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Sommersi da salvare – Il peculiare heavy rock dei primi King’s X

Metti che il tuo esordio non vada via come il pane (piazzamento migliore nella classifica di “Billboard” un numero 144: poca cosa pure in un’era in cui i dischi si vendevano eccome, altro che streaming) e che però venga eletto “album dell’anno” da “Kerrang!”, testata di riferimento per ogni metallaro del globo terracqueo. Metti che il seguito si comporti un po’ meglio commercialmente (negli USA un numero 123, cinquantaduesimo nel Regno Unito) senza per questo farti perdere i favori della critica (quarta migliore uscita per il giornale sunnominato e nelle playlist di innumerevoli altre riviste, inclusa una non strettamente di settore come “Sounds”). Metti che il disco dopo ancora allarghi la tua platea al punto di persuadere la major che fino ad allora si era limitata a distribuirti a ingaggiarti direttamente. E metti che giusto sul finire dell’anno di pausa che ti sei concesso una certa concezione e tradizione del rock “pesante” cui, pur vantando un sound di rimarchevole peculiarità, indubbiamente appartieni vengano spazzate via da una rivoluzione chiamata grunge, nel mentre pure il crossover sale sugli scudi e impazza. Nel mondo nuovo disegnato a cavallo fra il ’91 e il ’92 da “Nevermind”, “Ten”, “Badmotorfinger”, “Blood Sugar Sex Magik” (ma pure dal Doppio Nero dei Metallica) improvvisamente sei diventato obsoleto. Potresti in realtà ricavarti egualmente una tua nicchia, ma sei intellettualmente troppo onesto per corteggiare quel mercato particolarissimo, di cui molti ignorano persino l’esistenza ma che dà da vivere a tanti: quello del cosiddetto – gigantesca contraddizione in termini – christian rock. Ed ecco perché i King’s X non sono mai diventati “gli Stryper che vale la pena ascoltare”.

Lo ammetto: benché sia stato un loro cultore della prim’ora ignoravo che i King’s X fossero… siano ancora insieme e oltretutto nella formazione – Ty Tabor alla chitarra, Doug Pinnick al basso e nella maggior parte dei pezzi voce solista, Jerry Gaskill alla batteria – schierata nei dischi di una breve era semi-aurea e già rodatissima allora, visto che i tre nascevano come The Edge a Springfield, Missouri, addirittura nel 1979 e diventavano Sneak Preview quando quattro anni più tardi si trasferivano in Texas (sono rimasti lì), ragione sociale con la quale nell’84 pubblicavano  un omonimo 33 giri mai ristampato e che le rare volte che fa capolino su Discogs strappa dai duecento euro in su. Un po’ colpa loro: pubblicato lo scorso 2 settembre il loro tredicesimo lavoro in studio ha visto la luce a qualcosa come quattordici anni dal dodicesimo. Un po’ di più colpa mia ma pure sempre loro, giacché il debutto su Atlantic del ’92, omonimo, dei loro primi quattro album è nettamente il meno convincente e già “Faith Hope Love”, del ’90, li aveva visti in flessione rispetto ai primi due LP. Smettevo di seguirli e chissà se mi sono perso qualcosa. In compenso, fatti girare a decenni dall’ultima volta “Out Of The Silent Planet” e “Gretchen Goes To Nebraska”, usciti in origine entrambi su Megaforce rispettivamente nel febbraio 1988 e nel maggio 1989, mi sono sembrati belli come allora, non invecchiati affatto perché fuori dal tempo, appartenenti a una dimensione unicamente loro. Assolutamente da recuperare per chi non li conosce, da rispolverare per chi li ha in casa. Il primo è stato ristampato una sola volta, dalla Metal Blade nel 2017 e in formato doppio 12”, benché non duri che 43’32”. Non faticherete tuttavia a recuperarne una copia d’epoca e non dovreste pagarla più di venticinque-trenta euro (ma anche soltanto dieci su una bancarella dell’usato). Soldi in ogni caso ben spesi. Concept alquanto sui generis di argomento fantascientifico (il titolo omaggia un romanzo di C.S. Lewis), sistema in apertura un capolavoro di raga in scia ai Popol Vuh etnici che trasmuta in hard del più epico chiamato In The New Age e da lì a una Visions che suggella adombrando un thrash di impronta Voivod non smette mai di stupire: ad esempio innestando un riff degno degli AC/DC in una With A Hammer che, non contenta di mediare fra psichedelia e progressive, cala sul tavolo pure l’asso di una coralità gospel; con What Is This?, che indifferentemente farebbe un figurone nel catalogo dei Cream come in quello dei Guns N’Roses; con Shot Of Love, che sono dei Black Sabbath ossessionati dai Beatles. Sono cinque brani su dieci, mezzo programma, e non fosse che lo spazio va assottigliandosi li avrei citati tutti. Concept dalle origini meno nobili (un racconto scritto da Gaskill) ma narrativamente più coeso, il seguito vedrà i nostri eroi incredibilmente superarsi, aprendo nuovamente con un raga (la continuità rispetto al predecessore rimarcata dal fatto che come quello si intitola: Out Of The Silent Planet) e piazzando nel prosieguo meraviglie come Over My Head (i Queen alle prese con Jimi Hendrix), Everybody Knows A Little Bit Of Something (funk-metal da Living Colour al top), The Difference (quasi una outtake dell’immortale David Crosby di “If I Could Only Remember My Name”), Mission (novella Tales Of Brave Ulysses), Pleiades (bluesata e jangly) e The Burning Down (cavalcata hardelica fra l’onirico e il marziale). “Gretchen Goes To Nebraska” è stato appena riedito, su quattro facciate invece di due per incrementare la dinamica dei suoi 51’58”, dalla Music For Vinyl, in tiratura limitata e al prezzo onesto per il folle mercato odierno di quaranta euro. Regolatevi.

Un argomento è rimasto in sospeso. Al tempo si sapeva i King’s X ferventi cristiani ma si apprezzava il loro vivere la fede senza darsi al proselitismo e anzi in maniera problematica: da cui, ad esempio, il duro attacco ai telepredicatori in Mission e l’omaggio a Galileo Galilei in Pleiades. Avendo sempre esternato il dubbio che fra quanti la proclamano stentoreamente (tipo gli Stryper, ecco) molti lo facciano con vili secondi fini, dalla scena christian rock venivano da subito guardati con sospetto. Ne subiranno la scomunica quando nel ’98 Pinnick farà coming out. Oggi costui si dice agnostico e Gaskill lo stesso. Solamente Tabor pare frequenti ancora la chiesa, ma conservando per i bigotti del sano disprezzo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.454, giugno/luglio 2023.

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Black Sabbath e satanismo – Genesi di una leggenda

Formalmente i Black Sabbath nascono un giorno di agosto del ’69 a bordo del traghetto che dall’Inghilterra sta portando ad Amburgo il cantante John Michael Osbourne (detto Ozzy; 3 dicembre 1948), il chitarrista Frank Anthony Iommi (per tutti Tony; 19 febbraio 1948), il bassista Terence Butler (meglio noto come Geezer; 17 luglio 1949) e il batterista William Ward (più familiarmente Bill; 5 maggio 1948). Nella città tedesca li attende un ingaggio di una settimana allo Star Club, esattamente il sordido localaccio nel quale, nel corso di ben più prolungati soggiorni, erano divenuti adulti i Beatles. Tutti quanti lungocriniti e tre su quattro baffuti, sicché appaiono più maturi di quanto non siano (non Ozzy, che il volto glabro fa sembrare il bambinone discolo che è), consumano le uniche droghe che è possibile e sensato consumare visto il luogo, vale a dire birra e sigarette, e discutono di musica e futuro. Di cosa suonare per potere avere una qualche speranza di guadagnarsene uno. Collettivamente noti come Earth, hanno urgenza sia di cambiare nome ─ per niente caratterizzante, anche se sempre meglio del primigenio e orrendo Polka Tulk, e oltretutto già usato da un’altra band che potrebbe intentare causa ─ che stile. Il blues è servito a rodarli e a procurare loro scritture, ma non c’è soddisfazione a eseguire materiali altrui o comunque derivativi e poi è indiscutibile: non è più alla moda. Bisogna cambiare per sopravvivere e hanno iniziato, mischiando al repertorio classico composizioni autografe in cui le scansioni rallentano, i riff si raddensano e si creano certe atmosfere… da horror cinematografico di serie B, genere di cui sono tutti appassionati, così come di occultismo spicciolo. Esemplare di questo agro stil novo è il pezzo che nei concerti raccoglie invariabilmente i maggiori consensi: Black Sabbath, titolo scippato all’edizione inglese di un film italiano del 1963, I tre volti della paura, di Mario Bava. Sulla strada per la sala prove un giorno Tony e Geezer sono passati davanti a un cinema che lo proiettava e il primo ha osservato al secondo: “Non ti sembra strano che la gente paghi per vedere qualcosa che la fa cacare sotto dallo spavento? Immagina se riuscissimo a creare una musica che ottenga lo stesso effetto. Che sembri… malvagia”. Fra una cicca e un rutto si decide: il titolo della canzone sarà la nuova ragione sociale, dopo Amburgo però e dopo avere onorato qualche contratto britannico già firmato. Ma ho corso e sarà il caso di fare alcuni passi indietro prima di compierne in avanti.

Uno per dire che il semplice fatto che gli Earth quel bel dì siano su quel battello in viaggio per la Germania denota che i quattro hanno una formidabile fede in se stessi e in particolare è Tony Iommi a essere convinto che orizzonti di gloria siano dietro l’angolo. Qualche mese prima il chitarrista ha ricevuto un’offerta di quelle che non si possono rifiutare e l’ha rifiutata: invitato a unirsi ai già popolarissimi Jethro Tull in sostituzione del dimissionario Mick Abrahams, è stato per alcune settimane della compagnia, partecipando fra il resto alla carnascialesca kermesse stoniana del “Rock’n’Roll Circus”, ma poi ha preferito tornare alla base. E pensare che i suoi stessi amici lo avevano incoraggiato ad accettare, a non preoccuparsi di loro, a non farsi sfuggire un’occasione irripetibile. Logico che Osbourne, Butler e Ward se ne siano sentiti, oltre che lusingati, responsabilizzati.

Due… Nonostante la verde età i ragazzi vantano curriculum di una certa sostanza fin da prima degli Earth. A livello amatoriale Ozzy e Geezer, insieme in tali Rare Breed. A livello professionale Tony e Bill, entrambi per quattro anni nei Mythology, power-trio etichettato come… ahem… “la risposta del Cumberland alla Jimi Hendrix Experience” che sulla soglia del contratto discografico è malamente inciampato in un arresto collettivo per possesso di marijuana che lo ha sbattuto, in un giorno sfortunatamente povero di notizie rilevanti, sulle prime pagine dei quotidiani nazionali.

Per capire la determinazione eminentemente operaia che giocherà un ruolo cruciale nell’affermazione del Sabba Nero bisogna infine avere ben presenti il retroterra socio-culturale ─ suburbia urbana della più degradata ─ dei protagonisti di questa saga e in special modo il vissuto dei due principali, Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Il secondo ha disperato di potere coronare il sogno di divenire un musicista professionista il giorno in cui un incidente in fabbrica lo ha privato dell’ultima falange di medio e anulare della mano destra. Non sarebbe una tragedia non fosse che è un mancino e a suonare da “normale” proprio non ci riesce. Lo salva dalla depressione l’ex-principale che, oppresso dai sensi di colpa, lo va a trovare portando con sé un LP di Django Reinhardt e prima glielo fa ascoltare e poi gli racconta di come il celebre chitarrista zingaro avesse un problema analogo e anzi più serio. Iommi si entusiasma, si ingegna ad autocostruirsi due specie di ditali che applica alle dita mutilate e riprende a suonare. Un ulteriore problema che gli si presenta ─ la pressione che riesce a produrre sulle corde inevitabilmente non è quella ante handicap ─ è risolto accordando lo strumento un tono o anche più sotto il normale: escamotage che contribuirà in misura decisiva a definire il suono Black Sabbath, scuro e profondo come nessuno prima.

Quanto a Osbourne lo ha dichiarato innumerevoli volte: non avesse avuto successo avrebbe passato la vita dentro e fuori, ma più che altro dentro, le patrie galere. Famiglia poverissima, madre cronicamente depressa, padre alcolizzato (ma nondimeno un buon cristo che farà di tutto per aiutarlo nel momento in cui eleggerà la musica a possibile redenzione), una passione precoce lui stesso per l’alcool e ogni tipo di sostanza stordente, violenze sessuali subite (fuori dalle mura domestiche) ancora bambino. A quattordici anni ha tentato il suicidio. A diciassette è stato arrestato per furto ─ talmente consunti i guanti indossati per precauzione che ha lasciato impronte digitali ovunque ─ e ha passato in carcere un mese e mezzo. Dopo di che si è arrabattato con lavori occasionali: macellaio fra il resto. Se mai c’è stato uno nato per perdere eccolo: John Michael Osbourne.

Ma ritorniamo sul traghetto, scendiamone lievemente barcollanti con i nostri eroi e scopriamo che l’ingaggio è il più assurdo che abbiano rimediato a quel punto. Alla clientela di magnaccia e altri assortiti malavitosi, puttane e marinai sbronzi dello Star Club non importa un accidente di cosa suoni il gruppo di turno purché suoni, purché sul palco accada sempre qualcosa. Al massacrante, disumano ritmo di sette spettacoli al giorno (avete letto bene) i ragazzi si stufano presto di un repertorio ancora smilzo e cominciano a sperimentare manco fossero jazzisti della New Thing. Vale tutto, dai brani di tre minuti che diventano di mezz’ora agli assoli al pari dilatati, a volumi a mezza via fra la soglia della distorsione e quella del dolore. Un riff può essere stiracchiato per dieci minuti, oppure se ne possono sparare dieci in un minuto e Tony Iommi, che del riff contenderà il titolo di re a Keith Richards e Jimmy Page, deve probabilmente mettersene un congruo gruzzolo in saccoccia. Nessuno li ascolta sul serio, eppure è in quella fatidica settimana che i (non ancora) Black Sabbath scoprono improvvisamente di avere una personalità. Il bruco diventa farfalla. Naturalmente di ferro.

Al rientro a casa, il 22 di quello stesso mese, i quattro registrano un primo demo, con la supervisione di quel Gus Dudgeon che farà bei soldini con Elton John e David Bowie. Tal Jim Simpson se lo porta in giro per etichette ottenendo solo rifiuti. Non c’è da stupirsene, visto che sul nastrino incomprensibilmente sono finite due canzoni scadenti e che non rappresentano affatto il nuovo corso, una The Rebel che cita gli Hollies, figuratevi un po’, e la dedica a un manager il cui rapporto con i Nostri, ossequiando uno schema classico dello showbiz, finirà fra carte bollate e tribunali, di A Song For Jim. Che è un blues-rock basato sul piano, figuratevi un po’ 2. Però dal vivo i quattro pestano e tirano come dannati, sempre più coesi, una macchina da guerra cui il passaparola sta conquistando un buon seguito nel cosiddetto underground. Fa capolino in questa storia Tony Hall, amico di Simpson ed ex-dj di Radio Luxembourg con la voglia di passare dall’altra parte della barricata. È lui a tirare fuori i soldi, seicento sterline, per incidere non un secondo nastrino dimostrativo ma un LP e poi si vedrà che farne. Gli studi prenotati per due giorni sono i londinesi Trident, buchetto in Wardour Street, quartiere di Soho, che a dispetto di un’apparenza dimessa vanta tecnologie all’avanguardia e l’unico otto piste operante in Gran Bretagna nel 1969. Qualche mese prima hanno lavorato lì nientemeno che i Beatles. I ragazzi sono diventati un modello di efficienza: a registrare l’album impiegano un giorno solo e il secondo è speso mixandolo con la fondamentale regia di Rodger Bain, che curerà la produzione anche dei due 33 giri successivi. Adesso un disco c’è e si tratta di trovare chi lo pubblichi. Alla Philips mostrano un certo interesse, ma svanisce presto quando un singolo ─ su un lato Evil Woman, che sull’album ci sarà; sull’altro Wicked World che ne verrà invece esclusa ─ per la sussidiaria Fontana non ottiene riscontri significativi. Potrebbe già essere tutto finito, ingloriosamente, non fosse che nel programma di uscite della Vertigo, il marchio progressive di casa Philips, si apre all’improvviso un buco nel quale Simpson è lesto a infilare i suoi protetti. Il 13 febbraio 1970 ─ ça va sans dire: un venerdì ─ “Black Sabbath” è nei negozi del Regno Unito. La campagna concertistica che l’ha preceduto e lo segue, intensificandosi ulteriormente, paga dividendi al di là di ogni previsione: entra in breve in classifica ─ a fine aprile è al numero 8, performance strepitosa per degli esordienti che oltretutto con la stampa si sono presi subito male ─ e ci resterà per cinque mesi, praticamente fin quando non arriverà “Paranoid” a dargli il cambio: numero uno in Gran Bretagna, 12 negli USA, dove il debutto aveva fermato la sua corsa a un comunque straordinario ventitreesimo posto. A proposito di Stati Uniti: il quartetto vi sbarcherà una prima volta in luglio, a registrazioni del secondo LP già completate. Le poche decine di spettatori dei primi concerti diventeranno nel giro di qualche data centinaia, quindi migliaia. Quando i Black Sabbath ci torneranno, nel febbraio dell’anno seguente, su istigazione della loro casa discografica americana, la Warner Bros, quattro semplici parole campeggeranno sui manifesti annuncianti gli spettacoli: “Louder than Led Zeppelin”.

Dovrei a questo punto aprire un’ampia parentesi e, rubando il mestiere all’ottimo Sergio Varbella, diffondermi sul cambiamento che all’incrocio fra ’60 e ’70 interessa il modo di concepire le copertine dei 33 giri rock. Che a tutto il ’67 vedono obbligatoriamente effigiato il solista o il complesso che ne sono titolari e gradualmente relegano queste foto sul retro o all’interno della confezione, fino a farle a volte sparire del tutto, sostituendole con immagini che intendono evocare la musica proposta. Non è però il luogo e vi basti, se non ci avevate mai fatto caso, l’avere acquisito codesta informazione. Quel che mi preme qui sottolineare è che forse mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo, l’essenza di un sound come quella del primo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. Roger Corman o lo stesso Mario Bava non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore come Black Sabbath la canzone che apre “Black Sabbath” l’album non l’hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e dice bene il Wilkinson quando annota che così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Da lì a qualche minuto da uno stato di catatonia si passerà, con uno dei più magistrali cambi di andatura che la storia del rock ricordi, a uno di terrorizzata frenesia.

Non credo di esagerare se dichiaro che con una confezione meno indovinata l’esordio adulto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Affermo l’ovvio appuntando che l’avvento del CD ha avuto come principale conseguenza nefasta quella di cancellare l’arte della bella copertina. In questo caso è di un capolavoro a sé che stiamo discorrendo, che il formato ridotto mortifica in maniera e misura inaccettabili, e mi piace sottolinearlo in un momento in cui il farsi immateriale della musica ─ con il download ─ le infligge un’ultima e fatale umiliazione. Così è se vi pare e chiamatemi pure nostalgico. Ma tornando al Sabba Nero… ci credereste? Che l’album esca in tal guisa è una felice scelta di un qualche oscuro discografico: “Abbiamo dato la nostra approvazione quando ce l’hanno sottoposta, ma non siamo stati noi a ideare la confezione”, ammette nel marzo 1970 il buon Geezer in un’intervista a un quotidiano locale. Uomini maledettamente fortunati che viene il sospetto che un qualche patto faustiano dovessero averlo firmato sul serio.

Missione ai limiti dell’impossibile andare dietro a un incipit tanto memorabile senza accusare cali di tensione, ma “Black Sabbath” per gran parte del suo svolgimento ci riesce, cedendo giusto per qualche minuto sul principio del secondo lato, con quella Evil Woman già citata perché scelta sciaguratamente dalla Fontana per tastare il terreno a 45 giri. Non una brutta canzone (fra l’altro una cover, dagli americani Crow), sia chiaro, ma la cantabilità scanzonata e il piglio boogie la rendono un corpo estraneo al resto dell’opera. All’armonica crepitante, alla chitarra granitica, alla batteria tumultuosa dell’hard definitivamente post-blues di The Wizard. Alla sarabanda a tempo di valzer che si slabbra in litania stregona di Behind The Wall Of Sleep. All’assolo di basso che danza l’attacco di N.I.B. prima di instradarla su una terra di mezzo fra melodramma e metallurgia. Al dark-folk psichedelico precipitato nell’Ade da un’elettrica che è lava, lama e marmo e un basso che rotola sfrenato di Sleeping Village. Alla qui estatica e lì rovinosa collisione Zeppelin-Cream (a un certo punto citati esplicitamente) di Warning, una rilettura di Aynsley Dunbar di cui confesso di non conoscere la versione originale. Di non essere nemmeno riuscito a scoprire da dove l’abbiano prelevata Iommi e soci.

Sul testo di N.I.B. vorrei spendere qualche parola, magari partendo da un titolo che più avanti i Sabbath stessi sosterranno riferirsi alla barbetta appuntita (“nib” vuol dire “pennino”) esibita al tempo da Bill Ward. Ma chiedete lumi a qualunque adepto e sicuro vi risponderà che trattasi di acronimo per Nativity In Black. Sia come sia: la canzone narra una vicenda di seduzione letteralmente diabolica, con Satana che si dà un gran daffare per persuadere una ragazza a mettersi con lui. E tanto dice e briga, fra il resto cambiando pure nome, riprendendo quello di Lucifero in memoria dell’angelo che era stato, che alla fine la fanciulla cede alle lusinghe. “Vecchio satiro!”, esulta l’ascoltatore politicamente scorretto, che non aveva potuto non notare un certo senso di disperazione insinuarsi nel corteggiamento portato avanti dal Maligno. Che attore! Ha finto di struggersi per fare più facilmente cadere la preda ai suoi piedi. Non fosse che, con fenomenale rovesciamento prospettico, finiamo per capire che no, non era finzione, era davvero innamorato della ragazza e disposto addirittura a cambiare vita pur di farsi accettare da lei. Un bravo diavolo, più Andy Capp, se vi riesce di immaginare un Andy Capp genuinamente con il cuore in mano, che non Faust. Uno con cui potreste chiacchierare al pub e che al terzo boccale vi metterebbe sotto il naso, orgoglioso, le foto dei figli.

La leggenda dei Black Sabbath satanisti è, giustappunto, poco più che una leggenda. Un’operazione di marketing da inquadrare nel manifesto programmatico del quartetto, quello delineato alcune cartelle fa di forgiare una musica dalle apparenze malvagie che induca in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore.

Tratto da “Black Sabbath – Rock da camera (a gas)”. Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.27, autunno 2007. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo album del quartetto di Birmingham compie oggi cinquantaquattro anni. Non li dimostra.

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Curami! Curami! Curami! I Therapy? di “Troublegum”

“Ma allora non si sono mai sciolti…”, constato con un senso quasi di smarrimento scoprendo che non solo i Therapy? ancora suonano dal vivo e pubblicano dischi (del che ero vagamente conscio), ma che mai in un quarto di secolo hanno smesso di farlo. Il che può ben dare la misura di quanto la compagine nordirlandese sia diventata irrilevante quando ci fu un tempo – intorno alla metà degli anni ’90, quando uscivano questi due album appena ripubblicati in edizioni più monstre che Deluxe – in cui era sulla bocca di tutti. E il bello è che il Vostro affezionato Andy Cairns e soci li seguiva senza perderne una mossa e fa fede che in casa si ritrovi una discografia fino a un certo punto quasi completa, con tanto di singoli in vinile in ogni formato possibile. Era l’epoca del grunge e al grunge i Therapy offrirono un controcanto personale (talvolta in bilico su precipizi noise) come forse nessuno fuori dagli USA. Senza complessi di inferiorità, senza mai temere di risultare troppo alternative per il pubblico del metal o viceversa. Li premiavano entrambe le platee e se non ne derivava uno stardom alla Nirvana/Pearl Jam/Soundgarden dischi ne vendevano subito abbastanza da garantirsi, dopo due mini per l’indipendente Wiiija, un approdo al colosso A&M.

Secondo frutto maggiore, nel 1994, del sodalizio, “Troublegum” è l’album clamoroso che ricordavo: una sequenza di colpi da KO dopo i quali tuttavia si resta sempre in piedi, esilarati, un senso per la melodia micidiale quanto quello per il riff, una potenza straripante coniugata a un istinto pop raro. Che si viaggi solo veloce e più veloce, che in tre quarti d’ora (non inganni la durata del CD, gli ultimi ventidue minuti sono di rumore di vinile che fruscia) non ci sia un istante di tregua invece che stancare esalta. I Black Sabbath in collisione con i Motörhead di Stop It You’re Killing Me, gli Hüsker Dü resuscitati in Die Laughing, i Metallica apocrifi (come da allora non li abbiamo più sentiti) di Lunacy Booth gli apici di un classico un po’ negletto (disco dell’anno per “Kerrang!”, se può interessarvi) da recuperare assolutamente. I due CD aggiunti (molti remix, un po’ di demo e di registrazioni live) non aggiungono nulla di davvero indispensabile eccettuata una versione per archi (!) della summenzionata Lunacy Booth, ma praticamente non li pagate e dunque…

Anche “Infernal Love”, che raggiungeva i negozi nel ’95, è l’album che ricordavo: coraggioso e non completamente riuscito. Qui per la prima volta i ragazzi provavano a togliere ogni tanto il piede dall’acceleratore (esemplare una A Moment Of Clarity che parte come una ballata rarefatta), a variare gli arrangiamenti (riecco gli archi), addirittura a spegnere gli amplificatori (accade in Diane). Non tutto funziona, qualcosa (ad esempio una Bowels Of Love che fa il verso agli Smashing Pumpkins più melò) sfiora la ruffianeria e nondimeno, dovendo dare un voto, mai potrebbe essere meno di 7. Che diventa 7+ in forza di un secondo dischetto in larga parte acustico.

Il pubblico apprezzava ancora, ma meno che in precedenza. Il declino sarà subitaneo, la scomparsa dai radar quella raccontata al principio. Per la cronaca: ho provato a dare un’ascoltata al disco più recente (di due anni fa), “A Brief Crack Of Light”, e non mi è sembrato affatto male. Picchiano, ancora e di nuovo, come fabbri.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.192, maggio 2014. “Troublegum” arrivava nei negozi esattamente trent’anni fa.

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Il cielo era il limite – Quando gli Young Gods erano la migliore live band al mondo

Dagli Swans gli Young Gods prendono il nome e il batterista Roli Mosimann, svizzero come loro e che con loro si ricicla da produttore, diventando di fatto il quarto componente di quello che viene da chiamare un power trio benché strumentalmente sia un duo. È tuttavia talmente dirompente la presenza scenica del cantante Franz Treichler e creano un tale muro di suono Cesare Pizzi al campionatore e Frank Bagnoud alle percussioni che sì, ai Giovani Dei la qualifica suddetta ben si attaglia. Sembrano anzi per il frastuono che producono ben più di tre. Crescita ed evoluzione del gruppo sono rapide. Se nell’omonimo esordio dell’87 l’influenza degli Swans è ancora palpabile, nell’89 in “L’eau rouge” l’idea di coniugare la visceralità di punk e metal con il senso di grandiosità e l’incisività melodica della classica è già perfettamente a fuoco. L’anno dopo “Play Kurt Weil” esibisce il lirismo e la raffinatezza che non ti attenderesti da quelli che la stampa (in Gran Bretagna e negli USA i Nostri hanno trovato orecchie aperte e accoglienze entusiastiche) ha etichettato “electro-noise terrorists”.

Formazione a quel punto quasi completamente cambiata, con Alain Monod a tastiere e synth e Urs Hiestand alla batteria alle spalle di chi, spesso paragonato a Iggy Pop, è ora ritenuto un nuovo Jim Morrison, da lì ad ancora un anno gli Young Gods confezionano con “T.V. Sky” il loro capolavoro e un esempio senza eguali di metal moderno, capace di tenere assieme ZZ Top e Doors, Stooges e Guns N’Roses. Senza usare nemmeno una chitarra! Questa riedizione per il trentennale aggiunge al CD quattro remix e integra ulteriormente il doppio LP con quattro incisioni dal vivo di quella che nei mesi in cui portò in tour il disco fu la migliore live band al mondo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.450, febbraio 2023.

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Jesus Built Their Hot Rod – L’estremismo al potere dei Ministry

Di solito si parte puri e si emerge – o si resta a galla, o ci si prova – cedendo alle tentazioni di Mammona. Esattamente inverso il paradossale percorso seguito dai Ministry di Allen Jourgensen e Paul Barker, che esordiscono nel 1983 direttamente su una grossa etichetta, la Arista, con un album francamente orrendo, “With Sympathy” (lo rinnegheranno), a base di scipiti techno-funkettini. Un disastro anche commerciale da cui impiegano parecchio a riprendersi. Dal ritorno, nel 1986, con “Twitch” (una produzione di Adrian Sherwood) in avanti la loro musica si farà gradualmente più ostica, dinamitarda miscela in un frullatore impazzito di metal ed elettronica, new wave, noise, industrial. Ogni disco è più feroce del predecessore, ogni disco vende di più. Fino all’apoteosi artistica e di vendite di “Psalm 69”. Strani tempi i primi anni ’90.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. “Psalm 69” usciva, su Sire, trent’anni fa a oggi.

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We Die Young – La tragica epopea degli Alice In Chains

Nel titolo del primo brano del primo album il presagio di un destino tanto tragico quanto perseguito con attitudine ─ scientemente? ─ nichilista: We Die Young. Dei quattro che lo registrarono non sono da lungi più fra noi né il cantante Layne Staley, stroncato da una overdose di eroina e cocaina combinate presumibilmente il 5 aprile del 2002 (presumibilmente perché il corpo, già in stato di avanzata decomposizione, non veniva scoperto che due settimane dopo), a trentaquattro anni, né il bassista Mike Starr, scomparso quarantaquattrenne l’8 marzo 2011 per un’assunzione scriteriata di farmaci regolarmente acquistati con ricetta medica. Incredibile ma vero: da una band prona a eccessi tossici di ogni tipo Starr era stato allontanato già nel 1993, i sodali che mentivano pietosamente al riguardo sostenendo la versione ufficiale di dimissioni dovute a stress da troppo lavoro quando in realtà era stato accompagnato alla porta perché la sua dipendenza dalle droghe pesanti era fuori controllo. Farsi licenziare dagli Alice In Chains per avere esagerato con assortite polverine! Quanto suona grottesco, oltre che triste. Quando Staley lasciava questo mondo il complesso era in animazione sospesa da quattro anni, in speranzosa attesa che in qualche modo costui riemergesse dagli abissi in cui era sprofondato. Quattro anni dopo ancora, il chitarrista Jerry Cantrell richiamava il batterista originale, Sean Kinney, e il bassista che aveva preso il posto di Starr, Mike Inez, e trovata in William DuVall una voce adeguata alla bisogna rimetteva insieme la band. Gli Alice In Chains Mk II girano ormai da più anni di quanti non durò la prima incarnazione e hanno pubblicato altrettanti lavori in studio (tre): più che dignitosi e dagli ottimi riscontri mercantili (il penultimo, “The Devil Put Dinosaurs Here”, nel 2013 scalava la classifica di “Billboard” fino alla seconda posizione) ma che in verità nulla hanno aggiunto di rilevante a una vicenda che avrebbe potuto tranquillamente chiudersi in gloria nel 1996. Similmente a quella dei Nirvana, con un “MTV Unplugged”. Paradossalmente ma non troppo, e non sorprendentemente siccome i ragazzi fra il primo e il secondo album già avevano sistemato in discografia un EP acustico, “Sap”, con quattro ballate al limite del confessionale e fra il secondo e il terzo il mini di analoga concezione “Jar Of Flies”, l’apice artistico del più classicamente heavy metal dei gruppi della nidiata grunge. O quello o il precedente, omonimo “Alice In Chains”.

È fresco di ristampa, che ne ha celebrato con qualche mese di ritardo (usciva in origine nell’agosto ’90) il trentennale, quello che fu l’esordio a 33 giri del quartetto di Seattle. Ne sarà contento chi all’epoca magari non era ancora nato, o era un bambino, e oggi all’ascolto della musica in formato liquido preferisce (o almeno alterna) il più antico e in auge dei supporti fonografici, il caro vecchio vinile. E giustamente non era disposto a sborsare per l’edizione d’epoca di “Facelift” quei minimo centocinquanta euro che vengono richiesti su eBay o Discogs. Ne sarà contento chi al tempo quella stampa, che circolò pochissimo, non riuscì a procurarsela e dovette comprarsi il CD. E magari e anche di più chi invece ne ha una in casa e può ora, volendo, rivendersela: tecnicamente è nettamente inferiore a questa nuova versione che non soltanto è rimasterizzata ma distribuisce su quattro facciate in luogo che su due i cinquantaquattro minuti che assommano le dodici tracce in scaletta. Con ovvi benefici in termini di nitidezza e soprattutto dinamica. Per trenta euro o anche meno si potrà così godere rimessa a nuovo un’opera che, al di là di limiti che apparvero e restano innegabili per chiunque la ascolti con l’obiettività che non tutti i fans hanno (ma quasi tutti le preferiscono comunque “Dirt”, “Alice In Chains”, “MTV Unplugged”), appartiene per l’impatto che ebbe alla storia maggiore del rock.

A debuttare in lungo i Nostri arrivavano sbucando apparentemente dal nulla per chiunque non abitasse a Seattle, tutta dentro i confini cittadini o negli immediati dintorni una gavetta di un paio di anni di concerti molti dei quali di spalla ai già di una certa fama Mother Love Bone (per chi non li conoscesse: erano nati come i Mudhoney dalle ceneri dei Green River e due di loro daranno vita ai Pearl Jam). Il promoter dei Mother Love Bone, Randy Hauser, passava una cassetta di demo a Kelly Curtis e Susan Silver, manager dei Soundgarden, e tramite quelli una copia arrivava in Columbia. Clamoroso evidentemente il potenziale se non solo il quartetto veniva prontamente messo sotto contratto ma addirittura indicato come una priorità assoluta al reparto marketing. Panico, probabilmente, per una partenza commercialmente stentata, soltanto quarantamila le copie vendute nei primi sei mesi nei negozi, impasse che si sbloccava quando MTV metteva in heavy rotation il video di Man In The Box e l’11 settembre 1991, tredici giorni prima che i Nirvana pubblicassero “Nevermind”, “Facelift” era il primo disco prodotto da una scena grunge che a dire il vero gli Alice In Chains li schiferà sempre un po’, per la totale assenza in loro di qualsivoglia aggancio con il punk, a venire certificato d’oro. Almeno altri tre milioni le copie vendute da allora, di cui metà negli Stati Uniti. Non un capolavoro, si diceva, e però riascoltandolo da una lontanissima ultima volta (’98?) chi scrive lo ha trovato migliore di quanto non ricordasse. Con apici esemplari di un sound già perfettamente formato in una torpida Man In The Box e nelle ancora più sabbathiane Bleed The Freak e It Ain’t Like That, laddove Sea Of Sorrow evoca piuttosto i Led Zeppelin. E deviazioni apprezzabili nella menzionata all’inizio We Die Young, in scia ai primi Metallica, in una Put You dal riffeggiare e dall’ancheggiare rock’n’roll invece alla Aerosmith e nel crossover di marca Red Hot Chili Peppers I Know Somethin (Bout You). Non lo avrei detto: da recuperare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021. Layne Staley ci lasciava, trentaquattrenne, il 5 aprile 2002. Qui sotto un link a un’intervista concessa dal sottoscritto nel settembre dello scorso anno al canale You Tube “About Grunge”, ideato e gestito dall’ottimo Cristiano Lucidi. Fra il tanto resto, molto dibattemmo proprio degli Alice In Chains.

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Ice-T ─ Lingua letale

L’intervistatore e l’intervistato sono da diversi anni molto amici, ma il primo non aveva ancora messo piede in casa del secondo. Si accomoda su un divano, sbircia la magnifica vista su uno dei quartieri più eleganti di Los Angeles che si gode da un’ampia vetrata, osserva ammirato il gusto con cui è stata arredata la stanza. “Ti sei rivolto a un professionista?”, chiede. “No, ho fatto tutto da solo.” “Davvero?”, è l’incredula replica. “Certo. Ho svaligiato abbastanza case da imparare come se ne arreda una”, dice l’intervistato ridacchiando.
Da questo fulminante scambio di battute fra Jello Biafra, inviato davvero speciale che in pieno ciclone Cop Killer il mensile “Spin” spedì a dibattere il caso con il principale interessato, e Ice-T emergono in pieno due caratteristiche del secondo ─ intelligenza e spacconaggine ─ che molto hanno contribuito all’edificazione del suo mito, un mito che regge con disinvoltura le tante contraddizioni del personaggio, dell’artista, dell’uomo in forza di un carisma straordinario. Tracy Marrow (questo il vero nome del Nostro) sa essere davvero sconcertante. Per dire: in chiusura di Power, il brano che dà il titolo al suo secondo album, un lavoro ormai vecchio sette anni, affermava che “il denaro controlla il mondo e questo è un fatto/e una volta che ce l’hai puoi dire il cazzo che vuoi!/È potere!”. Dichiarazione alquanto berlusconiana nello spirito ma purtroppo incontestabile. Solo che pochi minuti dopo, in Radio Suckers, il rapper nativo del New Jersey e californiano di adozione sibila: “Faccio dischi per amore della musica, non per i soldi”. Il pezzo successivo si chiama I’m Your Pusher, “Sono il tuo spacciatore”, ed è tutto costruito su un campionamento della leggendaria Pusherman di Curtis Mayfield, dalla colonna sonora di Superfly. Bisogna seguire il testo con molta attenzione per accorgersi che Ice, lungi dal glorificare la figura dello spacciatore (aberrazione sovente praticata in ambito gangsta rap), la condanna e dipinge se stesso come un “pusher”, sì, ma di buona musica. L’insieme è parecchio ambiguo, ma mai quanto quello di un altro brano ancora su “Power”, Girls L.G.B.N.A.F., ove l’acronimo sta per Like Get Butt Naked And Fuck: vale a dire che “alle ragazze piace mettersi a culo nudo e scopare”. Non granché “politically correct”, eh? Be’, veramente sul finale si fa campagna anti-AIDS invitando a usare le dovute precauzioni nei rapporti sessuali. E comunque… “suck my motherfucking dick”, si sentirebbe probabilmente dire il contestatore di turno.
Senza carisma, non basterebbe la carica di simpatia (gli intervistatori sono unanimi al riguardo) a evitare a Ice-T di venire travolto dalle sue contraddizioni. Senza carisma, i suoi limiti artistici gli avrebbero impedito di raggiungere i traguardi che ha raggiunto. Perché, diciamolo chiaro, se il rapping che esibisce è più che discreto le basi non sono niente di speciale: né stilose come quelle dei Gang Starr né innovative come furono a suo tempo quelle dei De La Soul, e nemmeno terroriste nel solco dei Public Enemy. Quanto al suo gruppo rock, i Body Count, raramente nella storia del genere una band così mediocre era stata tanto glorificata.
Ma più di qualunque altro rapper, con le eccezioni giusto di Chuck D e di KRS-One (le cui fortune paiono però declinanti), questo ex-soldato nonché ex-ladruncolo è un leader naturale, e in un tempo in cui la gioventù afroamericana non ha alcun rappresentante politico degno di nota la sua rilevanza in quella comunità è enorme. Quando dice che potrebbe presentarsi alle elezioni presidenziali e raccogliere una valanga di voti non è un’uscita smargiassa la sua. La visibilità datagli dalla polemica su Cop Killer e dai furenti attacchi cui fu fatto bersaglio dall’allora presidente George Bush ha reso Ice-T una figura la cui notorietà travalica il mondo della musica, e non soltanto in patria.
 
Prosegue per altre 9.259 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Dynamo!”, n.6, aprile 1995. A oggi sono trascorsi, stando alla pagina di Wikipedia 1992 In Music, trent’anni esatti dalla pubblicazione di “Body Count”. Nella scheda dedicata all’album Wikipedia stessa però si smentisce, dandolo per uscito il 10 marzo. Secondo il sito AllMusic arrivò invece nei negozi il 30. A prestar fede a RYM il 27. Sia come sia: resta una schifezza di disco. Cop Killer eccettuata.

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Trent’anni fa, oggi

k.d. lang – Ingénue (Sire, 1992)

Peculiare bellezza androgina in grado di esercitare i propri non indifferenti poteri di seduzione su entrambi i sessi, la canadese k.d. lang (anticonformista sin dalla vezzosa scelta di esigere che il suo nome sia scritto tutto in minuscole) a cavallo fra ’80 e ’90 mette a soqquadro il reazionario mondo del country con spartiti che esulano dall’ortodossia nashvilliana e ancora di più con il suo dichiarato lesbismo. È un ambiente che presto le è troppo piccolo. Le si confanno di più le classifiche generaliste, che la acclamano, e il sognante, lussurioso pop saporoso di jazz e di rock’n’roll ancor più che di country (non fosse riduttivo, la si direbbe una versione femminile di Chris Isaak) del formidabile “Ingénue”. Vi sfilano dieci ballate che avvincono senza fine con melodie alate e afflato sensuale.

White Zombie – La Sexorcisto: Devil Music Vol.1 (Geffen, 1992)

Un cocktail alla nitroglicerina di mastodontici riff chitarristici, ritmi serrati ma non troppo, scorci e squarci psichedelici, ricordi di no-wave, una voce gutturale che corteggia il grind, brandelli di trasmissioni radio, rumori di strada, effetti elettronici, scratching: in quale altra città avrebbe potuto essere brevettato (la miscela perfezionata in area indie per sette anni e tre album) se non a New York? Alla Grande Mela gli White Zombie hanno fornito una delle colonne sonore più efficaci (di una genialità a tratti zorniana) e maledettamente vere di sempre. Con loro il “day after” c’è già stato e allora, come recita il titolo del brano che apre questo disco, Welcome To Planet Motherfucker. In quei pazzi primi ’90, in cui tutto poteva succedere, “La Sexorcisto” finiva nei Top 30 statunitensi, sebbene mettendoci un anno.

Testi tratti da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. “Ingénue” e “La Sexorcisto” venivano pubblicati entrambi il 17 marzo 1992.

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L’ultimo ruggito di Ozzy Osbourne

Allontanato dai Black Sabbath poco dopo l’uscita di “Never Say Die” (che è un po’ come se i Rolling Stones a un certo punto avessero licenziato Mick Jagger), Ozzy Osbourne si prende una clamorosa rivincita con i primi due LP da solista, “Blizzard Of Ozz” e “Diary Of A Madman” (1980 e 1981), che minimo pareggiano i conti artisticamente con i coevi “Heaven And Hell” e “Mob Rules” degli ex-compagni e per quanto attiene le vendite li surclassano, già subito e infinitamente di più sul lungo periodo e nel mercato che più conta, quello statunitense. Fatto è che se i Sabbath hanno rimediato un ottimo rimpiazzo con Ronnie James Dio il cantante ha trovato il partner perfetto nel giovane e tecnicamente prodigioso chitarrista americano Randy Rhoads. Quando costui sfortunatamente muore, appena venticinquenne, in un incidente aereo Ozzy ne è devastato e perde in ogni senso la bussola. Da lì a fine decennio pubblicherà altri tre album in studio, di gran successo ma scarsa sostanza. Per un colpo d’ala che è autentica rinascita bisogna attendere il 1991 e servirà probabilmente da stimolo che il vecchio leone (lo si percepisce come tale quando non ha che quarantadue anni; ma è da venti in circolazione) accolga come una sfida l’emergere di una generazione quanto mai variegata (include il metal da classifica più bieco come la scena grunge e quella del cosiddetto crossover) che se vede in lui un nume tutelare lo considera però maturo per il pensionamento. Quale oltraggio! “No More Tears” arriva nei negozi cinque settimane dopo il “Black Album” dei Metallica e venderà un quarto di quello ma è un quarto che vale, soltanto negli USA, quei quattro milioni di copie. Ultimo ruggito, con il senno del poi, ma che ruggito.

Riedito saggiamente come doppio quando la stampa originale in vinile era assai penalizzata da una durata (cinquantasette minuti) non consona al supporto (però allora perché non aggiungere le due valide bonus che integravano l’edizione in CD del 2002?), l’album brilla per ispirazione e varietà, sistemando ─ per dire ─ dopo l’incendiaria Mr. Tinkertrain una I Dont’Want To Change The World più da Kiss che da Black Sabbath, facendo andare dietro alla ballata country (!) Mama, I’m Coming Home una Desire che il co-autore Lemmy Kilmister (è uno dei quattro brani sotto i quali figura la sua firma) si sarebbe potuto tenere per i Motörhead. Laddove se la title track e Hellraiser evocano con diversi accenti i Queen Zombie Stomp si azzarda funk in apertura. Suggella Road To Nowhere: sistemare nel settore “guilty pleasures”, rubricare alla voce “power ballad”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.

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I tanti volti della paura – I Black Sabbath di “Paranoid”

Probabilmente mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo e l’essenza di un sound come quella del primo e omonimo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. E Roger Corman o Mario Bava (da un cui film del 1963, I tre volti della paura, distribuito nel Regno Unito come Black Sabbath il quartetto di Birmingham aveva preso il nome abbandonando per strada una prima, anonima ─ Earth ─ ragione sociale), non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore della potenza e della suggestione di Black Sabbath, la canzone che oltre a ─ ahem ─ battezzarlo apre l’album d’esordio datato febbraio 1970 del quartetto formato dal cantante Ozzy Osbourne, dal chitarrista Tony Iommi, dal bassista Geezeer Butler e dal batterista Bill Ward non lo hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Non penso di esagerare se affermo che con una confezione meno indovinata il debutto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Eppure: una felice scelta di un qualche oscuro discografico, come svelerà già in una delle prime interviste Butler ammettendo che il gruppo si era limitato ad approvarla. Proprio da lì, almeno quanto dal riff di cui sopra e dalle atmosfere plumbee che permeano il disco, nasceva la leggenda dei Black Sabbath satanisti. Giustappunto poco più che una leggenda, operazione di marketing da inquadrare in quello che era il programma del quartetto, ossia forgiare una musica dalle apparenze malvagie capace di indurre in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore. È tutta rappresentazione ─ rientravano nel piano il vestirsi rigorosamente in nero e i crocefissi portati al collo e a lungo messi in bella mostra ─ ma a scorrere il repertorio storico del gruppo i peana al Diavolo risultano tutt’altro che maggioritari.

Anche di “Paranoid”, registrato in una pausa del “never ending tour” allora in corso nel giugno di quello stesso incredibile 1970 ai Regent Sound in Denmark Street, Londra, e nei negozi già in settembre si potrebbe dire che vanti una copertina indimenticabile, ma al contrario. Tanto è suggestiva quella del predecessore quanto risulta grottesca questa, con un tizio che salta fuori da un bosco immerso nel buio brandendo una sciabola lampantemente di plastica, un casco da motorino sulla testa, uno scombinato abbigliamento che vorrebbe essere da guerriero o supereroe ed è da deficiente. Dando a Cesare quel che è di Cesare: questa la idearono i nostri tamarri Fab Four, quando si pensava che l’album si sarebbe chiamato, come la prima canzone, War Pigs. La casa discografica statunitense (Warner Bros) poneva però il veto, quella britannica (Vertigo) lo appoggiava e così era dal secondo pezzo in scaletta che il 33 giri prendeva il titolo: un capolavoro per così dire involontario, buttato giù in venti minuti per fare numero e paradossalmente assurto a brano simbolo del quartetto. Paradossalmente perché, se con il procedere da bulldozer ci siamo, dura assai meno (2’48”) di qualunque altra canzone significativa dei Black Sabbath e non vanta né l’articolazione né gli scarti dinamici che caratterizzano invariabilmente le altre. Butler nemmeno l’avrebbe voluta sul disco, parendogli troppo zeppelliniana, una Communication Breakdown minore. Per la seconda volta nell’ancora breve saga del Sabba il caso giocava allora un ruolo decisivo nell’ascesa alla fama e nella costruzione del Mito. “Black Sabbath” resterà sempre più importante, semplicemente perché fu il primo, ma è questa la pietra miliare che Osbourne, Iommi, Butler e Ward hanno lasciato sulla Route 666 del rock. Dall’invenzione dello slowcore inscenata in partenza da una War Pigs che poi macina implacabile a quella Psychotic Reaction (Count Five; un classico del garage-punk) in versione nibelunga che è Fairies Wear Boots, passando per gli schizzi di Spagna scagliati in orbite extraterrestri di Planet Caravan, il viaggio dalle catacombe al Valhalla di Iron Man, il fosco caos organizzato di Electric Funeral e il ronzante assalto di Rat Salad. Diamante fra i diamanti di abbacinante luce nera Hand Of Doom, più canzoni in una e dentro un assolo da fare studiare a quanti dicono Tony Iommi un chitarrista mediocre. Può darsi. Però efficace ed espressivo mille volte più degli Steve Vai e dei Malmsteen e bisognerebbe allora mettersi d’accordo su cosa voglia dire mediocrità.

Per celebrare il cinquantennale di “Paranoid” la californiana Rhino ha riconfezionato in un lussuosissimo box in vinile (il vero bonus è il libro ora in formato 30×30 e con copertina rigida a corredo) la “Super Deluxe” in quadruplo CD del 2016. Invariate le scalette, i dischi adesso sono cinque, il primo dei quali riproduce pari pari la stampa originale americana, peraltro identica a quella britannica e immagino non ci sia o quasi lettore che già non la possegga. Di maggiore interesse per l’audiofilo è un secondo 33 giri che, discutibilmente ma intrigantemente, offre remixata in stereo la versione quadrifonica del 1974. Laddove per i cultori della band a consigliare un esborso accettabile (siamo un po’ sotto i cento euro) saranno le restanti sei facciate, testimonianza di due concerti tenutisi uno a Montreux, l’altro a Brussels.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020. A oggi sono trascorsi cinquantun anni dalla pubblicazione di “Paranoid”.

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