Archivi del mese: settembre 2023

Ben Harper – Wide Open Light (Chrysalis)

Ha sempre fatto trascorrere al più un paio di anni fra un suo album e quello dopo, Ben Harper, ma stavolta si è superato. Il precedente “Bloodline Maintenance” vedeva la luce il 22 luglio 2022, questo seguito è arrivato nei negozi lo scorso 2 giugno. Si potrebbe ragionevolmente ipotizzare che un artista la cui dote migliore è sempre stata la scrittura, certo non l’originalità (affollato un pantheon di eroi che dagli Zeppelin arriva a Bob Marley passando per Robert Johnson, John Lee Hooker, Jimi Hendrix, John Lennon, Van Morrison, Curtis Mayfield, Marvin Gaye; spesso in bilico fra demonio e santità il nostro uomo, come certificano un disco in collaborazione con Charlie Musselwhite e due con i Blind Boys Of Alabama), stia vivendo un periodo di particolare urgenza creativa. Invece c’è il trucco: parecchi degli undici brani, la gran parte, che sfilano in “Wide Open Light” giacevano in metaforici cassetti senza mai essere stati incisi quale da qualche anno, taluni da decenni. Scarti? No. È che quando vennero composti parevano non adattarsi agli album cui stava lavorando l’autore. Che, stando a quanto racconta, con stupore recuperandoli quasi per caso si è reso conto che fra loro in qualche modo si parlavano, che come un filo invisibile sembrava unirli.

Può spiazzare a cinquantatré anni e al diciassettesimo disco in studio uno che originale non è mai stato? Ebbene sì: è il suo album più cantautorale e scarno di sempre, solo un florilegio di chitarre (occasionalmente una tastiera; il basso si sente poco, la batteria quasi mai) a sostenere la voce. Seconda sorpresa: un paio di tracce, forse le più belle, Yard Sale e Growing Growing Gone, rimandano a Townes Van Zandt. Non se ne ricordano di simili nel catalogo del Nostro.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.455, agosto 2023.

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Van Morrison dai Them a “Astral Weeks”

Non ci si crede a tutto quello che ha combinato George Ivan Morrison nei ventitré anni e ventiquattro giorni che separano la sua nascita in quel di Bloomfield, Belfast Est, il 31 agosto 1945 dall’appuntamento il 25 settembre 1968 presso gli studi Century Sound sulla Cinquantaduesima Strada Ovest di New York, probabilmente la migliore sala d’incisione cittadina, con il produttore Lewis Merenstein e alcuni musicisti jazz dei quali non conosce che i nomi. Dopo una serie infinita di complessini amatoriali, il primo dei quali fondato alla tenera età di dodici anni (duplice segno dei tempi che suonino skiffle e si chiamino Sputniks), a malapena diciassettenne ha girato l’Europa cantando, suonando chitarra, armonica e sassofono alla testa di tali Monarchs, con i quali ha pure esordito discograficamente, diciottenne, con un singolo che, registrato in Germania e uscito solo lì, ha fatto capolino nelle zone più basse delle classifiche locali. Tornato a casa e dopo un paio di passaggi a vuoto, nell’aprile ’64 si è unito per un ingaggio al Maritime Hotel, un club discretamente malfamato frequentato da marinai, a una compagnia di altri ragazzini in pista da due anni come Gamblers, ne ha assunto la guida e li ha ribattezzati Them. Incredibilmente complicata per non essere durata che due anni e due mesi, la storia dei Them è quella di un gruppo di punk ante litteram che aggrediscono il blues e il soul con una foga tale da trasfigurarli in garage, del garage disegnano con Gloria l’inno definitivo (e con I Can Only Give You Everything uno di quelli di riserva) e, prima di congedarsi, si producono in una It’s All Over Now, Baby Blue che sta all’originale di Dylan quasi come starà al suo modello la All Along The Watchtower di Hendrix. Lasciatili (non prima di avere incrociato l’omonimo Jim e avergli insegnato un trucco o due) a destini psichedelici e non più di classifica, marginali e però di culto (una ben curiosa seconda esistenza), Van si è stabilito nella Big Apple, ha firmato un contratto da solista per la Bang Records e se n’è immediatamente pentito.

Fatto è che della Bang è proprietario un altro genio rissoso quale Bert Berns, ebreo nuovayorkese di ascendenze russe allora trentasettenne, produttore e soprattutto autore con all’attivo una serie di canzoni classiche da inginocchiarsi mentre se ne sgrana il rosario: Twist And Shout, Here Comes The Night (scritta proprio per i Them), Everybody Needs Somebody To Love, Cry Baby, Piece Of My Heart, per limitarsi a cinque che non posso pensare che ci sia un lettore che non le conosca tutte. Il problema principale fra questi due negri dentro è che uno ragiona ancora in termini di sette pollici, il secondo è proiettato nell’era dell’album. Paradossale che i ruoli si invertano quando, avendo registrato nel marzo ’67 otto brani in previsione della pubblicazione di quattro singoli, Van scopre per puro caso che Bert li ha radunati in un LP, lo ha intitolato “Blowin’ Your Mind” e lo ha spedito nei negozi, fra l’altro alloggiato in una terribile copertina pseudo-psichedelica. Come è naturale che sia, si infuria, ma è innanzitutto con se stesso che dovrebbe prendersela, avendo sottoscritto senza leggerlo con attenzione un accordo che dà al discografico diritti di vita e di morte sul cantante, o poco meno. Parrebbe meno logico che se la prenda pure quando Brown Eyed Girl comincia a scalare le graduatorie di vendita dei 45 giri, fino a entrare nei Top 10 USA, ma un senso – e duplice – c’è: per un verso lo infastidisce che un successo che oltrepassa, e di gran lunga, le migliori performance americane dei Them lo collochi in un mercato adolescenziale quando è da artista adulto che vorrebbe proporsi; per un altro aggiunge beffa al danno che, sempre per via del contratto summenzionato, vendite imponenti non gli fruttino che spiccioli. I due si affrontano a muso duro a più riprese e sono gare di urla dalle quali Morrison esce vincitore per K.O. quando il 30 dicembre 1967 un infarto stronca Berns, tragedia che la vedova Eileen imputerà proprio a quei litigi. Vendicativa, proverà a imporgli il rispetto di un contratto che ha ereditato e prevede ancora un’infinità di obblighi, ma inizierà ad alzare le mani in segno di resa quando il Nostro le consegnerà un nastro di trentasei minuti con dentro le trentadue “canzoni” che in teoria le dovrebbe.

Sono mesi tristi, incerti e irosi. Van ha scoperto di detestare New York (dove fra l’altro dopo l’affaire Berns non vi è proprietario di club che sia disponibile a farlo suonare) e si è trasferito nel Massachusetts, nella cittadina universitaria di Cambridge. Non ne placa le ansie, non ne sconfigge la depressione la compagnia dell’incantevole Janet Planet, musa e pure moglie dopo che Eileen ha provato a fargli ritirare il permesso di lavoro negli Stati Uniti, con il rischio di un conseguente rimpatrio forzoso nell’Ulster. Beve smodatamente e i dj delle radio locali si abitueranno presto alla voce ubriaca che, alle ore più improbabili della notte, telefona chiedendo oscure facciate di blues. Se ne esce pian piano, mettendo insieme una band elettrica e subito disfandola, cominciando a girare per bar ma non più soltanto per stordirsi, in duo con il contrabbassista Tom Kilbania, suonando acustico, magari senza avere il nome in cartellone dopo avere abitato per due anni il rock stardom. Al Catacombs di Boston, locale il cui palco ha ospitato a più riprese i Velvet Underground (ai Century Sound il Nostro incrocerà John Cale, al lavoro nella sala a fianco) ai due si unisce il flautista John Payne e quella che avrebbe dovuto essere giusto una jam si trasforma in sodalizio stabile. L’intesa è affinata in una settimana di esibizioni gratuite (ed è un modo per aggirare l’embargo) a New York, allo Steve Paul’s Scene, di spalla a Tim Hardin. Arduo affermarlo con certezza, ma a questo punto le canzoni che finiranno in “Astral Weeks” dovrebbero essere tutte in repertorio, sebbene in forme lontane da quelle che assumeranno.

Incastri che vanno al loro posto… A mettere un punto e a capo all’era Berns è una vecchia conoscenza di Berns stesso, Bob Schwald. Veterano del Brill Building, proprio approfittando dell’antica consuetudine con il defunto può impegnarsi nella trattativa con la vedova per liberare Morrison dal contratto capestro, nel mentre discute con Joe Smith il contestuale passaggio alla Warner e sarà un matrimonio quindicennale e stavolta felice. Ed è sempre Schwald ad arruolare come produttore Merenstein. Abituato a lavorare con leggende del jazz del livello di un Thelonious Monk o un Art Farmer, molto colpito da alcuni spettacoli cui ha assistito, costui a sua volta (con buona pace di Kilbania, che esce di scena) convoca il bassista Richard Davis, turnista con un curriculum impressionante che include da Sarah Vaughan a Eric Dolphy, passando per Thad Jones e Mel Lewis, e gli affida come primo compito quello di scegliere lui i musicisti che completeranno il gruppo. Sono il chitarrista Jay Berliner, il percussionista e vibrafonista Warren Smith Jr. e Connie Kay, batterista del Modern Jazz Quartet. Più l’arrangiatore Larry Fallon, che non interverrà in prima battuta ma giocherà in ogni caso un ruolo chiave cucendo a posteriori raffinatissime sopravesti di archi e fiati.

Berliner ha suonato jazz con il Charles Mingus del capitale “The Black Saint And The Sinner Lady”, folk-pop con l’Harry Belafonte di un al pari cruciale nel suo ambito “The Many Moods Of”. Sarà lui a fungere da ufficiale di collegamento fra mondi. Quando quarant’anni dopo deciderà di portare infine “Astral Weeks” in tour, dei musicisti originali Van Morrison richiamerà solamente lui.

Tratto da “Posseduto – Il Van Morrison di ‘Astral Weeks’”. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.180, maggio 2013. Ristampato in Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015.

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Audio Review n.456

È in edicola “Audio Review” di settembre. Include mie recensioni dei nuovi album di Boo Radleys, Grian Chatten, Lloyd Cole, Foo Fighters, Jason Isbell & The 400 Unit, Bettye LaVette, Lemon Twigs, Blake Mills, Pere Ubu, Brigid Mae Power, Smokey Robinson, Selecter, Sigur Rós, Squid e M. Ward. Nella rubrica del vinile celebro il genio tormentato di Bill Evans.

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The Damned – Darkadelic (Ear Music)

Primo gruppo del punk britannico a esordire sia a 45 giri che a 33, ad andare in tour negli USA, a dirsi addio e a rimettersi insieme e tutto questo dall’ottobre 1976 al tardo autunno ’78, non avessero dato alle stampe che New Rose e “Damned Damned Damned” i nostri eroi (il leader era Brian James, che a conti fatti delle oltre due dozzine di musicisti transitati per le fila della band è uno di quelli che ci ha trascorso meno tempo; da lì in poi sarà Dave Vanian) apparterrebbero comunque alla storia maggiore del rock. Sono invece ostinatamente andati avanti, sciogliendosi e riformandosi immediatamente dopo un numero infinito di volte (né si contano i tour “di addio”), e appartengono ancora alla sua attualità. Ogni tanto pubblicano un album in studio (questo è il dodicesimo, quarto nel nuovo secolo) e immancabilmente qualche frescone fermo al ’77 si stupisce che di punk ci sia poco o nulla. Eccetto lo spirito, quello sì. Cosa poteva esserci di più anticonformista e dunque punk rispetto a un punk subito diventato “the new normal” che farsi produrre in pieno 1977 un LP da uno dei Pink Floyd, ossia il complesso della vecchia guardia più detestato dai giovani ribelli o presunti tali? E pazienza se “Music For Pleasure” non soddisfò né i ragazzi né Nick Mason.

“Darkadelic” è sorta di summa di un canone cui da subito concorse il beat (retro di New Rose una cover di Help! dei Beatles) e che si arricchiva via via con robusti apporti di garage, glam, pop, psichedelia e persino progressive, un’attitudine gotica ad amalgamare il tutto. Nei frangenti migliori va a posizionarsi a un incrocio su cui convergono Paul Roland, Who e Cult, nei peggiori finisce in zona “Rocky Horror Picture Show”. Ma ai Damned si perdona tutto.

Pubblicato su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Robyn Hitchcock – Life After Infinity (Tiny Ghost)

Di già? Il ventitreesimo album da solista di Robyn Hitchcock vede la luce ad appena sei mesi da un predecessore che si era fatto invece attendere ben cinque anni. Ma non è questa prossimità temporale insolita per un artista fresco di settantesimo compleanno a stupire di “Life After Infinity”, del quale pure si può escludere che raccolga brani che erano rimasti fuori da “Shufflemania!” giacché a quel disco aveva contribuito una piccola folla di ospiti illustri (Johnny Marr, Sean Ono Lennon, Kelley Stoltz, Brendan Benson…) e in questo il titolare si è fatto dare una mano soltanto dal bassista e percussionista Charlie Francis, procedendo per il resto a (sovra)incidere tutto da sé. È che ove il lavoro prima si porgeva come “un bignami di quasi ogni Hitchcock ascoltato dacché si affacciava alla ribalta nel 1977 alla testa di quei Soft Boys che nell’anno del punk coniugavano energia garage e un afflato lisergico” questo rappresenta una clamorosa, assoluta novità: collezione di undici brani solo strumentali, probabilmente più di quelli disseminati a oggi nell’intero catalogo di questo grande eccentrico (più Syd Barrett che Julian Cope, musicalmente) del pop britannico.

È una signora sfida che vince in scioltezza sin dai 5’06” (il pezzo più lungo) del lento raga collocato in apertura The Eyes In The Vine. Un’influenza, quella della musica indiana, che tornerà quasi subito – nella terza traccia, la rarefatta e fosca Plesiosaurs In The Desert – per poi lasciare la ribalta principalmente ad arazzi di corde che, mediani fra John Fahey e Bert Jansch, ci rammentano come costui sia anche un chitarrista coi fiocchi. Lo ribadisce in maniera affatto differente l’elettrica Veronica’s Chapel, guizzantemente quicksilveriana.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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