Talkin’ All That Jazzmatazz (un omaggio a Guru)

“Quando ideai il progetto avevo già notato da tempo come un sacco di dj andassero alla ricerca sia di frasi melodiche che di break ritmici da riprendere in vecchi dischi jazz. Magnifico, veramente cool, e però io intendevo portare a un livello superiore il connubio fra i due generi musicali. Convocai allora alcuni di quegli stessi strumentisti per farli suonare di persona in un contesto hip hop. Invitai anche dei rapper e delle cantanti soul. Voleva essere solo un esperimento, ma in studio mi resi presto conto che ciò che stava venendo fuori sarebbe passato alla storia”: così l’artista nato Keith Edward Elam il 17 luglio 1961 raccontava la genesi di “Jazzmatazz Volume 1”, edito su Chrysalis il 18 maggio 1993 e si noti come il titolo annunciasse, e così sarà, che quella che il sottotitolo dichiarava essere “an experimental fusion of hip-hop and jazz” era solamente all’inizio. Un seguito arriverà nel ’95, un terzo capitolo vedrà la luce nel 2000, un quarto nel 2007, coinvolgeranno altri nomi altisonanti e pur senza eguagliarne né le vette né naturalmente l’impatto saranno tutto sommato all’altezza del prodigioso capostipite. Era il 2009 quando Guru rilasciava l’intervista da cui viene la citazione. Se ne andava il 19 aprile dell’anno dopo e tanto più addolorava la prematura dipartita perché accompagnata da una lettera testamentaria (apocrifa? la famiglia la ritiene tale) in cui lo scomparso attaccava con una vis polemica da togliere il fiato colui che per quasi due decenni era stato il suo sodale nei Gang Starr, Christopher Edward Martin, leggenda per fortuna ancora vivente con l’alias DJ Premier. Che non replicava. Dettagliare ulteriormente non è il caso e non solo perché, dato il contesto, risulterebbe inappropriato. Laddove con più ampi spazi sarebbe stato viceversa bello e utile illustrare adeguatamente come i 44’06” di un disco epocale rappresentassero sia un approdo che un punto di partenza. Esaltato dalla critica, l’album faceva numeri più che discreti ma lontani da quelli che a cavallo fra quello stesso anno e il successivo totalizzeranno i britannici US3 citando estesamente Herbie Hancock in Cantaloop, brano di apertura di “Hand On The Torch”. Su Blue Note, ossia per l’etichetta che “Jazzmatazz” omaggia sin dalla copertina. Tocca far di necessità virtù riducendo all’essenzialissimo il riassunto delle puntate precedenti di un incontro con i crismi dell’inevitabilità i cui prodromi più lontani possono essere fatti risalire addirittura ai tardi anni ’40: a Joseph Deighton Gibson Jr., conduttore radiofonico afroamericano di vasta popolarità noto come ─ udite udite ─ Jack the Rapper. O se no agli anni ’70 era aurea di Gil Scott-Heron: inarrivabile poeta che porgeva le sue rime su spartiti cui il jazz concorreva almeno nella stessa misura di soul e funk. O, come minimo, al 1989.

Nel debutto dei Gang Starr “No More Mr. Nice Guy” la seconda traccia è intitolata Jazz Music. L’ottava è un remix di Words I Manifest, pezzo già uscito in precedenza su un 12” e basato su Night In Tunisia di Dizzy Gillespie. Lì Guru e DJ Premier passano dalle parole ─ l’anno prima Talkin’ All That Jazz, brano incluso nel secondo album degli Stetsasonic “In Full Gear”, ha esplicitato una tendenza evidentemente in atto ─ ai fatti. Saranno in molti a seguirli ma non subito, anche perché il disco vende modestamente. Capita però che fra gli acquirenti ci sia Spike Lee, che gradisce al punto da ingaggiarli per la colonna sonora di Mo’ Better Blues. Jazz Thing, una collaborazione con Branford Marsalis, è il brano che la illumina e segnerà una svolta decisiva nella carriera di Guru e Premier, da qui in poi un mito che miracolosamente non deluderà mai, confezionando un capolavoro via l’altro, a partire dal ’91 e da “Step In The Arena”, quasi un secondo esordio. Anno cruciale quello: i canadesi Dream Warriors segnano una clamorosa doppietta con My Definition Of A Boombastic Jazz Style e Wash Your Face In My Sink, in cui riprendono rispettivamente Quincy Jones (Soul Bossa Nova) e Count Basie. Tristemente al passo di addio, Miles Davis nel a dire il vero non granché riuscito “Doo-Bop” affida la produzione a Easy Mo Bee. Ron Carter si fa complice del favoloso “The Low End Theory” degli A Tribe Called Quest ed è ulteriore eloquente certificazione di come, mentre il pubblico del jazz schifa la nuova black, i musicisti ne siano al contrario intrigati. Nel ’92 i veterani Eric B & Rakim ricorrono ai servigi di un contrabbassista non accreditato nel colossale “Don’t Sweat The Technique”, con il quale sfiorano i Top 20 USA. Nel ’93 gli invece debuttanti Digable Planets vanno al numero 15 con “Reachin’ (A New Refutation Of Time And Space)”, in cui campionano Don Cherry, Sonny Rollins, Art Blakey, Herbie Mann, Herbie Hancock, Grant Green e Rahsaan Roland Kirk. Quanto ai De La Soul, in “Bulhoone Mindstate” riciclano Eddie Harrison, Lou Donaldson, Duke Pearson e Milt Jackson e ospitano Maceo Parker.

Insomma: dichiarando “Jazzmatazz” un esperimento Guru un pochino barava, ma giusto un po’. Ormai maturi i tempi, fu grazie a quest’album che una pur minoritaria parte della platea di cui sopra se non si convertiva tout court all’hip hop quantomeno maturava per esso del rispetto. Prima fidandosi di un parterre de rois comprendente il trombettista Donald Byrd, i sassofonisti Courtney Pine e Gary Barnacle, il vibrafonista Roy Ayers, il pianista Lonnie Liston Smith, i chitarristi Ronny Jordan e Zachary Breaux (oltre alle cantanti Carleen Anderson, N’Dea Davenport e DC Lee). Poi arrendendosi a dieci tracce dallo swing e soprattutto dal groove irresistibili e tracimanti classe da ogni solco. A propositi di solchi: non più disponibile il meraviglioso box Capitol/Universal del 2018 che al programma originale aggiungeva un LP di strumentali e uno di bonus, chi non provvisto volesse avere “Jazzmatazz Volume 1” sul più nobile dei supporti può da qualche mese rivolgersi a un’ottima stampa dell’olandese Music On Vinyl. Chi scrive raramente ha riscontrato una differenza così marcata fra un’edizione in CD e una in vinile di un disco. Il secondo offre una scena sensibilmente più aperta, con molta più aria fra strumenti e voci.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022. Ricorre oggi il quattordicesimo anniversario della prematura scomparsa di Guru.

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