Archivi del mese: novembre 2016

Shock In Torino – Una celebrazione dei Velvet Underground

Sublime ironia che si sia scelto di inaugurare un festival di cinema per under 18 con una serata dedicata ai Velvet Underground: vale a dire al primo gruppo che portò nel rock tematiche adulte. Vietato ai 18, piuttosto? Come minimo, uscisse oggi si ritroverebbe attaccato sui dischi il bollino “Parental Advisory – Explicit Content”.

Sia come sia: il genio dei Velvet dell’era Warhol verrà adeguatamente celebrato domani sera al Cap 10100 di Corso Moncalieri 18. Fungeranno da house band i giovani e bravissimi Foxhound e con loro sul palco, a partire dalle 22, si avvicenderanno in tanti. Vi butto lì giusto tre nomi per farvi venire l’acquolina in bocca: Lalli dei Franti, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e Max Casacci dei Subsonica. Dj set, prima e dopo, di Giorgio Valletta. Io ci sarò. Voi siateci, se potete. Ingresso libero, fino a esaurimento dei non tantissimi posti. Ci si vede lì.

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Non ci si crede che Andy Warhol – l’uomo con il più basso rapporto fra pellicola usata e azione immortalata nella stessa della storia del cinema (si pensi alle otto ore di facciata dell’Empire State Building in inquadratura fissa!) – non abbia mai pensato di usarne un po’, di pellicola, per consegnare ai posteri una sera con l’“Exploding Plastic Inevitable”. Sicché fanno infuriare ancora di più i sessantasette minuti tristemente sprecati per The Velvet Underground And Nico: A Symphony Of Sound, che è dal vivo sì ma in sala prove e in comune con il favoloso esordio dell’allora quintetto ha sfortunatamente solo mezzo titolo: trattandosi di una lunga improvvisazione che no, non è esattamente Sister Ray. Abbiamo documentazione video di qualunque gruppo abbia contribuito con una frase, un rigo appena al Grande Romanzo del Rock degli anni ’60 e ben poco (e quel poco giuntoci di straforo e con una colonna sonora implausibile) dei concerti con i quali i Velvet Underground cominciarono a scriverne un capitolo intero, uno dei più cruciali oltretutto. Non ci si crede e non lo si perdona, a Andy Warhol. Ma anche sì, perché senza la sua sponsorizzazione i Velvet in quell’affascinante volume forse non figurerebbero del tutto, forse ne occuperebbero sì e no un paragrafo.

Fate caso alla data d’incisione, non di pubblicazione: rende “The Velvet Underground And Nico” ancora più straordinario di quanto non sia. In una vicenda giovane come era quella del rock, pochi mesi contavano e l’anno che ci mise l’album a raggiungere i negozi – colpa dell’inesperienza di Warhol, di una casa discografica incerta sul come gestire materiali così dirompenti, del complottare dietro le quinte di Herb Cohen, manager di Zappa, disposto a tutto pur di fare uscire prima i Mothers Of Invention – non solo lo danneggiò enormemente sotto il profilo commerciale (l’hype che aveva salutato gli spettacoli multimediali dell’“EPI” nettamente in calando) ma ha pure falsato la prospettiva storica. Lo si colloca nel 1967 e si sottolinea il suo essere antipodico al sentire generale che figliò i figli dei fiori e la psichedelia, ma se lo si pensa come un disco del ’66 da un lato anticipa la psichedelia stessa, dall’altro è apparizione aliena in un mondo che solo con l’avvento di punk e new wave comincerà a venirci a patti.

Il disco vive di un perfetto equilibrio fra tensione e rilascio, gioco di scatole in cui il folk urbano di Sunday Morning e Femme Fatale contiene il martellamento alla Bo Diddley di I’m Waiting For The Man, il rock’n’roll sfrenato di Run Run Run si situa fra il raga di Venus In Furs e la parata di chitarre scintillanti e circolari di All Tomorrow’s Parties, l’incubotica Heroin precede il beat quasi byrdsiano (in realtà un plagio di Marvin Gaye!) di There She Goes Again e quello e la soffusa tenerezza di I’ll Be Your Mirror conducono allo scontro fra viola stridente e voce recitante di The Black Angel’s Death Song e al caracollare tribale di European Son. Dedica quest’ultima a Delmore Schwartz, maestro di poesia e di vita di Lou Reed che proprio nel 1966 lasciava questo mondo per andare a cercare bar in altri universi. Dobbiamo alla sua influenza testi da esegesi parola per parola: sipari di scapigliatura e sessualità deviata, donne fatali e vite drogate che per primi introducevano nel rock (Dylan veniva dal folk, gioverà ricordare) tematiche adulte, letterarie.

E allora tutto si perdona, rispetto ai Velvet, al loro mentore. Persino il dovere ricostruire l’“Exploding Plastic Inevitable” basandoci più che altro sulle testimonianze di chi c’era. Ultima beffa, i nastri live di cui siamo in possesso sono difatti posteriori all’era Warhol.

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Blues Magistralis: la lezione di John Mayall

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Compie oggi ottantatré anni l’uomo alla cui scuola si sono formate tante di quelle rockstar (e di quei splendidi musicisti) che non mi metto a fare elenchi per tema di scordare qualcuno di importante. Alla sua venerabile età, ancora fa concerti. Belli, mi si dice. Lo celebro recuperando le recensioni di due suoi classici e di quello che è a oggi l’ultimo album in studio.

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Blues Breakers With Eric Clapton (Decca, 1966)

Ci sono dischi la cui rilevanza storica sopravanza il valore artistico. È il caso di questo secondo album (primo in studio) della sempre cangiante compagine capitanata da John Mayall. L’importanza dei Bluesbreakers sta, più che in una discografia di medio livello fino ai primi ’70 e poi declinante (altri buoni episodi “A Hard Road”, “Blues From Laurel Canyon”, “The Turning Point”, un programmatico “Jazz Blues Fusion”), nell’essere stati università i cui corsi vennero frequentati da tante future stelle del rock, da Jack Bruce a Mick Fleetwood, da John McVie a John Almond, da Jon Mark a Andy Fraser, a Aynsley Dunbar. Qui, omaggiato con tanto di nome in copertina, c’è il Clapton transfuga dagli Yardbirds e non ancora pronto per i Cream. A proposito… Se la successione di chitarristi passati per i Gallinacci – Eric Clapton, Jeff Beck, Jimmy Page – vi ha sempre lasciati senza fiato, sentite questa: Eric Clapton, Peter Green, Mick Taylor. Bella lotta, eh?

Fatto salvo quanto si diceva dianzi sul fatto che prima e più che un piccolo capolavoro questo è un cruciale pezzo di storia, con il suo alternarsi di classici del blues e del soul (All Your Love di Otis Rush e Hideaway di Freddie King, la Rambling On My Mind di Robert Johnson e la What’d I Say di Ray Charles) e originali scritti in scolastica ma bella calligrafia dal leader, il disco risulta a tutt’oggi fresco, gradevole. Per questa “Deluxe Edition” del quarantennale la Decca ha accostato i missaggi sia in mono che in stereo già accoppiati in una stampa del ’98 e integrato ulteriormente con un CD (dalla fedeltà a volte traballante) di assortite rarità e registrazioni live e radiofoniche. Non solo per (a questo punto esausti) cultori terminali.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.273, novembre 2006.

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Blues From Laurel Canyon (Decca, 1968)

Affrontando su queste stesse pagine un anno fa la “Deluxe Edition” di “Bluesbreakers With Eric Clapton” annotavo che ci sono dischi la cui rilevanza storica sopravanza il valore artistico e che valeva per il secondo album della sempre cangiante compagine capitanata da John Mayall. Appuntavo poi che l’importanza di questo autore, cantante e chitarrista britannico sta, più che in una discografia di medio livello fino ai primi ’70 e poi declinante, nell’essere stato un valente docente universitario i cui corsi vennero frequentati da tante di quelle future stelle del rock che a elencarle in una recensione non ci sarebbe lo spazio per scrivere d’altro. Mi dichiaro d’accordo con me stesso. Concordo meno e anzi per niente rispetto a quando, per distrazione o poca chiarezza, davo a intendere che l’album di cui Slowhand fu il mattatore resta in ogni caso l’apice della produzione di Mayall. Mica vero. Se si parla non di influenza ma di risultati se la giocano i successivi “Blues From Laurel Canyon” e “The Turning Point”, fra l’altro smentendo la leggenda di un Mayall purista delle dodici battute. Fornisce capitali prove al riguardo proprio questo gioiellino, al tempo (le registrazioni risalgono all’agosto ’68) congedo dalla Decca e formalmente il primo 33 giri del dopo-Heartbreakers, sciolti un mese prima che il nostro uomo vi ponesse mano.

Frutto come dichiara già il titolo delle impressioni ricavate da una vacanza nei pressi di Los Angeles, il disco azzarda atmosfere soffuse e piccole digressioni acidule (qui e là tocchi garagistici o alla Cream) come mai in precedenza. Fa trapelare influenze psichedeliche e lavora sugli intarsi. A ben sentire, per Mayall il “turning point” originale fu questo. Due le tracce aggiunte alla scaletta d’epoca.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.283, ottobre 2007.

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Find A Way To Care (Forty Below, 2015)

Il 7 dicembre 1964 John Mayall festeggiava, qualche giorno in ritardo, il trentunesimo compleanno registrando in un club londinese quello che nel marzo dell’anno dopo sarebbe diventato il suo primo LP. In un mondo, quello della musica pop, in cui ventenni o poco più si stavano prendendo il potere era già – ebbene sì – un vecchio. Entro breve avrebbe perlomeno avuto la consolazione di venire considerato un Grande Vecchio, essendo divenuti i suoi Bluesbreakers una scuola per future rockstar. È passato oltre mezzo secolo e il nostro uomo ancora va in tour, ancora pubblica dischi. Dei concerti non saprei dire, se non de relato: amici riferiscono che se la cava alla grande. Io posso raccontarvi giusto questo nuovo album, che tallona dappresso un applaudito “A Special Life” (ma davvero!) che si era invece fatto attendere a lungo. E la sapete una cosa? È un altro signor disco.

Premesso che la voce (del resto non un punto di forza nemmeno negli aurei anni ’60) tiene abbastanza e che Mayall lascia che a sbizzarrirsi alla chitarra sia il bravo Rocky Athas, preferendo di suo restare seduto dietro una quantità di differenti tastiere, ci si può concentrare su un programma di tre quarti d’ora e dodici canzoni, inegualmente divise fra cover (sette) e composizioni originali (cinque). A sorpresa: meglio le seconde, fra le quali meritano assolutamente una menzione una Ain’t No Guarantees sospinta da un Hammond in gran spolvero e un basso funky, una traccia omonima fragrante di soul sudista e, in special modo, il congedo per soli piano e voce Crazy Lady. Che sarebbe già suonato molto Old Time nel ’64. Fra le cover citerei un Mother In Law Blues (formalmente del produttore Don Robey, ma chissà…) squillante su ritmica pigra e un Drifting Blues (Charles Mose Brown) jazzato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.368, ottobre 2015.

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Quel gran genio moralista di Randy Newman

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Nove anni per scrivere dieci canzoni e anzi nove, giacché Feels Like Home già figurava nel ’95 in “Faust”. L’album prima “vero” (in mezzo il consueto florilegio di colonne sonore) del Nostro è quel “Bad Love” che di canzoni inedite ne regalava dodici essendosi fatto attendere anni undici. Siamo in media. Lamentarsene? Non dinnanzi a dieci… scusate… nove canzoni nuove una più straordinaria dell’altra. Né vale annotare che in gioventù nello stesso arco di tempo intercorso fra “Land Of Dreams” e “Bad Love” Newman pubblicava i primi sei LP in studio e che, fra essi, su minimo quattro c’è l’unanimità nel dirli capolavori. È nell’ordine delle cose che la produzione di chi è da tanto sulle scene tenda a rarefarsi. È normale che chi sa di avere realizzato opere memorabili sia altresì conscio di come poco vi sia di più arduo dell’organizzare una replica di successo. Nondimeno chi scrive guarda alla carta di identità dell’artefice di “Harps And Angels” (e un po’ pure alla propria) e, vedendoci scritto 1943, si fa due conti e scopre di potersi aspettare ancora da Randy Newman, a questi ritmi, solo più una raccolta di canzoni o due. Comporre invece qualche colonna sonora in meno? Tantopiù dopo essersi tolto la soddisfazione di vincere – alla sedicesima candidatura! – un Oscar.

Che del suo essere mortale Newman sia consapevole è subito chiarito dal brano che, oltre a intitolare il disco, lo inaugura, sciorinando blues carico di swing o viceversa nel mentre racconta di un incontro per fortuna mancato con il Creatore. Nessuno scrive canzoni così oggi, ma d’altronde nessuno ha mai scritto canzoni come Randy Newman: spesso feroci sotto la patina giocosa di una musica che deve a New Orleans tutto quanto non deve alla tradizione più nobile di Hollywood. Fustigatore di costumi e politiche, moralista nel senso alto del termine e, proprio perché implacabile nella denuncia delle debolezze dell’umanità, capace di empatia autentica. È uno schifo di mondo, facciamo schifo noi ed è uno schifo di vita, ma per finire in una canzone di Randy Newman lo si può sopportare. Sia una struggente Loving You o un’ilare Laugh And Be Happy, un honky tonk metafisico quale A Few Words In Defence Of Our Country o una A Piece Of The Pie dritta da John Philip Sousa, il dixie Only A Girl come il talking-blues Potholes.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.31, estate 2009. Randy Newman compie oggi settantatré anni. “Harps And Angels” è tuttora (colonne sonore escluse) il suo ultimo album.

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It was 48 years ago today… i Beatles dell’Album Bianco

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A “Sgt.Pepper’s” i Beatles danno un seguito – un anno, cinque mesi e ventuno giorni dopo: un’eternità per come si è abituati nei ’60 e per gli stessi Fab Four, che avevano impiegato poco di più per pubblicare i loro primi quattro LP – con quello che da diversi punti di vista è il suo esatto opposto e per iniziare dalla confezione: minimalissima quanto quella del predecessore era stata affollata e colorata, tutta bianca e con il nome del gruppo che nemmeno è scritto sul davanti bensì impresso in rilievo, così che bisogna guardare proprio da vicino per capire che sì, è il nuovo album di John, Paul, George e Ringo. Ecco, il punto è esattamente questo: che il doppio bianco, come viene subito soprannominato, è sì il nono lavoro in studio dei Beatles – il più atteso ma in compenso pure il più generoso, con le sue quattro facciate per complessivi novantatré minuti di musica – ma contemporaneamente è anche l’inizio di quattro carriere solistiche che sfortunatamente, a metterle insieme, di musica altrettanto memorabile non ne regaleranno molta di più di quella che c’è qui. Tanto si era mostrata eccezionalmente coesa la banda del Sergente Pepe, pur suonando cento musiche diverse, tanto il “White Album” deflagra stili disordinatamente. Ne scoccano in ogni caso schegge di puro genio. Malissimo che vada, di straordinario mestiere.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti 2012.

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She Learned The Hard Way (un omaggio a Sharon Jones, 4 maggio 1956-18 novembre 2016)

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Alla fine purtroppo non ce l’ha fatta. Il brutto male ha vinto. Ma nei nostri cuori Lady Soul vivrà per sempre.

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100 Days, 100 Nights (Daptone, 2007)

Già la copertina inganna, anche se meno di quelle dei due album precedenti, ma ancora più di quella sono stile e sonorità a far dare per scontato, fintanto che non si gira la bella confezione cartonata e non ci si vede scritto sopra “2007”, che è una ristampa di un qualche misconosciuto classico dell’Età dell’Oro del soul che si sta ascoltando. Non fosse per quella data, ci si precipiterebbe a consultare questa o quella enciclopedia della musica nera e ci si sorprenderebbe e indignerebbe grandemente per l’assenza dalle sue pagine di Sharon Jones e numerosa (all’inizio un quartetto, ora un ottetto attorniato di ospiti) compagnia. Come è possibile che non venga ricordata un’interprete capace di simili, stellari interpretazioni? Il gospel-blues della title track, l’errebì supersexy di Nobody’s Baby, una Respect minore ma non tanto chiamata Be Easy, una Humble Me e una Answer Me che potrebbero confondersi esse pure fra il catalogo di Aretha “Lady Soul” Franklin, una Let Them Knock mediana fra la Chicago della Chess e la Memphis della Stax. E così via. Inconcepibile che il nome di Sharon Jones non venga citato nello stesso respiro che esala la gloriosa litania delle donne di James Brown: Vicki Anderson, Lyn Collins, Marva Whitney. Non fosse che…

Non fosse che la giunonica signora (nel suo curriculum vitae non solo i consueti esordi in chiesa ma anche un lungo periodo trascorso presso il carcere di Rikers Island: da secondina, mica da detenuta) è sì sulle scene dai tardi ’70 ma fino al fumigante debutto del 2002 “Dap Dippin’ With” non aveva rimediato che parti da corista. Arduo a credersi a fronte di una voce tanto espressiva, di una personalità sì pronunciata. Che “100 Days, 100 Nights” sembri in tutto e per tutto un album del 1967, o che sarebbe potuto uscire al più tardi nel ’71, lo farà sminuire da qualcuno a mero revival. Ma ognuno ha la musica nera che si merita e io trovo più vita e passione autentiche in uno di questi ahinoi appena trentaquattro (e scarsi) minuti che nelle intere discografie di tutte le madamine del nu-soul messe assieme.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.641, dicembre 2007.

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I Learned The Hard Way (Daptone, 2010)

Nelle storie di molti grandi del soul c’è un passaggio immancabile: prima di arrivare a cantare l’amore carnale si deve cantare quello per Dio. La biografia di alcuni di costoro contempla che più avanti, per scelta obbligata perché il successo è svanito o virtuosa giacché comporta la rinuncia a Mammona (non che il mercato del gospel sia povero, intendiamoci), alla chiesa si ritorni. A mia memoria però nessun grande del soul nel percorso dalla chiesa dell’adolescenza alla maturità per così dir profana ha fatto tappa per un carcere vissuto per diversi anni come se l’è vissuto Sharon Jones: da secondina. Se i conti non vi tornano sentendomi riferirmi alla giunonica signora con l’appellativo di “grande del soul”, be’, siete lettori un po’ distratti: l’album prima di questo, quel “100 Days, 100 Nights” che ha fra l’altro totalizzato vendite inconsuete in un ambito che non è proprio quello di una Alicia Keys (si parla di un centocinquantamila copie), su queste pagine venne a suo tempo incensato. Disco fumigante, ruggente, da qualche parte fra Aretha Franklin e Bettye LaVette, in prossimità di quella teoria di formidabili voci femminili che accompagnarono gli anni aurei di un concittadino della Jones, tal James Brown. Album appena numero tre per un’artista che frequentava palchi e studi di registrazione, da corista, già nei tardi ’70.

Il numero quattro per un verso spiazza, per un altro è lungi dal deludere. Fatto è che è molto più quieto, con una predilezione (senza proibirsi la saltuaria accelerata e il gusto di festa) per i tempi medi, i fiati avvolgenti, la ballata. Particolarmente memorabili una Window Shopping che potrebbe arrivare da Otis Redding e una Mama Don’t Like My Man da Sam Cooke al femminile.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.309, marzo 2010.

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Soul Time! (Daptone, 2011)

Per un pezzo la storia di Sharon Jones è decisamente “già sentita”: comincia cantando in chiesa e lascia poi il sacro per il profano. Ma, se da corista incide tanto, uno che le offra di fare un disco da sola non si fa mai avanti ed è qui che il racconto comincia a farsi interessante. Non perché torna al gospel bensì per il lavoro che fa, visto che di arte non riesce a vivere: secondina a Rikers Island, galera newyorkese in cui gli afroamericani sono particolarmente prevalenti dalla parte sbagliata delle sbarre. Se questa vicenda fosse un film già ci si potrebbe sbizzarrire e tuttavia il meglio deve arrivare. Ormai prossima ai quaranta, Sharon trova un’etichetta, la piccola Desco, disposta a pubblicarle almeno dei singoli e basta per farsi una nomea – Nostro Signore nuovamente accantonato, ma non se ne avrà a male – di Queen Of Funk. Desco cresce, diventa Daptone e nel 2002 la Jones debutta in lungo con “Dap Dippin’”. Pochi se ne accorgono. Un po’ di più di “Naturally” (2005). Tanti di più di “100 Days, 100 Nights” (2007): centocinquantamila e sono numeri incredibili se si considera che non è di una Alicia Keys che si sta parlando. Di “I Learned The Hard Way”, che vedeva la luce nella primavera 2010, mi mancano dati attendibili e nondimeno l’impressione è che l’ascesa sia proseguita, irresistibile. Che “Soul Time!” non serva a rimediare a un inciampo bensì a battere un ferro ben caldo.

Raccolta di materiali usciti in precedenza su singoli e raccolte di autori vari, non si raccomanda naturalmente come primo approccio ma per i già convertiti appare imperdibile. Li delizieranno in particolare i pezzi più alla James Brown (Genuine, What If We All Stopped Paying Taxes?), lo splendido blues Settling In, una Without A Trace degna di Otis.

 Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.327, novembre 2011.

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Give The People What They Want (Daptone, 2013)

C’è voluto quello che una volta con pietosa ipocrisia si definiva “un brutto male” per porre in pausa per alcuni mesi la straordinaria e ormai ultradecennale seconda giovinezza di Sharon Jones. Tanto più eccezionale perché nella prima l’artista newyorkese non era riuscita a incidere che da corista, le sue rimarchevoli corde vocali sempre al servizio di altri e non ci si crede che per quasi tre decenni non ci sia stato un discografico disposto a offrirle una chance da solista e che per guadagnarsi da vivere abbia dovuto rischiarla la vita: da secondina nella famigerata galera di Rikers Island; da guardia giurata per la Wells Fargo. La faccio breve. La ruota della fortuna un bel dì girava e nel 2002, già quarantaseienne, la Jones pubblicava un primo album, “Dap Dippin’”, dopo il quale nulla sarebbe più stato lo stesso né per lei né per quelli che da allora sono i suoi accompagnatori fissi, i Dap-Kings, turnisti più che mai richiesti che si ritroveranno fra il resto a fare da backing band per Amy Winehouse. L’ascesa artistica e commerciale della signora sembrava inarrestabile – ogni disco più acclamato e venduto del precedente – fintanto che la scorsa primavera, con l’uscita di questo “Give The People What They Want” già fissata per agosto, arrivavano le cattive notizie.

E adesso le buone. La Jones parrebbe aver vinto la sua battaglia, l’album sarà fuori il 14 gennaio ed è l’ennesima collezione fantastica di Sixties soul impregnato di funk e gospel. Con una sensibilità pop che risalta particolarmente in brani come Retreat e We Get Along (Four Tops e Miracles i chiari referenti), nella ballata Making Up And Breaking Up, in una You’ll Be Lonely che, se è Aretha, è una Aretha con Herb Alpert ad arrangiare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.349, gennaio 2014.

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Audio Review n.381

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È in edicola dalla fine della scorsa settimana il numero 381 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di Matt Berry, Bon Iver, Tim Burgess & Peter Gordon, Drive-By Truckers, Piers Faccini, Ed Harcourt, Aaron Neville, Frank Ocean, Okkervil River, Angela Olsen, Pop Group, Suzanne Vega, Nick Waterhouse e Wovenhand e di una ristampa di Graham Parker . Nella rubrica del vinile mi sono occupato dei Rolling Stones “in mono”.

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The DJ Is A Feeling (r.i.p. David Mancuso, 20 ottobre 1944-14 novembre 2016)

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Benvenuti nell’appartamento del padre di tutti i DJ. È il giorno di San Valentino del 1970 e David Mancuso ha organizzato a casa sua (a New York; dove, altrimenti?) una festa. Si può entrare solo mostrando un invito e non si va lì per bere. Soltanto per ascoltare dischi e ballarli: funky, soul e musica latina e africana innanzitutto, ma anche rhythm’n’blues, jazz, rock. Come a Parigi nel maggio ’68, non sarà che un inizio. L’epoca d’oro del Loft durerà fino al 1974 con propaggini nei tardi ’70-primi ’80 e fino ai nostri giorni (Mancuso mette tuttora dischi in serate con questo nome) e sarà in questi party leggendari che si formerà il gusto di personaggi determinanti per la dance successiva come Frankie Knuckles e David Morales.

Quei giorni e soprattutto quello stile vengono ora evocati in “David Mancuso Presents The Loft”, una doppia raccolta Nuphonic che mette in fila troppe canzoni memorabili perché se ne possa dar conto nello spazio di una recensione. Basti, a chiarire l’ampiezza del ventaglio stilistico coperto, citare i due estremi: il campagnolo funky-blues di City Country City dei War e la disco virata house di Devotion dei Ten City. Perché, come dice Mancuso, “The Loft is a feeling“.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999.

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Allen Toussaint – American Tunes (Nonesuch)

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È sempre stato uno, da New Orleans e di New Orleans divenuto un simbolo, che alla ribalta ha preferito le quinte, Allen Toussaint. E da lì ha influenzato in misura decisiva la black music dell’ultimo abbondante mezzo secolo: pianista eccelso, arrangiatore sopraffino, produttore di vaglia, scopritore di talenti (era lui a lanciare i Meters, la più grande formazione strumentale nell’ambito con Booker T. & The MGs), discografico accorto (la Minit il principale trofeo), autore di classici a decine per questo o quell’interprete. Quelli scritti per Lee Dorsey e Irma Thomas così come per Ernie K-Doe e altri ripresi da Wilson Pickett e dagli Stones, da Herb Alpert, Lowell George, Bonnie Raitt… Per un elenco nemmeno completo l’intero spazio occupato da questa recensione non basterebbe e meglio allora passare a dire di “American Tunes”.

Un addio che non immaginava di esserlo, inciso (regista al solito mirabile Joe Henry) in due riprese, nel maggio 2013 e poi nell’ottobre 2015. Un infarto stroncava Toussaint, settantasettenne, poche settimane dopo e nel pieno di un tour. Anche sapendo di essere ai saluti difficilmente avrebbe potuto concepire un congedo migliore e più significativo, aggiunta preziosa a una discografia in proprio troppo scarna, sette album appena quattro dei quali (con questo) negli ultimi dieci anni. Il disco contiene esattamente quanto promette un titolo mutuato dal classico di Paul Simon con il quale saluta, jazzeggiando: melodie americane, di Toussaint stesso come di Fats Waller, Bill Evans ed Earl King, “Fatha” Hines e Duke Ellington. Nell’ampissimo arco compreso fra l’irresistibile blues da bordello Rocks In My Bed (favolosa l’interpretazione che ne offre Rhiannon Giddens) e la cameristica a stelle e strisce di Danza, Op.33.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.379, settembre 2016.

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ABC – The Lexicon Of Love II (Virgin EMI)

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“No, dai, non ci posso credere!”, confesso di avere pensato raggiunto dalla notizia che gli ABC si apprestavano a pubblicare come una seconda puntata dell’album che nel giurassico 1982 ne iscriveva indelebilmente il nome negli annali del pop. C’è poco da discutere: per quanto possa dispiacere a coloro che, in quell’epoca manichea di post-punk e rock “del vero sentire” vs. il resto del mondo, schifavano la creatura di Martin Fry (e devo con un po’ di imbarazzo ammettere tale peccato giovanile), quel disco non solo fece epoca ma pure e ancora di più con il senno del poi risulta un capolavoro. Zeppo di canzoni memorabili esaltate dagli impeccabili arrangiamenti di Anne Dudley, non a caso una che ha poi composto colonne sonore a decine. Aveva un senso provare a ricreare quel mood da Roxy Music in overdose di romanticismo all’incrocio fra musical e dancefloor? Un suono che è uno dei primi a venire in mente quando si pensa agli anni ’80?

Diversi ascolti di “The Lexicon Of Love II” dopo, ancora non so rispondere con certezza né in un senso né nell’altro. Di sicuro non è il disastro che facilmente sarebbe potuto essere. La Dudley si è prodotta nella sua solita performance magistrale e la voce di Martin Fry miracolosamente non evidenzia, dopo tutto questo tempo, una ruga che sia una. Il prodotto è impeccabile e tuttavia, a parte che ovviamente altro è lo zeitgeist, paga una scrittura formulaica più spesso che brillante. Forse giusto due o tre canzoni scampano le secche del pur elegante esercizio di stile: la subitanea apoteosi disco The Flames Of Desire; una Kiss Me Goodbye in cui Fry è più Barry White che Bryan Ferry; una I Believe In Love sfacciatamente, sgargiantemente, gloriosamente gay.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.379, settembre 2016.

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