
“Electric Ladyland” è l’ultimo album in studio che Hendrix completerà in vita. “Electric Ladyland” è il suo primo ad andare al numero uno negli Stati Uniti. Il successo porta con sé il potere. Il potere, le responsabilità. Al passaggio dal 1968 al ’69 il chitarrista di Seattle è una delle più grandi stelle del rock, forse addirittura la più grande e sicuramente quella che strappa gli ingaggi più alti. Per certo del rock è l’unica autentica stella afroamericana, giacché in fondo Sly Stone fa altro. Cresciuto senza che il colore della pelle costituisse un problema, ha cominciato a fare i conti con il pregiudizio nell’esercito ed è stato costretto definitivamente a prenderne le misure dagli innumerevoli tour giù nel profondo Sud negli anni dell’apprendistato. Se traslocando sull’altro lato dell’Atlantico ha scoperto nel suo essere nero persino un vantaggio, al ritorno in patria con il giusto orgoglio di chi ce l’ha fatta inizia a pesargli che il suo pubblico sia in stragrande maggioranza bianco. Solo settori marginali di una platea afroamericana che si è lasciata alle spalle da un pezzo il blues elettrico, e che sta per chiudere la stagione dell’errebì e del soul convertendosi in massa al funky, ne apprezzano gli anfetaminici riff e le magmatiche divagazioni psichedeliche: tant’è che quando andrà a suonare gratuitamente ad Harlem, lui abituato ad esibirsi davanti a decine di migliaia di spettatori, in duecento rimarranno fino alla fine dello spettacolo. Lo patirà, come ha ovviamente patito che da un lato e dall’altro della barricata razziale gli abbiano dato dello Zio Tom. E reagirà in due modi: musicalmente, scurendo decisamente il suo sound; politicamente, non facendosi tirare la giacchetta dagli estremisti (alle Pantere Nere magari quello che suona non piace, ma colgono bene quanto potrebbe essere dirompente l’adesione alla causa di un personaggio pubblico di simile statura) ma nel contempo lasciandosi alle spalle il confuso qualunquismo lascito dell’indottrinamento subìto sotto leva. Sicché da un appoggio nemmeno troppo velato al conflitto in Estremo Oriente passa a un’opposizione dettata pure dalla constatazione che sono soprattutto di colore i soldati mandati laggiù. Beninteso: senza alzare i toni e tenendosi in un ambito di generico pacifismo da figlio dei fiori. Appoggia la causa di Martin Luther King a parole e con donazioni consistenti ma mai pubblicizzate. Più che con la favella è tuttavia sempre con la chitarra che pronuncia i discorsi migliori. Due risulteranno indimenticabili.
Del primo non abbiamo che il resoconto reverente di chi c’era. Il 4 aprile 1968, il giorno dell’assassinio del Reverendo King, la Experience è di scena a Newark. Per qualche ora le autorità locali hanno considerato la possibilità di cancellare lo spettacolo, timorose degli effetti che potrebbe avere su una situazione tesissima anche soltanto la vista, in una zona in cui il razzismo è forte e sfacciato, di un gruppo multirazziale. Figurarsi una musica di suo esplosiva. Temono per altro verso che l’annullamento del concerto potrebbe a sua volta provocare disordini e finiscono per dare il via libera. Hendrix sale sul palco da solo e annuncia: “Questo brano è per un mio amico”. E si lancia in una lunga improvvisazione, straziante lamento funebre che fa calare un silenzio tombale sul palazzetto. Non un battito di mani alla fine, non un fischio, solamente lacrime.
Il secondo abbiamo potuto invece mandarlo a memoria, eternato nel film che documenta nel suo complesso la tre giorni di “pace, amore e musica” (certo, certo…) di Woodstock, in quello dedicato alla sola performance del nostro uomo (ma non c’è nemmeno metà concerto), infine nel doppio CD che, a trentun’anni di distanza, ha reso disponibile integralmente un’esibizione per lunghi tratti incerta ma poi per venti minuti trascendentale. Può pure darsi che per Hendrix eseguire l’inno nazionale americano avvolgendone la melodia purissima in spirali di feedback fino quasi a strangolarla, per quindi farla riemergere di nuovo virginea, non fosse che un interessante esercizio musicale. Ma ci credete voi? Potete credere che non fosse consapevole in cuor suo che quelle corde piegate fino a farsi bombe e sirene, e un pianto disperato per l’innocenza perduta, non avrebbero evocato nella mente di chiunque immagini del Vietnam, e di linciaggi, e di ghetti in fiamme? Tutti i fallimenti e le tragedie degli anni ’60 vivono e ci parlano in duecentoventitre secondi che non smetteranno mai di emozionare. Elegia per l’interprete stesso.
Diciassette mesi hanno separato “Electric Ladyland” da “Are You Experienced?”. Ce ne va uno in più, ed è un’eternità per un’epoca in cui rappresenta la normalità pubblicare due LP all’anno, perché arrivi nei negozi “Band Of Gypsys”. Non è che nel frattempo il Nostro abbia riposato sugli allori e se si è preso sì delle vacanze è stato per pochi giorni alla volta. Ha continuato a suonare dal vivo, molto ma un po’ di meno. Ha continuato a registrare e in questo caso i ritmi meno frenetici sono dovuti ai ritardi nell’allestimento di uno studio di proprietà, l’Electric Lady, a New York. Lui e il manager hanno deciso di costruirlo dopo essersi resi conto che con quello che è stato speso per “Electric Ladyland” si sarebbero potuti comprare i Record Plant, invece che pagarne l’affitto. Amara ironia che l’album, un altro doppio, designato a essere il successore vero di quel monumento sia destinato a rimanere incompiuto.
Se Jimi tace tanto a lungo è per una concomitanza di ragioni: l’usura di due anni vissuti a velocità forsennata per reggere la quale ha fatto un ricorso alle droghe (e ad altri assortiti aiutini farmaceutici) sempre più massiccio e non più creativo e ricreativo; la perdita, con Chas Chandler, di una stella polare in grado di indirizzarne una creatività tutt’altro che sopita; un perfezionismo sempre più esasperato, che lo porta a non essere mai soddisfatto appieno di quello che scrive e incide; il dissolversi della Experience. A Woodstock si è esibito alla testa di un sestetto raccogliticcio – Gypsy Sun And Rainbows – in cui gli unici professionisti veri, con lui, sono il superstite Mitch Mitchell e il bassista Billy Cox. Poi pure Mitchell se n’è andato e il chitarrista ritmico Larry Lee e i percussionisti Juma Sultan e Jerry Velez sono stati congedati. La Band Of Gypsys recupera la formazione a tre con una ritmica che al basso funkeggiante di Cox accoppia la tuonante batteria di Buddy Miles, un monolite al raffronto del costantemente cangiante tappeto ritmico mitchelliano. Per la prima volta in vita sua, Jimi Hendrix capeggia un gruppo interamente nero. Al manager Michael Jeffrey la novità non piace. Ha una fottuta paura che si perda per strada il pubblico bianco senza acquisire in cambio quello – perdipiù minoritario – nero. E tanto dirà e tramerà che alla fine il nostro eroe dovrà arrendersi, scusarsi con Buddy Miles, richiamare Mitch Mitchell e riesumare la prima ragione sociale. A testimoniare la breve stagione della Band Of Gypsys non resta che un omonimo live tratto da quattro concerti newyorkesi a cavallo fra l’ultimo giorno del ’69 e il capodanno 1970 (più estesa selezione nel doppio pubblicato nel ’99 “At The Fillmore East”): disco oltretutto fatto uscire (negli Stati Uniti lo griffa Capitol, non Reprise) più che per ragioni squisitamente artistiche per chiudere un contenzioso con un discografico con il quale Hendrix si era impegnato prima di conoscere Chandler e assurgere allo stardom. Non credete però a chi lo cataloga alla voce “fallimenti”, o più gentilmente lo dice un congedo in tono minore. Non badate a chi addirittura fa finta di niente e ne censura un’esistenza che già basterebbe una Machine Gun di una ferocia obnubilante, prolungamento ideale della Star Spangled Banner woodstockiana, a giustificare. Il compattissimo resto è da fruire come quell’“On The Corner” di Miles Davis se no inimmaginabile: come un ballardiano crash fra il James Brown che fu e i Sonic Youth che saranno. Minore?

“Deve esserci una via di uscita da qui, disse il buffone al ladro.” (All Along The Watchtower)
Ieri sera mi sono rivisto il film dell’isola di Wight. Vaffanculo al mio senso del dovere. Mi ha preso una malinconia da star male a guardare quell’Hendrix così evidentemente spento, consunto. Sarebbe morto da lì a diciotto giorni, ma si può dire che già quella notte non fosse più fra noi. Eppure a Berkeley il 30 maggio, giusto tre esatti mesi prima, si era prodotto in due concerti da leggenda. Eppure fra giugno e luglio aveva registrato tanto e in mezzo alcune delle sue cose più belle. Eppure a un certo punto di uno spettacolo cominciato fiaccamente, e funestato da ogni genere di problemi tecnici, lo vedi scuotersi, lo vedi come accendersi e per tre o quattro brani è di nuovo lui. Nessuno lo aiutò. Con Chas si erano lasciati da tempo, con Kathy pure, con Mitch non era mai stato davvero intimo, Billy era così fuori di testa che era stato necessario rispedirlo negli Stati Uniti a curarsi e a Michael interessava soltanto che i conti quadrassero. C’era una donna addormentata al suo fianco, la millesima della sua vita ma sfortunatamente la più inadeguata, ed era allora come se non ci fosse nessuno quella mattina del 18 settembre 1970 in cui, mentre il sole sorgeva, un Jimi Hendrix tremendamente bisognoso di riposo inghiottiva una dopo l’altra nove pastiglie di un sonnifero che erroneamente credeva blando. Quando per assopirsi gliene sarebbe bastata mezza. Era così che uno dei più immani musicisti del Novecento o di qualunque altro secolo ci abbandonava, a nemmeno ventotto anni: per caso.
Chi può dire come sarebbe andata se Monika Danneman fosse stata sveglia nel momento in cui il Vesparax, mescolandosi alla cena, all’alcool, probabilmente a qualche droga, faceva soffocare nel suo vomito il nostro uomo? Sarebbe bastato scuoterlo, sollevarlo, girargli la testa verso il pavimento. Forse aveva preso una china non più risalibile, forse il suo momento era giunto, forse sarebbe morto comunque da lì a breve e a cambiare sarebbero state giusto la data, le circostanze. Oppure no. Forse si sarebbe ripreso, e disintossicato, e ci avrebbe regalato qualche capolavoro ancora, magari quell’album di cui lui e Miles Davis avevano tante volte discusso. Forse farebbe ancora dischi e – chissà – magari degni. Farebbe di sicuro ancora dischi e concerti, lui che di suonare non era mai stufo, lui che per rilassarsi dopo uno spettacolo andava a fare una jam.
Ma l’unica cosa certa davvero è che se Hendrix fosse sopravvissuto agli anni ’60, se fosse vissuto anche soltanto un giorno più di Jeffrey, che periva in un incidente aereo nel marzo ’73, ci sarebbe e gli sarebbe stato risparmiato un profluvio di uscite postume via via più vergognose dopo il dignitoso inizio di “The Cry Of Love”: album assemblati senza nessun criterio, pescando a caso negli sterminati archivi, giungendo a un certo punto all’infamia di completare registrazioni appena abbozzate con interventi strumentali a posteriori. Per un recupero invece rispettoso, filologico persino, bisognerà attendere il 1997 e la risoluzione delle infinite beghe legali. Il controllo dell’eredità del chitarrista passava allora alla famiglia (il padre Al ancora vivo) e il primo effetto era quello che immediatamente sembrava uno dei più grandi miracoli discografici di tutti i tempi. Amorevolmente curato dal produttore originale Eddie Kramer, vedeva la luce quel “First Rays Of The New Rising Sun” sul quale il chitarrista aveva lavorato per tutto il 1970 giungendo a uno stato avanzatissimo: tutti i brani completati, diversi pure mixati. Doveva soltanto più ultimare i missaggi, decidere l’ordine dei pezzi e se eventualmente toglierne alcuni, per sostituirli con altri che non fece in tempo a scrivere. C’erano canzoni stupende lì in mezzo, del tutto all’altezza del repertorio classico e una, la ballata Angel, meritevole di essere annoverata fra le sue quattro o cinque cose più indimenticabili di sempre. Ma erano andate disperse su tre dischi diversi e tutt’altro effetto faceva ascoltarle tutte insieme. Fu un’emozione vivissima ritrovarsi fra le mani il quarto album in studio di Jimi Hendrix e scoprire che valeva all’incirca i primi tre, definitiva smentita a quanti per oltre un quarto di secolo avevano cianciato di un artista in caduta verticale dopo “Electric Ladyland”. Sbugiardati dal funky durissimo di Freedom, di Izabella, di Night Bird Flying; da Drifting, che è la più bella canzone di Curtis Mayfield che Curtis Mayfield non ha scritto; dal blues cosmico di In From The Storm e da quello canonico, e dolcissimo, di My Friend e Belly Button Window; dalla voce e dal piglio alla Dylan di Dolly Dagger. Ad esempio.
Tratto da Il negro bianco. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007.
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