Archivi del mese: novembre 2021

Super Furry Animals – Rings Around The World (BMG)

Erano pazzi questi gallesi: di sicuro il gruppo rock che più di qualunque altro poteva legittimamente affermare (come andò di moda a un certo punto dei primi ’90) che “c’è sempre stato un elemento dance nella nostra musica”, giacché inizialmente suonavano techno, debuttavano nel ’95 con un EP dal titolo di una sola parola di cinquantanove lettere (!) cui forse per pietà verso i dj aggiungevano fra parentesi “In Space”. Appena sei anni dopo “Rings Around The World” che viene ora lussuosamente ristampato (l’edizione triplo compact lo ingrassa con trentatré fra demo, remix e versioni alternative) per il ventennale era già il loro quinto album, primo per una major (Epic), quarto di fila nei Top 10 UK (era un numero 3; è rimasto il piazzamento più alto) e primo a violare i Top 40 USA. Veniva in origine pubblicato, oltre che su doppio 33 giri più 7” (oggi costa uno sproposito), su CD, cassetta, MiniDisc e – udite! udite! – DVD, con ai tredici brani standard incisi in scrupoloso surround sound aggiunte cinque bonus e si finiva per parlare più che altro di questo (fioccavano le accuse di snobismo) e delle ospitate di John Cale, al piano nella confidenziale Presidential Suite, e Paul McCartney, che… ehm… sgranocchia un sedano e una carota in una stupefacente ─ parte ELO, arriva death metal ─ Receptable For The Respectable.

Vien da sorridere rileggendo come all’epoca si scrisse di una “normalizzazione” della band, quando nulla c’è di “normale” in un’opera che mette insieme i Beach Boys e sortite nella disco (Juxtaposed With U ha un attacco che pare Barry White), beat, prog e blues da qualche altro pianeta, armonie vocali alla CS&N, orchestrazioni sontuose come le melodie che avvolgono. Erano pazzi questi gallesi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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The Wallflowers – Exit Wounds (New West)

Nota di colore: complimenti agli estensori della chilometrica scheda che Wikipedia dedica ai Wallflowers per essere riusciti a non scrivere mai, neanche incidentalmente, che il loro leader è figlio (il quartogenito, l’unico con l’ardire di seguire le orme paterne) di un recente premio Nobel per la letteratura. Giusto così, giacché Jakob Dylan ha avuto sin dall’inizio della sua lunga carriera l’intelligenza di non confrontarsi direttamente con un talento inarrivabile, di fare sempre la sua cosa. Guadagnandosi così il rispetto anche di un padre che a sua volta ha avuto il buon senso di non metter mai bocca, né di incrociare la sua strada e quella del rampollo se non in un isolato concerto nel 1997, ossia quando i Wallflowers ce l’avevano già fatta da soli, un numero 4 USA (con un singolo al numero 2) con il loro secondo album, “Bringing Down The Horse”.

Dici Wallflowers, pensi a un gruppo, ma in realtà (mai la stessa la formazione da un disco al successivo) sono sempre stati il progetto solistico di Jakob (che pure a un certo punto pubblicò un paio di lavori a suo nome e ancora ci si chiede perché). Con “Exit Wounds” interrompono un silenzio di ben nove anni (già il predecessore “Glad All Over” si era fatto aspettare sette) senza deviare dalla solita via: che è quella di un tosto cantautorato rock che deve molto più a Tom Petty, Bruce Springsteen, John Mellencamp che a chi sapete voi. Il problema è il solito: a un sound energico, eppur cesellato a puntino, raramente si accompagnano brani (l’exploit della strepitosa One Headlight è inavvicinato dal ’97) di memorabilità più che media. Qui si fanno ricordare un po’ più del tempo che ci va ad ascoltarle la rock’n’rollistica I Hear The Ocean e la ballata Wrong End Of The Spear.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.

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Quando gli U2 si reinventarono – “Achtung Baby” compie trent’anni

Dal cilindro delle critiche anche feroci che hanno accolto “Rattle And Hum” gli U2 tirano fuori il gigantesco coniglio della reinvenzione più radicale mai inscenata da un gruppo tanto avanti nella propria carriera. Sarebbe già un miracolo, ma i dublinesi non si accontentano. Raddoppiano, andando a stabilire il loro momentaneo record di vendite (da allora “The Joshua Tree” ha recuperato e oggi vince ventisette milioni di copie a venti), grazie anche a cinque singoli nei primi dieci posti della classifica USA e addirittura tre al numero uno. Triplicano, guadagnandosi un’aria di coolness per loro del tutto inedita. Nell’anno dei Massive Attack, dei Nirvana, dei My Bloody Valentine, Bono e soci danno una dimostrazione eclatante di essere ancora uno dei motori del rock. Ci riescono ideando un suono nuovo per loro, che attinge al Bowie della trilogia berlinese (proprio a Berlino si comincia a registrare; però non più all’ombra del Muro, crollato l’anno prima) e al techno-pop, alla dance elettronica e al suo incontro con le chitarre che, dai New Order in avanti, ha preso a celebrarsi innanzitutto a Manchester, per poi dilagare nei club europei. Ci riescono riempiendolo, quel suono, con alcune delle loro canzoni più indimenticabili di sempre e fra esse la più indimenticabile di tutte: One.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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Tim e Jeff Buckley – Una fantasmagoria di due

La prima volta che Jeff Buckley cantò in pubblico fu per una platea di una persona, l’amica Carla Azar che era andato a trovare nella sua casa di Los Angeles. La lasciò stupefatta per cominciare proprio perché era una novità: formidabile chitarrista, Jeff, e con il dono che è di pochi di sapere subito cavare qualcosa da uno strumento che non si è mai maneggiato, ma nessuno lo aveva sentito cantare neppure in sala prove benché di gruppi ne avesse a quel punto già collezionati diversi, in ambiti vari quanto distanti. E che voce stava tirando fuori! Capace di passare in un battito di ciglia da un falsetto esilissimo a calde tonalità tenorili, a uno squassante urlo primordiale. E che bella canzone poi. “Stupenda. L’hai scritta tu? ” “No, è un pezzo di un altro”, fa Jeff, che al solito evasivo non rivela da dove arrivi quel brano, né di chi sia. Cambia discorso.

La seconda volta che Jeff Buckley cantò in pubblico, ma in pubblico davvero, fu mesi dopo, sei o forse otto, e fra le centinaia di spettatori stipati il 26 aprile 1991 nella St. Ann’s Church di Brooklyn, New York, non ve n’era uno che non riconoscesse alle prime note quel medesimo pezzo. E chissà quanti restarono senza fiato non soltanto per quella voce così incredibilmente simile a una familiare e venerata ma per la scelta di cominciarlo così uno struggente omaggio da figlio abbandonato a genitore rimosso. Quel bimbo “fasciato di amare storie e mal di cuore/mendico di un sorriso, anche uno solo” si era fatto grande e cantava la canzone che suo padre aveva scritto a sua madre per giustificare di averli abbandonati entrambi: “Non so nuotare nelle tue acque/né tu camminare nelle mie terre./Navigherò solitario tutti i miei peccati e scalerò le mie paure/e presto, subito spiccherò il volo./Non ho mai chiesto di essere la tua montagna”. Se si può dire che I Never Asked To Be Your Mountain sia una canzone d’amore, e sublime, è solamente nel senso che a tale parola può dare il narcisista, che non può amare con tutto il cuore che se stesso. Nondimeno a fustigare l’ipocrisia di un individuo che fugge dai suoi doveri, accampando scuse puerili, se ne coglie un aspetto che non è il principale. Più ancora di se stesso, Tim Buckley venerava l’Arte e fu fondamentalmente all’Arte che sacrificò Jeff. Forse con la speranza che un giorno avrebbe capito. Capirà. Qui si racconta di due uomini che nacquero vecchi e morirono prima di diventare adulti. Però vivranno per sempre.

Eternal Life

Se questo fosse veramente, come sosteneva Leibniz (Voltaire avrà a che ridire), il migliore dei mondi possibili Tim Buckley quel fatale 29 giugno 1975, una domenica pomeriggio che veniva dopo un sabato in cui aveva colto un trionfo concertistico come non gli accadeva da lungi, si sarebbe fatto dare un passaggio dal bassista Jeff Eyrich dritto fino a casa sua. Avrebbe abbracciato la moglie Judy e chiacchierato un po’ con il figlio di lei (e da cinque anni molto anche di lui) Taylor. Magari l’avrebbe accompagnato al cinema, invece di lasciare l’incombenza alla zia Michelle e a quel Maury Baker già suo batterista. O forse sarebbe andato a dormire per qualche ora per quindi, ritemprato, rimettere mano all’ambizioso progetto da poco posto in pista con il paroliere dei tempi belli, Larry Beckett: un concept ispirato da Joseph Conrad. Ma invece che a Santa Monica si faceva portare a Venice, da Richard Keeling. Etnomusicologo e spacciatore. A casa sua ci arriverà tre ore dopo. Farneticante, a carponi negli ultimi metri. Moriva così un uomo che aveva saputo volare. Prima di cremarne il corpo lo sottoposero ad autopsia e altro che l’infarto di cui si era pietosamente parlato in un succinto comunicato della Associated Press, contenente diverse altre inesattezze e ripreso dal “Los Angeles Times”: era pieno di alcool e soprattutto di eroina.

Se questo fosse sul serio il migliore dei mondi possibili, poi, Jeff Buckley il 29 maggio 1997 non si sarebbe perso girando in furgone (alla guida l’amico Keith Foti) per le strade di Memphis alla ricerca della sala nella quale nelle settimane seguenti avrebbe dovuto rifinire, con il gruppo, i pezzi del secondo album. E di conseguenza non avrebbe mai commesso la triplice imprudenza (i due ragazzi si fermavano a raccogliere le idee) di immergersi nelle acque luride e infide del Wolf River al crepuscolo, vestito, anfibi ai piedi. Sommerso dalla risacca provocata da un incrociarsi di battelli, manco riusciva a chiamare aiuto e furono così le parole di una canzone, Whole Lotta Love, le ultime che gli uscirono di bocca. Se ne andava insomma cantando. Il fiume ne restituirà il cadavere il 4 giugno e ci sarà allora un certificato medico a sanzionare che non aveva bevuto né assunto droghe. Previdente, Mary Guibert prima che le spoglie venissero ridotte in cenere chiedeva un test del DNA. A evitare “cause di presunta paternità a carico della vittima, che aveva viaggiato in tutto il mondo ed era molto popolare in Francia e Australia”. Cuore di mamma!

Nell’ipotetico universo di cui sopra, Tim non avrebbe sniffato quella merda, si sarebbe definitivamente ripulito e avrebbe forse scoperto che era possibile sopravvivere ─ artisticamente ─ a “Goodbye And Hello” e persino a “Starsailor”. Avrebbe spalancato porte e steso tappeti per Jeff, che sarebbe ancora fra noi. Però mai nessuno ha completamente torto o ragione (nemmeno Voltaire) e questo non sarà il miglior mondo possibile ma bisognerebbe sempre ricordarsi che, be’, poteva andare peggio. Tim Buckley poteva non averlo un figlio. Jeff poteva non fallire una almeno fra le tante audizioni cui si sottopose ─ i Murphy’s Law! gli Agnostic Front!! Mick Jagger!!! ─ e oggi sarebbe vivo, sì, ma soltanto un altro stronzo eroe della chitarra.

Nella saga maledetta e magnifica dei Buckley (a tredici anni dalla scomparsa del secondo ci si può azzardare a dirlo: un terzo non c’è, non ci sarà) al di là del valore che si stenta a commensurare del lascito a impressionare sono le similitudini caratteriali: medesimo l’atteggiamento di insofferenza verso l’industria discografica, uguale il confronto conflittuale con una fama insieme corteggiata e respinta, coincidente il rapporto con l’altra metà del cielo ed è il dettaglio che più disturba, dolorosamente. A seguirne le vicende ponendole in parallelo, finisci per confondere Tim e Mary con Jeff e Rebecca, Joan con Judy. Eppure il figlio passò quasi intera l’esistenza a cercare di differenziarsi dal padre. Ci vorrebbe uno psicanalista. Non lo sono. Per quanto possibile in queste pagine parlerò dunque solo di musica. Comunque tanta roba.

Prosegue per altre 55.115 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.35, inverno 2010. In un mondo migliore del nostro Jeff Buckley compirebbe oggi cinquantacinque anni.

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12 novembre 2021 · 11:58

Yola – Stand For Myself (Easy Eye Sound)

Se ha un difetto o meglio un problema, “Stand For Myself”, è che deve fare i conti con lo stratosferico “Walk Through Fire”, che nel 2019 lasciava molti attoniti dinnanzi a un debutto che pareva sbucare dal nulla. Quando in realtà l’artefice, l’allora trentacinquenne Yolanda Quartey, da Bristol e non da Memphis o comunque dal profondo Sud degli States come si scommetterebbe ascoltandola, aveva già alle spalle una lunga carriera da corista (Massive Attack e Chemical Brothers) e da cantante dei Phantom Limb (due i lavori in studio e un live). Più profeta allora nella sua patria ideale che in quella vera, la signora: ben quattro le candidature ai Grammy e fra esse una nella categoria “Best Americana Album” e due, per Faraway Look, nelle sezioni “Best American Roots Performance” e “Best American Roots Song” (la quarta? “Best New Artist”). Il che ingenerava però un grosso equivoco e non valeva a giustificarlo che il disco fosse stato inciso a Nashville: che si trattasse di country quando il country è sì presente ma è indubitabilmente alla voce “soul” che Yola va catalogata.

Prodotto come l’esordio da Dan Auerbach dei Black Keys, “Stand For Myself” si presenta con una copertina che fa sospettare che per l’artista sia cambiato il decennio di riferimento, i ’70 e non più i ’60. Il che non è. Fra i dodici brani in scaletta giusto una Dancing Away In Tears gustosamente da Studio 54 va in tale direzione. Il resto ricalca il predecessore, con apici nella ballatona Barely Alive, nell’errebì al galoppo Diamond Studded Shoes, in una Great Divide sentimentale con afflato gospel, nella scheggia di Stax Break The Bough, nella grintosa e conclusiva traccia omonima. Manca solo l’effetto sorpresa, insomma.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.

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Alla ricerca della bellezza assoluta – La PJ Harvey ecumenica di “Stories From The City, Stories From The Sea”

È parecchio diverso dal mio primo paio di album, di gran lunga più melodico, con un suono più tondo e pieno. Quei miei primi lavori erano per così dire in bianco e nero, decisamente estremi. Questo è molto più sofisticato. È come se avessi preso tutti i dischi precedenti e li avessi sintetizzati in uno”: così PJ Harvey raccontava il suo quinto lavoro in studio, “Stories From The City, Stories From The Sea”, a Steve Appleford del “Los Angeles Times” in un’intervista pubblicata il 29 ottobre 2000, probabilmente la prima ad apparire sulla carta stampata visto che l’album non aveva raggiunto i negozi che il 24 di quello stesso mese. Fotografando piuttosto accuratamente (convenientemente non sottolineava che, ancor più che riassunto delle puntate precedenti, il disco si porgeva come il suo primo iscrivibile a un canone di rock “classico”) un album distante ben più che rispettivamente otto e sette anni dai ruvidi quanto epocali “Dry” e “Rid Of Me”, ma non così tanto da “To Bring You My Love” del ’95. Laddove a “Is This Desire?”, del ’98, tutti appiccicano l’etichetta “interlocutorio” e ci sarà un perché. Così come evidentemente c’è un perché se a oggi proprio “To Bring You My Love” e “Stories From The City, Stories From The Sea” risultano i due titoli più venduti di Polly Jean: intorno al milione di copie cadauno. Era dunque pure un po’ un mettere le mani avanti quello dell’allora trentunenne cantautrice del Somerset, anticipando il senso di delusione che coglieva tanti dei cultori della prim’ora di fronte a un disco che, passo avanti o a seconda dei punti di vista indietro, le guadagnava sì nuovi estimatori ma gliene faceva perdere di vecchi. Da lì a qualche mese parlando con il mensile britannico “Q”, probabilmente confortata dal buon riscontro di pubblico a fronte di una critica per la prima volta non unanimemente apologetica, PJ era più esplicita: “Desideravo che avesse un impatto piacevole. Se in ‘Is This Desire?’ e ‘To Bring You My Love’, che sono più oscuri, inquietanti, se vuoi respingenti, avevo sperimentato sonorità disturbanti, con ‘Stories…’ ho cercato di fare l’opposto. Ho pensato, no, voglio la bellezza assoluta. Voglio che questo disco canti, e voli, e sia pieno di riverbero e ricchi strati di melodia. Voglio che sia il mio lavoro più sontuoso e adorabile”. Impresa portata a compimento e dell’essere riuscito alla Harvey di passare dall’universo “alternative” al mainstream senza perdere credibilità dava riscontro la candidatura dell’album (peraltro la terza per la titolare) al Mercury Prize. Vittoriosa e non potrà mai dimenticare il momento in cui riceveva la telefonata con cui glielo comunicavano. In tour negli Stati Uniti, alloggiata quel giorno in un albergo a Washington DC con vista sul Pentagono, apprendeva la notizia mentre incredula come il resto del mondo ma lei da poche centinaia di metri osservava l’edificio suddetto in fiamme, appena colpito da un aereo civile dirottato. Avrà inteso il lettore: era l’11 settembre 2001.

Da lì a undici anni PJ Harvey si aggiudicherà di nuovo, con “Let England Shake”, il prestigioso riconoscimento e finora, nella quasi trentennale storia del Mercury, il suo nome è l’unico a figurare per due volte nell’albo d’oro. Ormai autentica istituzione culturale a quel punto e strano che il successivo e parimenti magnifico “The Hope Six Demolition Project”, del 2016, non sia stato inserito a suo tempo nell’elenco dei contendenti. Ancora attendiamo un seguito, con qualche timore dovuto all’impressione che i tanti interessi che coltiva stiano portando l’artista non diremmo lontana dalla musica ma a considerarla solo uno dei tanti fronti su cui impegnarsi. O, piuttosto, che l’ispirazione si stia inaridendo. Che la consapevolezza di doversi confrontare ogni volta con un catalogo di fenomenale consistenza media stia inibendo Polly Jean dall’aggiungervi articoli che difficilmente potrebbero rientrare fra i più rilevanti. Sia come sia: da un anno in qua è in corso un’operazione di restauro del suddetto catalogo che procede di pari passo con la pubblicazione per la prima volta, in separata sede, dei demo che ogni volta funsero da punto di partenza per ciascun disco. L’esegeta si sarà già messo in casa, con quelli dei predecessori, i provini di “Stories From The City, Stories From The Sea”. Il semplice vinilomane non disponibile a sborsare i minimo cento euro che costa un esemplare d’epoca dell’album regolare sarà invece lieto di apprendere che adesso per meno di trenta (che comunque non sono pochi, eh? soprattutto considerando che il CD te lo tirano dietro a cinque) potrà aggiungere alla sua discoteca una copia (non cambia la griffe: Island) splendidamente suonante.

Non è questo l’album migliore di PJ Harvey (la giurisprudenza si divide al riguardo fra “Rid Of Me” e “To Bring You My Love”), ma è certamente quello che si porge in maniera più ecumenica, che pure l’appassionato di rock legato ai suoi stilemi più consolidati può apprezzare. Da subito, da una Big Exit marcatamente Patti Smith, la più innodica, e da un’ancora più orecchiabile Good Fortune che potrebbe essere dei Pretenders e nel cantato l’omaggio appare esplicito. Proseguendo con la romantica A Place Called Home, la sospesa e sferzante insieme One Line e lo scheletrico folk per chitarra, voci (in entrambi i brani la seconda è Thom Yorke) e ambienza Beautiful Feeling e una viceversa rabbiosa e granitica (e in tal senso un tuffo nel passato dell’artefice) The Whores Hustle And The Hustlers Whore. Fine della prima facciata. La seconda si apre con la dolcissima This Mess We’re In (terza e ultima ospitata del cantante dei Radiohead) e dopo la vivace ballata in zona R.E.M. You Said Something concede un altro ritorno sui suoi passi alla riot grrrl che fu con la scorticata Kamikaze, prima di un ulteriore e stavolta duplice inchino, This Is Love e (persino il titolo ammicca) Horses In My Dreams, a Patti Smith. Peccato per un suggello un filo piatto, We Float, ma a riascoltarlo a oltre vent’anni dall’uscita il disco “newyorkese” (lo concepiva lì, anche se poi lo registrerà in patria) di PJ Harvey risulta non soltanto invecchiato con grazia ma nettamente migliore di quanto non sembrò a molti (compreso chi scrive) quando uscì.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.430, aprile 2021.

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Audio Review n.436

È in edicola da metà della scorsa settimana il numero di novembre di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli ultimi album di Julia Bardo, Eric Bibb, James Blake, Lindsey Buckingham, Deerhoof, Felice Brothers, Nite Jewel, Kool & The Gang, Joy Orbison, Andy Shauf, Shivas, Tirzah, Martina Topley-Bird e Matthew White e di una ristampa dei Come. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo di Eric Dolphy e più in breve di Ozzy Osbourne.

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Flying Burrito Brothers – I Velvet Underground del country-rock

Nel libretto di un CD che nel 1997 riportava nei negozi dopo un’ultradecennale assenza il debutto dei Flying Burrito Brothers accoppiandolo senza aggiunte al successivo “Burrito Deluxe”, Sid Griffin scrive di “The Gilded Palace Of Sin” che al tempo dell’uscita a inizio 1969 non vendette che cinquantamila copie e tuttavia “come con il primo album dei Velvet Underground si direbbe che ogni singolo acquirente abbia poi formato una band ispirato da quanto aveva ascoltato”. Sapeva di cosa stava parlando, giacché lui fondò i Long Ryders. La “y” in luogo della “i” nella ragione sociale omaggio a quei Byrds da cui provenivano due dei quattro Burrito originali, il leader Gram Parsons e il principale fiancheggiatore, Chris Hillman. La ristampa di cui sopra era per il mercato britannico. Negli USA incredibilmente il disco che, portando a maturazione le intuizioni dei Byrds di “Notorious Byrd Brothers” e “Sweetheart Of The Rodeo”, completava la prima e cruciale redazione del canone di ciò che da allora chiamiamo country-rock in compact disc vedrà la luce per la prima volta solo tre ulteriori anni dopo e nel contesto di un doppio, “Hot Burritos! The Flying Burrito Brothers Anthology 1969-1972”, che raccoglie (questo regalando diverse bonus e di valore) i primi tre LP di un complesso all’altezza del terzo con sempre dentro due ex-Byrds (il secondo Michael Clarke) ma già orfano di Parsons: talento immane che tragicamente ci lasciava, il 19 settembre 1973, così giovane da non guadagnarsi nemmeno l’inclusione nel famigerato “club dei 27”, giacché era nato il 5 novembre 1946. Prestate occhio alla copertina qui a fianco: il capanno davanti al quale stazionano i nostri Fab Four ─ gli altri due sono il maestro di steel guitar “Sneaky” Pete Kleinow e il bassista Chris Ethridge ─ e da cui fanno capolino due belle figliole sorgeva nel parco nazionale di Joshua Tree, California meridionale. Parsons si butterà via a pochi chilometri da lì, andando in overdose da morfina mischiata a tequila, e sempre a pochi chilometri da lì due amici dopo averne trafugato il corpo (!) fatto portare a New Orleans dal patrigno cercheranno maldestramente di cremarlo. Finale di storia fra i più romanzeschi negli annali del rock. Ma torniamo a “The Gilded Palace Of Sin”, che a voler essere pignoli ancora aspetta di essere riedito singolarmente su CD negli USA, visto che a oggi l’unica versione in digitale è un SACD del 2017, ma in compenso solo negli ultimi dieci anni ha avuto nel mondo quattro ristampe in vinile fra le quali addirittura, qui in Italia, una da edicola per DeAgostini nel 2018. Mentre l’ultima e freschissima nel momento in cui scrivo, datata già 2021, è “made in the USA”, A&M come quella d’epoca.

Anche i ricchi piangono e infanzia e adolescenza di Cecil Ingram Connors, rampollo di famiglia che dire benestante è un eufemismo, è segnata da drammi di quelli che infliggono ferite inguaribili. Ha dodici anni quando il padre, eroe di guerra, si toglie la vita un’antivigilia di Natale, diciotto quando la madre che si è risposata con Robert Parsons (il ragazzo ha scelto di assumere il cognome del patrigno) muore di cirrosi epatica, si potrebbe dire suicida lei pure ma lentamente, una bottiglia alla volta. Fra tutti i giorni possibili, sceglie per andarsene quello in cui il figlio si diploma. Il ragazzo si iscrive alla Harvard University. Non ci crederete: a teologia. Dura un semestre prima che l’amore per la musica, cui si è accostato a nove anni studiando pianoforte, la prima chitarra imbracciata da lì a poco, lo sequestri definitivamente. Ha già suonato rock’n’roll e poi folk in una teoria di gruppetti fra l’amatoriale e il semiprofessionistico, unisce le due passioni e quella per il country fondando quella International Submarine Band che a posteriori sarà giustamente considerata, per quanto acerba, seminale. Quando il debutto a 33 giri per la LHI di Lee Hazlewood “Safe At Home” vede la luce nel marzo 1968 il complesso già non esiste più. Gram si è unito ai Byrds e sarà avventura brevissima, questione di mesi ma bastanti a fargli imprimere un marchio indelebile (al di là dei soli due brani su undici firmati, ma uno è il capolavoro Hickory Wind) su “Sweetheart Of The Rodeo”. Lascia la compagnia ufficialmente perché rifiuta di seguirla in un tour nel Sudafrica allora sotto il giogo dell’apartheid ed è nobile motivazione che però forse non nasconde altro che la voglia di dare vita a un progetto tutto suo volto a completare la compenetrazione di country e rock (mondi che nella temperie culturale sessantottina si osservano da lontano e con sospetto) che ha iniziato a tramare con la banda sempre più di Roger McGuinn.

È uno di quegli album di cui non puoi in nessun modo sopravvalutare l’influenza esercitata nell’abbondante mezzo secolo trascorso dalla pubblicazione, “The Gilded Palace Of Sin”. Dagli Eagles, che ne svilupperanno la formula trasformandone il rame in oro zecchino a livello di vendite, alla pattuglia di riottosi virgulti, da Dwight Yoakam a Steve Earle, che proverà a metà ’80 a prendersi Nashville e ancora più su, fino a quegli Uncle Tupelo con i quali un decennio ancora dopo si comincerà a parlare di alt-country, tutti nell’ambito che inventò o perlomeno finì di inventare gli debbono qualcosa. Il che fa quasi passare in secondo piano che sia un disco bellissimo, parata di indiscutibili classici che a due peculiari riletture di brani simbolo del soul, Do Wright Woman da Aretha Franklin e Dark End Of The Street da James Carr (la seconda singolarmente esultante visto il tema) unisce nove composizioni autografe (la firma di Parsons sotto tutte, quella di Hillman ad affiancarla in sei) una più favolosa dell’altra. Insieme coeso di parti che prese una per una parrebbero anche parecchio distanti: lo shuffle incalzante di Christine’s Tune che inaugura ben altra cosa rispetto al liturgico errebì di Hippie Boy che suggella, il valzer Sin City lontano universi dalle stilettate di fuzz infitte nel cuore pulsante di tenerezza di Wheels. Paradigmatiche le due Hot Burrito che si danno il cambio sulla seconda facciata: la #1 avrebbe potuto rifarla Sinatra; la #2 un’esilarante ipotesi di garage-country.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.428, febbraio 2021. Non fosse morto indecentemente giovane, Gram Parsons compirebbe oggi settantacinque anni.

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My Bloody Valentine – Una rumorosa epopea

“Incidemmo la batteria nel settembre 1989, le chitarre tre mesi dopo e il basso nell’aprile del 1990. Poi non lo toccammo più per circa un anno e arrivati a quel punto non c’erano ancora né una traccia vocale né un abbozzo di testo. Il brano nemmeno aveva un titolo, era solo la ‘Canzone 12’. Per quello che posso ricordare la linea melodica venne composta nei primi mesi del ’91. Il pezzo era soltanto strumentale, le parole arrivarono dopo. Se ascolti sembra che cantiamo insieme io e Bilinda ma in realtà c’è un’unica voce ed è la mia, ora rallentata, ora accelerata. Molte parti vocali, non solo in questo brano, in tutto il disco, le abbiamo registrate dalle dieci alle venti volte e poi sovrapposte ed è per questo che possono risultare incomprensibili. Ci sono canzoni in cui non ho idea di cosa canti Bilinda e credo non lo sappia manco lei. Abbiamo lavorato anni a ciascun pezzo, quasi sempre con lunghi intervalli. Ad alcuni ci ho rimesso mano così tante volte e a distanza di così tanto tempo che alla fine non ricordavo più l’accordatura usata all’inizio e tiravo a indovinare”: così Kevin Shields racconta la genesi di When You Sleep, quinta (penultima della prima facciata) delle undici tracce di “Loveless”, l’album che i My Bloody Valentine davano infine alle stampe il 4 novembre 1991, a tre anni meno diciassette giorni dal predecessore “Isn’t Anything”, e che istantaneamente veniva acclamato come un classico. Praticamente unanime la critica al riguardo e chissà quante volte si è autoflagellato da allora chi lo recensì tiepidamente per l’autorevolissimo “Spin”, forse unica voce fuori dal coro laddove sul “Chicago Tribune” Greg Kot appuntava che “è un disco che scrive un nuovo vocabolario per la chitarra e che probabilmente le regalerà altri dieci anni di vita come principale strumento del rock”. Se si sbagliava era per difetto, giacché siamo arrivati a trenta. Sfortunatamente il pubblico non mostrava altrettanto entusiasmo. “Loveless” conquistava sì (come del resto l’album precedente) la vetta della classifica indie UK ma in quella generale non saliva più su della ventiquattresima posizione, negli USA nemmeno ci entrava in classifica e insomma la Creation, per cui vedeva la luce, soltanto per ripagarsi gli stratosferici conti dei diciannove (!) studi nei quali era stato assemblato di anni ne impiegò ben più di tre. Duecentocinquantamila sterline, si dice costò, a fronte di vendite che a oggi vengono calcolate (per uno dei dischi più influenti della storia del rock; ogni epoca ha avuto i suoi Velvet Underground) in mezzo milione di copie. A causa dei My Bloody Valentine l’etichetta di Alan McGee rischiava la bancarotta (il suo socio Dick Green letteralmente incanutiva per lo stress; dice che un giorno telefonò a Shields e scoppiò in singhiozzi implorandolo di dargli “quel cazzo di disco prima che finiamo tutti in mezzo a una strada”) e senza  il boom datato ’94 degli Oasis di “Definitely Maybe” (fu così che il pop con le chitarre più conformista degli anni ’90 saldò le spese del più respingente) difficilmente sarebbe mai riuscita a rimettersi in sesto.

Andrà peggio alla Island, che ingaggiava i My Bloody Valentine appena accompagnati alla porta con ferma gentilezza dalla Creation e anticipava al loro leader esattamente la stessa somma, duecentocinquantamila sterline, che Shields subito investiva nell’allestimento di una sala di incisione. Non vedrà mai rientrare il cospicuo investimento e finirà per sciogliere il contratto senza avere ottenuto nulla in cambio. Il terzo My Bloody Valentine, “mbv”, è uscito autoprodotto quando nessuno ci credeva più, nel 2013. Un quarto lo aspettiamo da allora e fossi in voi non tratterrei il fiato. Molto attese sono in compenso le riedizioni in vinile, griffate Domino e nei negozi dal 21 maggio, dei tre album della band anglo-irlandese e della raccolta doppia “EP’s 1988-1991 And Rare Tracks”. Che non varranno a calmierare l’ormai completamente impazzito mercato del collezionismo (una stampa originale di “Loveless” costa diverse centinaia di euro e invece che scendere, come sarebbe stato logico, i prezzi nelle ultime settimane si sono impennati) ma almeno daranno modo a chi questi dischi desidera averli sul più nobile dei supporti fonografici, e al tempo non c’era o era distratto, di non svenarsi troppo.

Certifica quanto fosse avanti “Loveless” che ─ a distanza di tre decenni! ─ il sottoscritto abbia qualche remora a consigliarlo al lettore più tradizionalista in materia di rock. Che potrebbe ricavare maggiori soddisfazioni dal quasi altrettanto colossale ma meno intimidente “Isn’t Anything”. Lì Kevin Shields, Bilinda Butcher e poco rilevanti sodali offrivano una loro personale reinterpretazione di un canone includente folk-rock e noise (fusi in Love My Breath), psichedelia e post-punk (I Can See But I Can’t Feel It), i Velvet come i primi Pink Floyd (Cupid Come perfetta crasi), Dinosaur Jr. e Hüsker Dü (Feed Me With Your Kiss, You Never Should), i Sonic Youth (All I Need, Sueisfine) e una ambient tanto fosca da farsi illbient (No More Sorry). Piazzando nell’iniziale Soft As Snow (But Warm Inside) fra grattuggiamenti di chitarre, un basso wave e una vigorosa batteria una melodia che a risentirla adesso la puoi immaginare ripulita dai Blur di qualche anno dopo e trasformata in una hit planetaria. Laddove con “Loveless” ne creavano uno definitivamente loro di canone, immediatamente imitatissimi ma guardati da lontano anche dagli altri campioni (Ride e Slowdive i maggiori) del cosiddetto shoegaze: qui inaudito incrocio fra “Pet Sounds” e “Metal Machine Music” idealmente prodotto da Phil Spector; qui cuore pop lanciato oltre l’ostacolo di strato su strato di feedback; con all’inizio i Cocteau Twins avvolti in coltri di frastuono di Only Shallow, a fondo corsa la spiazzante danzabilità di Soon e in mezzo altri nove capolavori teneri e assordanti. Il più capolavoro di tutti la When You Sleep narrata in apertura dall’artefice: ascoltatela, intenderete subito perché per Robert Smith “Loveless” è il singolo disco che salverebbe dalla distruzione di tutti gli altri, suoi compresi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021. A oggi sono trascorsi trent’anni dalla pubblicazione di “Loveless”.

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