorni in coma. Che spreco immenso sarebbe stato, di un talento che sboccerà appieno solo diversi anni dopo.

Marianne Faithfull - Come My Way

Come My Way (Decca, 1964)

Materia leggendaria l’ingresso dell’aristocratica non per modo di dire (la madre una baronessa austriaca) Marianne Faithfull nel mondo del rock: nel 1964 Andrew Loog Oldham, al tempo manager dei Rolling Stones, ne notava la bellezza profumata di innocenza a una festa a casa McCartney e pensava bene di corromperla mettendola a contatto con i suoi sulfurei protetti. Jagger e Richards le affidavano la sentimentale As Tears Go By e il 45 giri filava dritto nei Top 10 britannici. Ancora meglio avrebbe fatto qualche mese dopo Come And Stay With Me, scritta a quattro mani da Jackie De Shannon e da un giovane Jimmy Page. Con inconsueta strategia commerciale, duplice l’esordio a 33 giri nel ’65, con due album contemporaneamente nei negozi, uno omonimo con i successi già messi in fila come fulcro e questo “Come My Way”, che meritoriamente la Lilith riporta nei negozi offrendo un’alternativa a una costosa stampa giapponese. È una piacevole collezione di ballate folk in massima parte tradizionali interpretate con un’acerba voce da soprano. Accostabili alla coeva Joan Baez le atmosfere, qui e là si affacciano toni alla Kurt Weill prefiguranti un futuro allora lontanissimo. Quattro brani integrano la scaletta originale e fra essi il malato blueseggiare di Sister Morphine: si era fatto il 1969 e di innocenza non vi era più traccia.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.620, marzo 2006.

Marianne Faithfull - Broken English

Broken English (Island, 1979)

Affacciatasi alla ribalta a metà anni ’60 come pupa innocente dei gangster Rolling Stones, e rimediato un discreto successo con una serie di singoli ed LP divisi fra un soffice folk-rock e un altrettanto delicato pop orchestrale, Marianne Faithfull ne spariva drammaticamente poco dopo, persa in una tossica spirale autodistruttiva divenuta materia di tristi leggende. Uscita di scena a suo modo spettacolare come lo era poi – ma fortunatamente in tutt’altro modo – un rientro concretizzatosi appieno alla fine del decennio successivo con questo “Broken English”. C’era stato in realtà due anni prima, nel 1977, un altro album, “Dreaming My Dreams”, ma non se n’era accorto quasi nessuno ed è un bene che di quella non trascendentale collezione di canzoni country in pochi serbino memoria. “Broken English” era il ritorno vero e faceva rumore per la qualità del repertorio, per la modernità dei suoni, per la bellezza decadente di una voce splendidamente rovinata, per cominciare, dalle troppe sigarette: roca, una buona ottava più bassa di quel che era stata. I quasi tre decenni e mezzo trascorsi nulla hanno sottratto in impatto e memorabilità a otto canzoni (fra cui una Working Class Hero forse meglio dell’originale di Lennon) un po’ Grace Jones e un po’ tanto Patti Smith. Il CD aggiunto a questa ristampa Deluxe non offre ulteriori illuminazioni, tolta una Sister Morphine che risuona insieme confessione e riscatto.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.177, febbraio 2013.

Marianne Faithfull - Easy Come Easy Go

Easy Come Easy Go (Naïve, 2008)

Fornire i promo in vinile è stata una mia scelta, amo molto il suono analogico e soffro il digitale. Forse normale per noi, dato che entrambi siamo cresciuti con i 33 e i 45 giri, ma mi sono accorta che, per fortuna, tanti giovani e giovanissimi stanno scoprendo il gusto della musica ascoltata con il giradischi, come confermato dalla presenza di una sempre maggiore quantità di vinili sugli scaffali degli stessi negozi – anche delle grandi catene – dai quali erano quasi scomparsi. Al di là del suono, i dischi neri mi piacciono perché richiedono attenzione e per le possibilità che offrono in termini di sequenza dei brani: la pausa per cambiare facciata, per esempio, è psicologicamente molto importante per godersi al meglio la scaletta. Mettere su un disco dovrebbe essere un piccolo evento.

Così Marianne Faithfull qualche settimana fa, in una conversazione con Federico Guglielmi. E come darle torto? Da addetto ai lavori, è stata una soddisfazione immensa ricevere come “advance” non un compact disc (spesso nemmeno confezionato, con giusto uno squallido foglietto ad accompagnarlo) bensì, a ere geologiche dall’ultimo, un doppio vinile in elegante copertina apribile. Uguale a quello che verrà commercializzato, diciotto brani ove il CD normale ne conterrà solamente dieci e per avere l’intera scaletta in digitale dovrete puntare un’edizione limitata.

Spendo due doverose parole su come suona, sul primo dei supporti fonografici, “Easy Come Easy Go”. Benissimo, naturalmente, che la Naïve abbia deciso di puntare sul vinile. Sarebbe nondimeno opportuno, per non giocarsi una delle ultime possibilità di sopravvivenza, che nel momento in cui si aggrappa come a un salvagente al vecchio formato l’industria discografica maggiore tenesse conto dell’opera svolta nell’ultimo decennio dalle etichette per audiofili. Ci siamo abituati ai centottanta grammi, al vinile vergine e pressato a regola d’arte, e dunque silenzioso, e indietro non si torna (se no tanto vale comprare il CD o farselo). Qui la grammatura è bassina, benché ancora adeguata, e la silenziosità migliorabile. Che il piacere regalato da un’incisione superba – tutto magistrale: i timbri delle voci, i colori degli strumenti, la prospettiva scenica – venga a tratti sciupato da qualche tic, o peggio da delle strisciate, nel 2008 è inammissibile.

E la musica? Meglio della registrazione, ennesimo gioiellino per un’artista salita alla ribalta nei ’60 e immersa ora in altri sessanta ancora più favolosi: i suoi. Chi se la ricorda giovane, fine dicitrice di robine pop, resetti. Chi ruvidamente post-punk nel capolavoro “Broken English”, idem. Non chi da “Strange Weather” in poi (e sono due abbondanti decenni) ha fatto i conti con un’interprete capace di colmare lo iato fra Billie Holiday e PJ Harvey. Qui alle prese con materiali fra gli altri di Dolly Parton e Brian Eno, Duke Ellington e Randy Newman, Morrissey e Judee Sill, degli Espers come dei Traffic, dei Miracles o di Bernstein. Contornata dagli ospiti più vari (dal vecchio amico Keith Richards a Sean Lennon, da Antony a Nick Cave passando per Cat Power o Rufus Wainwright), accompagnata da musicisti strepitosi (uno per tutti: il chitarrista Marc Ribot), diretta da un Hal Willner in stato di grazia in una zona di squisita penombra fra il jazz e una Canzone che aspira al Classico.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.295, novembre 2008. Riadattato.

Se nell’essere sempre uguali a se stessi gli amici Jagger & Richards hanno un punto di forza, Marianne Faithfull è stata decisamente più bendisposta al cambiamento in una carriera pur’essa ormai quarantennale. Due le rivoluzioni maggiori inscenate: se da interprete di brani altrui in chiave folk-pop si reinventava nel ’79, con il capolavoro “Broken English”, autrice in un orizzonte post-punk nell’87 l’altrettanto formidabile “Strange Weather”, prima collaborazione con Hal Wilner, la ridefiniva sciantosa esistenzialista, moderna Bille Holiday pacificata ma non troppo. “Easy Come Easy Go” rinnova il sodalizio con Willner come forse non c’era bisogno – in fondo tutti i dischi sistemati fra questi due discendono dal primo – e forse invece sì, perché repertorio, qualità degli arrangiamenti e intensità delle interpretazioni si rivelano – già al primo ascolto, ma tanto di più nei successivi – una spanna sopra una media già alta. Quando vi parleranno dei “favolosi anni sessanta” di questa signora classe 1946 sappiate che sono quelli che sta vivendo ora.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.658, maggio 2009.

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Ignoto alle masse: per Fred Neil

Fred Neil - Fred Neil

Se anche la versione di Tim Buckley (nel per il resto mediocre “Sefronia”) si rivelerà inarrivabile, l’originale di The Dolphins che nel gennaio 1967 apre il terzo e omonimo LP (primo di tre per la Capitol) di Fred Neil è nondimeno un colpo al cuore: melodia funerea tracciata da una chitarra adeguatamente acquatica cui al secondo giro si unisce la batteria di Billy Mundi (Zappa, Dylan, Buckley). Neil presagisce forse l’avvicinarsi della Summer Of Love e ha scelto, dopo due dischi più marcatamente folk, l’elettricità. Il gruppo, che è completato dai chitarristi Peter Childs e Cyrus Faryar e dal bassista Jimmy Bond, lo asseconda magistralmente nel passo felpato di I’ve Got A Secret come in quello trottante di Sweet Cocaine, in una Ba-De-Da che sa più di saudade che di blues come nella frenesia diddleyana di Green Rocky Road. L’empito psichedelico in tralice nella voce levitante e negli arabeschi di acustica di Faretheewell trova pieno sfogo negli 8’10” dello strumentale Cynicruspetefredjohn Raga, visionario punto di arrivo di un secondo lato aperto da una versione di Everybody’s Talkin’ più scarna, lenta e meditativa di quella di Harry Nillson che impazzerà da lì a due anni nella colonna sonora di Un uomo da marciapiede e nei Top 10 USA.

Ma John Voight non è ancora il marchettaro del capolavoro di John Schlesinger e Fred Neil è tanto riverito dai colleghi (Dylan in testa) quanto ignoto alle masse. Pochi si accorgono che quest’album è una pietra miliare e ancora meno lo seguiranno, un anno dopo, sugli accidentati sentieri di “Sessions”. Di fatto un congedo (il successivo “Other Side Of This Life” mezzo dal vivo e mezzo di ritagli) prima di un salingeriano ritiro con al fondo la prematura scomparsa, il 7 luglio 2001.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.268, maggio 2006.

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L’afrojazz ante litteram di Art Blakey

Art Blakey & The Jazz Messengers - Drum Suite

Schifati – come dovrebbe esserlo chiunque, audiofilo o no, ami la musica – da un certo modo di registrare, mixare e masterizzare che ha preso piede con la diffusione dell’mp3? Convinti che la media delle incisioni degli anni ’70 sia parecchio superiore a quella di un’attualità in tal senso discutibilissima? Io lo sono, ma a lasciarmi davvero stupefatto sono sovente registrazioni ancora più antiche. Credo di averne ascoltate poche in vita mia della sovrannaturale (perché naturalissima) nitidezza di quelle contenute in questo LP che era uno dei tanti mandati nei negozi da Art Blakey in un 1957 eccezionalmente produttivo. Voglio esagerare, ma non credo di esagerare, asserendo che la prima facciata di questo 33 giri da incorniciare già soltanto per la copertina contiene le percussioni (all’opera tre batteristi, incluso il titolare, e due bonghisti) meglio riprodotte di sempre.

All’audiofilo potrei suggerire che dovrebbe porre mano al portafoglio anche solo per questo, per avere un’incisione di riferimento in materia di percussioni. A chi semplicemente ama la musica dirò che a rendere obbligatorio l’acquisto bastano e avanzano sempre i diciotto prodigiosi minuti (dimenticavo: eternati “buona la prima” da un gruppo che era convinto che si stesse semplicemente provando per aggiustare i livelli) della Drum Suite vera e propria. La temperie visionaria nutrita ad Africa e America Latina e le tempeste ritmiche di The Sacrifice, Cubano Chant e Oscalypso abbagliano tuttora ed erano in ultradecennale anticipo non solo su certo jazz da “Bitches Brew” in poi ma sull’afrobeat e sul rock che comincerà a fare i conti con le musiche etniche. Ascoltatela e sappiatemi dire. Unica controindicazione: al confronto, l’impeccabile ma canonico hard bop del secondo lato potrebbe sembrarvi la faccenda scipita che assolutamente non è.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.353, maggio 2015.

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