Archivi del mese: febbraio 2024

Eminem – Piaccia o non piaccia, un classico

Il personaggio è di una rara antipatia e fa specie che la pelle bianca ne faccia spesso, se non perdonare, giustificare gli eccessi verbali, con commentatori di norma bianchi anch’essi sempre pronti a sottilizzare su dove finisca l’uomo Marshall Mathers e dove inizi l’artista Eminem. Su quanto sia creazione letteraria e interpretazione attoriale – umoristica! – e quanto genuina omofobia e una misoginia tale da fare sembrare femminista un talebano. I vari Ice Cube, Ice-T, Scarface, Snoop Doggy Dogg non se la sono mai cavata così a buon mercato. Ciò premesso, bisogna dare a Eminem quel che è di Eminem e riconoscergli un’abilità fuori dal comune nello sgranare rime e nel delineare ambienti e storie. Bisogna prendere nota del rispetto con cui lo guardano i protagonisti neri dell’hip hop. Da non dimenticare: una scoperta di Dr. Dre, supervisore di questo secondo album, epocale checché se ne pensi.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007. A oggi sono trascorsi venticinque anni dall’arrivo nei negozi di “The Slim Shady LP”.

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About A Boy – Il testamento di Kurt Cobain

Al produttore dello show che, richiesto di addobbare il palco con gigli, candele nere e un candeliere di cristallo, gli domandava perplesso “come se fosse un funerale?”, Kurt Cobain rispondeva con quattro parole soltanto: “Esattamente. Come un funerale”. Il che fa pensare che già sei mesi prima di porre fine alla sua vita tormentata il leader dei Nirvana avesse preso una decisione in tal senso. E come non ricordare che, in una session fotografica per un giornale francese durante il tour dell’appena uscito “In Utero”, mimò il suicidio con un’arma giocattolo? Successe poco prima o dopo lo spettacolo che MTV registrava il 18 novembre 1993, mandava in onda per la prima volta in dicembre e replicava un numero infinito di volte dopo quel tragico 8 aprile ’94 in cui un elettricista con un appuntamento per installare un sistema di allarme nella villa del musicista lo trovava cadavere. Mixato in 5.1 surround, con due brani espunti in origine dalla trasmissione televisiva e aggiunte alcune interviste e cinque canzoni tratte dal soundcheck, “MTV Unplugged In New York” vedrà la luce in DVD solo nel 2007. A trasformarlo in un album la Geffen ci aveva messo molto meno: lo pubblicava in CD e vinile (singolo, nonostante una durata sopra i venticinque minuti a facciata) il 1° novembre 1994. E chissà come fece a non venire in mente a nessuno quanto sarebbe sembrata di cattivo gusto un’uscita alla vigilia del giorno dei morti. Una settimana prima o dopo, no? Tant’è. Se Cobain voleva che quello che è rimasto il più inconvenzionale degli “Unplugged” risultasse testamentario (e non poteva non immaginare che sarebbe stata la prima delle pubblicazioni postume), ebbene, in nessun modo il suo congedo dal mondo sarebbe potuto risultare più pregnante. Se intendeva accrescere a dismisura il rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato – una sua carriera da solista in veste di cantautore folk-rock, un’evoluzione dei Nirvana un po’ alla R.E.M.; più in là non è possibile andare – gli è riuscito anche meglio. E significherà qualcosa se, ancora più che immaginarselo vivo e con ormai quasi il doppio degli anni che aveva quando ci lasciò, risulta arduo pensare che invecchiando avrebbe perso – come un Bill Corgan qualunque – il tocco magico. Più facile proiettarsi ancora più avanti nel tempo, ipotizzare che sarebbe stato invece un altro Neil Young. Un cavallo pazzo sempre e comunque, anche a settant’anni, fuori dagli schemi nel bene e nel male. Se, se, se…

Quel che è certo è che quando venne loro proposto a nessuno dei Nirvana, non soltanto al leader, piaceva l’idea di aggiungere il proprio nome al già lungo elenco di solisti e gruppi che, dal novembre 1989, si erano prestati a suonare in acustico nello show ideato dai produttori Robert Small e Jim Burns: il più popolare dei (oggi si direbbe) format della televisione al tempo in grado di decidere, trasmettendo o no un video e a seconda di quanti passaggi gli concedeva, il decollo di un disco o una carriera. Assai più della stampa e delle radio, commerciali o dei college che fossero. Piccolo dettaglio: molto più interessata MTV a fare comparire nel programma la band che con “Nevermind”, aveva cambiato per sempre l’approccio dell’industria discografica maggiore a quello che veniva chiamato underground, e da allora viene etichettato “alternative”, che viceversa. “Avevamo visto altre puntate e per la maggior parte non ci erano piaciute, perché quasi tutti quelli coinvolti si presentavano come se si trattasse di un normale concerto rock, però al Madison Square Garden, però in acustico”, ricorda il batterista Dave Grohl. E allora quando, dopo lunga trattativa, si decideva di accettare l’invito conditio sine qua non era che tutto si sarebbe dovuto fare secondo i desiderata di Cobain. Non del tutto convinto, a torto, che il fragoroso repertorio del gruppo potesse rendere ad amplificatori spenti (uno per sé in realtà lo terrà acceso, pur rinunciando alla chitarra elettrica). E determinato a non proporre, come quasi tutti quelli passati da quelle parti, la solita banale scaletta a base di successi, pezzi già ben noti al pubblico semplicemente riproposti in una veste più spoglia. Per quanto sia MTV che la Geffen potessero esserne scontente. Alla casa discografica in realtà andrà di lusso, perché si troverà così fra le mani un album pieno di brani altrimenti inediti (tutte le cover: ben sei) e con un resto di programma peculiare perché non soltanto in acustico ma con una scelta di canzoni fra le meno frequentate del repertorio, sole hit presenti Come As You Are e All Apologies. Di fatto, il quarto capitolo di una vicenda esauritasi troppo rapidamente e senza lasciare grandi margini a speculazioni postume, visto che i cassetti già erano stati svuotati con “Incesticide”. Con l’ulteriore punto a favore di rispolverare, e proprio in apertura, quell’unica canzone dell’esordio “Bleach”, About A Girl, in cui i Nirvana già erano i NIRVANA. Non a caso sarà il singolo.

A venticinque anni dall’uscita originale DGC e Universal hanno riportato nei negozi “MTV Unplugged In New York” in una speciale edizione in vinile con un enorme pregio e un brutto difetto. Partiamo dal primo: già il semplice fatto che i 53’50” che nel ’94 vennero compressi in due facciate si trovino ora distribuiti su tre fa suonare meglio il tutto, ma bisogna toccare con orecchio, alzando il volume il giusto, per rendersi conto quanto, e senza nemmeno bisogno di un remastering. La collocazione sul palco dei musicisti è di precisione impressionante e ogni minima sfumatura – dai saliscendi emotivi della voce al discreto armeggiare del violoncello, dallo scivolare delle dita sulle corde di a volte anche tre chitarre contemporaneamente al gioco di fino di una batteria capace di esserci senza mai esserci troppo – si coglie meravigliosamente. Il difetto? È che ci sia una quarta facciata, con le stesse bonus del DVD di cui sopra, prove sgangherate e costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. Da ascoltare una volta, con imbarazzo, e mai più. Quando tutto il resto è a suo modo perfetto pure quando la piccola imprecisione scappa. “Anche io andrò dove spira il vento freddo”, canta Cobain nella conclusiva Where Did You Sleep Last Night, da Leadbelly, e un groppo sale in gola. Scatta l’applauso. Proprio come a un funerale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.415, dicembre 2019. Non avesse scelto di smettere di intrattenerci, Kurt Cobain compirebbe oggi cinquantasette anni.

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Audio Review n.461

È in edicola da alcuni giorni “Audio Review” di febbraio, numero che vede la mia riapparizione sulle sue pagine dopo una pausa per problematiche personali ben più lunga (tre mesi, quando pensavo che ne avrei saltato uno o al massimo due) di quanto non avessi preventivato. Il mio contributo a questo giro è appena un terzo di quello dato per tantissimi anni, ai prossimi tornerà un po’ a salire, ma i tempi delle quindici/sedici recensioni sono finiti. Per mia esclusiva scelta.

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Black Sabbath e satanismo – Genesi di una leggenda

Formalmente i Black Sabbath nascono un giorno di agosto del ’69 a bordo del traghetto che dall’Inghilterra sta portando ad Amburgo il cantante John Michael Osbourne (detto Ozzy; 3 dicembre 1948), il chitarrista Frank Anthony Iommi (per tutti Tony; 19 febbraio 1948), il bassista Terence Butler (meglio noto come Geezer; 17 luglio 1949) e il batterista William Ward (più familiarmente Bill; 5 maggio 1948). Nella città tedesca li attende un ingaggio di una settimana allo Star Club, esattamente il sordido localaccio nel quale, nel corso di ben più prolungati soggiorni, erano divenuti adulti i Beatles. Tutti quanti lungocriniti e tre su quattro baffuti, sicché appaiono più maturi di quanto non siano (non Ozzy, che il volto glabro fa sembrare il bambinone discolo che è), consumano le uniche droghe che è possibile e sensato consumare visto il luogo, vale a dire birra e sigarette, e discutono di musica e futuro. Di cosa suonare per potere avere una qualche speranza di guadagnarsene uno. Collettivamente noti come Earth, hanno urgenza sia di cambiare nome ─ per niente caratterizzante, anche se sempre meglio del primigenio e orrendo Polka Tulk, e oltretutto già usato da un’altra band che potrebbe intentare causa ─ che stile. Il blues è servito a rodarli e a procurare loro scritture, ma non c’è soddisfazione a eseguire materiali altrui o comunque derivativi e poi è indiscutibile: non è più alla moda. Bisogna cambiare per sopravvivere e hanno iniziato, mischiando al repertorio classico composizioni autografe in cui le scansioni rallentano, i riff si raddensano e si creano certe atmosfere… da horror cinematografico di serie B, genere di cui sono tutti appassionati, così come di occultismo spicciolo. Esemplare di questo agro stil novo è il pezzo che nei concerti raccoglie invariabilmente i maggiori consensi: Black Sabbath, titolo scippato all’edizione inglese di un film italiano del 1963, I tre volti della paura, di Mario Bava. Sulla strada per la sala prove un giorno Tony e Geezer sono passati davanti a un cinema che lo proiettava e il primo ha osservato al secondo: “Non ti sembra strano che la gente paghi per vedere qualcosa che la fa cacare sotto dallo spavento? Immagina se riuscissimo a creare una musica che ottenga lo stesso effetto. Che sembri… malvagia”. Fra una cicca e un rutto si decide: il titolo della canzone sarà la nuova ragione sociale, dopo Amburgo però e dopo avere onorato qualche contratto britannico già firmato. Ma ho corso e sarà il caso di fare alcuni passi indietro prima di compierne in avanti.

Uno per dire che il semplice fatto che gli Earth quel bel dì siano su quel battello in viaggio per la Germania denota che i quattro hanno una formidabile fede in se stessi e in particolare è Tony Iommi a essere convinto che orizzonti di gloria siano dietro l’angolo. Qualche mese prima il chitarrista ha ricevuto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare e l’ha rifiutata: invitato a unirsi ai già popolarissimi Jethro Tull in sostituzione del dimissionario Mick Abrahams, è stato per alcune settimane della compagnia, partecipando fra il resto alla carnascialesca kermesse stoniana del “Rock’n’Roll Circus”, ma poi ha preferito tornare alla base. E pensare che i suoi stessi amici lo avevano incoraggiato ad accettare, a non preoccuparsi di loro, a non farsi sfuggire un’occasione irripetibile. Logico che Osbourne, Butler e Ward se ne siano sentiti, oltre che lusingati, responsabilizzati.

Due… Nonostante la verde età i ragazzi vantano curriculum di una certa sostanza fin da prima degli Earth. A livello amatoriale Ozzy e Geezer, insieme in tali Rare Breed. A livello professionale Tony e Bill, entrambi per quattro anni nei Mythology, power-trio etichettato come… ahem… “la risposta del Cumberland alla Jimi Hendrix Experience” che sulla soglia del contratto discografico è malamente inciampato in un arresto collettivo per possesso di marijuana che lo ha sbattuto, in un giorno sfortunatamente povero di notizie rilevanti, sulle prime pagine dei quotidiani nazionali.

Per capire la determinazione eminentemente operaia che giocherà un ruolo cruciale nell’affermazione del Sabba Nero bisogna infine avere ben presenti il retroterra socio-culturale ─ suburbia urbana della più degradata ─ dei protagonisti di questa saga e in special modo il vissuto dei due principali, Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Il secondo ha disperato di potere coronare il sogno di divenire un musicista professionista il giorno in cui un incidente in fabbrica lo ha privato dell’ultima falange di medio e anulare della mano destra. Non sarebbe una tragedia non fosse che è un mancino e a suonare da “normale” proprio non ci riesce. Lo salva dalla depressione l’ex-principale che, oppresso dai sensi di colpa, lo va a trovare portando con sé un LP di Django Reinhardt e prima glielo fa ascoltare e poi gli racconta di come il celebre chitarrista zingaro avesse un problema analogo e anzi più serio. Iommi si entusiasma, si ingegna ad autocostruirsi due specie di ditali che applica alle dita mutilate e riprende a suonare. Un ulteriore problema che gli si presenta ─ la pressione che riesce a produrre sulle corde inevitabilmente non è quella ante handicap ─ è risolto accordando lo strumento un tono o anche più sotto il normale: escamotage che contribuirà in misura decisiva a definire il suono Black Sabbath, scuro e profondo come nessuno prima.

Quanto a Osbourne lo ha dichiarato innumerevoli volte: non avesse avuto successo avrebbe passato la vita dentro e fuori, ma più che altro dentro, le patrie galere. Famiglia poverissima, madre cronicamente depressa, padre alcolizzato (ma nondimeno un buon cristo che farà di tutto per aiutarlo nel momento in cui eleggerà la musica a possibile redenzione), una passione precoce lui stesso per l’alcool e ogni tipo di sostanza stordente, violenze sessuali subite (fuori dalle mura domestiche) ancora bambino. A quattordici anni ha tentato il suicidio. A diciassette è stato arrestato per furto ─ talmente consunti i guanti indossati per precauzione che ha lasciato impronte digitali ovunque ─ e ha passato in carcere un mese e mezzo. Dopo di che si è arrabattato con lavori occasionali: macellaio fra il resto. Se mai c’è stato uno nato per perdere eccolo: John Michael Osbourne.

Ma ritorniamo sul traghetto, scendiamone lievemente barcollanti con i nostri eroi e scopriamo che l’ingaggio è il più assurdo che abbiano rimediato a quel punto. Alla clientela di magnaccia e altri assortiti malavitosi, puttane e marinai sbronzi dello Star Club non importa un accidente di cosa suoni il gruppo di turno purché suoni, purché sul palco accada sempre qualcosa. Al massacrante, disumano ritmo di sette spettacoli al giorno (avete letto bene) i ragazzi si stufano presto di un repertorio ancora smilzo e cominciano a sperimentare manco fossero jazzisti della New Thing. Vale tutto, dai brani di tre minuti che diventano di mezz’ora agli assoli al pari dilatati, a volumi a mezza via fra la soglia della distorsione e quella del dolore. Un riff può essere stiracchiato per dieci minuti, oppure se ne possono sparare dieci in un minuto e Tony Iommi, che del riff contenderà il titolo di re a Keith Richards e Jimmy Page, deve probabilmente mettersene un congruo gruzzolo in saccoccia. Nessuno li ascolta sul serio, eppure è in quella fatidica settimana che i (non ancora) Black Sabbath scoprono improvvisamente di avere una personalità. Il bruco diventa farfalla. Naturalmente di ferro.

Al rientro a casa, il 22 di quello stesso mese, i quattro registrano un primo demo, con la supervisione di quel Gus Dudgeon che farà bei soldini con Elton John e David Bowie. Tal Jim Simpson se lo porta in giro per etichette ottenendo solo rifiuti. Non c’è da stupirsene, visto che sul nastrino incomprensibilmente sono finite due canzoni scadenti e che non rappresentano affatto il nuovo corso, una The Rebel che cita gli Hollies, figuratevi un po’, e la dedica a un manager il cui rapporto con i Nostri, ossequiando uno schema classico dello showbiz, finirà fra carte bollate e tribunali, di A Song For Jim. Che è un blues-rock basato sul piano, figuratevi un po’ 2. Però dal vivo i quattro pestano e tirano come dannati, sempre più coesi, una macchina da guerra cui il passaparola sta conquistando un buon seguito nel cosiddetto underground. Fa capolino in questa storia Tony Hall, amico di Simpson ed ex-dj di Radio Luxembourg con la voglia di passare dall’altra parte della barricata. È lui a tirare fuori i soldi, seicento sterline, per incidere non un secondo nastrino dimostrativo ma un LP e poi si vedrà che farne. Gli studi prenotati per due giorni sono i londinesi Trident, buchetto in Wardour Street, quartiere di Soho, che a dispetto di un’apparenza dimessa vanta tecnologie all’avanguardia e l’unico otto piste operante in Gran Bretagna nel 1969. Qualche mese prima hanno lavorato lì nientemeno che i Beatles. I ragazzi sono diventati un modello di efficienza: a registrare l’album impiegano un giorno solo e il secondo è speso mixandolo con la fondamentale regia di Rodger Bain, che curerà la produzione anche dei due 33 giri successivi. Adesso un disco c’è e si tratta di trovare chi lo pubblichi. Alla Philips mostrano un certo interesse, ma svanisce presto quando un singolo ─ su un lato Evil Woman, che sull’album ci sarà; sull’altro Wicked World che ne verrà invece esclusa ─ per la sussidiaria Fontana non ottiene riscontri significativi. Potrebbe già essere tutto finito, ingloriosamente, non fosse che nel programma di uscite della Vertigo, il marchio progressive di casa Philips, si apre all’improvviso un buco nel quale Simpson è lesto a infilare i suoi protetti. Il 13 febbraio 1970 ─ ça va sans dire: un venerdì ─ “Black Sabbath” è nei negozi del Regno Unito. La campagna concertistica che l’ha preceduto e lo segue, intensificandosi ulteriormente, paga dividendi al di là di ogni previsione: entra in breve in classifica ─ a fine aprile è al numero 8, performance strepitosa per degli esordienti che oltretutto con la stampa si sono presi subito male ─ e ci resterà per cinque mesi, praticamente fin quando non arriverà “Paranoid” a dargli il cambio: numero uno in Gran Bretagna, 12 negli USA, dove il debutto aveva fermato la sua corsa a un comunque straordinario ventitreesimo posto. A proposito di Stati Uniti: il quartetto vi sbarcherà una prima volta in luglio, a registrazioni del secondo LP già completate. Le poche decine di spettatori dei primi concerti diventeranno nel giro di qualche data centinaia, quindi migliaia. Quando i Black Sabbath ci torneranno, nel febbraio dell’anno seguente, su istigazione della loro casa discografica americana, la Warner Bros, quattro semplici parole campeggeranno sui manifesti annuncianti gli spettacoli: “Louder than Led Zeppelin”.

Dovrei a questo punto aprire un’ampia parentesi e, rubando il mestiere all’ottimo Sergio Varbella, diffondermi sul cambiamento che all’incrocio fra ’60 e ’70 interessa il modo di concepire le copertine dei 33 giri rock. Che a tutto il ’67 vedono obbligatoriamente effigiato il solista o il complesso che ne sono titolari e gradualmente relegano queste foto sul retro o all’interno della confezione, fino a farle a volte sparire del tutto, sostituendole con immagini che intendono evocare la musica proposta. Non è però il luogo e vi basti, se non ci avevate mai fatto caso, l’avere acquisito codesta informazione. Quel che mi preme qui sottolineare è che forse mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo, l’essenza di un sound come quella del primo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. Roger Corman o lo stesso Mario Bava non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore come Black Sabbath la canzone che apre “Black Sabbath” l’album non l’hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e dice bene il Wilkinson quando annota che così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Da lì a qualche minuto da uno stato di catatonia si passerà, con uno dei più magistrali cambi di andatura che la storia del rock ricordi, a uno di terrorizzata frenesia.

Non credo di esagerare se dichiaro che con una confezione meno indovinata l’esordio adulto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Affermo l’ovvio appuntando che l’avvento del CD ha avuto come principale conseguenza nefasta quella di cancellare l’arte della bella copertina. In questo caso è di un capolavoro a sé che stiamo discorrendo, che il formato ridotto mortifica in maniera e misura inaccettabili, e mi piace sottolinearlo in un momento in cui il farsi immateriale della musica ─ con il download ─ le infligge un’ultima e fatale umiliazione. Così è se vi pare e chiamatemi pure nostalgico. Ma tornando al Sabba Nero… ci credereste? Che l’album esca in tal guisa è una felice scelta di un qualche oscuro discografico: “Abbiamo dato la nostra approvazione quando ce l’hanno sottoposta, ma non siamo stati noi a ideare la confezione”, ammette nel marzo 1970 il buon Geezer in un’intervista a un quotidiano locale. Uomini maledettamente fortunati che viene il sospetto che un qualche patto faustiano dovessero averlo firmato sul serio.

Missione ai limiti dell’impossibile andare dietro a un incipit tanto memorabile senza accusare cali di tensione, ma “Black Sabbath” per gran parte del suo svolgimento ci riesce, cedendo giusto per qualche minuto sul principio del secondo lato, con quella Evil Woman già citata perché scelta sciaguratamente dalla Fontana per tastare il terreno a 45 giri. Non una brutta canzone (fra l’altro una cover, dagli americani Crow), sia chiaro, ma la cantabilità scanzonata e il piglio boogie la rendono un corpo estraneo al resto dell’opera. All’armonica crepitante, alla chitarra granitica, alla batteria tumultuosa dell’hard definitivamente post-blues di The Wizard. Alla sarabanda a tempo di valzer che si slabbra in litania stregona di Behind The Wall Of Sleep. All’assolo di basso che danza l’attacco di N.I.B. prima di instradarla su una terra di mezzo fra melodramma e metallurgia. Al dark-folk psichedelico precipitato nell’Ade da un’elettrica che è lava, lama e marmo e un basso che rotola sfrenato di Sleeping Village. Alla qui estatica e lì rovinosa collisione Zeppelin-Cream (a un certo punto citati esplicitamente) di Warning, una rilettura di Aynsley Dunbar di cui confesso di non conoscere la versione originale. Di non essere nemmeno riuscito a scoprire da dove l’abbiano prelevata Iommi e soci.

Sul testo di N.I.B. vorrei spendere qualche parola, magari partendo da un titolo che più avanti i Sabbath stessi sosterranno riferirsi alla barbetta appuntita (“nib” vuol dire “pennino”) esibita al tempo da Bill Ward. Ma chiedete lumi a qualunque adepto e sicuro vi risponderà che trattasi di acronimo per Nativity In Black. Sia come sia: la canzone narra una vicenda di seduzione letteralmente diabolica, con Satana che si dà un gran daffare per persuadere una ragazza a mettersi con lui. E tanto dice e briga, fra il resto cambiando pure nome, riprendendo quello di Lucifero in memoria dell’angelo che era stato, che alla fine la fanciulla cede alle lusinghe. “Vecchio satiro!”, esulta l’ascoltatore politicamente scorretto, che non aveva potuto non notare un certo senso di disperazione insinuarsi nel corteggiamento portato avanti dal Maligno. Che attore! Ha finto di struggersi per fare più facilmente cadere la preda ai suoi piedi. Non fosse che, con fenomenale rovesciamento prospettico, finiamo per capire che no, non era finzione, era davvero innamorato della ragazza e disposto addirittura a cambiare vita pur di farsi accettare da lei. Un bravo diavolo, più Andy Capp, se vi riesce di immaginare un Andy Capp genuinamente con il cuore in mano, che non Faust. Uno con cui potreste chiacchierare al pub e che al terzo boccale vi metterebbe sotto il naso, orgoglioso, le foto dei figli.

La leggenda dei Black Sabbath satanisti è, giustappunto, poco più che una leggenda. Un’operazione di marketing da inquadrare nel manifesto programmatico del quartetto, quello delineato alcune cartelle fa di forgiare una musica dalle apparenze malvagie che induca in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore.

Tratto da “Black Sabbath – Rock da camera (a gas)”. Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.27, autunno 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo album del quartetto di Birmingham compie oggi cinquantaquattro anni. Non li dimostra.

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Rock The Country – Il primo Joe Ely

Altamente improbabile che vi sia qualche lettore, per quanto disinteressato al country e con una presenza minima di cantautori USA negli scaffali, per cui Joe Ely è uno sconosciuto. Almeno il nome, se non altro perché rientra fra quelli recensiti di default su queste pagine, lo avrà orecchiato. Ma è assolutamente impossibile che non lo abbia mai ascoltato cantare. Avete presente Should I Stay Or Should I Go? La più rollingstoniana delle canzoni dei Clash era il terzo singolo tratto nell’82 da “Combat Rock”, a seguire l’exploit di Rock The Casbah, che non eguagliava ma comunque avvicinava. Sarà uno spot per una marca di jeans a trasformarla, di lì a dieci anni, nel più grande successo di sempre di una band a quel punto da lungi sciolta e a renderla inamovibile nel novero di quei cento-duecento pezzi fissi nelle rotazioni di un certo tipo di radio. Nel catalogo Clash Should I Stay Or Should I Go è un’anomalia, uno dei pochissimi brani in cui è Mick Jones la voce solista, con Joe Strummer a fare i cori. Non da solo. Con Joe Ely, che così arrivava a dividere uno studio con un gruppo per il quale aveva aperto innumerevoli date nel Regno Unito come oltre Atlantico, società di mutua ammirazione che aveva toccato un duplice apice nel 1980 con l’uscita di “Live Shots”, immortalato a Londra proprio in una serata di spalla a Strummer e soci, e nell’omaggio tributatogli da costoro in If Music Could Talk, quinta traccia della terza facciata del triplo “Sandinista!”: “There ain’t no better blend than Joe Ely and his Texas Men”. Se non vi fidate del sottoscritto…

Earle R. Ely nasce ad Amarillo il 9 febbraio 1947 e si trasferisce dodicenne in quella Lubbock che ancora oggi chiama casa. È una performance di Jerry Lee Lewis a fargli decidere cosa farà da grande anche se, non potendosi permettere un piano, imbraccia un violino prima, poi una chitarra. Fra lui e il sogno si frappone, quando ha quattordici anni, la tragica realtà della prematura scomparsa del padre e di un conseguente crollo nervoso della madre che fa sì che lui e un fratello debbano soggiornare per diversi mesi presso dei parenti. Abbandonati prematuramente gli studi contribuisce al bilancio domestico con il più umile dei lavori, lavapiatti. Lasciato quando il primo complesso semiprofessionale, tali Twilights dei quali non ci è giunto che il nome, comincia a rimediare abbastanza ingaggi da garantirgli introiti più dignitosi. Lasciati a loro volta, i Twilights, per una vita da vagabondo beat che lo porta in California, poi a New York, quindi (al seguito di una compagnia teatrale) in Europa. Torna a Lubbock nel 1971 e fa comunella – inizio di un felicissimo ménage à trois giunto ai giorni nostri – con Butch Hancock e Jimmie Dale Gilmore. Dei tre Joe è l’anima rock’n’roll, Butch quella folk, Jimmie Dale un’enciclopedia deambulante della country music. Si battezzano Flatlanders e rimediano un contratto con un’etichetta, la Plantation, che ha vissuto giorni di gloria ma è ormai in disarmo. Che è la ragione per la quale l’album che registrano nel 1972 – “All American Music” il programmatico titolo – non vedrà la luce che nel ’73. Luce? Quale luce? Esce solo in stereo 8 (!) e insomma fino al 1980, quando lo riediterà a 33 giri la britannica Charly smentendo quanti lo ritenevano una leggenda, non lo ascolterà nessuno. L’anno dopo ancora il nostro uomo si gioca la carta della carriera solista. Passando di mano in mano un demo arriverà nel 1976 fra quelle di un componente della band di Jerry Jeff Walker, che lo girerà al principale, che lo girerà a un dirigente della sua casa discografica, la MCA.

Stentavo a crederci, giacché è di un autore e interprete stratosferico universalmente annoverato fra i precursori del cosiddetto alt-country che stiamo parlando, ma le ristampe rimasterizzate pubblicate lo scorso 17 febbraio dallo stesso marchio che le portò nei negozi illo tempore di “Joe Ely” (1977), “Honky Tonk Masquerade” (1978) e “Down On The Drag” (1979) sono, per l’esordio e il suo seguito, le prime in vinile dal 1980 e, per quanto attiene il terzo LP, addirittura la prima in analogico. Se per un verso si potrebbe paradossalmente dirle inutili, giacché le copie d’epoca si trovano ancora con facilità e a un prezzo che è una frazione di quello scandaloso (attorno ai cinquanta euro!) richiesto per queste, e suonano già piuttosto bene, per un altro quantomeno offrono il destro, nell’attesa che pure il summenzionato “Live Shots”, “Musta Gotta Notta Lotta” (1981) e “Hi-Res” (1984) subiscano in ogni senso analogo trattamento, per spendere qualche riga per un debutto brillante, un classico totale e un buon lavoro di transizione. Decida chi ne è sprovvisto se farsi rapinare o rivolgersi al mercato dell’usato. Tutti e tre gli album hanno dieci canzoni in scaletta e in tutti e tre il titolare ne firma la metà, pescando parecchio per il resto nel repertorio di Butch Hancock (ben undici brani) e offrendo inoltre sue versioni di due pezzi di Jimmie Dale Gilmore (a trenta si arriva con un’esuberante resa di Honky Tonkin’ di Hank Williams e una bluesata di B.B.Q. & Foam di Ed Vizard). In tutti e tre danno man forte al titolare, oltre a una folla di turnisti, Lloyd Manes alla steel guitar, Jesse Taylor alle chitarre sia acustiche che elettriche, Gregg Wright al basso e Steve Keaton alla batteria, con Ponty Bone che si aggiunge a piano e fisarmonica a partire dal secondo. Gruppo tosto ed eclettico, ruspante e raffinato. Apici… Di “Joe Ely”: la travolgente I Had My Hopes Up High, il cajun Mardi Gras Waltz, il western swing All My Love. Ma, soprattutto, la meravigliosa ballata da border She Never Spoke Spanish To Me. Di “Honky Tonk Masquerade” (incluso nel 2005 nel delizioso 1001 Albums You Must Hear Before You Die): l’honky tonk Cornbread Moon, l’accorata con brio Boxcars, la squisitamente sentimentale title track, una I’ll Be Your Fool che sarebbe stata perfetta per Elvis, il rock’n’roll Fingernails. Di “Down On The Drag”: la dolente Fools Fall In Love, lo swamp-rock Crawdad Train, il valzer She Leaves You Were You Are. Tempo di scoprire Joe Ely, se per voi finora era solo un nome.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.453, maggio 2023. Il cantautore americano preferito dei Clash compie oggi settantasette anni.

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Curami! Curami! Curami! I Therapy? di “Troublegum”

“Ma allora non si sono mai sciolti…”, constato con un senso quasi di smarrimento scoprendo che non solo i Therapy? ancora suonano dal vivo e pubblicano dischi (del che ero vagamente conscio), ma che mai in un quarto di secolo hanno smesso di farlo. Il che può ben dare la misura di quanto la compagine nordirlandese sia diventata irrilevante quando ci fu un tempo – intorno alla metà degli anni ’90, quando uscivano questi due album appena ripubblicati in edizioni più monstre che Deluxe – in cui era sulla bocca di tutti. E il bello è che il Vostro affezionato Andy Cairns e soci li seguiva senza perderne una mossa e fa fede che in casa si ritrovi una discografia fino a un certo punto quasi completa, con tanto di singoli in vinile in ogni formato possibile. Era l’epoca del grunge e al grunge i Therapy offrirono un controcanto personale (talvolta in bilico su precipizi noise) come forse nessuno fuori dagli USA. Senza complessi di inferiorità, senza mai temere di risultare troppo alternative per il pubblico del metal o viceversa. Li premiavano entrambe le platee e se non ne derivava uno stardom alla Nirvana/Pearl Jam/Soundgarden dischi ne vendevano subito abbastanza da garantirsi, dopo due mini per l’indipendente Wiiija, un approdo al colosso A&M.

Secondo frutto maggiore, nel 1994, del sodalizio, “Troublegum” è l’album clamoroso che ricordavo: una sequenza di colpi da KO dopo i quali tuttavia si resta sempre in piedi, esilarati, un senso per la melodia micidiale quanto quello per il riff, una potenza straripante coniugata a un istinto pop raro. Che si viaggi solo veloce e più veloce, che in tre quarti d’ora (non inganni la durata del CD, gli ultimi ventidue minuti sono di rumore di vinile che fruscia) non ci sia un istante di tregua invece che stancare esalta. I Black Sabbath in collisione con i Motörhead di Stop It You’re Killing Me, gli Hüsker Dü resuscitati in Die Laughing, i Metallica apocrifi (come da allora non li abbiamo più sentiti) di Lunacy Booth gli apici di un classico un po’ negletto (disco dell’anno per “Kerrang!”, se può interessarvi) da recuperare assolutamente. I due CD aggiunti (molti remix, un po’ di demo e di registrazioni live) non aggiungono nulla di davvero indispensabile eccettuata una versione per archi (!) della summenzionata Lunacy Booth, ma praticamente non li pagate e dunque…

Anche “Infernal Love”, che raggiungeva i negozi nel ’95, è l’album che ricordavo: coraggioso e non completamente riuscito. Qui per la prima volta i ragazzi provavano a togliere ogni tanto il piede dall’acceleratore (esemplare una A Moment Of Clarity che parte come una ballata rarefatta), a variare gli arrangiamenti (riecco gli archi), addirittura a spegnere gli amplificatori (accade in Diane). Non tutto funziona, qualcosa (ad esempio una Bowels Of Love che fa il verso agli Smashing Pumpkins più melò) sfiora la ruffianeria e nondimeno, dovendo dare un voto, mai potrebbe essere meno di 7. Che diventa 7+ in forza di un secondo dischetto in larga parte acustico.

Il pubblico apprezzava ancora, ma meno che in precedenza. Il declino sarà subitaneo, la scomparsa dai radar quella raccontata al principio. Per la cronaca: ho provato a dare un’ascoltata al disco più recente (di due anni fa), “A Brief Crack Of Light”, e non mi è sembrato affatto male. Picchiano, ancora e di nuovo, come fabbri.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.192, maggio 2014. “Troublegum” arrivava nei negozi esattamente trent’anni fa.

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2023: 15 ristampe, live, antologie da recuperare, costi quel che costi

1) VV.AA. – The Complete Obscure Records Collection (Dialogo, 10CD/10LP)

2) VV.AA. – Wattstax ’72: The Complete Concert (Craft/Stax, 6CD/10LP)

3) John Coltrane With Eric Dolphy – Evenings At The Village Gate (Impulse!, CD/2LP)

4) Arthur Russell – Picture Of Bunny Rabbit (Audika, CD/LP)

5) The Teardrop Explodes – Culture Bunker (Universal, 6CD/7LP)

6) Sonic Youth – Live In Brooklyn 2011 (Silver Current, 2CD/2LP)

7) Pharoah Sanders – Pharoah (Luaka Bop, 2CD/2LP)

8) The Dream Syndicate – History Kinda Pales When It And You Are Aligned (Fire, 4CD)

9) The Replacements – Tim (Let It Bleed Edition) (Rhino, 4CD+1LP)

10) Joni Mitchell – Archives Volume 3: The Asylum Years (1972-1975) (Rhino, 5CD)

11) Neil Young – Chrome Dreams (Reprise, CD/2LP)

12) Bob Weir – Ace (Warner/Rhino, 2CD/LP)

13) Elton John – Honky Château (Rocket Entertainment/Mercury, 2CD/2LP)

14) Dizzee Rascal – Boy In Da Corner (XL, 2CD/3LP)

15) Laraaji – Segue To Infinity (Numero Group, 4LP)

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