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Ty Segall – Three Bells (Drag City)

Batte la fiacca, Ty Segall. L’uomo che nel 2018 pubblicò sei album ─ primo il monumentale “Freedom’s Goblin”, capolavoro personale che lo ha consegnato alla storia del rock ─ nel 2023 ha lasciato a bocca asciutta i cultori. O quasi visto che, se in proprio ha latitato, a nome C.I.A. ci ha inflitto la macelleria sonica di “Surgery Channel”: collaborazione con l’amatissima moglie Denée e scorgendo la firma di costei sotto cinque dei quindici brani (sessantacinque minuti: il blocco dello scrittore è un’altra cosa) di “Three Bells” qualche timore viene. Non bastasse, la penultima traccia si chiama Denée e chissà che film si saranno fatti i maligni che sostengono che costei stia a Ty come Yoko Ono a John Lennon. Errando.

Se fino a un certo punto di una fino a un certo punto prolificissima carriera iniziata quando aveva ventun anni (ne compirà a giugno trentasette) Segall si era caratterizzato come alfiere di un lo-fi che centrifugava ogni cosa Sixties o dei primi ’70 possa venirvi in mente, mischiando e accatastando materiali spesso pure compositivamente grezzi, dopo lo zibaldone definitivo di “Freedom’s Goblin” aveva fatto ulteriormente ordine concentrandosi in ogni album su uno stile. E allora nel 2019 “First Taste” era la sua opera più psichedelica, nel 2021 “Harmonizer” ammanniva hard sabbathiano infiltrato di synth e nel 2022 “Hello, Hi” era folk più che folk-rock. Con ulteriore capriola, e ribadendo che a furia di sovraincidersi il Nostro ha imparato a confezionare dischi che suonano anche bene, “Three Bells” senza abbandonare il folk ne fa giusto uno degli elementi di un sound di nuovo enciclopedico. Al punto che in qualche frangente si può azzardare un’etichetta che mai si sarebbe pensato di accostare all’artefice: progressive.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.462, marzo 2024.

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I migliori album del 2023 (7): Squid – O Monolith (Warp)

È una distanza che non si misura in chilometri quella dalla sala d’incisione di Dan Carey, produttore dei primi black midi come dei Geese e dell’intera discografia dei Fontaines D.C., ricavata a Londra da un ufficio postale, ai Real World Studios di Peter Gabriel, che dal 1989 (nessuno degli Squid era ancora nato) rappresentano lo stato dell’arte della registrazione e occupano una quantità spropositata di spazio nella campagna dello Wiltshire. Forti del riscontro commerciale (un numero 4 UK) oltre che di critica ottenuto nel 2021 da “Bright Green Field” il cantante e batterista Ollie Judge, i chitarristi Louis Borlase e Anton Pearson, il tastierista e violinista Arthur Leadbetter e il bassista e trombettista Laurie Nankivell hanno persuaso la Warp a pagare un conto ovviamente più salato, Carey a lavorare fuori dalla sua comfort zone. Ne è valsa la pena, per quanto le vendite si segnalino in immeritato calo.

È una distanza che non si misura in anni quella che separa “O Monolith” (titolo invero fuorviante) dal predecessore e dire che i ragazzi ci mettevano mano appena terminato il tour di quello. Da un post-punk pur peculiare nell’ambito di una scena che va invecchiando in fretta si passa a ciò che non si può che definire progressive, a patto di aver chiaro che è tutta questione di attitudine e zero di revival. Qui i Talk Talk più bucolici si fondono con i King Crimson più esagitati (Devil’s Den), i Pink Floyd di “Atom Heart Mother” vengono presi in ostaggio dai black midi di “Schlagenheim” (Siphon Song), i Devo collidono coi Defunkt (Undergrowth), i Radiohead vanno a lezione dai This Heat (The Blades). Stupefacente. E ancora non siete arrivati all’impressionistico, meditativo gran finale (“If You Had Seen The Bull’s…”).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.456, settembre 2023.

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I migliori album del 2023 (9): Slowdive – Everything Is Alive (Dead Oceans)

Che volete che siano sei anni quando il disco prima lo si era aspettato ventidue? Laddove ne erano bastati quattro, dal ’91 al ’95, al quintetto di Reading per passare dagli altari cui veniva elevato per “Just For A Day” (uno dei tre classici conclamati dello shoegaze essendo gli altri “Loveless” dei My Bloody Valentine e “Nowhere” dei Ride) alla polvere in cui veniva trascinato per l’incompreso ma da rivalutare “Pygmalion”. Tappa intermedia quel “Souvlaki” che taluni fra i cultori della band preferiscono al debutto e lo si annota per sottolineare quanto fosse solido il lascito dei Nostri. Quanto grande per Neil Halstead e Rachel Goswell, che avevano poi condiviso un’altra avventura affatto diversa ma al pari memorabile chiamata Mojave 3, l’azzardo di riconvocare i vecchi sodali Christian Savill, Nick Chaplin e Simon Scott e tornare in pista come Slowdive. Ci credevano così tanto da battezzare con il nome del gruppo l’(in)atteso quarto lavoro in studio: sostanzialmente una sintesi (notevole eccezione la ballata pianistica Falling Ashes) dei primi due lontanissimi predecessori, fragorosamente estatici, mentre “Everything Is Alive”, che paradossalmente si potrebbe considerare come il tipico “difficile secondo album”, sposta i paletti flirtando con l’elettronica come già “Pygmalion”. Con esiti eccellenti.

Stesso numero di brani del predecessore del 2017 (otto, per complessivi 41’37”) è meglio a fuoco del giurassico antecedente. Più vario anche, nel percorso dalla ballata dal cuore motorik Shanty al post-punk di impronta Cure The Slab. Certi pallidi emuli odierni possono solo sognarsi sia il dream pop sul serio onirico di Prayer Remembered che una Alife seducente con brio. O un’altra qualunque fra le quattro tracce non citate.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.457, ottobre 2023.

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I migliori album del 2023 (11): Geese – 3D Country (Partisan)

Atteso, il secondo album dei newyorkesi Geese, non perché si sia fatto desiderare chissà quanto (esce il 23 giugno, dunque a poco più di un anno e mezzo da “Projector”) ma perché il brillante debutto aveva segnalato nei titolari una delle band più originali di quella sterminata scena che va (diciamolo: il termine è talmente inflazionato da rischiare di diventare squalificante) sotto il nome di “post-punk”. È che a stimolare la curiosità, e alzare se possibile il livello delle aspettative, ha provveduto la canzone omonima, che lo ha anticipato di un paio di mesi e nel cui titolo l’accento va posto su “Country”. Proprio quello, al netto di una chitarra che jazzeggia e premettendo un bel “alt-” come da scuola Uncle Tupelo/Wilco, è la suddetta e deliziosa ballata: scelta spiazzante per una band da molti accostata (quegli altri sono in realtà, nella loro fisicità estrema, assai più cerebrali) ai britannici black midi.

E il resto? Detto di una Cowboy Nudes che, terza in scaletta le va subito dietro pigiando ancora di più sul pedale della tradizione e però concedendosi a metà un break percussivo superlatino e di una Tomorrow’s Crudades che, parecchio più avanti (penultima in un programma di undici), potrebbe arrivare da un disco di Terry Allen, gira da altre parti. Da molte altre parti. Se l’iniziale 2122 omaggia i Rush nel titolo e i Contortions nello svolgimento, I See Myself e Gravity Blues stimolano il sospetto che i Nostri abbiano mandato a memoria “Abbey Road”. Se Crusades sono i Modern Lovers più devoti ai Velvet, St.Elmo sono dei Velvet in botta soul. Se Mysterious Love ci ricorda che i Radiohead il nome l’hanno preso dai Talking Heads, Undoer è Frank Zappa che per “Waka/Jawaka” convoca in studio Tim Buckley.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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I migliori album del 2023 (12): Shame – Food For Worms (Dead Oceans)

Se una cosa si poteva rimproverare ai londinesi Shame ─ giovanissimi quando debuttavano nel 2018 con il contundente, ruggente, a tratti feroce “Songs Of Praise” ─ era un’eccessiva aderenza ai due modelli peraltro da lungi con più tentativi di imitazione da quelle parti, Fall e Gang Of Four. Valeva ancora per il secondo e comunque formidabile album, datato 2021, “Drunk Tank Pink”, per quanto più che cavarsela con l’abusata etichetta “post-punk” si potesse e dovesse continuare a parlare nel loro caso di “post-hardcore”. Erano “non per tutti, ma impressionanti” e impressionanti restano, ma per due ragioni una conseguente all’altra: perché, avendo inteso che con un terzo lavoro in studio sulla falsariga dei predecessori si sarebbero infilati in un vicolo cieco, hanno preferito cambiare; e per come l’hanno fatto.

Che si tratti di tutt’altra musica provvede a chiarirlo già l’iniziale Fingers Of Steel, mischiando incongruamente quanto felicemente i DNA di Arcade Fire (i primi) e Buzzcocks, e se come azzardo non vi pare abbastanza ecco tallonarla Six-Pack, che fra le dieci tracce che sfilano in “Food For Worms” è l’unica in cui il fantasma di Mark E. Smith fa una comparsata, ma per incontrarne un altro che non ti aspetteresti mai, Jimi Hendrix, e portarlo a un concerto dei black midi. Ascoltare per credere, anche se in fondo sorprende appena meno del fatto che subito dopo gli Shame declinino in Yankees classico indie rock da medi ’90, che in Orchid dispieghino chitarre acustiche (torneranno nella conclusiva All The People) e persino un piano, in World Gets Better scintilli del jazz, in Different Person si palesino quei Talking Heads evocati al giro prima ma lì mai concretizzatisi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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I migliori album del 2023 (13): Sleaford Mods – UK Grim (Rough Trade)

“Invettive per la classe lavoratrice su basi di elettronica minimalista”: così gli Sleaford Mods – il cantante ma più che altro comiziante Jason Williamson provvede alle prime, il dj Andrew Fern alle seconde – riassumono uno stile e un sound che possono piacere o no ma perlomeno sono inconfondibili. Altri hanno provveduto a descriverli così: “loop punitivi di basso pugilistico post-punk a disegnare ritmi funzionali ma poco attraenti con sopra elementari riff tastieristici e svogliati tocchi di chitarra”. Fern la mette giù più semplice: “Un pattern di drum machine scrauso e una linea di basso”. Non sembrerebbe la formula alchemica per trasformare ogni disco in oro ma, pubblicato da una settimana, nel momento in cui scrivo il dodicesimo album del duo di Nottingham (sarebbe in realtà il settimo visto che nei primi quattro e ultraclandestini Fern non c’era e che quello che dava il “la” al sodalizio non era che un CD-R; impagabile il titolo: “Wank”) è terzo nelle classifiche UK, migliorando di una posizione il piazzamento del precedente “Spare Ribs” e di sei quello di “Eton Alive”. Che era nel 2019 il disco con il quale questi due bruttissimi ceffi (vista la copertina?) e finissimi ingegni cominciavano a diventare enormi. Un’istituzione dalle parti di casa loro in maniera non dissimile da come lo furono Ian Dury e Mark E. Smith ed è, in altro ambito, Ken Loach.

Premesso che a non essere britannici si perde metà del loro senso della vita, c’è da sottolineare come musicalmente costoro si stiano sempre più affinando. “UK Grim” è per lunghi tratti irresistibile. In particolare quando gira più dalle parti di Ian Dury (Right Wing Beast, So Trendy) che da quelle di Mark E. Smith (Don, Pit 2 Pit).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.452, aprile 2023.

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I migliori album del 2023 (14): Gina Birch – I Play My Bass Loud (Third Man)

“I was a punk before you were a punk”, rivendicavano in un loro celebre brano i Tubes, che poi punk se non un po’ in spirito non lo furono mai. “I was post-punk before punk”, potrebbe rivendicare Gina Birch, che fondava le Raincoats con Ane de Silva nel 1977 dopo avere assistito a un concerto delle Slits e sceglieva il basso come strumento perché, avendo quattro corde invece delle sei di una chitarra, immaginava sarebbe stato più facile imparare a suonarlo. Da lì a due anni un quartetto tutto al femminile esordiva a 33 giri con un lavoro omonimo in cui in effetti del punk c’è più che altro lo spirito ma si va oltre, molto oltre, miscelando folk e free jazz, reggae e funk, dub e assortite influenze world. Epocale e adorato da Kurt Cobain, che nel 1993 persuadeva le Raincoats a rimettersi insieme (si erano sciolte nell’84, dopo avere pubblicato altri due ottimi LP e una cassetta su ROIR) per un tour di spalla ai Nirvana che sfortunatamente (per la ragione che potete immaginare) non si concretizzerà mai.

Apprezzata videomaker e pittrice, trent’anni dopo e prossima a compierne sessantotto la Birch si toglie lo sfizio di debuttare da solista con un album prodotto da Youth, con Thurston Moore ospite e che esce per l’etichetta di Jack White. Facendo come niente fosse piazza pulita del 99% del cosiddetto post-punk odierno con undici brani egualmente quanto diversamente micidiali: si tratti della dub poetry esultantemente declinata nella traccia inaugurale e omonima e in Digging Down o dell’alt-rock alla Breeders Wish I Was You, del punky reggae party Pussy Riot, del girl pop-goes-noise di I Am Rage o di una Feminist Song dal delicato all’innodico. Dance Like A Demon, titola un altro pezzo: e non ci si può esimere.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.452, aprile 2023.

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Everything But The Girl – Fuse (Buzzin’ Fly)

Gli Everything But The Girl tornano insieme a ventiquattro anni dal decimo lavoro in studio e ventitré da un ultimo concerto destinato a quanto sembra a restar tale (però avevano anche detto che dischi in duo non ne avrebbero più fatti) senza essersi in realtà mai separati. Giacché da quattro decenni Tracey Thorn e Ben Watt sono coppia nella vita oltre e prima che sodalizio musicale. All’altezza dell’uscita di “Temperamental” erano da poco diventati mamma e papà di due gemelle, un altro pargolo si è aggiunto poco dopo e nel lunghissimo iato che ha separato quell’album da “Fuse” figlie e figlio hanno fatto in tempo a diventare adulti e lasciare casa mentre i genitori pubblicavano quattro dischi da solisti lei e tre lui, si affermavano come scrittori (lei soprattutto) e insomma gli Everything But The Girl in questo quasi quarto di secolo devono essere mancati più al resto del mondo che a loro. E forse nulla sarebbe cambiato non si fosse messo di mezzo il Covid, rinchiudendo i due fra le mura domestiche in un isolamento particolarmente rigoroso per via di una sindrome autoimmune di cui soffre Ben.

Come non fosse passato un giorno da quando decisero che non avevano bisogno di essere famosi (capace che abbiano accolto con fastidio che “Fuse” abbia esordito al numero 3 della classifica UK: il loro piazzamento migliore!). Proprio come il lontano predecessore media fra il sofisticato folk-pop-jazz degli esordi e la successiva svolta elettronica. Da subito, da una Nothing Left To Lose in odore di dubstep cui va dietro la pianistica Run A Red Light. Più avanti e fra il resto, Time And Time Again ha vaghi tratti trap laddove Interior Space è ninnananna ambient. La precede Forever, ballabilissima, balearica, una possibile hit.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Pur avendo ottenuto buoni risultati in una prima carriera solistica che lo vedeva pubblicare fra il ’90 e il ’96 quattro lavori in studio, per certo Robert Forster avrebbe fatto volentieri a meno di intraprenderne nel 2008 una seconda che ne ha fruttato con questo altrettanti. È che si metteva in proprio quando quei magnifici Smiths-prima-degli Smiths che furono i Go-Betweens si scioglievano, giustamente offesi dall’indifferenza del mondo (fa oggi sorridere agro che a un dato punto molti fra i loro pochi cultori li accusassero di essersi “commercializzati”: era appena uscito l’album con cui sembrò chiudersi la loro vicenda, “16 Lovers Lane”, un numero 48 nella natia Australia, 81 nel Regno Unito). E ci si rimetteva quando il sodalizio con Grant McLennan (li dissero i Lennon/McCartney del pop chitarristico degli anni ’80: esagerando un po’, non troppo; in linea di massima Robert era John), felicissimamente rinnovato nel 2000, tragicamente si scioglieva di nuovo e per sempre nel 2006, causa dipartita per infarto a soli quarantott’anni dell’amico e socio. Ne avrebbe fatto a meno, ma visto che è andata come è andata vale come consolazione che il superstite ogni tanto ci regali una manciata di canzoni nuove. Mai troppo distanti dalle vette olimpiche toccate in una giovinezza costellata di classici.

“The Candle And The Flame” ne mette in fila nove, le migliori verso metà programma: una Pale Blue Eyes sbarazzina chiamata It’s Only Poison, la ballata country a due voci I Don’t Do Drugs I Do Time, una Always da Modern Lovers prima maniera. Inaugura con giocosa grinta She’s A Fighter. Apprendere che è dedica alla moglie (nonché partner pure artistica) Karin Bäumler, alle prese con seri problemi di salute, prima spiazza, poi commuove.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Belle And Sebastian – Late Developers (Matador)

Gruppo per quasi venti peraltro splendidi anni piuttosto prevedibile gli scozzesi Belle And Sebastian, sin dacché “Tigermilk” nel 1996 delineava un canone di istantanea riconoscibilità. Elementi fondanti i Love di “Forever Changes” e i Velvet del terzo LP, Byrds, Smiths e Go-Betweens, Nick Drake, certa Motown, la Sarah. Naturalmente quella Postcard che tre lustri prima si era scelta negli anni ’60 gli stessi numi tutelari. Era la quintessenza del pop da cameretta e a fare la differenza era la qualità della scrittura: stellare. Sempre. E importava poco allora o nulla che i dischi si somigliassero un po’ tutti. Un’unica volta, ed era il 2002, i nostri eroi erano usciti dal seminato ma non faceva testo, siccome “Storytelling” nasceva come colonna sonora. Tutto ciò fino al 2015, quando “Girls In Peacetime Want To Dance” spiazzava muovendosi in massima parte fra, appunto, dance e new wave e sistemando giusto in apertura e chiusura quei due o tre brani che si sarebbero potuti confondere negli album prima. Mossa coraggiosa, disco divertente ma non granché a fuoco, un filo irrisolto.

Non contando “Days Of The Bagnold Summer” (un’altra colonna sonora), “A Bit Of Previous” gli dava un seguito soltanto nel 2022 stupendo di nuovo, stavolta con robuste iniezioni di synth-pop, e di nuovo lasciando perplessi. “Late Developers” arriva nei negozi appena otto mesi dopo. Che ne sembri il fratello gemello pare ovvio, inevitabile una volta appreso che le sue undici canzoni provengono dalle stesse sedute. Lavoro ancora più slegato, che si rifà indifferentemente a Donovan come ai Pet Shop Boys, ai Thin Lizzy o ai Miracles. Si giunge alla penultima traccia prima di riconoscere i Belle And Sebastian tanto amati. Il trucco c’è: è un pezzo scritto nel 1994.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.

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