Archivi del mese: giugno 2014

Emozioni da poco (37): The Cars

Il rock più pop e il pop più wave che abbiano mai frequentato le zone altissime delle classifiche USA e non soltanto di quelle. Con pieno merito, perché saranno anche state solo canzonette, ma brillanti e sofisticate come di rado se ne sono sentite. In qualunque epoca.

Cheap Thrills 19

24 commenti

Archiviato in archivi

The Cure 1978-1996 (8): Concert – The Cure Live

Concert - The Cure Live

Shake Dog Shake. Primary. Charlotte Sometimes. The Hanging Garden. Give Me It. The Walk. One Hundred Years. A Forest. 10:15 Saturday Night. Killing An Arab.

Fiction, ottobre 1984 – Registrato dal vivo dal Manor Mobile a Oxford il 5 maggio 1984 e a Londra l’8, il 9 e il 10 maggio 1984 – Tecnico del suono: Dave Allen – Produttori: Dave Allen e The Cure – La versione su cassetta contiene sul secondo lato “Curiosity – Cure Anomalies 1977–1984”, una raccolta di canzoni tratte da demo ed esibizioni dal vivo. I titoli inclusi sono:

Heroin Face. Boys Don’t Cry. Subway Song. At Night. In Your House. The Drowning Man. Other Voices. The Funeral Party. All Mine. Forever.

Produttore: Phil Thornalley.

Di norma i dischi dal vivo non sono che fotografie sbiadite di un avvenimento; i concerti sono belli perché il suono è potente e c’è qualcosa da guardare, ma gli album che vorrebbero documentarli sono per la maggior parte deboli, pieni di errori, noiosi… non sono che delle antologie. L’unico motivo per cui abbiamo pubblicato un live è che nel corso degli anni ne erano usciti più o meno trenta illegali. Ho preso la decisione dopo avere ascoltato un bootleg dei New Order, la cosa peggiore ch’io abbia mai sentito. A quel punto mi è venuto in mente che doveva esistere qualcosa del genere anche dei Cure. Dunque si è fatto uscire questo live dalla confezione spartana, tipo LP pirata, così che chi lo desidera possa ascoltare versioni dal vivo, differenti da quelle di studio, di alcuni nostri pezzi. Così facendo, abbiamo almeno avuto il controllo del suono delle canzoni. ‘Concert’ non è male, è superiore alla media dei dischi dal vivo… ma non è l’album dei Cure che preferisco.

Non è nemmeno quello che preferiamo noi, diciamolo subito. E subito dopo appuntiamo che in fatto di LP dal vivo Robert Smith predicava bene ma ha razzolato male. La lista dei titoli di questo “Concert” ne fa esattamente quello che il nostro eroe nella dichiarazione testé riportata (datata 1986) pare deprecare, vale a dire una sfilata di successi. Né grande coerenza è denotata dal fatto che, nell’arco di nove anni appena, dal 1984 al 1993, i Cure hanno dato alle stampe altri quattro live.

Registrato durante le ultime tappe della campagna di primavera britannica del 1984, “Concert” vede all’opera una delle formazioni più effimere fra le tante che si sono susseguite nella storia dei Cure. Da lì a poco Andy Anderson, nel bel mezzo di un tour americano, darà i numeri (come già era successo a Matthieu Hartley e Simon Gallup e come qualche anno dopo accadrà a Lol Tolhurst: si direbbe che stare nei Cure sia faccenda rischiosa per la salute mentale) e dopo un periodo di transizione verrà rilevato da Boris Williams. E alla fine di quello stesso tour pure Thornalley, che comunque era sempre stato un precario, abbandonò i ranghi, consentendo l’inatteso rientro in essi, qualche mese ancora più tardi, del figliol prodigo Simon Gallup.

Come già detto, la scaletta di “Concert” lo rende una sorta di “Greatest Hits” dei primi Cure: ben otto canzoni su dieci erano uscite a 45 giri e ciascuno dei cinque LP in studio che l’hanno preceduto (sette contando le raccolte “Boys Don’t Cry” e “Japanese Whispers”) è rappresentato al massimo da due titoli.

Checché ne dica Robert Smith, le versioni dal vivo dei brani presentati in quest’album non differiscono granché da quelle di studio – sono solo un pochino più veloci e tirate – e dunque non risultano particolarmente interessanti. Intriga giusto la presenza di Charlotte Sometimes, dopo The Love Cats la migliore fra le canzoni dei Cure mai incluse su LP non antologici, e colpisce in negativo l’assenza proprio di The Love Cats. Avesse risposto all’appello, il velo di monotonia che avvolge “Concert” sarebbe stato squarciato. Anni luce separano i Cure di “The Top” da quelli di “Pornography”, per non dire dei 33 giri precedenti, ma ascoltando questo live, complice il fatto che da “The Top” sono stati tratti i due brani, Shake Dog Shake e Give Me It, stilisticamente meno distanti dal suo immediato predecessore, ciò non si avverte.

Più succosa, sebbene riservata ai cultori di stretta osservanza, è “Curiosity – Cure Anomalies 1977-1984”, la collezione di demo e nastri live che occupa il secondo lato della versione su cassetta di “Concert” (ne esiste anche una stampa in vinile successiva). Se le sei canzoni centrali, le cui versioni in studio sono rintracciabili su “Three Imaginary Boys”, “Seventeen Seconds” e “Faith”, non meritano annotazioni particolari, sulle quattro piazzate in coppia in apertura e chiusura vale la pena di spendere qualche parola.

Heroin Face, catturata il 4 dicembre 1977 al Rocket di Crawley e altrimenti inedita, è la registrazione dei Cure più stagionata disponibile ufficialmente. Se non è precisamente una canzone epocale è però una canzone che riflette benissimo la sua epoca. È difatti breve, spigolosa e anfetaminica. Punk, insomma, come punk è la Boys Don’t Cry tratta dal demo che convinse Parry a ingaggiare i Cure. Ascoltandola si comprende come il capoccia della Fiction potesse trovare punti di contatto fra il trio del Sussex e un altro trio da lui scoperto, i Jam. All Mine e Forever, colte dal vivo rispettivamente nel maggio del 1982 a Londra e nel maggio del 1984 a Parigi e delle quali non si conoscono versioni in studio sono poco più che bozzetti. La seconda, attraversata da un sax starnazzante, avrebbe meritato di crescere e venire alla luce.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

Lascia un commento

Archiviato in archivi

La voce di torba e di cielo di Anne Briggs

Anne Briggs - Anne Briggs

Anne Briggs (Topic, 1971)

Proprio vero che di norma è l’artista il peggiore giudice di se stesso e pazienza se è un concetto che è stato ripetuto così spesso da farsi stereotipo, quando ci si trova davanti a un caso come quello di Anne Briggs: è mai esistita un’altra persona che si sia sottovalutata così tanto? Probabilmente la più bella voce femminile del folk britannico moderno, la Briggs non pubblicò che un EP e un paio di LP, entrambi nel 1971, e più niente dopo visto che un altro 33 giri, registrato nel ’73, vedrà bloccata la sua pubblicazione non dalla casa discografica ma dall’artefice e non verrà recuperato che nel ’97. E sapete perché si ritirò ventinovenne e da allora tace? Non per idiosincrasia per la sala d’incisione. Non per paura del palcoscenico. Bensì perché quella sua voce meravigliosa, di torba e cielo, Anne Briggs la detesta. Da non crederci. Da odiarla, per non averci lasciato che una scarsa quarantina di registrazioni e non avere almeno continuato – un paio di brani del repertorio dei Led Zeppelin recano il suo suggello e The Time Has Come divenne celebre grazie ai Pentangle – a scrivere per altri. Andò così e tanto vale farsene una ragione. Non maledire la Briggs per avere buttato via il suo talento, ma benedirla per averci permesso di goderne un po’.

Nel terzo album, quello che uscirà per così dire postumo, l’artista si farà accompagnare da un gruppo, ove nel secondo aveva danzato su radi fondali di chitarra acustica o bouzouki. Con spericolatezza e controllo da acrobata a passeggio su una corda, in questo che fu il debutto in ben sei canzoni su dieci (e nella quasi totalità di quella che su vinile era la seconda facciata) la voce è sola. La si direbbe mesmerica, non mozzasse il fiato e l’ipnosi non fosse interdetta dallo scombussolamento emotivo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.295, novembre 2008.

Anne Briggs - The Time Has Come

The Time Has Come (CBS, 1971)

Si stenta a rassegnarsi ma tant’è: sono trentasei anni, vale a dire dacché per la prima volta vedeva la luce questo “The Time Has Come” appena ristampato dalla Water ahinoi senza le bonus agognate, che quella che in molti considerano la più grande interprete femminile del folk britannico moderno, nonché una delle più influenti, tace. E non è questo a fare impazzire un appassionato che in fondo si è perso per strada pure una Vashti Bunyan (per fortuna poi ritrovandola) o una Shelagh McDonald, per citare altre due grandi cantanti dalla discografia al pari scarna, bensì il motivo per cui della Briggs si sono smarrite le tracce: è che costei – incredibile a dirsi – quella sua voce stupenda, insieme terrigna e alata, la detesta. Quantomai significativo che, dopo averla lasciata sola in un omonimo debutto ispido quanto lirico, in questo secondo LP la accompagnasse qui con una chitarra acustica e là con un bouzouki. Alle prese nel 1973 con quello che avrebbe dovuto essere il terzo 33 giri addirittura convocava un gruppo, salvo a registrazioni ultimate bocciare il risultato e imporne l’archiviazione. Quando nel ’97 “Sing A Song For You”, definitivamente ultimo dispaccio, apparirà come dal nulla per gli estimatori sarà una scoperta appena meno emozionante che ritrovarsi fra le mani il Santo Graal.

All’epoca della pubblicazione la canzone che intitola l’album era già un classico nella versione dei Pentangle di quel Bert Jansch per qualche tempo amante, oltre che complice di tragitti musicali, di Anne. Più suggestiva, nella sua arcaica e incantata asciuttezza, la lettura della Briggs: vertice di un piccolo capolavoro che dispensa magie a ogni girare di pagina. Fra una Sandman’s Song di quieta epicità e un’onirica Fine Horseman, fra una Fire And Wine di primordiali respiri e una Clea Caught A Rabbit che scaglia un ponte dal Mediterraneo agli Appalachi. Ancora: fra una Tangled Man che in nessun modo – se elettrificata – potrebbe essere più genuinamente psichedelica e la straniante cantilena di Everytime. Un disco fuori dal tempo, enorme nei suoi esiti quanto è ritroso nel suo porgersi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 280, giugno 2007. Adattato.

Lascia un commento

Archiviato in archivi

La principessa che rifiutò di farsi regina: Shelagh McDonald

Shelagh McDonald

Colpa di “Mojo”. Che sta perdendo colpi ma resta una delle riviste più credibili quando si tratta di approfondire il passato più noto, o recuperarne schegge di invisibilità. E che, a compensare l’indubbia caduta di tensione e l’ossessivo tornare su nomi di cui si comincia a non poterne più, ha preso la santa abitudine di allegare ogni mese un CD “a tema”. Argomento di quello accluso al numero dello scorso ottobre il folk-rock, nuovo e antico. Da Davy Graham agli Espers, tanto per intendersi. Fra brani conosciuti a memoria, alcuni da poco meno che da sempre nei miei scaffali, e piacevoli piccole rivalutazioni e/o scoperte una traccia – la settima – sulla quale il mio lettore letteralmente si è incantato. Io più incantato di lui. Bello già il titolo – Stargazer – e magnifico per costruzione e sentimento un brano di struggente neoclassicismo, in transito da un arazzo di piano e archi a un coro operatico e chiesastico. Roba da restare a bocca aperta per la meraviglia. Roba che, appuntato quel nome singolare – Shelagh McDonald – e mai ma proprio mai sentito, non ho potuto fare a meno di chiamare subito uno dei miei spacciatori di musica di fiducia e ordinargli l’album da cui la… canzone?… risultava estratta. Da lì ad alcune settimane l’ho scoperto doppio, “Let No Man Steal Your Thyme”, generoso nel minutaggio (poco sotto le due ore e venti) e fantasticamente prodigo di ulteriori epifanie. Roba da commuoversi, quando sono ormai trent’anni che giri dischi. Roba da esaltarsi. Roba da farti ricordare come fu che ti venne la pazza idea di fare il mestiere che fai e persino da farti rivalutare una pensata che per certo non ti ha reso facile la vita. L’ho divorata – e poi di nuovo, di nuovo, di nuovo… – quella che è improprio definire un’antologia giacché, eccettuate alcune incisioni radiofoniche andate purtroppo perdute, raccoglie tutto quanto l’allora ragazza registrò nel breve arco di un triennio, fra il ’68 e il ’71: due LP su B&C, “The Shelagh McDonald Album” e “Stargazer”, e a far loro compagnia assortiti provini (anche per un terzo 33 giri, mai uscito) e registrazioni dal vivo. E ho divorato pure il libretto, imbattendomi in una storia se possibile più incredibile di quanto stavo ascoltando. La storia del disvelarsi di un talento raro – credetemi, non esagero: del livello di un Nick Drake, con il quale la McDonald divise non solo evidenti affinità stilistiche ma anche gli arrangiamenti squisiti di Robert Kirby – e della sua improvvisa sparizione dalla ribalta. Scomparsa nel nulla questa autrice, interprete e chitarrista stratosferica e per trentaquattro anni manco si è saputo se fosse ancora viva. Scomparsa quando un articolo dopo l’altro sul “Melody Maker” e il “New Musical Express” la raccontava come una Joni Mitchell britannica, come un’altra Sandy Denny. Scomparsa quando vendite inizialmente modeste andavano impennandosi e tutto sembrava indicare che stesse per baciarla il successo. Un impenetrabile mistero.

Si fa in fretta a raccontarla, questa storia. Nata nel 1948 a Edimburgo, Shelagh esordisce ventenne nel circuito concertistico minore locale e partecipa nel gennaio 1969 alla raccolta di artisti vari “Dungeon Folk” con due cover – le oscure Hullo Stranger e Street Walking Blues – belle negre e belle belle, però lontane dallo stile che l’anno dopo si delineerà nel fenomenale debutto in proprio, illuminato da grandi musicisti (merita almeno menzionare Keith Tippett) e soprattutto da dieci grandissime canzoni. Per metà autografe, per metà cover o scritte dal fidanzato Keith Christmas. Fra le prime appiccicano al muro una pianistica e suadentissima Crusoe e le fiabesche Ophelia’s Song e Peacock Lady. Fra le seconde il Gerry Rafferty miracolosamente portato al livello dei Fairport Convention più immani di Look Over The Hills And Far Away, una Waiting For The Wind To Rise vorticosa, una Richmond profumata di jazz. E naturalmente la tradizionale Let No Man Steal Your Thyme, corde di cristallo e voce idem. Non è che la fanciulla non sappia, volendo, concedersi a frenesie rock’n’roll e immediatamente sul CD lo dimostra una travolgente Jesus Is Just All Right esclusa dal 33 giri per non sciuparne gli ineffabili equilibri, ma è al suo meglio quando le atmosfere si rarefanno. Sarà stupenda la Stargazer di cui sopra, orchestrata nell’omonimo LP da Kirby, e vale nondimeno altrettanto un assai più asciutto demo – recupero preziosissimo – perfettamente mediano fra i Fairport e Drake. A proposito dei primi… Dave Mattacks e Richard Thompson suonano in “Stargazer” l’album e con loro c’è Danny Thompson dei Pentangle. È come un’investitura, giustificata dal pianismo sospeso di Liz’s Song e da una City’s Cry che pare uscita da “Bryter Layter”, da un’epica Dowie Dens Of Yarrow e da una Good Times da The Band al top. Ad esempio. Ma la principessa rifiuta di farsi regina e se ne va.

Digito il nome su Google e salta fuori un articolo dello “Scottish Daily Mail” del novembre 2005, di poco successivo alla pubblicazione di “Let No Man”. Ed eccola lì Shelagh, cinquantasettenne, vaghe tracce della bellezza che fu. Lei che nemmeno i genitori (morti nel frattempo) erano riusciti a rintracciare. Racconta di un esaurimento seguito a un pessimo trip. Racconta di decenni passati vagabondando per la Gran Bretagna con il marito. È stupita che ci si ricordi ancora di lei. Dice che aveva perso la voce ma l’ha ritrovata e che sì, magari un terzo disco potrebbe pure farlo. Vi ricorda una certa Vashti Bunyan?

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.631, febbraio 2007.

3 commenti

Archiviato in archivi

È nel fango che cresce il loto: Judee Sill

Judee Sill

Cantava il nostro Faber che i diamanti sono sterili ed è dal letame che nascono i fiori. Un concetto simile esprimeva Judee Sill in un’intervista a James Johnson pubblicata sul “New Musical Express” l’8 aprile 1972: “È nel fango che cresce il loto”. Poteva dirlo con cognizione di causa l’allora ventisettenne cantautrice californiana, avendo trascorso più o meno tutta la vita – nemmeno da adulta ma già da adolescente, poco più che una bambina – rivoltandosi con il corpo metaforicamente nel primo, nel mentre l’anima anelava a una bellezza assoluta, nientemeno che alla musica delle sfere (“Mi hanno influenzato Pitagora, Bach, Ray Charles. In quest’ordine”), tesa verso spiritualissimi empirei. Poco più di sette anni dopo sarebbe stata cenere disciolta nel Pacifico, probabilmente suicida, indimenticabile per quanti l’avevano incrociata nel breve cammino terreno e già dimenticata da un’industria discografica che aveva scommesso su di lei, nella persona di David Geffen, come una novella Joni Mitchell, dopo che i Turtles avevano portato in classifica Lady-O. In prima persona Judee nelle graduatorie di vendita non ci sarebbe entrata mai, neppure quando andò in tour con dei Crosby Stills & Nash all’apice della fama e ammiratori reverentissimi. Relegata a culto carbonaro dall’irreperibilità per un quarto di secolo dei due soli album, un omonimo del 1971 e “Heart Food” del ’73, entrambi su Asylum, Judee Sill è riemersa dalle nebbie del tempo seguendo percorsi quantomai tortuosi. Prima con una ristampa giapponese in digitale dei due dischi, nel 1999. Poi grazie a un peraltro breve articolo su “Mojo” nell’agosto 2000, che accendeva la curiosità in molti ed era tutto un passamano di cd-r masterizzati da scrocchianti vinili acquistati a prezzi da capogiro. Quindi, nel 2004, con le più accessibili riedizioni Rhino, con contorno di demo, inediti e registrazioni dal vivo. E infine, ed è storia di questi giorni, con la pubblicazione per la più che mai benemerita Water di “Dreams Come True”, un doppio con su un dischetto quello che avrebbe dovuto essere, nel 1974, il terzo LP della ragazza, “Hi – I Love You Right Heartily Here”, e sull’altro una collezione di “Lost Songs” risalenti per la maggior parte al 1968 e un amatoriale filmato live del ’73, dodici preziosi minuti di emozioni ineffabili.

È un atto di devozione totale, “Dreams Come True”, da parte di chi ha pazientemente assemblato fotografie e interviste con quanti conobbero Judee bastanti a colmare le sessantotto pagine di uno dei più bei libretti mai visti: volume splendido anche nella carta e nella grafica e a cui rimando chi volesse immergersi nel film di un’esistenza fra Christiane F. e Natural Born Killers e come riassumerla? Orfana di padre a tredici anni, molestata sessualmente dal patrigno alcolizzato a quattordici, una madre dipendente dagli psicofarmaci mentre lei presto lo sarà dall’eroina e allora: cacciata da ogni scuola, rapinatrice, spacciatrice, truffatrice, prostituta ma pure mistica, un angelo venuto giù, una disegnatrice squisita e cantante, chitarrista, pianista di vaglia, autrice dalla cifra stilistica unica. Come dimostrano ulteriormente diciassette canzoni “nuove” che appiccicano al muro e che dobbiamo, oltre che a Judee, alla passione di Jim O’Rourke (Gastr Del Sol, Sonic Youth) che, innamoratosi perdutamente qualche anno fa dell’opera di questa artista tanto straordinaria quanto fu sfortunata, si è assunto il compito, in bilico fra strazio ed esaltazione, di porre mano a un album perduto e cercare di renderlo come avrebbe fatto una persona che non ha conosciuto. Collaborando con un fantasma, letteralmente. Per impazzire per Judee Sill non dovrete che puntare il terzo brano del secondo compact, Emerald River Dance, un prodigio di semplicità e poesia, voce e chitarra arpeggiata che rimandano il moderno ascoltatore dritto a incantesimi drakiani al tempo ancora non tramati. E passate poi allo scintillante folk-beat di I’m Over e al piano chiaroscurale di The Loving End, alla Joni fatta country di Things Are Lookin’ Up e a una Sunny Side Up Luck madrigalesca, a una Waterfall che evoca insieme Incredible String Band e Fairport Convention e alla favolistica liturgia di Oh Boy The Magician.

Tornerete dunque dal vostro negoziante di fiducia a chiedergli “Judee Sill” e “Heart Food”. Passerete giorni, giorni e giorni ancora a esplorarne ogni risvolto, beandovi di melodie cristalline che arrangiamenti raffinatissimi non fanno meno immediate, fra country e pop, gospel e folk. Bach che si reincarna in Brian Wilson, Van Dyke Parks che orchestra Laura Nyro, o Carole King. E vi chiederete come sia stato possibile che il mondo abbia ignorato un’artista così enorme, che l’abbia fatta morire sola e disperata. Judee Sill diventerà come Nick Drake. Vedrete.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.609, aprile 2005.

6 commenti

Archiviato in archivi

Emozioni da poco (36): Ultravox! e John Foxx

Un terzo di Roxy Music, più un terzo di Bowie, più un terzo di Kraftwerk: la formula magica degli Ultravox fintanto che John Foxx ne fu il leader.

Cheap Thrills 18

Lascia un commento

Archiviato in archivi

10 canzoni per ricordare Gerry Goffin (11 febbraio 1939-19 giugno 2014)

Ci ha lasciato Gerry Goffin. Immancabilmente in coppia con Carole King scrisse meraviglie così. Non vedo modo migliore, per celebrarne la memoria, che riascoltarle.

10) Bobby Vee – Take Good Care Of My Baby (Liberty, 1961)

9) The Drifters – Some Kind Of Wonderful (Atlantic, 1961)

8) The Crystals – He Hit Me (And It Felt Like A Kiss) (Philles, 1962)

7) Maxine Brown – Oh No Not My Baby (Wand, 1964)

6) The Shirelles – Will You Love Me Tomorrow (Scepter, 1960)

5) Little Eva – The Loco-Motion (Dimension, 1962)

4) The Byrds – Wasn’t Born To Follow (Columbia, 1969)

3) The Monkees – Pleasant Valley Sunday (Colgems, 1967)

2) The Animals – Don’t Bring Me Down (Decca, 1966)

1) Aretha Franklin – (You Make Me Feel Like) A Natural Woman (Atlantic, 1967)

2 commenti

Archiviato in coccodrilli, video

The Cure 1978-1996 (7): The Top

The Top

Shake Dog Shake. Bird Mad Girl. Wailing Wall. Give Me It. Dressing Up. The Caterpillar. Piggy In The Mirror. The Empty World. Bananafishbones. The Top.

Fiction, maggio 1984 – Registrato presso gli studi Garden, Trident e Genetic di Londra – Tecnici del suono: Dave Allen e Howard Grey – Produttori: Dave Allen, Chris Parry e Robert Smith.

Nel settembre del 1983 vide la luce il primo e unico LP dei Glove, estemporaneo progetto di studio del duo Robert Smith/Steve Severin. Assemblato sei mesi prima dal leader dei Cure e dal bassista dei Banshees, con le parti vocali affidate alla ragazza di Budgie (il batterista di Siouxsie) Jeanette Landray per espresso volere di Parry, che temeva che la voce di Smith ne avrebbe fatto un album dei Cure, “Blue Sunshine” è un disco invero curioso, prescindibile ma interessante. La sua stralunatezza è un riflesso dello stato mentale volutamente alterato degli autori durante le quattro settimane nel corso delle quali venne registrato. Un forte aroma psichedelico (ma sia chiaro: nulla vi è in esso di revivalistico) lo impregna e il suo più grande pregio è anche il suo principale difetto: si scommetterebbe che ognuno dei brani che offre sia opera di un differente gruppo.

Più di qualcosa dell’obliquità di quell’album è rintracciabile in “The Top”, lavoro interlocutorio e però ricco di spunti felici. A sentire Smith, parecchio lo danneggiò l’essere stato messo insieme in condizioni per niente ideali, fra una seduta d’incisione e l’altra di “Hyaena” dei Banshees (dei quali faceva ancora parte) e, stante l’indisponibilità di Thornalley (in Australia con i Duran Duran), senza un vero gruppo a disposizione. Di ciò il gran capo dei Cure avrà molto a lamentarsi.

Al solito giornalista francese due anni dopo dichiarerà: “Fui costretto a fare tutto da solo, o quasi, e avere il controllo totale divenne un’ossessione per me. Mentre si era in studio non sapevo cosa pensare del disco, non riuscivo a capire se fosse valido o pessimo: un giorno mi pareva brillante, il giorno dopo spaventoso. Oggi ne sono soddisfatto solo parzialmente. Credo che Shake Dog Shake sia uno dei brani migliori che io abbia mai scritto, sia per la musica che per il testo, e che ci siano anche altre canzoni valide. Bird Mad Girl, ad esempio. Le danneggia però il fatto di non essere state eseguite da un vero gruppo. Non si è mai inciso tutti insieme e ci sono diversi brani in cui suono più di uno strumento. L’insieme è poco spontaneo, troppo calcolato. Dopo due settimane che ero in studio ne avevo le tasche piene. Il peggior difetto di questo LP è che il ritmo è molto più lento di quanto non dovrebbe”. E a Steve Sutherland confiderà: “‘The Top’ era a malapena completato e già c’erano delle parti che mi sarebbe piaciuto cambiare; ma rientrare in studio per rifarle era fuori discussione perché ciò avrebbe interferito con le sedute d’incisione di ‘Hyaena’ e non volevo che i rapporti con i Banshees peggiorassero ulteriormente. Mi sono trovato in una situazione inedita – prima per incidere un album mi ero sempre preso tutto il tempo che ci voleva ma questa volta sono stato costretto a fissare una data per il completamento del lavoro e a rispettarla. È andata a finire che correvo in sala nei ritagli di tempo per fare una sovraincisione e mentre lavoravo freneticamente pensavo costantemente cose del tipo ‘oddio, questa sezione dovrebbe essere più veloce’ oppure ‘il suono della batteria dovrebbe essere un altro’. Non sto dicendo che non è un buon disco, soltanto che quando lo riascolto sento i difetti che ha e so che, inciso in una situazione diversa, avrebbe potuto essere un’altra cosa”.

Eccede in autocritica, Robert Smith. “The Top” risulta effettivamente frammentario, ma è da dimostrare che le sue dieci canzoni avrebbero beneficiato di cadenze più veloci e arrangiamenti maggiormente rifiniti (sono curati il giusto).

La sua copertina è tutta una macchia cremisi, oro e turchese, con il titolo di un bel verde brillante. Se ne occupò Porl Thompson, già responsabile di quella, molto più austera, di “Faith”. Costui era stato il quarto Cure fino al divorzio dalla Hansa ed era rimasto in ottimi rapporti con Smith e Tolhurst. Andato a trovarli in studio per mostrare loro i provini della copertina, venne invitato a suonare il sax in Give Me It. Fu il primo passo verso un suo rientro in formazione in pianta stabile. Ottimo polistrumentista (maneggia con disinvoltura chitarra, sassofono e tastiere di ogni genere), Thompson aveva disertato principalmente perché la direzione new wave intrapresa dal gruppo limitava drasticamente gli spazi per la sua solista. Ora che la musica della banda Smith si era fatta più variegata e consentiva (talvolta richiedeva) raffinatezze e financo svolazzi poteva rientrare in squadra, sicuro che raramente avrebbe fatto panchina.

A parte quel sax galeotto, il resto di “The Top” è suonato da Robert Smith (che si divise fra chitarra, tastiere e basso), Lol Tolhurst (tastiere e percussioni varie) e Andy Anderson (batteria).

Fedele alla consegna che si era dato a partire da Let’s Go To Bed – cancellare l’immagine di gruppo dark dei Cure e allargare i confini della loro musica a tal punto da far sì che non fosse più incasellabile in alcun modo se non sotto la generica definizione “rock” – Smith continua a eludere le attese dell’ascoltatore. Eoni separano la giocosità di The Love Cats dal rabbioso attacco di batteria di Shake Dog Shake e dal suo compatto muro di suono. La voce è autoritaria, la chitarra un’acida staffilata, l’insieme innodico. Parte Bird Mad Girl e ci si ritrova immersi in tutt’altri climi: una sei corde arpeggiata si appoggia e/o contrappone a una batteria in tempo medio e umore semidisco. Spira una brezza lisergica che si fa venticello più robusto in Wailing Wall, ispirata da una visita di Smith, durante un tour israeliano con i Banshees, al Muro del Pianto. Vi si avverte in effetti un che di mediorientale, sensazione subito spazzata via dalla furente sarabanda di Give Me It. Ci si inoltra in Dressing Up e la prospettiva cambia di nuovo, in maniera brusca: la melodia è disegnata da un flauto (suonato su una tastiera?) e la voce è in primissimo piano e melodrammatica.

Il lato B si apre con The Caterpillar, anche su 45 giri un attimo prima che su 33. È a tutt’oggi una delle creazioni più memorabili e incatalogabili dell’intero catalogo smithiano. Etnopsicopop? E sia! La voce di Smith viaggia su un tambureggiare di percussioni mettendo in fila, alla ricerca di una corrispondenza di amorosi sensi, versi deliziosamente sciocchi. È tanto il fulgore di questo gioiello che per contrasto il resto della facciata rimane un po’ in penombra. Restano nella memoria, più che le canzoni, taluni particolari dei loro (spesso magistrali) arrangiamenti: l’organo sullo sfondo di Piggy In The Mirror; le percussioni da marcetta militare di The Empty World; i tocchi bluesy di Bananafishbones; l’indecifrabile rumore (ruote su un acciotolato? la carica di una molla?) che introduce nell’atmosfera notturna e cinematografica (modello “dov’è il vampiro?”) del brano che intitola l’album.

Rientrato Thornalley, reclutato Thompson, i Cure erano pronti per il loro primo tour britannico in due anni. Le ultime date – Oxford, 5 maggio; Londra, 8, 9 e 10 maggio – vennero registrate dal Manor Mobile, in previsione dell’uscita di un LP dal vivo.

Pubblicato per la prima volta, in forma diversa, in Avventure immaginarie, Giunti, 1996.

4 commenti

Archiviato in archivi

I Led Zeppelin dopo i Led Zeppelin – Volo magico numero due

Robert Plant & Jimmy Page

Quando il 14 luglio 1985, con l’ottima scusa di fare beneficenza e attirare l’attenzione sulla carestia che sta devastando l’Africa, i tre Led Zeppelin superstiti si ritrovano a Philadelphia per il “Live Aid”, lo scioglimento è ancora una faccenda abbastanza prossima, quattro anni e mezzo, da lasciare il pubblico speranzoso che possa essere il primo capitolo di una nuova storia piuttosto che una suggestiva postilla a una archiviata. Tantopiù dopo che le decine di migliaia di spettatori radunatisi nello stadio cittadino innanzitutto per loro, e le decine di milioni che hanno assistito all’evento in diretta televisiva, hanno potuto constatare come la vecchia magia ancora riesca a riprodursi. Vero che per sostituire Bonzo ce ne sono voluti due di batteristi, Tony Thompson e Phil Collins, e per avere l’impatto di un tempo si è dovuto aggiungere un sesto musicista, Paul Martinez al basso, con John Paul Jones alle tastiere, e vero anche che la voce di Plant non sa più inerpicarsi come una volta su vette himalaiane, così come che Page qualcosina sembra avere perso in agilità. E altresì innegabile che tre canzoni gloriose – Rock And Roll, Whole Lotta Love, Stairway To Heaven – non valgono a certificare che il rapporto possa ancora essere creativo, ma i fans sognano. Anche perché Page e Plant già si sono incrociati l’anno prima, nell’estemporaneo ed esilarante progetto di cover Fifties degli Honeydrippers, e le loro carriere da separati (con Jones tornato a lavorare – poco – dietro le quinte) non è che siano state fino a quel punto un fuoco d’artificio. Meglio il cantante, che ha già all’attivo tre fortunati LP (“Pictures At Eleven”, “The Principle Of Moments”, “Shaken’n’Stirred”) di rock energico ma melodico, con qualche influsso etnico e moderate pretese sperimentali, mentre il chitarrista (a parte una colonna sonora) non ha fatto che cercare di ricreare gli Zeppelin sostituendo Plant con l’ex-Free e Bad Company Paul Rodgers: il primo, omonimo album dei Firm ha venduto bene ma si è rivelato poca cosa (il titolo del secondo e ultimo la dirà lunga: “Mean Business”). Potrebbe forse nascere qualcosa se Page non avesse ancora problemi di tossicodipendenza. Poco dopo “Live Aid”, fa una patetica figura unendosi per un bis a Plant al termine di un concerto di quest’ultimo ed è probabilmente allora che il compare, che nutre molte meno nostalgie di lui e forse nessuna del tutto per il Dirigibile, ci tira una riga sopra.

Quanto Page (che nel 1985 licenzia un discreto disco con Roy Harper e nell’88 uno da solista al contrario scadente) sia invece inconsolabile è rimarcato dal sodalizio che improvvisa con David Coverdale (Deep Purple e Whitesnake) nel 1993, vale a dire proprio con colui che Plant (che ha nel frattempo pubblicato i variamente apprezzabili “Now And Zen”, “Manic Nirvana” e “Fate Of Nations”) aveva velenosamente ribattezzato David Coverversion, prendendone in giro l’ansia di riprodurre meticolosamente – indovinate un po’… – i Led Zeppelin. Chissà che non giochi il desiderio di evitare altre uscite imbarazzanti all’ex-socio nell’assenso che infine dà, l’anno dopo, a una rimpatriata. La moda degli “Unplugged” furoreggia e gli è giunta da MTV la proposta di realizzarne uno. Non è mica, chiedono quelli dell’emittente senza crederci manco loro, che si potrebbe avere ospite Jimmy Page in qualche brano? Plant va assai oltre. Piuttosto che limitarsi a una mera riproposta dei diversi articoli acustici del catalogo Zeppelin e a qualche rivisitazione ad amplificatori spenti di quelli elettrici che meglio possono prestarsi, “Unledded” – che non coinvolge Jones, in quel momento impegnato in quella che resterà la sua migliore escursione in proprio di sempre, la collaborazione con Diamanda Galas di “The Sporting Life” – li rilegge radicalmente con i cruciali apporti di un ensemble di archi, di un’orchestra egiziana, di alcuni musicisti marocchini di stirpe gnawa. Verificabili sul CD “No Quarter” e su un omonimo e più esteso DVD, gli esiti sono superlativi, con tutta una serie di classici – da Nobody’s Fault But Mine a Thank You, da Since I’ve Been Loving You a Kashmir – dei Led Zeppelin che prendono colorature esotiche e acidissime (come dire: dal Galles di Bron-Y-Aur al Sahara) e alcune nuove e splendide canzoni nel medesimo stile – Yallah, City Don’t Cry, Wonderful One, Wah Wah – a sottolineare ulteriormente come l’operazione non abbia nulla di retrò. Caso mai non si fosse capito: di heavy metal non ve n’è traccia (di blues sì, eccome).

Lunga quattro anni l’attesa di una replica ma “Walking Into Clarksdale” non delude, se non quelli che si aspettavano che i due provassero a rimettere in cantiere il Dirigibile. Siamo in realtà, tranne che nella conclusiva Sons Of Freedom che ha in effetti tiro hard, decisamente più prossimi al Plant solista. È una buona prova e con qualche momento più che semplicemente buono: per Upon A Golden Horse, Most High e House Of Love, luminose schegge di “Unledded”, e per Heart In Your Hand e When I Was A Child, che mischiano i DNA di Arthur Lee e Chris Isaak, parlare di piccoli capolavori non è un azzardo.

Da allora, fuor dai riordini di archivi che sapete, un pacificato Page si è divertito e ci ha fatto divertire con il doppio “Live At The Greek”, testimonianza di un tour che lo ha visto capeggiare i Black Crowes, dichiarati ammiratori degli Zeppelin per una volta direttamente a confronto con quel repertorio. Da Plant si attende per il 25 aprile il successore di “Dreamland”, pregiata raccolta perlopiù di cover (da Tim Buckley a Dylan via Hendrix) del 2002. Dovrebbe intitolarsi “Mighty Rearranger” e lui stesso lo annuncia come una collezione in bassa fedeltà di ballate folk e la sua cosa migliore di sempre fuor d’area Led Zeppelin. E Percy, si sa, è uomo su cui si può fare affidamento.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.17, primavera 2003.

Lascia un commento

Archiviato in archivi

Led Zeppelin – A volte ritornano

Il male che l’uomo fa gli sopravvive e talvolta torna a perseguitarlo. Non riesco a credere alle sciocchezze che scrissi su “III” e “IV”, in parte anche su “Physical Graffiti”, per quanto quest’ultimo continui a non considerarlo l’“Exile On Main St” zeppelliniano. Da lì a sette anni, in un articolo lungo otto volte tanto per “Extra”, aggiusterò considerevolmente il tiro. Quanto a “Walking Into Clarksdale”, provvedeva immediatamente a smentirmi.

Led Zeppelin

Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo rispetto che nutriamo per la sua famiglia ci hanno portato a decidere – in piena armonia tra noi e con il nostro manager – che non potremo continuare come prima.

Essenziale, non una parola più del necessario, così come nei loro primi due album non vi era stato un vocalizzo, un ricamo di chitarra, un colpo alla batteria più dell’indispensabile: economia di forme incommensurabilmente distante dal trionfo del tronfio (scusate il gioco di parole) nella loro musica che in anni più tardi li renderà facile bersaglio della furia iconoclasta del punk. Con questo comunicato di poche righe Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones il 4 dicembre 1980 annunciavano che il Dirigibile tornava all’hangar. Il quarto Led Zeppelin, John “Bonzo” Bonham, era morto il 25 settembre in una maniera che Keith Richards – “il massimo della maleducazione è andare in overdose mentre sei a casa d’altri” – giudicò probabilmente un’inammissibile offesa al bon ton: soffocato dal suo stesso vomito, dopo una terrificante sbronza, a casa di Page. Giungevano così a un tragico capolinea anni colmi di eccessi (raccontati da Hammer Of The Gods, forse la più “scandalosa” delle biografie rock) ma anche di dischi, canzoni, concerti memorabili. Chissà se senza la morte di Bonham il quartetto sarebbe andato avanti ancora a lungo o si sarebbe sciolto lo stesso entro breve. Certo non subito, visto che aveva un LP nelle classifiche e stava per intraprendere un tour americano, ma non si sarebbe trascinato come altri della sua generazione per ragioni squisitamente mercantili. I Nostri dovevano essere consci che l’età dell’oro artistica era lontana e che quello che risultò l’ultimo album era povera cosa. Così mi piaceva pensare, fino a non molto tempo fa.

Attenti il giusto agli aspetti economici della loro professione, i Led Zeppelin non permisero mai che le ragioni di bilancio prevaricassero quelle dell’arte. Valga a sostegno di ciò il fatto che avrebbero potuto lucrare una fortuna ancora più immensa di quella raggranellata se solo avessero puntato un minimo sul mercato dei 45 giri, dal quale si tennero invece sdegnosamente lontani. La decisione di sciogliersi fu un atto di coraggio e di grande dignità insieme e a lungo i superstiti hanno resistito alle pressioni dell’industria perché quella che era stata una delle imprese più lucrose della storia del rock tornasse in attività.

Certo la nostalgia canaglia qualche scherzo lo ha giocato. Il 13 luglio 1985 Plant, Page e Jones si ritrovavano sul palco del John Fitzgerald Kennedy di Philadelphia per tre canzoni. Ma era per una buona causa, “Live Aid”, e si poteva dire loro qualcosa? Il 14 maggio ’88 suonarono al Madison Square Garden, ma si trattava delle celebrazioni del quarantennale della loro etichetta, l’Atlantic, e perché non concedere pure a loro di far festa? E vai con gli esercizi retorici sulla presenza dietro la batteria del figlio di John Bonham, Jason. Nel novembre del 1989 – state a sentire questa – il gruppo si esibì alla festa per il ventunesimo compleanno della figlia di Plant, Carmen. Cosa non si fa per i figli! Possiamo essere sì duri di cuore da negare a tre vecchi amici il piacere di suonarsele e cantarsele in una simile occasione? Ma ancora nel 1991 Page smentiva le indiscrezioni secondo le quali i Led Zeppelin si erano ricostituiti e già erano state fissate quattro date al newyorkese Giant Stadium. Salvo aggiungere candidamente: “John Paul Jones e io abbiamo chiesto per qualche tempo a Robert di prendere in considerazione un tour ma lui non ne vuole sapere. A me piacerebbe tornare in giro come Led Zeppelin, e anche a John, ma è evidente che senza Robert non potrà accadere nulla di simile”.

Quando nel 1994 Plant, la cui carriera post-Dirigibile, al contrario di quella di Page, è stata commercialmente fortunata e artisticamente decorosa e che per anni si era rifiutato di inserire nelle sue scalette brani degli Zeppelin, ha ceduto ai dirigenti di MTV che per “Unplugged” pretendevano eseguisse qualche canzone d’antan e ha chiesto a Page se era interessato, la reunion è stata cosa fatta. Soltanto che questa volta era John Paul Jones a non essere disponibile. Evitando allora, anche se economicamente sarebbe convenuto, di usare la vecchia ragione sociale, Page e Plant hanno confezionato “No Quarter”, pregevole rivisitazione in chiave etnica di vecchie pagine dei Led Zeppelin incrementata da qualche inedito di buona grana. Sul successore di quel disco ne sapete più voi, ora che è nei negozi, di quanto non ne sappia io nel momento (metà marzo) in cui scrivo. Il poco che ho avuto occasione di ascoltare di questo nuovo album, in uscita a fine mese, mi fa temere il peggio: hard da dinosauri senza nessun guizzo del bel tempo che fu. Il meglio che se ne possa dire è che per fortuna non ci sarà scritto sopra quel nome.

Led Zeppelin Live

Quel nome, come ogni enciclopedia del rock si premura di riferire, venne ideato da un altro batterista che come Bonham amava la vita spericolata e che per questo era destinato a non invecchiare, Keith Moon degli Who. Quando Robert Plant (voce), Jimmy Page (chitarra), John Paul Jones (basso e tastiere) e John Bonham (batteria) lo scelsero come ragione sociale, erano insieme da meno di un mese e avevano già alle spalle un tour scandinavo come New Yardbirds. Dismessa subito dopo una sigla gloriosa – gli Yardbirds erano stati uno dei migliori gruppi britannici, fra beat e blues, dei primi ’60 e Page vi era entrato subentrando a Jeff Beck, a sua volta rimpiazzo di Eric Clapton – ma senza più una ragion d’essere giacché i membri fondatori se n’erano andati tutti, i quattro si chiusero in sala d’incisione e in appena trenta ore registrarono l’omonimo esordio. Era l’ottobre 1968.

Considerato da quanto poco erano insieme e quanto poco impiegarono a metterlo su nastro, “Led Zeppelin” è semplicemente prodigioso. Il trascorrere del tempo, quasi trent’anni ormai, nulla gli ha sottratto in freschezza e intensità. È un sapidissimo pasticcio di pop intinto nell’acido e nella musica nera modello ultimi Yardbirds (Good Times Bad Times e la superba Your Time Is Gonna Come, dominata dall’Hammond), psichedelia orientaleggiante (Black Mountain Side), blues-rock struggente (Babe I’m Gonna Leave You), rock-blues roboante (You Shook Me e I Can’t Quit You Baby, pescate nel repertorio di Willie Dixon) e hard granitico e magmatico insieme (Dazed And Confused, Communication Breakdown, How Many More Times). Il pubblico impazzì. La critica, ancora abbagliata dalle imprese di dubbio valore degli appena disciolti Cream, non capì. Tacciò i Led Zeppelin di rozzezza e li accusò persino, sfiorando il ridicolo, di avere tradito le radici blues per Mammmona. Si rimangerà tutto da lì a breve.

Di non molti mesi posteriore al formidabile debutto e come esso registrato velocemente, nelle brevi pause fra un tour e l’altro, e con pochissime sovraincisioni, “II” è meno vario ma altrettanto memorabile. Lo rende tale soprattutto l’iniziale Whole Lotta Love, inno proto-heavy per eccellenza. Il resto viaggia sui binari di un vigoroso hard che, mai dimentico della tradizione nera (la stessa Whole Lotta Love è rubacchiata a Willie Dixon), è tuttavia più “bianco” che in precedenza. Tolta Moby Dick, inquietante presagio del narcisismo a venire, un LP magnifico.

Aggettivo che con “III”, pubblicato nel 1970, si può usare soltanto per la prima facciata e in particolare per il fumigante rock bluesato Since I’ve Been Loving You. La seconda si impantana nelle paludi di un folk elettrico che vorrebbe essere epico e troppo spesso è solo retorico. La caduta si farà verticale l’anno dopo con “IV”, del quale si può salvare giusto il dittico d’apertura, Black Dog/Rock’n’Roll. Il resto, Stairway To Heaven in testa, induce alternativamente sonnolenza e irritazione. Eppure furono proprio questi, invecchiati così male, gli album che fecero dei Led Zeppelin il gruppo più popolare al mondo, popolarità ribadita dallo statico “Houses Of The Holy” (1973) e dal doppio, ineguale ma con qualche sintomo di risveglio, “Physical Graffiti” (1975).

Sul live “The Song Remains The Same” e sul congedo “In Through The Out Door”, dalle imbarazzanti tendenze pomp-rock, è meglio tacere. Fare finta che non esistano. Consolarsi con lo stupendo LP che li precedette, l’anfetaminico “Presence”, inatteso colpo d’ala del 1976, progenitore diretto di tanto hard “moderno” dei ’90. Soundgarden in testa, se bisogna fare un nome.

Pubblicato per la prima volta su “Extreme Pulp”, n.4, aprile 1998.

8 commenti

Archiviato in archivi