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Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Pur avendo ottenuto buoni risultati in una prima carriera solistica che lo vedeva pubblicare fra il ’90 e il ’96 quattro lavori in studio, per certo Robert Forster avrebbe fatto volentieri a meno di intraprenderne nel 2008 una seconda che ne ha fruttato con questo altrettanti. È che si metteva in proprio quando quei magnifici Smiths-prima-degli Smiths che furono i Go-Betweens si scioglievano, giustamente offesi dall’indifferenza del mondo (fa oggi sorridere agro che a un dato punto molti fra i loro pochi cultori li accusassero di essersi “commercializzati”: era appena uscito l’album con cui sembrò chiudersi la loro vicenda, “16 Lovers Lane”, un numero 48 nella natia Australia, 81 nel Regno Unito). E ci si rimetteva quando il sodalizio con Grant McLennan (li dissero i Lennon/McCartney del pop chitarristico degli anni ’80: esagerando un po’, non troppo; in linea di massima Robert era John), felicissimamente rinnovato nel 2000, tragicamente si scioglieva di nuovo e per sempre nel 2006, causa dipartita per infarto a soli quarantott’anni dell’amico e socio. Ne avrebbe fatto a meno, ma visto che è andata come è andata vale come consolazione che il superstite ogni tanto ci regali una manciata di canzoni nuove. Mai troppo distanti dalle vette olimpiche toccate in una giovinezza costellata di classici.

“The Candle And The Flame” ne mette in fila nove, le migliori verso metà programma: una Pale Blue Eyes sbarazzina chiamata It’s Only Poison, la ballata country a due voci I Don’t Do Drugs I Do Time, una Always da Modern Lovers prima maniera. Inaugura con giocosa grinta She’s A Fighter. Apprendere che è dedica alla moglie (nonché partner pure artistica) Karin Bäumler, alle prese con seri problemi di salute, prima spiazza, poi commuove.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Belle And Sebastian – Late Developers (Matador)

Gruppo per quasi venti peraltro splendidi anni piuttosto prevedibile gli scozzesi Belle And Sebastian, sin dacché “Tigermilk” nel 1996 delineava un canone di istantanea riconoscibilità. Elementi fondanti i Love di “Forever Changes” e i Velvet del terzo LP, Byrds, Smiths e Go-Betweens, Nick Drake, certa Motown, la Sarah. Naturalmente quella Postcard che tre lustri prima si era scelta negli anni ’60 gli stessi numi tutelari. Era la quintessenza del pop da cameretta e a fare la differenza era la qualità della scrittura: stellare. Sempre. E importava poco allora o nulla che i dischi si somigliassero un po’ tutti. Un’unica volta, ed era il 2002, i nostri eroi erano usciti dal seminato ma non faceva testo, siccome “Storytelling” nasceva come colonna sonora. Tutto ciò fino al 2015, quando “Girls In Peacetime Want To Dance” spiazzava muovendosi in massima parte fra, appunto, dance e new wave e sistemando giusto in apertura e chiusura quei due o tre brani che si sarebbero potuti confondere negli album prima. Mossa coraggiosa, disco divertente ma non granché a fuoco, un filo irrisolto.

Non contando “Days Of The Bagnold Summer” (un’altra colonna sonora), “A Bit Of Previous” gli dava un seguito soltanto nel 2022 stupendo di nuovo, stavolta con robuste iniezioni di synth-pop, e di nuovo lasciando perplessi. “Late Developers” arriva nei negozi appena otto mesi dopo. Che ne sembri il fratello gemello pare ovvio, inevitabile una volta appreso che le sue undici canzoni provengono dalle stesse sedute. Lavoro ancora più slegato, che si rifà indifferentemente a Donovan come ai Pet Shop Boys, ai Thin Lizzy o ai Miracles. Si giunge alla penultima traccia prima di riconoscere i Belle And Sebastian tanto amati. Il trucco c’è: è un pezzo scritto nel 1994.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.

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Il mio disco preferito dei Fall

Esisterà un felice possessore dell’intero catalogo dei Fall? Trentuno album in studio, altrettanti (!) dal vivo, più cinque registrati parte in studio e parte in concerto, più una quarantina (!!!) di raccolte alcune delle quali tornano comode per recuperare molti dei brani usciti su una miriade di EP e di singoli, ma non tutti. Probabilmente nemmeno Mark E. Smith possedeva l’integrale di Mark E. Smith, anche per via di un rapporto altamente conflittuale (nel contesto di un rapporto altamente conflittuale con il mondo) con l’industria discografica. Per la più parte non approvati dal leader del combo mancuniano i troppi live, idem le antologie. È tutto un po’ “troppo” nell’universo di un gruppo che il cultore numero uno, John Peel, descriveva come “sempre diverso, ma sempre uguale”. Erano i suoi preferiti, tanto che proprio nell’ultima intervista, facendo un bilancio della sua vita inconsapevole di essere in vista del traguardo diceva: “Cascassi morto domani mattina, non potrei lamentarmi di nulla. A parte che mi perderei il nuovo album dei Fall”. Se n’è persi otto.

Io un po’ di più, nel senso che ne ho una dozzina, più la raccolta monstre dei 45 giri per la Rough Trade, e arriverò prossimamente a sfiorare la quindicina con un paio di classici “minori” che, sull’onda dell’emozione per la dipartita del nostro uomo, mi sono affrettato a fermare presso il mio spacciatore di fiducia di vinile usato. I classici “maggiori” (“Live At The Witch Trials”, “Grotesque”, “Code: Selfish”…) li ho già. E poi c’è “Bend Sinister”. Il terzo, massimo il quarto a entrarmi in casa, certamente il primo a venire acquistato in diretta (usciva il 29 settembre 1986), senza nemmeno attendere le recensioni come si usava allora. Per due ragioni. Seconda: contiene una strepitosa cover di uno degli inni del garage USA dei ’60, Mr. Pharmacist degli Other Half. Se possibile più contundente dell’originale. Prima: la foto di Brix al tempo Smith (nata Laura Elisse Salenger) sul retro di copertina. Solo in seguito la visione del videoclip proprio del pezzo in questione me la farà scoprire una normale splendida donna. Sul retro di copertina di “Bend Sinister” è la più incantevole che sia mai esistita. Per me. Era allora nel perfetto mezzo di un matrimonio durato sei anni con Mark E., la bella e la bestia tanto per ossequiare uno stereotipo. Con il senno del poi fu comunque quella un’età aurea per i Fall, cinque dei loro dischi migliori uno dopo l’altro e giusto il congedo dalla band e dal matrimonio di Brix, “I Am Kurious Oranj”, sottotono, un mezzo passo falso. Così, semiunanime, una giurisprudenza che per quanto ho ascoltato, e cioè solamente in questo periodo quasi tutto, mi trova d’accordo a parte che no, non ci sto a considerare “Bend Sinister” l’altro anello debole della catena. Nonostante il produttore John Leckie – che da lì a tre anni firmerà con l’omonimo debutto degli Stones Roses uno dei capolavori di sempre del pop UK – ricordi con orrore il momento in cui Mark E. si presentava in sala con una cassettina che aveva fatto girare all’infinito su un walkman e la richiesta di masterizzare alcune canzoni partendo da lì, pretesa che si vedeva respingere a brutto muso e per una volta trovava uno più testardo di lui. Sarà magari anche a ragione di ciò che in seguito liquiderà l’album sdegnandone la patina psichedelica applicatavi da Leckie. Salvo conservare per trent’anni Mr. Pharmacist fra i pochi brani pressoché immancabili nelle scalette dei concerti.

Ho appena scoperto, mettendo mano a questo pezzo, che il mio “Bend Sinister” in vinile è orbo dei 4’35” di un’undicesima traccia, Living Too Late, e dei 4’51” di una dodicesima, Auto-Tech Pilot, presenti come bonus soltanto nell’edizione in digitale e per inciso era questo il primo album dei Fall a venire pubblicato pure in CD (la cassetta ne offre anche una tredicesima che azzardo pletorica, registrata dal vivo). Me ne cruccio relativamente, giacché mi pare che la chiusa ideale per il disco non possa essere che la ripresa di quella Shoulder Pads che sul primo lato va dietro, sferragliantemente velvetiana, a un’ipotesi di Joy Division primordiali chiamata R.O.D. e alla danza sbilenca di Dktr. Faustus e precede la cover degli Other Half. Prima che Gross Chapel-British Grenadiers suggelli la facciata con i suoi 7’20” diversamente memorabili di ritmica marziale, chitarre acidule e tastiere rarefatte. Shoulder Pads a mio avviso è uno dei brani-simbolo dei Fall epoca Brix: qui si incontrano precisamente a metà via il gusto pop in precedenza inaudito introdotto dalla ragazza e l’enfasi declamatoria di un consorte giustamente sbigottito dalla convivenza forzata con chi “non distingue Doug Yule da Lou Reed”. Ma è l’intero secondo lato a pareggiare gli apici più apici della torrenziale produzione del gruppo, dall’industrial krautfunk di U.S. 80’s-90’s al vertiginoso rimpattino fra il sospeso e il vorticoso di Riddler!, passando per l’abbozzo di punk-beat Terry Waite Sez e una Bournemouth Runner che rolla ossianica, decolla furiosa, atterra sgangherata. E la morale di questa storia è: sempre farsi traviare da due begli occhi e fattezze d’angelo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.238, marzo 2018.

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Archers Of Loaf – Reason In Decline (Merge)

Una volta “reunion” era una parolaccia, l’ultimo rifugio di musicisti che, avendo assaggiato lo stardom con un gruppo e fallito nel mantenerlo con altri sodali o da solisti, vellicavano la nostalgia di chi era stato giovane quando erano giovani loro. Erano considerate una roba patetica. Ancora suonate rock a… quarant’anni?!? Oggi che anche ai concerti di band di ventenni molti degli astanti hanno il doppio o il triplo degli anni di chi è sul palco nulla è più comune del tentare un secondo o terzo giro per gruppi che al primo magari ebbero successo e fecero la Storia, magari non raccolsero quanto avrebbero meritato e sono poi stati rivalutati, magari avrebbero potuto risparmiarci già il primo. Tuttavia: spesso con esiti sorprendentemente buoni e si potrebbero fare enne esempi.

Al chilometrico elenco si aggiungono gli Archers Of Loaf, da quella Chapel Hill, North Carolina, che nei primi Novanta sistemò sulla mappa del più pregiato indie USA loro e altre due band strepitose quali i Superchunk (mai sciolti) e i Polvo (di nuovo insieme dal 2008). Erano come una versione più rumorosa ma melodicamente al pari insidiosa dei Pavement, gli Archers Of Loaf. Pubblicarono fra il ’93 e il ’98 quattro splendidi album su Alias (a un certo punto li aveva messi nel mirino la Maverick di Madonna, ma non cedettero alle sue lusinghe) e poi ciao. Dopo una manciata di concerti nel 2012 tornano con un lavoro in studio e sono come li si ricordava, eppure sottilmente diversi. Più lirici, più… centrati. Più ascolti pezzi come Saturation And Light (una delle loro cose più pop di sempre), Breaking Even (degli Hüsker Dü in fregola Byrds) o la pianistica War Is Wide Open e meno il pensiero che sia questo il loro disco migliore ti pare blasfemo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022.

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I migliori album del 2022 (6): King Hannah – I’m Not Sorry, I Was Just Being Me (City Slang)

Che bello potersi entusiasmare per un semi-esordio (pubblicato nel dicembre 2020, con i suoi sei brani per complessivi trenta minuti “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine” in altri decenni sarebbe stato considerato debutto in lungo) quale è questo dei King Hannah, duo domiciliato a Liverpool formato dalla cantante e chitarrista gallese Hannah Merrick e dal chitarrista Craig Whittle. È che trasmette una freschezza che sconfina nell’innocenza che inevitabilmente intenerisce. È che la scaletta è benissimo congegnata, con due interludi che sono in realtà introduzioni ai brani in cui sfumano e le dieci canzoni vere che lo compongono che alternano sapientemente atmosfere ed emozioni creando un fluire armonioso. Spostane una e non è che verrebbe giù tutto ma ecco, pur restando un ottimo album “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” non sembrerebbe più il piccolo miracolo che è. Giacché i dettagli sono parte integrante della grandezza. Sempre.

A non essere un dettaglio è come mettendo a nudo i loro cuori ragazza e ragazzo risultino disarmanti anche per il più cinico dei navigatori di lungo corso dei mari del pop. Il che fa sì che l’elenco delle influenze non si trasformi nel solito argomento del “tutto già sentito”. Perché no, perché persino nell’omaggio smaccato ai Portishead di “Dummy” di Foolius Caesar i King Hannah riescono a essere unici. Lo sono a maggior ragione quando squadernano il blocchetto degli appunti: distillando doom dalla prima PJ Harvey in A Well Made Woman, evocando lo Springsteen devoto ai Suicide in Big Big Baby, gettando un ponte fra il Neil Young di On The Beach e quello di Cortez The Killer in The Moods That I Get In, giocando nella traccia omonima lui a far Nick Cave, lei Kylie Minogue.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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I migliori album del 2022 (8): Hurray For The Riff Raff – Life On Earth (Nonesuch)

Lunga la strada che ha portato la statunitense di origini portoricane Alynda Segarra dai due album che si autoproduceva fra il 2008 e il 2010 all’omonimo debutto su Loose Music, che rappresentava nel 2011 il suo ingresso nella discografia ufficiale e nel quale sistemava una scelta di pezzi dai lavori precedenti. E da quello per tramite di ulteriori quattro album a questo, che marca l’inizio di una collaborazione con un’etichetta di enorme prestigio quale la Nonesuch. Percorso affrontato con fierezza e coerenza e nel contempo scansando il pericolo che la sua musica potesse farsi cliché, aggiornandola e arricchendola costantemente ma senza mai perdere il filo del discorso. Sicché qualcosa di indefinibile ma palpabile collega quel “Look Out Mama” che nel 2012 qualcuno descriveva come “una reliquia prebellica che The Band avrebbe potuto ascoltare su un grammofono mentre stava incidendo il primo LP” a “Life On Earth”. Non solo una meraviglia di disco ma quello che potrebbe rendere l’artista di New Orleans una star.

“Nature punk”, lo definisce lei. Del punk conserva invero l’essenziale, lo spirito, ma non aderisce mai alla lettera e se un brano come Precious Cargo non è distante da certi Clash è a “Sandinista!” che rimanda, non a White Riot. Del folk d’antan permangono tracce in un brano omonimo che è delizioso valzer al rallentatore e qui e là in una melodia, una progressione di accordi ma è allora folk-rock, in una Rhododendron con passo alla Roadrunner o in Saga, dove è della prima Chrissie Hynde che si colgono echi. Altre due rispetto a queste pur splendide sono però le canzoni candidate alle classifiche: la schiettamente techno-pop Pierced Arrows; Pointed At The Sun, ballata viceversa gonfia di chitarre indie.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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I migliori album del 2022 (11): Dehd – Blue Skies (Fat Possum)

Amor ch’a nullo amato amar perdona induceva nel 2015 Emily Kempf e Jason Balla a porre le basi per un futuro condiviso artistico oltre che domestico. Lasciavano allora le band in cui suonavano (due a testa!) rispettivamente basso e chitarra per fondarne una loro che completavano chiedendo al comune amico Eric McGrady di sistemarsi dietro una batteria (strumento di cui per inciso era completamente a digiuno) costituita unicamente da un timpano e un rullante. Catalogabile alla voce surf-punk, l’omonimo debutto del 2016 sarebbe potuto restare il loro unico album se i due avessero deciso, quando l’anno dopo si separavano, di sciogliere contestualmente il gruppo. Optavano invece per (come si suol dire) “restare amici” e fare di dolore e rimpianto, tenerezza e rabbia il carburante emotivo nel 2019 di “Water”. Buon per loro e per noi, siccome quel disco li promuoveva da un’onesta serie B a un’ideale Major League dell’indie USA.

Lei cita come influenze James Brown, Roy Orbison e Dolly Parton, lui Cocteau Twins, Broadcast e Cate Le Bon, ma tolta quest’ultima bravo chi riesce a trovarne pur minime tracce in un album sulla falsariga del precedente (2020) “Flower Of Devotion”. A parte che l’asticella si alza ancora e il peculiare sound del trio, apparentemente sgangherato e al contrario sublime meccanismo a orologeria in cui ogni ingranaggio contribuisce al moto perpetuo dell’assieme, raggiunge la perfezione. Immaginate di fondere il minimalismo ritmico e ultra-melodico degli Young Marble Giants e la psichedelia post-punk dei Soft Boys, shakerate e otterrete un distillato della leggendaria classe dell’86 UK. Non ascolterete quest’anno una canzone più irresistibile di Bop, in tutti i suoi novanta cretinissimi e gloriosi secondi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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I migliori album del 2022 (14): Alvvays – Blue Rev (Polyvinyl)

Più che stupirsi per il fatto che questo disco si sia fatto attendere cinque anni, mancando di cavalcare l’onda del successo di “Antisocialites”, alla cui uscita non vi era chi non pronosticasse un futuro da rockstar per gli Alvvays, c’è da essere sorpresi che i Canadesi siano alla fine riusciti a metterlo insieme un terzo album. Giacché e tanto per cominciare a Molly Rankin ─ fondatrice, cantante, chitarrista, leader della band di Toronto ─ rubavano il laptop sul quale aveva archiviato idee sparse e demo completi per il disco. Poi la strumentazione del gruppo veniva in gran parte irreparabilmente danneggiata da un allagamento del magazzino che la ospitava. Dopo di che la sezione ritmica originale dava le dimissioni e se n’era appena trovata una nuova quando il Covid prendeva il mondo in ostaggio. Che saltassero i concerti necessari a una formazione rinnovata per due quinti per testarne l’amalgama era il meno a fronte delle difficoltà semplicemente a provare insieme. A confrontarsi sulle nuove canzoni che nel frattempo Molly e l’altro chitarrista, Alec O’Hanley, avevano comunque scritto, al solito a quattro mani. “Blue Rev” ne mette in fila quattordici e non si rinuncerebbe a cuor leggero a nessuna.

Se sia il migliore dei tre album pubblicati a oggi (il primo, omonimo, nel 2014) da costoro lo stabiliranno gusti e ascolti. Per certo regge il confronto con predecessori brillanti nel loro amalgamare indie di ascendenza UK (scuola C86) e college rock, synth-pop e shoegaze. Una via l’altra piazza a un certo punto tre canzoni che potrebbero davvero far svoltare ragazza e ragazzi: il power pop Velveteen, una soffice Tile By Tile, una Pomeranian Spinster che è quasi una nuova It’s The End Of The World As We Know It.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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I migliori album del 2022 (15): Horsegirl – Versions Of Modern Performance (Matador)

In un mondo che sempre più velocemente va a ramengo tocca aggrapparsi alle poche buone nuove e una è che hanno ripreso a vendersi le chitarre elettriche e gli acquirenti sono giovani, spesso giovanissimi. Nel caso delle Horsegirl, da Chicago, giovanissime (ecco: un’altra ottima notizia è che cresce la presenza femminile nel rock). A malapena adolescenti Nora Cheng, Penelope Lowenstein e Gigi Reece (le prime due per l’appunto chitarra e voce, la terza alla batteria) quando nel 2019 pubblicavano in Rete il primo brano, oggi che esordiscono in lungo per un marchio storico dell’indie USA quale è la Matador due di loro si sono appena iscritte all’università e l’altra sta finendo il liceo. A sommarne le età non arrivano a pareggiare i sessantasei anni di Lee Ranaldo e nemmeno i sessanta di Steve Shelley, gli ex-Sonic Youth che si sono prestati con entusiasmo a dar loro una mano per due dei dodici brani (tre sono interludi strumentali, nessuna traccia arriva ai quattro minuti) che sfilano in “Versions Of Modern Performance”. Inciso presso l’Electrical Audio Studio di Steve Albini (anni sessanta pure lui quando leggerete queste righe) e con la produzione di John Agnello, un cv che occuperebbe tre colonne e basti dire che oltre che con i Sonic Youth stessi ha spesso lavorato con altri evidenti numi tutelari delle ragazze, i Dinosaur Jr. Si saranno emozionate?

Ci emozioniamo noi all’ascolto di un disco di travolgente freschezza che evidenzia come le artefici abbiano sì mandato a memoria le lezioni di My Bloody Valentine, Pavement e Yo La Tengo (ma pure Gang Of Four benché spesso il basso non ci sia e Stereolab pur mancando quasi sempre le tastiere), per poi però intrecciarle in un sound che è già solo loro. Giovani favolose.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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Dry Cleaning – Stumpwork (4AD)

L’album con il quale i londinesi Dry Cleaning danno un seguito all’acclamato debutto datato aprile 2021 “New Long Leg” è abbastanza diverso da quello da far parlare di un’evoluzione e anche maturazione del quartetto, abbastanza simile da risultare rassicurante per chi già apprezzò il predecessore, troppo per conquistare nuovi cultori a Florence Shaw e soci. È che per chi non è di madrelingua la posizione che resta preminente nel missaggio della voce di costei (di grandissima lunga l’elemento di maggior spicco nella cifra stilistica del gruppo) rappresenta un intralcio rispetto all’apprezzamento pieno di spartiti pure interessanti, non banali. E se anche il tuo inglese è buono a sufficienza da consentirti di decifrare all’ascolto i torrenziali testi (o anche soltanto quanto basta da apprezzarli ─ e lo strameritano ─ leggendoli) sovente ti sorprendi a cercare di ignorare la voce e concentrarti su quanto sta sotto. A maggior ragione perché Florence praticamente mai canta, al più canticchia. Recita, invece. Un sempiterno monologare che all’inizio intriga, alla lunga stanca, alla fine ti fa pensare che sarebbe bello se i dischi dei Dry Cleaning venissero offerti in versione raddoppiata/sdoppiata. Le canzoni, che poi canzoni in senso tecnico non sono, su un primo CD o vinile, le sole basi strumentali sul secondo.

Tant’è. Concentrandosi molto si riesce a cogliere una maggiore varietà di atmosfere rispetto al debutto. Come uno scivolare (ma senza che sparisca del tutto dal quadro, anzi; vedasi una Conservative Hell joydivisioniana) dal post-punk al post-rock, nel contempo concedendosi ganci pop, scorci quasi psichedelici (la chitarra in scia a Tom Verlaine di Driver’s Story; Hot Penny Day), aperture cinematografiche.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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