Archivi del mese: ottobre 2016

Fra consapevolezza e seduzione: l’era aurea di Gregory Isaacs

Ricorre oggi il sesto anniversario della non inattesa, e nondimeno lo stesso prematura, scomparsa del Cool Ruler. A uccidere un uomo già debilitato dai troppi anni di dipendenza dalla cocaina era un tumore ai polmoni.

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Sono stato offerto in sacrificio per costruire/l’inferno dell’uomo nero/nel paradiso dell’uomo bianco/ma ora che ne sono consapevole/oh Signore, è tempo che io vada/sebbene il riscatto appaia così doloroso/e lento, lento, lento” (Sacrifice)

Sarà che l’ultradecennale decadenza, indotta fra l’altro dall’abuso di cocaina che ne ha rovinato la splendida voce, ne ha sbiadito il fascino, relegandolo nell’ade di coloro che furono grandi e sono adesso ombra di se stessi; sarà che quando assurse a fama universale, nell’ultimo periodo (gli ’80) in cui era possibile tagliare tale traguardo declinando reggae, la sua immagine era quella del Cool Ruler, amante elegante e un po’ tenebroso: fatto sta che la ricomparsa nei negozi, dopo anni di assoluta irreperibilità e in una spettacolare versione estesa approntata dai benemeriti della Blood & Fire, di quello che fu il suo quarto LP (il primo concepito come tale, non come raccolta di singoli) induce a riconsiderare globalmente la figura di Gregory Isaacs. Memento non solo di un talento di primissima schiera ma del suo sapersi un tempo destreggiare fra inni di consapevolezza oltre che fra serenate irresistibilmente ammiccanti. Tant’è che in una discografia assai cospicua (svariate decine di album) ma sommamente irregolare (sono pochi, anche nei periodi buoni, quelli di livello uniformemente alto), “Mr. Isaacs” si propone come uno dei capolavori del Nostro, essendo gli altri i forse più rappresentativi e immancabili “Night Nurse” e “Red Roses For Gregory”. Il primo dell’82, l’altro dell’88. “Mr. Isaacs” è invece una faccenda datata 1977.

Aveva ventisei anni all’epoca, il nostro uomo, e già un brillante futuro alle spalle. Come è nella tradizione della musica giamaicana gli esordi erano stati precoci. Debuttava a 45 giri diciottenne, nel 1969, con una canzone che già nel titolo, Another Heartache, annunciava quella che sarebbe stata la sua specialità: il lamento amoroso che nel mentre fintamente autocommisera in realtà è strumento di conquista. Un insuccesso. E altri ce ne saranno, prima di un’ininterrotta sfilata di hit durata un quindicennio e inaugurata nel 1973 da All I Have Is Love. Il lustro a seguire è marchiato da un intreccio di collaborazioni con la crema dei produttori e dei turnisti dell’isola, da Phil Pratt a Clive Chin, da Niney The Observer a Joe Giggs, da Alvin “GG” Ranglin a Lee “Scratch” Perry. Trionfo va dietro a trionfo: Lonely Soldier, Innocent People Cry, Love Is Overdue, Sunshine For Me, Babylon Too Rough. E ancora: My Religion, Coming Home, Beautiful Africa, Mr. Cop, Black A Kill Black, Rasta Business. Semplice elenco che basta a far comprendere come al giro di boa dei ’70 l’accento si sposti, seppure momentaneamente, dal corteggiamento dell’altro sesso a quello di un ideale di giustizia. “Mr. Isaacs” sarà l’apice e la conclusione del processo.

Fondamentale per la sua riuscita l’apporto di Oswald “Ossie” Hibbert, coetaneo di Gregory e forgiatore di ritmi ciascuno dei quali ha fornito l’ossatura a innumerevoli canzoni, oltre che uno dei primi a padroneggiare la rivoluzionaria tecnica del dub. Già evidente nella stampa primeva, risalta ancora maggiormente nell’edizione Blood & Fire che aggiunge cinque brani in cui prevalgono dilatazioni di notevole capacità mesmerica. Hibbert leviga senza debilitare, allarga le maglie senza far perdere in coesione. Il contrario! Di suo Isaacs mette una scrittura ispiratissima, il gusto per l’immediatezza melodica e una voce immensamente seducente, pure quando canta di povertà e dell’orrore della discriminazione. Apre Sacrifice, denuncia pungente e insieme tripudio pop. Diresti subito insuperabile e invece no, dacché il gioco di chiamata e risposta fra organo e fiati della successiva Storm va un passo più in là. La prima cover, Story Book Children, a firma William Bell/Judy Clay, sottolinea un amore viscerale per il soul ribadito nel procedere dal classico dei Temptations Get Ready. Bellissime anche le altre due canzoni altrui, Smile dei Silvertones e Conversation di Slim Smith, capisaldi della battuta in levare propulsi, rispettivamente, da tastiere petulanti e cori femminili da levitazione. Alla prima (la seconda è una delle bonus tracks) toccava in origine l’incarico di salutare gli astanti. L’invocazione “dance! dance to the music” è l’unica concessione all’edonismo di una scaletta tutta a muso duro. Apoteosi: l’invocazione avvolta di ottoni di Set The Captives Free. Se non riuscirà a conquistarvi non c’è nulla ch’io possa aggiungere per persuadervi che è questo un disco che, se provate per il reggae un interesse appena più che occasionale, è imprescindibile.

Gli anni seguenti vedranno Gregory Isaacs cedere alla tentazione di un repertorio volto pressoché esclusivamente alla pratica del corteggiamento. Almeno quando i risultati saranno quelli dei due album dianzi citati (all’elenco si possono aggiungere tranquillamente “Lonely Lover” e “More Gregory”, primo e secondo atto della collaborazione con i Roots Radics chiusa da “Night Nurse”; e anche ilLive At The Academy Brixton”), non ci sarà di che lamentarsi. Dei suoi anni ’80 va applaudita la capacità di passare senza cesure dal suono roots che lo aveva imposto all’ipnotica dolcezza, progressivamente digitalizzata, della dancehall.

Tutti da dimenticare i ’90, segnati da dischi mediocri, schiavitù da sostanze e pure quattro arresti. Un uomo che una volta avresti detto, invece, inarrestabile.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.438, 17 aprile 2001.

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Il trip più glorioso dello sciamano Julian Cope

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All’osservatore che ne ha seguito – curioso, inizialmente esaltato e poi sempre più sconcertato – la carriera post-Teardrop Explodes, il Julian Cope che nel marzo 1991 pubblica il settimo lavoro da solista in altrettanti anni pare, dopo che in forte crisi di credibilità, in evidente affanno. Uno che a forza di sentirsi dare del Syd Barrett forse un altro Syd Barrett lo è diventato sul serio e purtroppo nel senso che si è perso. Ha guardato nell’abisso e l’abisso se l’è preso, senza nemmeno pagarne l’anima con qualche canzone sublime. Quale il possibile seguito dopo le sgangheratezze da acido cattivo sfiorito di “Skellington” e “Droolian”? O un ulteriore scivolare nel solipsismo, parrebbe, oppure – rimedio quasi peggiore del male – il ritorno al rock tirato a lucido, ma intimamente vuoto, dell’esecrabile per ragioni opposte “My Nation Underground”. Sia quel che sia, anche il cultore più acceso più che temere dà per scontato che sia avviato senza rimedio al declino. Resta soltanto da vedere se sarà drammatico o ridicolo, o le due cose insieme. “Peggy Suicide” spariglia come nessuno si sarebbe atteso, segna probabilmente lo zenit della vicenda artistica del Nostro – giocandosela con i primogeniti gemelli diversi “World Shut Your Mouth” e “Fried” – e inaugura oltretutto una metà di decennio semplicemente favolosa, scandita da successori quasi altrettanto fenomenali chiamati “Jehovahkill”, “Autogeddon”, “20 Mothers”. Non volerà mai più così in alto, tracciando la rotta con strategie da grande studioso del rock, lucidità da illuminato, profondità di visione da sciamano.

In quest’opera vagamente concettuale, ispirata da un sentimento di rivolta per lo scempio che l’uomo va facendo del suo pianeta e monumentale pure per dimensioni – la scaletta originale distribuisce su quattro facciate (è uno degli ultimi capolavori evidentemente concepiti in funzione del vinile) diciotto brani per un’abbondante ora e un quarto – c’è tutto il Cope che già c’era stato e quello che ci sarà. Vivono sotto lo stesso tetto in splendida comunione di amorosi sensi il melanconico pop da camera di Pristeen e Las Vegas Basement e quello impossibilmente esultante di Beautiful Love, gli struggimenti di Promised Land e la giocosa danzabilità di Soldier Blue, il post-krautrock di Head e la neo-funkadelia di The American Lite, i motorismi in salsa jazz di You… e l’Hendrix a un rave di Leperskin, l’elettrica epicità di Safesurfer e le sperimentazioni “in dub” di Hung Up & Hanging Out To Dry. La “Deluxe Edition” aggiunge un CD di remix invecchiato certo meno bene della pietra miliare cui si accompagna (si sente dal principio alla fine – qui sì – che è figlio del tempo di Madchester e di “Screamadelica”) ma nel complesso affascinante. Giusto un altro tipo di trip.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.663, ottobre 2009. Julian Cope compie oggi cinquantanove anni.

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Ciao! – Le melodie leggere e le chitarre fragorose dei Lush

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Sapendo come è andata a finire, il titolo sbarazzino scelto per questa antologia postuma degli inglesi Lush induce grande malinconia. La storia di questo quartetto misto, metà maschile e metà femminile, molto presente sui media locali nei primissimi ’90, giungeva al capolinea il 17 ottobre 1996, quando il batterista Chris Acland si toglieva la vita. Aveva alle spalle problemi sentimentali e trent’anni vissuti intensamente. Uscita di scena quanto mai intempestiva la sua, dacché i Lush avevano da pochi mesi pubblicato il loro album migliore, poco preveggentemente intitolato “Lovelife”, premiato oltretutto da buoni riscontri mercantili. Lungi dall’essere dei reduci disperatamente tesi a riciclarsi, come qualcuno scrisse all’epoca, stavano vivendo la loro stagione più ispirata.

Ne è dimostrazione eloquente “Ciao!”, che si dispone in ordine cronologico ma al contrario, sicché per seguire l’evoluzione del gruppo occorre programmare il lettore come un conto alla rovescia, da diciotto a uno. Si potrà così apprezzare come i Lush passarono dagli esangui vocalizzi su ondivaghe chitarre elettriche di esordi molto prossimi ai Cocteau Twins (Robin Guthrie fu non a caso uno dei loro primi mentori) allo scintillante punk-pop, striato di new wave e sixties-sound, delle ultime prove. C’era stata in mezzo la stagione dello shoegazing, in cui i Nostri furono coinvolti per il loro avvolgere melodie leggere in strati di frastuono chitarristico. Breve, presto spazzata via dal grunge, cui dopo un po’ rispondeva il Britpop. Ecco: i Lush vennero accusati di essersi accodati a quest’ultimo. E se anche fu? La spensieratezza beat di 500 (Shake Baby Shake) e il passo surf di Ladykillers valgano come assoluzione.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.211, marzo 2001.

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Ryley Walker – Golden Sings That Have Been Sung (Dead Oceans)

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Sulla copertina di “Primrose Green” (ero alle prese con ben altro e in dicembre non compilai playlist; ma, lo avessi fatto, sarebbe stato forse il mio disco dell’anno) Ryley Walker dichiarava come più esplicitamente non sarebbe stato possibile la più importante delle influenze fondanti quel mezzo capolavoro: il Van Morrison di “Astral Weeks”. Non occorreva andare oltre la traccia inaugurale e omonima per cogliere la seconda, Tim Buckey, e dallo splendido prosieguo emergevano con nitore altri maestri illustri: Fred Neil, i Pentangle, Davy Graham, Nick Drake, John Martyn, in tralice il Miles Davis di “Sketches Of Spain”. Naturalmente John Fahey, la cui lezione informava più prepotentemente il precedente – formativo, bello ma non così magico – “All Kinds Of You”. Ecco, se una critica si poteva muovere al predecessore di “Golden Sings That Have Been Sung” era proprio quella di un’adesione eccessivamente manifesta al canone di certo folk-rock in odore di psichedelia, all’incrocio fra ’60 e ’70. Ma può essere un peccato in questi anni retromaniaci? Dovremmo buttare via allora pure i Fleet Foxes e Jonathan Wilson. Non ci sto.

Copertina che non so se promuovere con il suo retrò sfacciato o bocciare come kitsch, il nuovo disco dovrebbe mettere a tacere i detrattori. È più organico e, nel plasmare influssi che restano ma vengono retrocessi in secondo piano, più personale. Pure meno mercuriale, però, ed è per questo che credo che, sebbene per certo rappresenterà una tappa cruciale nell’evoluzione di Walker, la pietra miliare resti quell’altro. Ciò detto, gemme come il weird jazz acustico di The Halfwit In Me o una Sullen Mind scheggia cosmica di “Forever Changes”, o ancora una Age Old Tale infiltrata di gamelan, semplicemente abbagliano.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.378, agosto 2016.

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La fenomenale arroganza degli Oasis

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Definitely Maybe (Creation, 1994)

Forse mai nella storia del rock si è dato il caso di una profezia autoavveratasi nella misura di questo che era nell’agosto ’94 il primo album del gruppo dei fratelli Gallagher. Nel titolo del primo brano, Rock’n’Roll Star, più che un auspicio una certezza, nemmeno influenzata dal fatto che nel momento in cui “Definitely Maybe” raggiungeva i negozi il terzo singolo della band di Manchester, Live Forever, fosse il primo a violare i Top 10 britannici. Due mesi prima Shakermaker li aveva sfiorati e due prima ancora il biglietto da visita Supersonic era stato comunque un numero 31. Il debutto in lungo che conteneva quelli, un quarto lato A dal titolo parimenti come un manifesto (Cigarettes & Alcohol) e altre sette tracce quasi della stessa forza, quella dei classici, entrava nella classifica UK dritto al primo posto e a oggi ha venduto nel mondo quegli otto milioni di copie. Cifra stupefacente ma poca cosa rispetto ai ventidue che è arrivato a totalizzare il seguito “(What’s The Story) Morning Glory?”. Eppure sono certo che nessuno al mondo si stupì meno del successo degli Oasis degli Oasis stessi. Gente che si era fatta mettere sotto contratto sequestrando il boss della Creation, Alan McGee, e letteralmente costringendolo ad ascoltare un demo. Gente che sulla copertina del primo singolo si mostrava in sala prove con buttata per terra una chitarra che era stata di Johnny Marr.

Alla base dei trionfi dei primi Oasis un’arroganza ancora più fenomenale di canzoni capaci di mettere insieme Beatles e Stones, Who e Kinks, Stone Roses e Sex Pistols, di plagiare i T.Rex ma pure gli Wham! e un jingle della Coca Cola e farla sempre franca. Questa riedizione con trentatré bonus fra demo, live e ritagli non aggiunge nulla al Mito, ma aiuta a definirne meglio i contorni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.354, agosto 2014.

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(What’s The Story) Morning Glory? (Creation, 1995)

Quanti fra voi leggono la stampa inglese avranno seguito, negli ultimi mesi, la guerra fra Oasis e Blur per la conquista della vetta delle classifiche e del titolo di migliore gruppo d’oltremanica. Annotato che la vis polemica che caratterizza il confronto ha toccato punte sgradevoli e che i Blur sono in vantaggio a livello di vendite, tocca subito dopo rilevare che il polverone, visto da lontano, pare avere poco senso. Perché se è vero che i due gruppi sotto molti punti di vista sono agli antipodi – si potrebbe dire che i Blur stanno agli Oasis come i Beatles stavano agli Stones: vale a dire che i primi sono una formazione pop mentre i secondi fanno i rocker – è al pari innegabile che tanto hanno in comune. Al punto che, come dell’album più recente dei Blur fan parte canzoni che avrebbero potuto essere di Noel Gallagher, in questo Oasis ce ne sono minimo due – Wonderwall e Don’t Look Back In Anger, melanconiche e stupende – che avrebbe potuto scrivere Damon Albarn.

Fra le cose in comune i litiganti hanno la devozione per Ray Davies, che in “Morning Glory?” si dispiega in un artwork assai simile a quello del box “Kinks Remastered” e in brani – She’s Electric è esemplare – a volte più realisti del re. Altrove, ferma restando l’influenza kinksiana, emergono ammiccamenti ai Beatles e al glam, sia quello ruffiano ma geniale dei T-Rex (Hey Now, Some Might Say) che quello cialtroncello di Gary Glitter (Hello). Gran bel disco, ma l’impressione è che gli Oasis non abbiano ancora espresso appieno il loro potenziale.

Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.11, novembre 1995.

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