Ricorre oggi il sesto anniversario della non inattesa, e nondimeno lo stesso prematura, scomparsa del Cool Ruler. A uccidere un uomo già debilitato dai troppi anni di dipendenza dalla cocaina era un tumore ai polmoni.
“Sono stato offerto in sacrificio per costruire/l’inferno dell’uomo nero/nel paradiso dell’uomo bianco/ma ora che ne sono consapevole/oh Signore, è tempo che io vada/sebbene il riscatto appaia così doloroso/e lento, lento, lento” (Sacrifice)
Sarà che l’ultradecennale decadenza, indotta fra l’altro dall’abuso di cocaina che ne ha rovinato la splendida voce, ne ha sbiadito il fascino, relegandolo nell’ade di coloro che furono grandi e sono adesso ombra di se stessi; sarà che quando assurse a fama universale, nell’ultimo periodo (gli ’80) in cui era possibile tagliare tale traguardo declinando reggae, la sua immagine era quella del Cool Ruler, amante elegante e un po’ tenebroso: fatto sta che la ricomparsa nei negozi, dopo anni di assoluta irreperibilità e in una spettacolare versione estesa approntata dai benemeriti della Blood & Fire, di quello che fu il suo quarto LP (il primo concepito come tale, non come raccolta di singoli) induce a riconsiderare globalmente la figura di Gregory Isaacs. Memento non solo di un talento di primissima schiera ma del suo sapersi un tempo destreggiare fra inni di consapevolezza oltre che fra serenate irresistibilmente ammiccanti. Tant’è che in una discografia assai cospicua (svariate decine di album) ma sommamente irregolare (sono pochi, anche nei periodi buoni, quelli di livello uniformemente alto), “Mr. Isaacs” si propone come uno dei capolavori del Nostro, essendo gli altri i forse più rappresentativi e immancabili “Night Nurse” e “Red Roses For Gregory”. Il primo dell’82, l’altro dell’88. “Mr. Isaacs” è invece una faccenda datata 1977.
Aveva ventisei anni all’epoca, il nostro uomo, e già un brillante futuro alle spalle. Come è nella tradizione della musica giamaicana gli esordi erano stati precoci. Debuttava a 45 giri diciottenne, nel 1969, con una canzone che già nel titolo, Another Heartache, annunciava quella che sarebbe stata la sua specialità: il lamento amoroso che nel mentre fintamente autocommisera in realtà è strumento di conquista. Un insuccesso. E altri ce ne saranno, prima di un’ininterrotta sfilata di hit durata un quindicennio e inaugurata nel 1973 da All I Have Is Love. Il lustro a seguire è marchiato da un intreccio di collaborazioni con la crema dei produttori e dei turnisti dell’isola, da Phil Pratt a Clive Chin, da Niney The Observer a Joe Giggs, da Alvin “GG” Ranglin a Lee “Scratch” Perry. Trionfo va dietro a trionfo: Lonely Soldier, Innocent People Cry, Love Is Overdue, Sunshine For Me, Babylon Too Rough. E ancora: My Religion, Coming Home, Beautiful Africa, Mr. Cop, Black A Kill Black, Rasta Business. Semplice elenco che basta a far comprendere come al giro di boa dei ’70 l’accento si sposti, seppure momentaneamente, dal corteggiamento dell’altro sesso a quello di un ideale di giustizia. “Mr. Isaacs” sarà l’apice e la conclusione del processo.
Fondamentale per la sua riuscita l’apporto di Oswald “Ossie” Hibbert, coetaneo di Gregory e forgiatore di ritmi ciascuno dei quali ha fornito l’ossatura a innumerevoli canzoni, oltre che uno dei primi a padroneggiare la rivoluzionaria tecnica del dub. Già evidente nella stampa primeva, risalta ancora maggiormente nell’edizione Blood & Fire che aggiunge cinque brani in cui prevalgono dilatazioni di notevole capacità mesmerica. Hibbert leviga senza debilitare, allarga le maglie senza far perdere in coesione. Il contrario! Di suo Isaacs mette una scrittura ispiratissima, il gusto per l’immediatezza melodica e una voce immensamente seducente, pure quando canta di povertà e dell’orrore della discriminazione. Apre Sacrifice, denuncia pungente e insieme tripudio pop. Diresti subito insuperabile e invece no, dacché il gioco di chiamata e risposta fra organo e fiati della successiva Storm va un passo più in là. La prima cover, Story Book Children, a firma William Bell/Judy Clay, sottolinea un amore viscerale per il soul ribadito nel procedere dal classico dei Temptations Get Ready. Bellissime anche le altre due canzoni altrui, Smile dei Silvertones e Conversation di Slim Smith, capisaldi della battuta in levare propulsi, rispettivamente, da tastiere petulanti e cori femminili da levitazione. Alla prima (la seconda è una delle bonus tracks) toccava in origine l’incarico di salutare gli astanti. L’invocazione “dance! dance to the music” è l’unica concessione all’edonismo di una scaletta tutta a muso duro. Apoteosi: l’invocazione avvolta di ottoni di Set The Captives Free. Se non riuscirà a conquistarvi non c’è nulla ch’io possa aggiungere per persuadervi che è questo un disco che, se provate per il reggae un interesse appena più che occasionale, è imprescindibile.
Gli anni seguenti vedranno Gregory Isaacs cedere alla tentazione di un repertorio volto pressoché esclusivamente alla pratica del corteggiamento. Almeno quando i risultati saranno quelli dei due album dianzi citati (all’elenco si possono aggiungere tranquillamente “Lonely Lover” e “More Gregory”, primo e secondo atto della collaborazione con i Roots Radics chiusa da “Night Nurse”; e anche il “Live At The Academy Brixton”), non ci sarà di che lamentarsi. Dei suoi anni ’80 va applaudita la capacità di passare senza cesure dal suono roots che lo aveva imposto all’ipnotica dolcezza, progressivamente digitalizzata, della dancehall.
Tutti da dimenticare i ’90, segnati da dischi mediocri, schiavitù da sostanze e pure quattro arresti. Un uomo che una volta avresti detto, invece, inarrestabile.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.438, 17 aprile 2001.