Archivi del mese: settembre 2015

Ten Years After – Stonedhenge (Deram)

Ten Years After - Stonedhenge

Galeotta fu Woodstock e ben lo sa chiunque di storia del rock abbia anche solo un’infarinatura. Saliti su quella ribalta non da sconosciuti (proprio quest’album a inizio anno era andato al numero 6 nella natìa Gran Bretagna) ma comunque da gruppo poco noto al pubblico americano, i Ten Years After ne scendevano da superstar e questo in forza di una performance esplosiva. Al culmine in una versione di undici minuti di quella I’m Going Home già decisiva (in una più concisa lettura di sei minuti e mezzo) l’anno prima per il successo, più modesto e tutto inglese, del live “Undead”. Galeotta fu Woodstock però anche in negativo, giacché da quel 17 agosto 1969 i Ten Years After nel sentire comune sono rimasti “quelli di I’m Going Home”, un boogie-blues tanto travolgente quanto banalotto, ed è nomea che non rende giustizia a una band che fu tutt’altro che unidimensionale. A volte magari un filino scolastica nella sua resa di grammatica e vocabolario delle dodici battute, ma spesso anche no. Nel post-Woodstock a fare fede di una cifra stilistica personale saranno soprattutto “Cricklewood Green” (sul fronte della jam) e “A Space In Time” (su un versante più pop). Prima del fatidico festival aveva provveduto “Stonedhenge”.

Si scoccerà chi del terzo album (secondo in studio) del gruppo di Alvin Lee già aveva acquistato una precedente edizione rimasterizzata con quattro bonus. Questa sul secondo CD ne riprende tre aggiungendone tre ulteriori, laddove sul primo sistema il programma originale sia in mono che in stereo. Gioirà viceversa chi ancora non aveva in casa questo classico minore. Si stupirà magari, avendo in testa solo “quei” Ten Years After lì, dei tanti piccoli tocchi di jazz, così come di una gemma di blues insieme psichedelico e gotico chiamata Going To Try.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.366, agosto 2015.

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Natural Born Killer: per gli ottant’anni di Jerry Lee Lewis

Jerry Lee Lewis - Jerry Lee Lewis + Jerry Lee’s Greatest

Jerry Lee Lewis (Sun, 1958)

Jerry Lee’s Greatest (Sun, 1961)

Quando nel 1958 la Sun manda nei negozi (oltre che nel formato del long playing anche diviso su tre EP a 45 giri) il suo primo, omonimo album, Jerry Lee Lewis è probabilmente il nome più caldo del rock’n’roll dopo Elvis e fanno fede i sei singoli di seguito che ha piazzato nei Top 100 USA, tre dei quali nei Top 10. Non vuol dire nulla che il 33 giri totalizzi viceversa vendite modeste, siccome all’epoca il formato è monopolizzato commercialmente dal pop per adulti e dal jazz e visto oltretutto che Sam Phillips non ha ritenuto opportuno – con l’unica eccezione del brano di punta, High School Confidential – sistemare sul disco canzoni già celebri. Da lì al 1961 il boss dell’etichetta di Memphis non esiterà a riprendere un successo vecchio a quel punto quattro anni (che per allora è come dire quaranta oggi), Great Balls Of Fire, per provare a dare una chance a un seguito semiantologico figlio della disperazione. È successo che proprio nel 1958, in maggio, Jerry Lee è partito per la Gran Bretagna per un tour cancellato dopo tre date per lo scandalo montato da un tabloid attorno al suo matrimonio con una cugina tredicenne e che, rimbalzate oltre Atlantico, le polemiche gli sono costate una generale messa al bando. Quando esce “Greatest” è un “has been”, lontanissimo nel futuro il ritorno allo stardom via country.

Riascoltati in sequenza i due soli album su Sun del Killer fanno tuttora la loro figura, ivi compresi pezzi (Goodnight Irene, It All Depends, Fools Like Me, When The Saints Go Marching In: per limitarsi al programma del primo e più solido) che all’epoca vennero senz’altro intesi come riempitivi. Oggi contribuiscono invece a tracciare un ritratto a tutto tondo di un artista alla definizione del cui peculiare stile di rock’n’roll offrirono un apporto prezioso country e soul, errebì, blues, pure certo pop.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.192, maggio 2014.

Jerry Lee Lewis - The Session

The Session… Recorded In London With Great Guest Artists (Mercury, 1973)

Fatale e poi provvidenziale la Gran Bretagna per Jerry Lee Lewis, che si vedeva distrutta dai tabloid nel 1958 una carriera che aveva toccato l’apice l’anno prima con Whole Lotta Shakin’ Goin’ On al numero uno negli USA sia nella classifica country che in quella rhythm’n’blues. Fresco di sponsali con una cugina tredicenne, il Killer partiva pieno di entusiasmo e con la sposa al seguito per la prima tournée oltre Atlantico, solo per scoprirsi massacrato appena sceso dall’aereo proprio a causa del matrimonio. Pedofilo! Incestuoso! Contava nulla che non avesse fatto altro che ossequiare un’usanza comune e assolutamente normale nel Sud disperatamente ignorante e pezzente da cui proveniva. Il tour veniva annullato e al ritorno a casa Jerry Lee si scopriva bandito dalle radio e impossibilitato a tenere concerti, se non nei locali di più infima categoria. Caduta rovinosa dalla quale paradossalmente, da lì a qualche anno, era il Regno Unito stesso ad aiutarlo a rialzarsi. In piena fioritura beat, con lo scandalo ormai dimenticato, Lewis lì riempiva regolarmente i teatri, strapagato, quando negli Stati Uniti doveva ancora umiliarsi nei bar per pochi spiccioli. Situazione che gli permetteva di tenere duro fintanto che una virata dal rock’n’roll al country non lo riportava in auge pure dalle sue parti. E siamo arrivati al gennaio 1973 e a quest’album: un progetto importante, un doppio già in origine (questa ristampa Hip-O Select lo ingrassa ancora, da settantasette minuti a novantaquattro) messo in pista dalla Mercury con l’obiettivo di fare tornare popolare il pianista di Ferriday anche presso il pubblico del rock. Lo si mandava allora a registrare a Londra, con un’imponente schiera di stelle, stelline e turnisti del posto (spiccano nel chilometrico elenco i nomi di Rory Gallagher, Peter Frampton, Albert e Alvin Lee) a dargli man forte. Con risultati dal discreto all’ottimo.

Tallone d’Achille della “Session” è la scarsa coesione di un programma che passa dal country al rock’n’roll, dal blues al vaudeville a cose da crooner a ogni girar d’angolo e pagina. In fondo è però anche un pregio, l’attenzione tenuta desta, continue le sorprese. Il che non mi impedisce di pensare che una diversa organizzazione della scaletta farebbe migliore un lavoro che, fra rivisitazioni ridondanti di cavalli di battaglia del Killer e riletture di altri classici del rock’n’roll dal pletorico (Johnny B. Goode) al brillante (una Be Bop A Lula torpida e bluesata), concede poco alla “modernità” (una rivisitazione dei Creedence, una degli Stones, una di Gordon Lightfoot) e di più a viaggi a ritroso, fino agli anni ’20. Comunque sia: missione compiuta. “The Session” entrava nei Top 40 USA. Incredibile a dirsi, era e resterà il migliore piazzamento di sempre per un album di Jerry Lee Lewis.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.638, settembre 2007.

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Chelsea Wolfe – Abyss (Sargent House)

Chelsea Wolfe - Abyss

Avete presente lo stereotipo della cantautrice voce e chitarra acustica e canzoni preferibilmente d’amore tendenti al malinconico ma non troppo? Con una punta o più di sdolcinatezza? Con la californiana Chelsea Wolfe sarà il caso che lo accantoniate subito. Non vale nemmeno per quel “Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs” che tre anni or sono almeno sulla carta poteva far pensare, unico nella sua discografia, a un venire a patti con il mainstream. Non era in realtà banale nemmeno quello, né per gli argomenti – stiamo parlando di una per cui “cuore” fa rima con “terrore” più che con “amore”, se capite cosa intendo – né per arrangiamenti di grande raffinatezza. Se non la conoscete preparatevi insomma a farvi stupire, ma con un’avvertenza: non è una tazza di thè che può piacere a tutti. Né è sempre lo stesso thè. Sempre piuttosto… forte, in ogni caso.

Figlia d’arte – il padre un cantante country e prestissimo Chelsea alle bambole preferiva per i suoi giochi lo studiolo di registrazione installato in casa – la ragazza cresceva, oltre che a folk, a indie rock e metal del più cupo e sotterraneo, immaginario gotico dominante e fra le influenze i film di Bergman determinanti probabilmente più di un qualunque gruppo o album. E tutto questo in “Abyss” – provvede subito a stabilirne il tono la litania fosca su percussioni sferraglianti di Carrion Flowers – si coglie come non mai (il precedente “Pain Is Beauty” introduceva più di un tocco di elettronica). Lo ribadisce Iron Moon, che sarebbe il singolo (!): attacco superheavy, passo lento, un improvviso rarefarsi e poi la ripartenza, bradipica. E fino alla fine mai un raggio di sole. Provate a immaginarvi una Björk o una PJ Harvey influenzate dal doom e accasate alla 4AD. Lo hanno chiamato drone-metal-art-folk e ci sta.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.366. agosto 2015.

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Chiuso per trasloco

Chiuso per trasloco

Non del blog ma del Venerato Maestro, che se sopravviverà allo stress tornerà a pubblicare da qui alla prossima settimana. Nel frattempo, ci sarebbero quei 1.244 post vecchi da leggere o rileggere. Se proprio non avete nient’altro da fare nella vita. Passatevela bene.

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Jimi Hendrix , dopo “Electric Ladyland” e fino alla fine

Jimi Hendrix a Woodstock

“Electric Ladyland” è l’ultimo album in studio che Hendrix completerà in vita. “Electric Ladyland” è il suo primo ad andare al numero uno negli Stati Uniti. Il successo porta con sé il potere. Il potere, le responsabilità. Al passaggio dal 1968 al ’69 il chitarrista di Seattle è una delle più grandi stelle del rock, forse addirittura la più grande e sicuramente quella che strappa gli ingaggi più alti. Per certo del rock è l’unica autentica stella afroamericana, giacché in fondo Sly Stone fa altro. Cresciuto senza che il colore della pelle costituisse un problema, ha cominciato a fare i conti con il pregiudizio nell’esercito ed è stato costretto definitivamente a prenderne le misure dagli innumerevoli tour giù nel profondo Sud negli anni dell’apprendistato. Se traslocando sull’altro lato dell’Atlantico ha scoperto nel suo essere nero persino un vantaggio, al ritorno in patria con il giusto orgoglio di chi ce l’ha fatta inizia a pesargli che il suo pubblico sia in stragrande maggioranza bianco. Solo settori marginali di una platea afroamericana che si è lasciata alle spalle da un pezzo il blues elettrico, e che sta per chiudere la stagione dell’errebì e del soul convertendosi in massa al funky, ne apprezzano gli anfetaminici riff e le magmatiche divagazioni psichedeliche: tant’è che quando andrà a suonare gratuitamente ad Harlem, lui abituato ad esibirsi davanti a decine di migliaia di spettatori, in duecento rimarranno fino alla fine dello spettacolo. Lo patirà, come ha ovviamente patito che da un lato e dall’altro della barricata razziale gli abbiano dato dello Zio Tom. E reagirà in due modi: musicalmente, scurendo decisamente il suo sound; politicamente, non facendosi tirare la giacchetta dagli estremisti (alle Pantere Nere magari quello che suona non piace, ma colgono bene quanto potrebbe essere dirompente l’adesione alla causa di un personaggio pubblico di simile statura) ma nel contempo lasciandosi alle spalle il confuso qualunquismo lascito dell’indottrinamento subìto sotto leva. Sicché da un appoggio nemmeno troppo velato al conflitto in Estremo Oriente passa a un’opposizione dettata pure dalla constatazione che sono soprattutto di colore i soldati mandati laggiù. Beninteso: senza alzare i toni e tenendosi in un ambito di generico pacifismo da figlio dei fiori. Appoggia la causa di Martin Luther King a parole e con donazioni consistenti ma mai pubblicizzate. Più che con la favella è tuttavia sempre con la chitarra che pronuncia i discorsi migliori. Due risulteranno indimenticabili.

Del primo non abbiamo che il resoconto reverente di chi c’era. Il 4 aprile 1968, il giorno dell’assassinio del Reverendo King, la Experience è di scena a Newark. Per qualche ora le autorità locali hanno considerato la possibilità di cancellare lo spettacolo, timorose degli effetti che potrebbe avere su una situazione tesissima anche soltanto la vista, in una zona in cui il razzismo è forte e sfacciato, di un gruppo multirazziale. Figurarsi una musica di suo esplosiva. Temono per altro verso che l’annullamento del concerto potrebbe a sua volta provocare disordini e finiscono per dare il via libera. Hendrix sale sul palco da solo e annuncia: “Questo brano è per un mio amico”. E si lancia in una lunga improvvisazione, straziante lamento funebre che fa calare un silenzio tombale sul palazzetto. Non un battito di mani alla fine, non un fischio, solamente lacrime.

Il secondo abbiamo potuto invece mandarlo a memoria, eternato nel film che documenta nel suo complesso la tre giorni di “pace, amore e musica” (certo, certo…) di Woodstock, in quello dedicato alla sola performance del nostro uomo (ma non c’è nemmeno metà concerto), infine nel doppio CD che, a trentun’anni di distanza, ha reso disponibile integralmente un’esibizione per lunghi tratti incerta ma poi per venti minuti trascendentale. Può pure darsi che per Hendrix eseguire l’inno nazionale americano avvolgendone la melodia purissima in spirali di feedback fino quasi a strangolarla, per quindi farla riemergere di nuovo virginea, non fosse che un interessante esercizio musicale. Ma ci credete voi? Potete credere che non fosse consapevole in cuor suo che quelle corde piegate fino a farsi bombe e sirene, e un pianto disperato per l’innocenza perduta, non avrebbero evocato nella mente di chiunque immagini del Vietnam, e di linciaggi, e di ghetti in fiamme? Tutti i fallimenti e le tragedie degli anni ’60 vivono e ci parlano in duecentoventitre secondi che non smetteranno mai di emozionare. Elegia per l’interprete stesso.

Diciassette mesi hanno separato “Electric Ladyland” da “Are You Experienced?”. Ce ne va uno in più, ed è un’eternità per un’epoca in cui rappresenta la normalità pubblicare due LP all’anno, perché arrivi nei negozi “Band Of Gypsys”. Non è che nel frattempo il Nostro abbia riposato sugli allori e se si è preso sì delle vacanze è stato per pochi giorni alla volta. Ha continuato a suonare dal vivo, molto ma un po’ di meno. Ha continuato a registrare e in questo caso i ritmi meno frenetici sono dovuti ai ritardi nell’allestimento di uno studio di proprietà, l’Electric Lady, a New York. Lui e il manager hanno deciso di costruirlo dopo essersi resi conto che con quello che è stato speso per “Electric Ladyland” si sarebbero potuti comprare i Record Plant, invece che pagarne l’affitto. Amara ironia che l’album, un altro doppio, designato a essere il successore vero di quel monumento sia destinato a rimanere incompiuto.

Se Jimi tace tanto a lungo è per una concomitanza di ragioni: l’usura di due anni vissuti a velocità forsennata per reggere la quale ha fatto un ricorso alle droghe (e ad altri assortiti aiutini farmaceutici) sempre più massiccio e non più creativo e ricreativo; la perdita, con Chas Chandler, di una stella polare in grado di indirizzarne una creatività tutt’altro che sopita; un perfezionismo sempre più esasperato, che lo porta a non essere mai soddisfatto appieno di quello che scrive e incide; il dissolversi della Experience. A Woodstock si è esibito alla testa di un sestetto raccogliticcio – Gypsy Sun And Rainbows – in cui gli unici professionisti veri, con lui, sono il superstite Mitch Mitchell e il bassista Billy Cox. Poi pure Mitchell se n’è andato e il chitarrista ritmico Larry Lee e i percussionisti Juma Sultan e Jerry Velez sono stati congedati. La Band Of Gypsys recupera la formazione a tre con una ritmica che al basso funkeggiante di Cox accoppia la tuonante batteria di Buddy Miles, un monolite al raffronto del costantemente cangiante tappeto ritmico mitchelliano. Per la prima volta in vita sua, Jimi Hendrix capeggia un gruppo interamente nero. Al manager Michael Jeffrey la novità non piace. Ha una fottuta paura che si perda per strada il pubblico bianco senza acquisire in cambio quello – perdipiù minoritario – nero. E tanto dirà e tramerà che alla fine il nostro eroe dovrà arrendersi, scusarsi con Buddy Miles, richiamare Mitch Mitchell e riesumare la prima ragione sociale. A testimoniare la breve stagione della Band Of Gypsys non resta che un omonimo live tratto da quattro concerti newyorkesi a cavallo fra l’ultimo giorno del ’69 e il capodanno 1970 (più estesa selezione nel doppio pubblicato nel ’99 “At The Fillmore East”): disco oltretutto fatto uscire (negli Stati Uniti lo griffa Capitol, non Reprise) più che per ragioni squisitamente artistiche per chiudere un contenzioso con un discografico con il quale Hendrix si era impegnato prima di conoscere Chandler e assurgere allo stardom. Non credete però a chi lo cataloga alla voce “fallimenti”, o più gentilmente lo dice un congedo in tono minore. Non badate a chi addirittura fa finta di niente e ne censura un’esistenza che già basterebbe una Machine Gun di una ferocia obnubilante, prolungamento ideale della Star Spangled Banner woodstockiana, a giustificare. Il compattissimo resto è da fruire come quell’“On The Corner” di Miles Davis se no inimmaginabile: come un ballardiano crash fra il James Brown che fu e i Sonic Youth che saranno. Minore?

Jimi Hendrix al Wight Festival

Deve esserci una via di uscita da qui, disse il buffone al ladro.” (All Along The Watchtower)

Ieri sera mi sono rivisto il film dell’isola di Wight. Vaffanculo al mio senso del dovere. Mi ha preso una malinconia da star male a guardare quell’Hendrix così evidentemente spento, consunto. Sarebbe morto da lì a diciotto giorni, ma si può dire che già quella notte non fosse più fra noi. Eppure a Berkeley il 30 maggio, giusto tre esatti mesi prima, si era prodotto in due concerti da leggenda. Eppure fra giugno e luglio aveva registrato tanto e in mezzo alcune delle sue cose più belle. Eppure a un certo punto di uno spettacolo cominciato fiaccamente, e funestato da ogni genere di problemi tecnici, lo vedi scuotersi, lo vedi come accendersi e per tre o quattro brani è di nuovo lui. Nessuno lo aiutò. Con Chas si erano lasciati da tempo, con Kathy pure, con Mitch non era mai stato davvero intimo, Billy era così fuori di testa che era stato necessario rispedirlo negli Stati Uniti a curarsi e a Michael interessava soltanto che i conti quadrassero. C’era una donna addormentata al suo fianco, la millesima della sua vita ma sfortunatamente la più inadeguata, ed era allora come se non ci fosse nessuno quella mattina del 18 settembre 1970 in cui, mentre il sole sorgeva, un Jimi Hendrix tremendamente bisognoso di riposo inghiottiva una dopo l’altra nove pastiglie di un sonnifero che erroneamente credeva blando. Quando per assopirsi gliene sarebbe bastata mezza. Era così che uno dei più immani musicisti del Novecento o di qualunque altro secolo ci abbandonava, a nemmeno ventotto anni: per caso.

Chi può dire come sarebbe andata se Monika Danneman fosse stata sveglia nel momento in cui il Vesparax, mescolandosi alla cena, all’alcool, probabilmente a qualche droga, faceva soffocare nel suo vomito il nostro uomo? Sarebbe bastato scuoterlo, sollevarlo, girargli la testa verso il pavimento. Forse aveva preso una china non più risalibile, forse il suo momento era giunto, forse sarebbe morto comunque da lì a breve e a cambiare sarebbero state giusto la data, le circostanze. Oppure no. Forse si sarebbe ripreso, e disintossicato, e ci avrebbe regalato qualche capolavoro ancora, magari quell’album di cui lui e Miles Davis avevano tante volte discusso. Forse farebbe ancora dischi e – chissà – magari degni. Farebbe di sicuro ancora dischi e concerti, lui che di suonare non era mai stufo, lui che per rilassarsi dopo uno spettacolo andava a fare una jam.

Ma l’unica cosa certa davvero è che se Hendrix fosse sopravvissuto agli anni ’60, se fosse vissuto anche soltanto un giorno più di Jeffrey, che periva in un incidente aereo nel marzo ’73, ci sarebbe e gli sarebbe stato risparmiato un profluvio di uscite postume via via più vergognose dopo il dignitoso inizio di “The Cry Of Love”: album assemblati senza nessun criterio, pescando a caso negli sterminati archivi, giungendo a un certo punto all’infamia di completare registrazioni appena abbozzate con interventi strumentali a posteriori. Per un recupero invece rispettoso, filologico persino, bisognerà attendere il 1997 e la risoluzione delle infinite beghe legali. Il controllo dell’eredità del chitarrista passava allora alla famiglia (il padre Al ancora vivo) e il primo effetto era quello che immediatamente sembrava uno dei più grandi miracoli discografici di tutti i tempi. Amorevolmente curato dal produttore originale Eddie Kramer, vedeva la luce quel “First Rays Of The New Rising Sun” sul quale il chitarrista aveva lavorato per tutto il 1970 giungendo a uno stato avanzatissimo: tutti i brani completati, diversi pure mixati. Doveva soltanto più ultimare i missaggi, decidere l’ordine dei pezzi e se eventualmente toglierne alcuni, per sostituirli con altri che non fece in tempo a scrivere. C’erano canzoni stupende lì in mezzo, del tutto all’altezza del repertorio classico e una, la ballata Angel, meritevole di essere annoverata fra le sue quattro o cinque cose più indimenticabili di sempre. Ma erano andate disperse su tre dischi diversi e tutt’altro effetto faceva ascoltarle tutte insieme. Fu un’emozione vivissima ritrovarsi fra le mani il quarto album in studio di Jimi Hendrix e scoprire che valeva all’incirca i primi tre, definitiva smentita a quanti per oltre un quarto di secolo avevano cianciato di un artista in caduta verticale dopo “Electric Ladyland”. Sbugiardati dal funky durissimo di Freedom, di Izabella, di Night Bird Flying; da Drifting, che è la più bella canzone di Curtis Mayfield che Curtis Mayfield non ha scritto; dal blues cosmico di In From The Storm e da quello canonico, e dolcissimo, di My Friend e Belly Button Window; dalla voce e dal piglio alla Dylan di Dolly Dagger. Ad esempio.

Tratto da Il negro bianco. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007.

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Leon Bridges – Coming Home (Columbia)

Leon Bridges - Coming Home

No, nessun errore di impaginazione. Non vi siete appena imbattuti, come si potrebbe pensare gettando un occhio alla copertina, nella ristampa di un oscuro classico rimasta fuori per errore dallo spazio che mensilmente questa rivista dedica a tesori del passato da scoprire o rivisitare. “Coming Home” è l’esordio, edito lo scorso 23 giugno, di un giovanotto texano cui, alla data della pubblicazione, mancavano venti giorni per festeggiare il ventiseiesimo compleanno. Non lo si direbbe mai all’ascolto di un album che suona in ogni senso, sin dalla calorosa registrazione in analogico effettuata con macchine rigorosamente vintage, come un reperto di un’altra epoca. Pieni anni ’60, un qualche momento compreso fra due uscite di scena diversamente ma altrettanto intempestive, quella di Sam Cooke, quella di Otis Redding. Giusto in un senso Bridges è invece figlio dei giorni nostri: che deve all’esistenza di Internet – erano due demo postati su Soundcloud sul finire del 2014 a provocare un’autentica asta fra case discografiche per aggiudicarsene le prestazioni, facendo nel contempo spandere molto inchiostro virtuale – il subitaneo ingresso nel mondo dello showbiz e un’altrettanto rapida ascesa alla fama. Nel momento in cui scrivo il disco, nei negozi da appena due settimane, è sesto nelle classifiche di vendita USA, ottavo in quelle del Regno Unito.

Meritatamente, direi, per quanto mi trovi abbastanza d’accordo con chi ha scritto che di “Coming Home” restano in memoria più le atmosfere che le canzoni. Notevole la voce, raffinati gli arrangiamenti, è sulla scrittura che si deve lavorare ancora. Qui a fare intendere che il potenziale c’è ed è grande provvedono il blues sudista della traccia omonima e inaugurale, una Lisa Sawyer densa di sentimento, l’accorato sporgersi sul gospel di River.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.366, agosto 2015. Leon Bridges sarà in concerto questa sera a Milano, al Circolo Magnolia.

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Il blues regale di B.B. King

B.B. King - Live At The Regal

Dicono che al titolare questo disco non piaccia poi molto e che nutra più considerazione per diversi altri articoli del suo copioso catalogo: e non potrebbe esserci conferma più eclatante del fatto che di rado un artista è un buon giudice di se stesso. Dicono che Eric Clapton spesso ascolti “Live At The Regal” prima di salire a sua volta su un palco e viene in mente quella vecchia battuta di Woody Allen che, rimproverato di credersi Dio, replicava che “a qualcuno dovrò pure ispirarmi”. Dicono che questo sia il più bell’album di blues registrato in concerto di sempre e fra quanti lo dicono ci siamo pure noi. Se non ci credete, prego, accomodatevi, e poi vedete un po’ se riuscirete a offrirci un’alternativa.

L’anno è il 1964, è una sera di fine novembre e l’allora trentanovenne Riley B. King da lungi non li conta più i successi di una carriera cominciata discograficamente nel 1949 e che non sarebbe peregrino pensare abbia già toccato apici al massimo eguagliabili. È una platea nella sua stragrande maggioranza di afroamericani quella che gremisce uno dei più noti teatri di Chicago e, con il soul che va prendendo il sopravvento nel gusto dei neri, pronosticare che da lì in poi si andrà in discesa non parrebbe un azzardo. Chi può immaginare che quell’omone nelle cui braccia l’amata Lucille (la sua sei corde elettrica) pare piccina piccina sarà a breve adottato dalla gente del rock? Che commercialmente i suoi tardi anni ’60 saranno più felici della prima metà del decennio, gli anni ’70 più dei tardi ’60, gli ’80 più dei ’70, i ’90 più degli ’80 e che sarà datato 2000 il suo album più venduto di sempre, “Riding With The King”, raccolta di duetti proprio con Clapton per quarantatré settimane nella classifica di “Billboard” e doppio platino negli USA. Che però artisticamente lo zenit resti “At The Regal” è fuori discussione. Il suo unico difetto è di non durare che trentacinque minuti, quando se ne vorrebbero ore e ore di questa musica sofisticata e viscerale, tenera come una serenata e affilata come un rasoio, gli ottoni in rincorsa su una ritmica trapestante e a sormontare il tutto quella voce, quella chitarra.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012. B.B. King avrebbe compiuto oggi novant’anni. Non ce l’ha fatta per tanto così.

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E il vincitore è di nuovo…

Targa Mei Musicletter 2015

Due partecipazioni (la prima nel 2013) e due vittorie (questa ex aequo con l’amico Carlo Bordone). Mi dichiaro moderatamente soddisfatto (va da sè: un grazie a tutti quelli che mi hanno votato).

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Il prog senza gli assoli degli Elbow

Elbow

Per essere un gruppo che viene preso tanto sul serio non si può certo dire che agli Elbow difetti il senso dell’umorismo: “prog senza gli assoli” è l’etichetta che notoriamente hanno coniato per la propria musica, ben sapendo che la prima metà dal punk in poi è irredimibile e garanzia certa di uncoolness. Definizione fulminante, anche se mai quanto quella di un recensore che, all’altezza della loro seconda uscita maggiore, non sapendo come fermarne sulla carta il sound mercuriale si inventava un “da qualche parte fra i Supertramp e i Superchunk”. A proposito di progressive… In tanti nel 2005 notavano come la copertina del terzo album del combo mancuniano (in realtà la band si formava nella cittadina di Bury, dove i suoi vari componenti frequentavano il college: un inizio molto anni ’60-’70 per modalità), “Leaders Of The Free World”, somigliasse assai a quella di “A Trick Of The Tail” dei Genesis. Un puro caso, replicava il grafico. A proposito di omonimie imbarazzanti… L’immediato predecessore “Cast Of Thousands” era intitolato come il secondo LP degli Adverts, leggendariamente uno dei più osceni negli annali del rock. Sempre un caso? E, infine, a proposito di nuovo di copertine e senso dell’umorismo: quella dell’album in questione effigia due enormi pupazzi di poliestere – lui è Bo, lei appropriatamente è Elle – che, sistemati come pubblicità per il disco ai bordi di un’autostrada, venivano precipitosamente rimossi dalla polizia dopo che innumerevoli automobilisti avevano telefonato segnalando presenze aliene. E di aneddoti direi che ne ho tirati fuori a sufficienza.

Fa un po’ strano occuparsi in “Classic Rock” di un gruppo che non solo è in attività ma è ancora relativamente giovane e probabilmente all’apice della sua parabola tanto artistica che commerciale, giacché l’album dopo i due pretesto per questo articolo, “The Seldom Seen Kid”, si aggiudicava il Mercury Prize e in Gran Bretagna era triplo platino e quello dopo ancora, “Build A Rocket Boys!”, che è giusto di un anno fa, sempre nel Regno Unito andava al numero due, piazzamento più alto di sempre per il quintetto. Sconcerta rigirarsi già fra le mani le “Deluxe Edition” per l’appunto di “Cast Of Thousands”, pubblicato originariamente nel 2003, e “Leaders Of The Free World”, del 2005. Ristampe di lusso sul serio, ancorché senza gli usuali saggi a corredo ma in compenso con degli ottimi live aggiunti a mo’ di secondo dischetto e addirittura un DVD accluso come terzo. Naturalmente, da parte dell’industria è un raschiare il fondo tentando la storicizzazione precoce di opere tanto recenti, ma al di là di questo il riascolto dice che sì: sono effettivamente due piccoli classici, forse anche meno celebrati di quanto non avrebbero meritato. Si fa in fretta a recuperare. Nel primo, tutte le belle suggestioni trasmesse nel 2001 dal promettente debutto “Asleep In The Back” trovavano più compiuto sviluppo, fra scorie di Doves, echi di Talk Talk, tracce dei Coldplay più nobili, influssi di gospel via Spiritualized. Per quanto secondo me le canzoni più memorabili siano Fallen Angel, che sono i James che si scoprono una vena XTC, e Fugitive Motel, che sono i Verve traslocati in zona downtempo. Il secondo l’ho sempre visto, fra una suggestione Radiohead e una Peter Gabriel, come una sorta di versione molto British di “Automatic For The People” dei R.E.M. e mi stupisce (d’accordo: una Everybody Hurts non c’è; meglio sviluppata avrebbe potuto diventarlo la conclusiva, troppo breve Puncture Repair) che nessun altro lo abbia colto.

Comunque no: i Supertramp negli Elbow non ce li ho sentiti mai. I Superchunk nemmeno. Lo sapete chi a volte mi ricordano tanto ma tanto e deve naturalmente trattarsi di una questione di affinità sentimentali? I Perturbazione. Switching Off, Not A Job, My Very Best mi piace immaginarle in italiano e mi sembrano allora ancora più belle.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.693, aprile 2012. “Leaders Of The Free World” veniva pubblicato dieci anni fa a oggi.

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Il Vangelo (del jazz) secondo Arrigo (Polillo)

Arrigo Polillo - Jazz

Tanto è invitante il prezzo, in rapporto alla mole di quanto offerto, tanto la mole suddetta è intimidente: con bibliografia e indici si va a sfiorare le novecento pagine, stampate oltretutto in un corpo minuscolo. La tendenza, vista la fama di capolavoro guadagnata al volume da quasi trent’anni di pressoché ininterrotta presenza nelle librerie, potrebbe essere quella di portare comunque a casa, magari con la colpevole consapevolezza che, come sovente accade ai cosiddetti “classici”, il tomo verrà al massimo sfogliato e poi prenderà polvere sistemato in strategica evidenza, per fare bella figura con gli ospiti. Ma stavolta non andrà così. Non se, soffermandovi sulle prime pagine, apprezzerete la semplice eleganza della lingua, la chiarezza espositiva e nello stesso tempo la profondità analitica di un autore di cui proprio quest’anno ricorre il ventennale della scomparsa, sessantacinquenne, e ne sarete stimolati a proseguire. Meno che mai se la vostra attenzione cadrà invece sulla seconda metà di un saggio che, dopo avere speso trecento pagine per descrivere l’evoluzione del jazz dall’alba dello scorso secolo ai primi anni ’70, dedica trentaquattro capitoletti a raccontare le vicende personali e artistiche di altrettanti protagonisti di tale musica, da Jelly Roll Morton a Ornette Coleman. Con tanta vividezza che non potrete staccarvene, se non per tornare indietro e leggere dal principio: perché con Polillo, che diversi dei suoi protagonisti conobbe di persona, la storia del jazz è un romanzo non per modo di dire.

Critico di una cultura, un’autorevolezza (riconosciuta pure all’estero) e una limpidezza intellettuale che lo fanno dire purtroppo senza eredi, Arrigo Polillo nemmeno patì limiti generazionali che sarebbero anche stati scusabili: sapeva sintonizzarsi subito sulla novità del free e (sebbene perplesso rispetto al Davis successivo) era fra i pochissimi a salutare “Bitches Brew” come un capolavoro. Pubblicato per la prima volta nel 1975, aggiornato dall’autore nell’83 e ottimamente integrato nel ’97 da Franco Fayenz con un’ottantina di pagine rispettosissime dello stile e dell’impianto originali, Jazz è il mirabile lascito di una vita dedicata a una passione. Spesa bene. (Mondadori, pp.871)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

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