Archivi del mese: gennaio 2015

Special (English) Beat Service: oltre lo ska revival

The English Beat - Special Beat Service

English Beat in copertina, adeguandosi alla ragione sociale che da subito distinse (per non farli confondere con la formazione power pop capitanata da Paul Collins) negli Stati Uniti quelli che in Gran Bretagna erano i Beat e basta, per due ragioni. Una è che “Special Beat Service” viene ristampato, in un’edizione magistrale per come rende le sfaccettature di un sound fattosi proteiforme, da un’etichetta giustappunto statunitense, la Mobile Fidelity. E quindi… L’altra è che con questo, che era nel 1982 il suo terzo album, il combo di Birmingham perdeva in patria gran parte del pubblico che era accorso in massa a comprare “I Just Can’t Stop” e “Wha’ppen?” e in compenso sfondava per la prima volta oltre Atlantico, dove fino a quel punto era  stato viceversa poco considerato. Veniva insomma adottato dagli USA, il che non servirà però a evitarne lo scioglimento da lì a breve, con il rapper Ranking Roger e il chitarrista Dave Wakeling che davano vita ai General Public e l’altro chitarrista Andy Cox e il bassista David Steele che fondavano i Fine Young Cannibals.

A riascoltarlo oggi “Special Beat Service” non si stenta a cogliere le ragioni delle ben diverse accoglienze che ricevette. Esplosi in scia agli Specials e ai Selecter e con un primo singolo griffato 2-Tone, in patria i Beat erano catalogati alla voce “ska revival” e un secondo LP dal passo più lento e dalla paletta cromatica già piuttosto ampia non ne spostava sostanzialmente la collocazione. Ma all’altezza del terzo album tutto o quasi era cambiato, solo tre brani su dieci alla vecchia maniera (i reggae Spar Wid Me e Pato And Roger A Go Talk e il calypso Ackee 1 2 3) e per il resto una varietà stilistica spettacolare sotto l’ombrello di un pop profumato di new wave: ed ecco una I Confess degna del miglior Joe Jackson, una Jeanette francofila non solo nel titolo, una Sole Salvation brillantemente in scia ai Jam. Ma soprattutto ecco Save It For Later: ritmica tambureggiante, chitarre jangly e appena un’idea di psichedelia data dagli archi. Roba che facilmente avrebbero potuto scrivere i Blur quindici anni dopo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.353, luglio 2014.

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Help Yourself – Reaffirmation: An Anthology 1971-1973 (Esoteric)

Help Yourself - Reaffirmation  An Anthology 1971-1973

Tempo che agli Help Yourself si dia la collocazione che meritano nella storia del rock? A quarant’anni dal concerto con il quale davano l’addio alle scene parrebbe che la risposta sia infine affermativa. Una soddisfazione per il Vostro affezionato, che della band londinese è appassionato propagandista sin dacché sul finire dei ’90 la BGO ne ristampava quasi l’opera omnia su tre dischi (un singolo e un doppio) ed era un tornare nei cataloghi dopo una latitanza lunghissima. Dopo che persino quei medi anni ’80 che pure avevano visto la riscoperta di un’infinità di gruppi analoghi erano riusciti a ignorarli totalmente. Bello imbattersi, in uno degli ultimi numeri di “Shindig!”, in un lungo articolo loro dedicato e mai mi era capitato di leggerne uno. Bellissimo vedersi recapitare questa superba raccolta doppia fresca di stampa e non perché mi abbia regalato alcunché di non sentito (dei ventisette brani che vi sfilano giusto l’ultimo non era presente nei CD BGO) ma perché mi offre l’occasione di spendere qualche parola per una sigla così ingiustamente negletta.

“Reaffirmation” pesca generosamente nei quattro album più uno (la prima stampa del congedo “The Return Of Ken Whaley” includeva come omaggio un altro LP, “Happy Days”) pubblicati dagli Help Yourself (il secondo e forse migliore, “Strange Affair”, ripreso quasi in toto) e offre un ritratto a 360° di un gruppo rimasto unico nel suo sapere tenere insieme la propensione alla jam di Quicksilver Messenger Service e Grateful Dead e l’essenzialità ruspante di un pub-rock che anticipò di tanto. Nell’ampissimo arco fra folk e space-rock, via country, blues, boogie e psichedelia gli Help Yourself suonavano di tutto. Era la loro grandezza, fu probabilmente ciò che li fregò.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.358, dicembre 2014.

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The Decemberists – What A Terrible World, What A Beautiful World (Capitol)

The Decemberists - What A Terrible World, What A Beautiful World

Pronti e via, il nuovo album dei Decemberists è immediatamente entrato nei Top 200 di “Billboard”: settimo, davanti a dischi molto attesi e/o acclamati e, limitandomi a qualche nome e alle prime venti posizioni, posso citare Marilyn Manson, Mark Ronson, i Maroon 5, Lupe Fiasco, le Sleater-Kinney, Björk. Improbabile tuttavia che alla Capitol stiano brindando. Più facile che attendano con il fiato sospeso i dati numerici delle vendite e, soprattutto, di vedere quanto durerà fra i più venduti, se scalerà qualche posizione o viceversa scenderà più o meno rapidamente. Fosse la seconda che ho detto, sarebbe una sorpresa e una delusione. In molti erano pronti a scommettere che “What A Terrible World, What A Beautiful World” sarebbe stato l’“Out Of Time” di Colin Meloy e sodali, dopo che “The King Is Dead” era stato il loro “Green”. “The King Is Dead” era andato dritto al numero uno. Si trattava di replicare e consolidare, con un lavoro abbastanza prossimo per sonorità e parecchio per ispirazione.

Ammetterò che fra quelli disposti a puntare il simbolico euro su un grande e subitaneo successo dell’album c’ero anch’io e tutto sommato ci sono ancora. Mi pare che il potenziale ci sia. Dove viceversa già posso dire di non avere sbagliato è stato nel pronosticare che una parte della critica si sarebbe mostrata tiepida, che certo pubblico snob (medesima l’attitudine rispetto, per dire, agli ultimi Black Keys) avrebbe preso le distanze. Me n’ero fatto preventivamente una ragione. Prima farete lo stesso, prima potrete godervi voi pure una delle più incisive raccolte di canzoni – presumibilmente – del 2015. Una delle migliori collezioni di un marchio che a oggi ha sbagliato una singola sfilata e, quando fallimento fu, fu glorioso.

Dimenticate i Decemberists (da ammirare per l’arditezza se non per i risultati) spericolatamente “prog” di “The Hazards Of Love”, quelli che avevano iniziato a delinearsi in “The Crane Wife” e prima ancora nell’EP “The Tain”. Ma accantonate (per sempre?) anche quelli prevalentemente “anglofili” (Morrissey un evidente nume tutelare) dei primi tre album. Qui il referente è l’Americana che prendeva possesso della ribalta, per la prima volta quasi monopolizzandola, in “The King Is Dead”. Solo, in una forma ancora più classica. Solo, con suoni più corposi e idem gli arrangiamenti. Solo, con una scrittura mediamente ancora più epidermica, per quanto nessuna delle quattordici tracce inedite arrivi alla memorabilità assoluta di una Rise To Me, di una Calamity Song. Le approssimano per impatto il jingle-jangle muscolare di Cavalry Captain (che in tal senso è la nuova Calamity Song) e per raffinatezza, gli archi che vanno dietro alle chitarre acustiche disegnando un ossimoro di misurato melò, The Singer Adresses His Audience (in tal senso la nuova Rise To Me). Ma se non di capolavori il disco è zeppo di brani di efficacia e gradevolezza rare, si tratti di un’ennesima mimesi di R.E.M. intitolata Make You Better o del Tom Petty campagnolo di Anti-Summersong, degli Eagles catturati all’altezza di “Desperado” di Mistral, dei Triffids country-blues di Till The Water Is All Long Gone come dei Calexico stilosamente ludici di Easy Come, Easy Go. Scorie di Albione giusto nel folk ruffiano da prestare ai Mumford & Sons di Better Not Wake The Baby e negli Smiths girati in valzer di The Wrong Year. Maestro nello spiazzare, Meloy a questo giro ci prova giusto con il pastiche anni ’50 di Philomena e, significativamente, è l’unica volta che manca il bersaglio. Per i Decemberists “What A Terrible World”, “What A Beautiful World” è l’album “della maturità”. Se dare alla definizione un’accezione positiva o no dipende molto anche dalla formazione e dalla filosofia musicali di chi ascolta.

Nel numero di “Blow Up” in edicola a giorni un mio lungo articolo sui Decemberists.

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Dear Mr. Fantasy – Per Jim Capaldi (2 agosto 1944-28 gennaio 2005)

Jim Capaldi - Dear Mr Fantasy

Amava dire Jim Capaldi (primo nome Nicola, a sottolinearne ulteriormente le origini italiane) che “la storia della mia vita è eccessivamente lunga e perlopiù non vera”. In parte consapevolmente e in parte no, mentiva due volte. Arriverà a festeggiare il sessantesimo compleanno ma il sessantunesimo no, andandosene così a un’età che per gli standard odierni non è certo da vegliardi, e quanto alle circostanze dell’esistenza più che romanzesca toccata in sorte a un individuo gioviale e tranquillo, be’, ci sono i testimoni a confermarle. Ci sono le foto, che diamine, e sfogliando le tante pagine che guidano all’ascolto di “Dear Mr Fantasy”, sontuoso quadruplo “alla carriera” fresco di pubblicazione per Island/Universal, ci si imbatte in una sfilata di amici fra le più singolari immaginabili e anzi no, inimmaginabili. È di un uomo che accompagnò un ancora sconosciuto Bob Marley a spasso per Londra e che giocò a calcio sulla spiaggia di Copacabana con Rivelino e Zico che stiamo parlando. Di uno che dava del tu a Pelé, faceva giardinaggio con George Harrison, era intimo di Tony Blair e si ritrovò a conversare di musica con Henry Kissinger. Chissà se discussero di Tricky Dicky Rides Again, dedica al vetriolo del nostro eroe al presidente Nixon scritta in pieno Watergate. Una rarità assoluta del sarcasmo da parte di un animo tanto gentile, uno lontanissimo dallo stereotipo della rockstar incline a eccessi sessuali, alcolici, drogati. E nondimeno: era il primo viaggio con l’LSD a procurargli l’epifania che determinava un cruciale cambio di rotta artistica, era regalandogli un bel tocco di hashish che si presentava a Steve Winwood ed era emergendo da un sonno e da un sogno fumatissimi che buttava giù l’inizio della canzone cui (più che a qualunque altra performance) resterà sempre legata la sua fama: Dear Mr. Fantasy, naturalmente.

Il cofanetto (in realtà un libro con i quattro dischetti incastrati in seconda e terza di copertina, come è ormai uno standard) che da essa prende il titolo induce qualche perplessità e offre belle sorprese. Sono ad ogni buon conto decisamente più le seconde che le prime, che dunque tanto vale togliere subito di torno. Se è ovvio che, in quello che è innanzitutto un sunto di una carriera solistica forte di una dozzina di album e riscontri commerciali occasionalmente anche importanti, i Traffic non possano rappresentare che una percentuale minoritaria del programma, che ci si limiti a un dieci per cento è troppo poco. Si finisce per sminuire l’apporto di colui che era un vero e proprio comandante in seconda, dopo Winwood, a una delle avventure più esaltanti del rock inglese a cavallo fra ’60 e ’70: incontro benedetto inizialmente, fugacemente dalla psichedelia di folk e jazz elettrico, pop e soul, latinismi e altre assortite musiche “del mondo”. Quanto in particolare in quest’ultimo senso la influenzò Capaldi provvederà la sua discografia da leader a chiarirlo. Bizzarro allora che dal lavoro forse più “capaldiano” di tutti, “The Low Spark Of High Heeled Boys”, sia stato estratto l’unico pezzo non firmato dal Nostro, Rock And Roll Stew, a scapito dell’epica traccia omonima. E non lo si potrebbe perdonare si venisse a sapere che a determinare la scelta è stata una questione di minutaggio. Così come non si può transigere sul fatto che manchi Paper Sun, che era il pezzo che con il suo grande successo a 45 giri metteva i Traffic sulla rampa di lancio.

Però ci sono compensazioni sontuose. Una delizia i tre brani – uno a testa – con i quali si parte e che documentano le brevi parabole dei primi gruppi di questo cantante e batterista spedito da bambino a lezioni di piano (saprà metterle a frutto) dal padre fisarmonicista. Il folk-beat in anticipo sui Lovin’ Spoonful di Daydreaming Of You degli Hellions, l’errebì romantico di Hallelujah dei Revolution e principalmente una Pretty Colours, dei Deep Feeling, capace di mettere d’accordo i Kaleidoscope britannici con quelli americani rappresentano ben più che mere curiosità. Sistemato in ordine cronologico con apparentemente qualche piccola licenza a fondo corsa, il box dopo avere sveltamente carrellato sui Traffic (brano-simbolo oltre a quello che sapete: Dealer, flamenco-psych non distante dai Love di “Forever Changes” che i Santana riprenderanno) si diffonde ampiamente sugli album in proprio (peraltro tutti, senza eccezione, con Winwood ospite, a evidenziare l’eccezionale solidità del sodalizio fra i due). Privilegiando il debutto “Oh How We Danced” (da cui vengono ripresi ben cinque pezzi su otto) e poi “Short Cut Draw Blood” ed “Electric Nights” (altri cinque titoli cadauno) e “Let The Thunder Cry” (sei brani su dieci). Non tutto a essere onesti è invecchiato meravigliosamente. Se complessivamente reggono, e qualcuna facendo pure un figurone (interpretata dai Bee Gees That’s Love avrebbe venduto fantastilioni di copie), le diverse canzoni sul limitare della disco, a pagare malamente dazio sono certune fra le più languide e in primis una Wild Geese da balera e da galera. Alla fine della fiera a lasciare stupefatti sono i brani provenienti dal sottovalutato e tardo (2001) “Living On The Outside” (Standing In My Light sono i Thin Lizzy migliori, Anna Julia un power pop da antologia di Tom Petty). È la qualità dei numerosi inediti: in testa, una Love’s Got A Hold Of Me in collaborazione con Harrison e una Invaders Of The Heart da Waterboys depressi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.688, novembre 2011.

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Fat Stevens (Ovvero: Ho recensito anche Demis Roussos)

Mi è capitato di recensire veramente chiunque in vita mia, ivi compreso il buon Demis Roussos, che ci ha appena lasciati piuttosto prematuramente e me ne dispiaccio. Ne scrivevo non una ma ben due volte.

Aphrodite’s Child – Babylon The Great

Aphrodite’s Child – Babylon The Great (Mercury)

Gramo destino postumo quello dei greci Aphrodite’s Child, popolarissimi un po’ in tutta Europa (persino in Gran Bretagna godevano di discreta fama) sul finire dei ’60 ma destinati a venire svillaneggiati nei secoli dei secoli per le imprese solistiche del loro cantante Demis Roussos, idolo un vent’anni fa per casalinghe poco acculturate con la ciccia di Barry White e l’attitudine rock’n’roll di Julio Iglesias. Né valeva finora a riscattarne la memoria il fatto che il tastierista Evanghlos Papathanassiou, meglio noto come Vangelis, è colui che ha scritto uno dei più memorabili temi cinematografici di sempre, quello di Bladerunner: controbilanciano abbondantemente le terribili collaborazioni con Jon Anderson degli Yes. Bello è però ogni tanto vedere smentiti i propri pregiudizi: corposa raccolta assemblata con brani tratti dai tre album del combo ellenico (manca curiosamente il successone Rain And Tears; compensa il chilometrico inedito Chakachak, che parte brazileiro e jazzy e finisce progressivo e gotico), “Babylon The Great” induce, se non a gridare alla grande scoperta, a collocare il gruppo fra le curiosità d’epoca meritevoli di indagine.

Pensate a una via di mezzo fra i Procol Harum e i Traffic (ma più prossima ai primi), a dei Family più pop che ogni tanto (Magic Mirror) credono di essere i Cream. L’acido, stridulo, ossessivo carillon di You Always Stand, i vortici lisergici del finale di The Grass Is No Green, la cantilenante psichedelia molto folky e molto British (un po’ Incredible String Band) di The Shepherd And The Moon, il dolcissimo addio da Beatles tardi di Break regalano suggestioni un po’ polverose ma gradevoli e tutto sommato non banali.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.495, 16 luglio 2002.

Demis Roussos - On The Greek Side Of My Mind

Demis Roussos – On The Greek Side Of My Mind (RPM)

Per quelli della mia generazione Demis Roussos è il diversamente magro che, avvolto in vestagliona da notte, ti infligge porcate inenarrabili come Dolce veleno, Credo e la più spaventosa di tutte, Profeta non sarò: roba che se la senti a quindici anni ti traumatizza a vita. Un Julio Iglesias con le fattezze di un Luciano Pavarotti e se riuscite a immaginare un incubo più incubo avete una bella fantasia. Poi, certo, era anche “quello che stava con Vangelis negli Aphrodite’s Child” e uno si domandava come si potessero prendere percorsi così diversi, quegli a scrivere la colonna sonora di Bladerunner, questi a cantare “dimmi amore se mi vuoi/dimmi se mi seguirai/in qualche mare ci sarà/un’isola di eternità/solo per noi”. Non che gli Aphrodite’s Child, poi recuperati per curiosità, si fossero rivelati chissà quale scoperta – un onesto gruppo all’incrocio fra psichedelia e progressive reso più intrigante della media giusto dall’evidenza delle radici folcloriche greche – ma insomma… Vale all’incirca la stessa etichettatura per questo che fu nel 1971 (dunque prima che il trio completato da Loukas Sideras si sciogliesse) il primo LP in proprio del cantante. C’è già più pop però, specialmente nella ruffianissima We Shall Dance. Se She Came Up From The North e Lord Of The Flies fanno tanto ma tanto Cat Stevens, My Friends You’ve Been Untrue To Me è tanto ma tanto Jethro Tull. Caruccio, dai.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.700, novembre 2012.

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Sleater-Kinney – No Cities To Love (Sub Pop)

Sleater-Kinney - No Cities To Love

Questione di date d’uscita, naturalmente, giacché quello è stato concepito lungo un arco di tempo molto lungo e su un supporto fisico non sarebbe dovuto entrare in circolazione che verso la metà del corrente mese e questo pare fosse già sostanzialmente completo lo scorso febbraio e dunque avrebbe potuto benissimo vedere la luce entro l’anno (tant’è che accidentalmente – o forse no – la Sub Pop lo diffondeva in streaming per qualche ora il 22 di dicembre): fatto è che l’ultimo album importante pubblicato nel 2014, “Black Messiah”, ha finito per capeggiare la lista di fine anno del Vostro affezionato e il primo a raggiungere i negozi nel 2015 prenota, se non la vetta della prossima, con quegli undici mesi e undici giorni di anticipo, per certo uno dei primissimi posti. Ma magari anche il primo, eh? Su D’Angelo, l’ho scritto, non avrei scommesso un centesimo. Sulle Sleater-Kinney ero più possibilista. Quasi fiducioso. Ma un disco così? Nemmeno nei sogni più sfrenati.

Dieci anni senza Sleater-Kinney, dieci anni nei quali in realtà le Sleater-Kinney separatamente hanno combinato tanto – in assai diversi modi, che qui non ha importanza dettagliare – ed ecco, non è che avessero alcun bisogno vero di tornare a suonare tutte e tre assieme. E chi glielo faceva fare, considerato anche che si erano congedate con “The Woods”, per molti il migliore dei loro sette album? Tenendo conto di come e quanto in questo lungo iato la loro statura sia sempre cresciuta in prospettiva, il peso costantemente aumentato nelle storie del rock a cavallo fra il vecchio e il nuovo secolo. Sapere salutare con stile è importante. Capire che ciò che è stato non tornerà, di più. Come in ogni rimpatriata, tutto giocava contro Corin Tucker, Carrie Brownstein e Janet Weiss e nondimeno e un po’ paradossalmente, conoscendone l’intelligenza e l’integrità, erano esattamente le considerazioni suesposte a indurre a pronostici favorevoli. Pronti e via, “No Cities To Love” va oltre.

Come se non fossero mai andate via. Come se non fosse passato non dico un giorno dacché pubblicavano il lavoro precedente, ma al più quei tre anni che avevano rappresentato l’intervallo più ampio fra l’una e l’altra delle uscite maggiori. Nella consolidata tradizione della casa, le Sleater-Kinney risultano perfettamente riconoscibili, eppure in qualche misura diverse da come le si era conosciute fino al punto dato. Mai così memorabili, nel senso letterale del termine, prima d’ora e però senza nulla perdere in forza d’urto. Mai così immediate, a fronte di architetture che più le osservi dappresso e più lasciano senza fiato per la disinvolta complessità. Come dire, a questo giro: la perizia strumentale dei Minutemen e l’arguzia pop dei B-52’s. Come dire: di rado si è sentito un punk così funk e meriterà ricordare che trattasi di un trio due chitarre e batteria, senza il basso, assenza da sempre perfettamente dissimulata ma stavolta sul serio bisogna ascoltare per crederci, che non ci sia. Dieci canzoni (per poco più di trentadue minuti) che sono tutte potenziali singoli, “No Cities To Love” è una gioiosa macchina da guerra che non dà requie sino all’attacco sospeso del suggello Fade. Ma è una finta, siccome pure quello dopo un attimo trova slancio, marzialmente Banshees ed era un nome che già era venuto da chiamare in causa diversi brani prima, per una Surface Envy che favolosamente li incrocia con gli Wire. Disco da citare in toto, da una Price Tag che lo introduce nervosa e squillante a una Hey Darling che arriva a citare esplicitamente Lita Ford dopo che già Gimme Love aveva giocato a evocare il glam : e non lo si è sempre detto delle Sleater-Kinney che erano la versione post-grunge delle Runaways? Passando per una traccia omonima melodicamente degna dei Fleetwood Mac di “Rumours” e una A New Wave da “Best” dei Gang Of Four, per i Talking Heads primevi ma incattiviti di No Anthems e una Bury Our Friends che è la canzone migliore che i Franz Ferdinand non hanno mai scritto.

Non è dato sapere, non lo sanno probabilmente manco loro, se Corin, Carrie e Janet daranno continuità a questo ritorno. Per intanto: cogliete l’attimo.

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Richard Thompson In The Box

Richard Thompson - Live At The BBC

Monsieur Jacques de la Palice non avrebbe saputo esprimere meglio il concetto: arduo confezionare un’antologia di grandi successi di Richard Thompson, osservava un recensore di “Watching The Dark”, non avendone costui mai avuti di grandi successi. La tripla raccolta in questione era la prima a tentare nel ’93 di offrire un plausibile ritratto d’assieme di un artista che, allora quarantaquattrenne, incredibilmente già aveva una carriera venticinquennale alle spalle e più o meno una trentina di album all’attivo. Ci provava dando un colpo al cerchio e uno alla botte: recuperando qualcosa dal catalogo dei Fairport Convention ma non troppo, non dimenticando per strada alcuna delle canzoni (relativamente) più note ma di talune offrendo versioni alternative, tenendo conto ma fino a un certo punto che è dal vivo che il chitarrista di Notting Hill offre da sempre il meglio di sé, regalando abbastanza inediti da attirare il collezionista ma non in un numero tale da oscurare il corpus principale di un’opera fantasticamente ricca di qualità oltre che in quantità. Da allora erano usciti altri due box e puntavano direzioni antipodiche: il primo – “RT: The Life And Music Of Richard Thompson” – si indirizzava nel 2006 all’esegeta più maniacale, proponendo una sorta di storia alternativa (cinque CD e nemmeno un brano proveniente dalla discografia “ufficiale”) del nostro eroe; il secondo – “Walking On A Wire” – azzardava nel 2009 una replica variata ed espansa (essendosi nel frattempo ampliato a dismisura il repertorio in cui pescare) di quel “Watching The Dark” di cui sopra. Ammesso si possa così definire un quadruplo con settantuno tracce in scaletta, è la migliore scorciatoia disponibile per chi, senza troppo impegnarsi (!), desiderasse mettersi in casa giusto l’indispensabile del Thompson. Senza contare i Fairport, eh? E però ci sono quei tre, quattro, cinque, sei titoli che egualmente resterebbero consigliabili a chi volesse appena appena approfondire e per non citarne che uno: come può una qualsiasi basilare, basilarissima collezione di rock fare a meno di “I Want To See The Bright Lights Tonight”? Pubblicato nel 1974 e primo di sei LP dei quali il Nostro divise la titolarità con l’allora moglie Linda.

Dallo scorso 21 giugno è in circolazione un quarto cofanetto di Richard (“Featuring Linda”, si dichiara correttamente quanto ammiccantemente), un “Live At The BBC” (Universal) composto (si noti bene: senza sovrapposizioni) da tre CD e un DVD, testimonianze più stagionate del gennaio ’73, più recenti del gennaio 2009. A chi raccomandarlo, oltre che al cultore di stretta osservanza? A tutti quelli che non possiedono tutto quanto ha dato alle stampe Richard Thompson ma una decina di centimetri di scaffale occupati dalle sue opere nondimeno li vantano. A chi non si precipita ad acquistare o a ordinare (dal ’95 sussiste una produzione parallela a quella principale di lavori disponibili solo sul sito dell’artista) ogni nuova uscita ma invariabilmente si porta a casa qualunque articolo gli passi fra le mani a buon mercato. Basta che abbia prima ben presente che, rispetto a una discografia in studio in cui (fanno eccezione nella quasi quarantennale saga appena un paio di episodi) i brani elettrici costituiscono una netta maggioranza, qui il programma è viceversa sbilanciato verso l’unplugged e per di più alone. Da metà del secondo dischetto in poi il Nostro è sempre solo, benché non necessariamente con un’acustica a tracolla, e per il fruitore non di madre lingua l’ascolto può farsi alla lunga ostico. Ci si diverte parecchio di più in una prima parte di scaletta stupendamente varia e spumeggiante. Tutto un primo CD (incisioni dal ’73 all’82) in cui Linda è sovente mattatrice e si passa da una The Little Beggar Girl favolistica al rock-blues a un centimetro dall’hard di Back Street Slide, da un medley medioevaleggiante alla cantilena rock’n’roll Hokey Pokey, da una I’m Turning Off A Memory evidentemente in scia a The Band a una New Fangled Flogging Reel/Kerry Reel chiaramente in anticipo sui Pogues. Ma a sorprendere chi del nostro uomo oltre ai Fairport Convention conosce solo i primi lavori con Linda sarà una prima metà di secondo disco che ricorda come a un certo punto flirtò un tot con certa new wave, ammesso che a tale voce si possano iscrivere un Elvis Costello o un Nick Lowe e allora (primi anni ’80) lo si faceva. Un mistero come non siano stati almeno dei piccoli hit brani semplicemente irresistibili quali She Twists The Knife Again, You Don’t Say, When The Spell Is Broken, Fire In The Engine Room. Per non dire di una Valerie degna dei migliori Los Lobos o di una Wall Of Death perfettamente mediana fra i Byrds e il Sir Douglas Quintet. Gemme da non farsi mancare, in queste o in altre versioni.

Naturalmente non paragonabile allo stupefacente volume di ben 168 pagine incluso in “The Life And Music Of”, il libretto di “Live At The BBC” svolge assai bene (sorvolando su due refusi imbarazzanti) il duplice compito di illustrare il prodotto e insieme una cifra stilistica che tre CD e un DVD non bastano a esaurire. Particolarmente illuminante che l’estensore Mick Houghton sottolinei come Richard Thompson non affrontò la prova del fuoco delle esibizioni nei folk club che dopo avere lasciato i Fairport. Sempre intesi da lui come una rock band, il che fa guardare alla loro vicenda da una prospettiva inusuale.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.686, settembre 2011.

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Il romanzo tragico e la voce prodigiosa di Jackie Wilson

Jackie Wilson moriva un 21 gennaio, quello del 1984. Non aveva che quarantanove anni, ma già da nove viveva una vita di quelle che ti fanno desiderare la morte. Chissà quanto consapevole di essere in un certo qual senso immortale.

Jackie Wilson

Vita sfortunata (sebbene con l’immortalità come approdo) e incredibile, quella di Jackie Wilson, e ancora più incredibile è che Hollywood non ne abbia ancora tratto un film per il quale il materiale sarebbe persino troppo: da una prima giovinezza divisa fra il tirar di boxe ad alto livello (la musica sottrasse un campione a quell’altra nobile arte) e l’idolatria per un cantante alla sostituzione di quello stesso cantante nel complesso di cui era la vedette, da un principio di carriera solistica travolgente – isteriche le reazioni del pubblico e in particolare di quello femminile, culminate nel 1961 in un celebre incidente: preso a pistolettate da un’ammiratrice, Wilson restava in coma per venti giorni – a un drammatico declino di popolarità. E poi, quando pareva che una rinascita fosse alle porte, il collasso nel 1975 durante un concerto che lo precipitava in un secondo coma durato mesi, dai cui nefasti effetti non si sarebbe mai completamente ripreso. Riacquistava la parola solo nel 1983 e il 21 gennaio dell’anno dopo moriva, non ancora cinquantenne. Che beffa crudele per lui e per il mondo che quella voce prodigiosa, capace di redimere o quasi la canzonetta più banale e pesantemente orchestrata, sia stata la prima ad andarsene, di molto anticipandolo.

L’altra grande tragedia della vita di Jackie Wilson, che lasciava il pugilato nel 1952, nel 1953 veniva chiamato a rimpiazzare Clyde McPhatter nei Dominoes e nel 1956 si metteva in proprio, subito baciato da un successo che toccava l’apice nel 1958 con i quattro milioni di copie venduti da Lonely Teardrops, è che assai raramente i dischi (mai un LP e dire che ne pubblicò a decine) sono stati all’altezza di una presenza scenica almeno pari a quella di tal James Brown (altro boxeur: qualcosa dovevano avere imparato al riguardo sul ring) e di una voce dall’estensione eccezionale, adatta al più spigliato dei ballabili come alla più seducente delle ballate. Ricadono quasi tutti nella prima categoria i brani che meglio si sono conservati e che al nostro orecchio con poca pazienza per gli arrangiamenti debordanti giustificano una reputazione ulteriormente eternata da omaggi come quello memorabile di Van Morrison (Jackie Wilson Said, su “Saint Dominic’s Preview”, 1972): da Reet Petite, affettuosa parodia dell’Elvis più sfrenato redatta da Berry Gordy nel 1957 (i proventi mattoncino d’angolo dell’edificio che si chiamerà Motown), al doo wop’n’roll di I’ll Be Satisfied del 1959, dal bluesone Doggin’ Around del 1960 all’impossibilmente esuberante Your Love Keeps Lifting Me (Higher And Higher) del 1967, cioè di quando già la china si era fatta discendente. Senza nulla togliere al romanticismo di strada di Lonely Teardrops, a una serenatona quale To Be Loved, all’alata Whispers (Gettin’ Louder), a una I Get The Sweetest Feelin’ preconizzante il Philly Sound e non a caso cofirmata da Van McCoy. Splendide canzoni che si apprezzano più in un’antologia ben congegnata che in un album (diversi sono stati ristampati in digitale con l’attraente formula del due su uno), in cui si perdono fra altre simili ma di valore inferiore, troppo pop (più che bianco in candeggina) e persino qualche escursione simil-operistica: versione minore e fuori tempo massimo di Nat King Cole o, se preferite, un Sam Cooke intrappolato per sempre e con un repertorio non all’altezza al Copacabana.

Pubblicato per la prima volta in Soul e Rhythm & Blues – I classici, Giunti, 2004.

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The United States Of America – The United States Of America (Esoteric)

The United States Of America - The United States Of America

Invecchiato benissimo, cioè per nulla, l’unico album pubblicato dagli United States Of America appartiene appieno al suo tempo – un 1968 in ogni senso rivoluzionario nel caso della compagine californiana – ma come un UFO atterrato senza che nessuno lo attendesse e ripartito senza essere stato notato che da sparuti eletti. Numero 181 nella classifica di “Billboard”, dieci posizioni più giù di quei Velvet Underground con i quali Joe Byrd e litigiosa compagnia per poco non si trovavano a spartire la voce di Nico che, propostasi, veniva bocciata. Ad anni dallo scioglimento ad accomunarli ai Newyorkesi saranno anche i tardivi riconoscimenti per l’esplorazione di luoghi che per primi misero sulle mappe del rock e che poi in mille abbiano seguito la lezione di Lou Reed e molti meno – ma tutti grandi: Portishead, Broadcast, Radiohead – abbiano detto di rifarsi a quella di Byrd è un altro discorso. Prodotto di infiniti travagli “The United States Of America” (per decenni gli artefici non si rivolgeranno più la parola), ma all’ascolto mai lo si intuirebbe. Disco per lunghi tratti incantato e incantevole, anticipatore di trent’anni del post-rock nella rinuncia alle chitarre e latore di un avant-pop fra il più sublime di sempre, armonioso ciclo musical/narrativo perfettamente racchiuso fra lo storto vaudeville di The American Metaphysical Circus e una The American Way Of Love a uno psichedelico incrocio fra i Beatles pepperiani e i Kaleidoscope etnici. Sapientissimo il gioco di vuoti e pieni, l’alternarsi di tensione e rilascio.

Questa ristampa Esoteric arriva a un decennio da una su Sundazed della quale ricalca la scaletta aggiungendo alle dieci tracce originali dieci bonus che in realtà nulla aggiungono di essenziale. Comunque manna per i cultori.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.358, dicembre 2014.

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People Funny Boy – Quel genio mattoide di Lee Scratch Perry

Settantanove anni il prossimo 20 marzo, Lee Scratch Perry ancora gira il mondo facendo concerti e si dà il caso che giusto in questi giorni sia in Italia (ieri era a Lecce, stasera sarà a Torino). Mi è parsa una buona scusa per ripescare un breve articolo che gli dedicai nel 2005. Uno moooooooolto più lungo che scrissi per un “Blow Up” ai primi passi è da parte fra le cose che prima o poi recupererò in volume.

Lee Scratch Perry

È una delle definizioni migliori ch’io abbia mai letto di Perry. In uno dei lunghi saggi che, con dettagliati commenti a ciascuna delle ottantatré tracce che raduna in quattro CD, sfilano nelle quarantotto pagine di un libretto anche iconograficamente da urlo (sempre discutibili per come si rivendono a oltranza il ricco catalogo, alla Trojan hanno finalmente imparato a presentarlo perlomeno come si deve), Lol Bell-Brown così inquadra il genio per antonomasia della battuta in levare: “Una sorta di Syd Barrett dei Caraibi, Sun Ra, George Clinton e Johnny Rotten in una persona sola, uno Gnostico spassoso e deliziosamente fumato”. Diverse pagine prima Jeremy Collingwood – addirittura tre gli esperti, essendo il terzo Chris Lane, chiamati a organizzare e commentare il box nuovo di pacca “I Am The Upsetter: The Story Of The Lee Scratch Perry Golden Years” – in maniera meno pittoresca così lo inquadra: “un originale, un autentico innovatore”. Perché sarà pure vero che, checché ne dica il diretto interessato, Lee Perry non ha inventato il reggae, ma People Funny Boy resta una delle primissime canzoni cui l’etichetta possa essere applicata. E se non fu sicuramente lui a scoprire Bob Marley e i Wailers (quandomai! avevano già quei trenta singoli in discografia) altrettanto per certo fu il primo che li valorizzò adeguatamente (vedi pagine delle recensioni in questo stesso numero). Ancora: una millanteria (una delle mille di un uomo che prima di tirar su i leggendari Black Ark scriveva nei crediti dei suoi dischi di averli registrati in uno studio che non esisteva) quella che vuole che “Blackboard Jungle” sia il primo album di dub (quando lo stesso Perry qualche mese prima aveva dato alle stampe “Cloak & Dagger”), nondimeno è indiscutibile che del dub il nostro uomo sia stato fra gli inventori e i massimi declinatori. Gli possono essere attribuiti anche alcuni dei primi esempi di “campionamento” e fanno fede in questo cofanetto, per dire, l’ilare e lunare Cow Thief Skank, con muggiti e tre ritmi già usati rimontati a farne un quarto nuovo, e una Kojak con TV in sottofondo.

A proposito di riciclaggio, ecologica usanza che l’industria discografica giamaicana ha elevato sin dai primordi ad arte accostandola a un’altra pratica, quella del furto “creativo”: un campionissimo “Scratch” e in “I Am The Upsetter” ne troverete prove a bizzeffe, da basi che fanno capolino più volte (già sentita Back Biter? certo, è People Funny Boy) a squisite appropriazioni indebite. Una Clint Eastwood ricalcata su Yakety Yak dei Coasters, una Medical Operation che echeggia Sophisticated Sissy dei Meters, una Rebel Train che è la giamaicanizzazione di Sound Of Philadelphia di MSFB, Woman Gotta Have Love che è The Poet di Bobby Womack e così via. Un… ladro? Un genio (Oscar Wilde insegna) che, non lontano dai settant’anni, si gode dal buon ritiro svizzero la reverenza del mondo e, si spera, qualche soldo, visto che l’enorme repertorio (fra dischi in proprio e produzioni per altri, c’è chi ha calcolato nella stupefacente cifra di millecinquecento uscite il suo catalogo complessivo in vinile) da un decennio in qua è stato riciclato a iosa.

Insomma: se siete curiosi e di lui in casa avete poco, quasi niente, magari giusto quel capolavoro tardo (1987) che è “Time Boom X De Devil Dead”, realizzato in scontrosa collaborazione con il discepolo Adrian Sherwood e da noi inserito fra i cinquecento dischi fondamentali di “Extra”, siete nei guai e ve lo dice uno che, prima di cominciare a ricevere in omaggio una marea di CD del Nostro (favolosa la serie di quattro doppi “Complete UK Upsetter Singles Collection”), si era comprato alcune decine di album in vinile e da lungi di questa collezione ha perso il controllo, fra titoli che ritornano e altri che nonostante tutto seguitano a mancare. Ma – ehi! – stiamo parlando di uno che la generazione che non voleva avere idoli, quella del punk, idolatrò: per Lydon un Dio e i Clash lo vollero a tutti i costi per Complete Control. Di uno che anche i Talking Heads e Paul McCartney avrebbero voluto come produttore, ma loro non ci riuscirono. Di uno cui i Beastie Boys dedicarono un numero monografico della fanza “Grand Royal”. “Time Boom” non basta e allora, come approccio per il principiante poco meno che assoluto, “I Am The Upsetter” è quasi l’ideale. Partenza con la canzone omonima, un classico del rocksteady, mordace attacco a Coxsone Dodd, il primo ma non l’ultimo dei datori di lavoro di Perry a venire spernacchiati, e approdo – cinque ore dopo – con le impossibili dilatazioni dub nutrite a funk e jazz di Huzza Hana. Equilibrato assemblaggio cronologico di brani storici (eccola lì People Funny Boy e a seguire i mitici strumentali di ispirazione western, l’apparizione alla ribalta di U-Roy, qualcosa con i Wailers, i ricalchi soul, i primi esperimenti dub e così via) e imperdibili rarità, è appunto “quasi” l’ideale. Unitegli il triplo Island “Arkology” (altra delizia illustratavi in “Extra”) e potete accontentarvi. Per ora.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.611, giugno 2005.

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