Archivi del mese: dicembre 2019

GospelbeacH – Let It Burn (Alive)

Un ombra tristissima si allunga su questo album solare e spumeggiante, ma ve ne dirò poi. Parto dal giorno in cui il cantante e chitarrista Brent Rademaker si ritrova per una jam con il batterista Tom Sanford. Rademaker da due anni ha appeso lo strumento al chiodo, disilluso per l’indifferenza con cui è stato accolto anche l’album (“The Tarnished Gold”) con cui i Beachwood Sparks hanno provato a rilanciare una carriera che li aveva visti pubblicare a inizio anni 2000 (e sempre su Sub Pop) altri due ottimi lavori (un omonimo debutto, quindi “Once We Were Trees”) collezionando buone recensioni ma con riscontri commerciali minimi. Il nostro uomo a quel punto per guadagnarsi da vivere si è trovato un impiego presso una galleria d’arte. Scocca però di nuovo la scintilla, attorno ai due prende forma un quintetto e prima ancora che abbia un nome Patrick Boissel della Alive offre un contratto. Lui stesso battezza la creatura: GospelbeacH (“h” finale maiuscola, chissà perché). L’esordio del 2015 “Pacific Surf Line” è una gemma di Americana devota ai Grateful Dead che nel 1970 svoltavano roots. Il seguito del 2017 “Another Summer Of Love” opta invece in maniera altrettanto persuasiva verso un sound fortemente influenzato da Tom Petty. Se vi dico che “Let It Burn” si apre con una ballata di afflato country, Bad Habits, e si chiude con una traccia omonima dal riff che pare Refugee avrete inteso che i GospelbeacH hanno trovato un punto di equilibrio, continuando nel contempo a mettere in fila canzoni una più deliziosa dell’altra.

E vengo all’ombra di cui sopra: poche settimane prima dell’uscita del disco il chitarrista Neal Casal, persona squisita a detta di chiunque lo abbia mai incrociato e artista con una carriera pure in proprio, si è tolto la vita. L’indifferenza può uccidere.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.414, novembre 2019.

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Devendra Banhart – Ma (Nonesuch)

A leggere certe recensioni del decimo lavoro in studio di Devendra Banhart (nato in Texas ma cresciuto in Venezuela non imparava l’inglese che tredicenne, quando si stabiliva in California) ci si fa l’idea che in tanti non gli abbiano perdonato ciò che per un artista dovrebbe essere naturale: allargare gli orizzonti, maturare. Passando dai demo traballanti, sia per fedeltà che per il contenere incerti abbozzi più che canzoni, che comunque gli attiravano l’attenzione di Michael Gira che ne ristampava su Young God il primo album, del 2002, e pubblicava i successivi tre, agli spartiti di ben superiore varietà e complessità che caratterizzavano nel 2005 il monumentale (certamente per dimensioni, a tratti per esiti) “Cripple Crow”, il disco del passaggio a un’etichetta ben più di peso quale la XL. Duecentomila copie vendute in giro per il mondo di cui settantamila negli USA, non cifre da capogiro ma abbastanza da fare uscire il nostro uomo dai circoli di quel weird folk (fosse stato datato anni ’60-inizio ’70 si sarebbe chiamato acid) di cui era stato eletto a vessillifero. Figurarsi quando nel 2009, con “What Will We Be”, entrava in area Warner. Detto che né quel disco né i successivi “Mala” (2013) e “Ape In Pink Marble” (2016) si collocano fra gli apici del catalogo, a me pare che nei suoi confronti certuni abbiano maturato un pregiudizio.

Fosse un esordio, per “Ma” si griderebbe al miracolo. Come si fa a non farlo per gemme come l’iniziale Is This Nice? (come un Van Dyke Parks alle prese con un cartone animato Disney), Memorial (fra i più begli apocrifi coheniani di sempre), la bossanova Love Song o il conclusivo valzer (in duetto con Vashti Bunyan) Will I See You Tonight?. Arrangiamenti raffinati e incisione di gran qualità: pure questo a qualcuno darà fastidio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.414, novembre 2019.

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Fab One – Il genio dissipato di Harry Nilsson

Piena di ironie la vita breve – moriva nel 1994, cinquantaduenne, ma ci aveva in realtà lasciato già da quindici anni – e tragica di Harry Nilsson: uno dei giganti della canzone d’autore americana, coglieva i due successi più grandi con due riletture, una di Fred Neil (Everybody’s Talkin’, un numero 6 USA) e l’altra dei Badfinger (Without You, al primo posto sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna); fra i suoi album migliori (diciamo uno dei tre, massimo quattro) va poi ricordato il magnifico “Sings Newman” (vedi AR 349), che invece vendeva nulla; e nella mitologia di un rock con il quale musicalmente ebbe a dire il vero pochino a che fare resta sempre e soltanto il compagno di bagordi di John Lennon. Soprattutto nel famigerato “lost weekend” dell’ex-Beatle, i diciotto mesi a cavallo fra il ’73 e il ’75 in cui, separatosi da Yoko Ono, intrattenne una relazione con May Pang. Flashback… 1968, conferenza di presentazione della Apple Records… Lennon e Paul McCartney citano non una ma due volte Nilsson come il loro cantante americano preferito: un perfetto sconosciuto! Che, naturalmente, dal giorno dopo non lo era più. Si torna al paradosso di partenza: a indurre i Fab Two a prestare orecchio a “Pandemonium Shadow Show”, il secondo LP del nostro eroe, era la presenza in scaletta di due loro cover, You Can’t Do That e She’s Leaving Home (registrata a dieci giorni dalla pubblicazione dell’originale). Ed era così che si innamoravano, oltre che dell’Harry Nilsson interprete (in possesso, prima di rovinarsela con alcool, fumo e cocaina, di una voce tenorile con la rimarchevole estensione di tre ottave e mezzo), dell’Harry Nilsson autore.

Era nato il 15 giugno 1941 a Brooklyn, New York, e non aveva che tre anni quando il padre si separava dalla madre e scompariva dalla sua vita, lasciando il buco che potete immaginare. A crescerlo erano principalmente i nonni paterni, due artisti circensi il cui numero di punta intitolerà il disco la cui ristampa ha offerto il pretesto per scrivere questa pagina. Traferitosi in California adolescente, era uno zio a dargli lezioni di canto dopo che la nonna gli aveva insegnato i rudimenti del pianoforte. Dopo avere lavorato per qualche tempo al Paramount Theatre, un gigantesco cinema losangeleno, nel 1960 si procurava un impiego in banca mentendo sul possesso di un titolo di studio che non aveva. Si dimostrerà però tanto abile nella programmazione dei primitivi computer usati allora da conservare il posto pure quando l’inganno verrà scoperto. Curiosamente, in banca lavora di notte, mentre di giorno scrive canzoni. Quella carriera artistica in nuce comincia a prendere consistenza nel 1963, quando compone a quattro mani con John Marascalco un paio di brani per Little Richard, I Just Ain’t Right e Building Me Up, e si dice che costui ascoltando il demo abbia commentato: “Canta mica male per essere un bianco, questo qui”. È Marascalco a pagare le spese per alcuni 7” pubblicati sotto pseudonimo per minuscole etichette indipendenti e ancora lui a procurargli un contratto per la Mercury, che si rivelerà però infruttuoso. Nel 1964 collabora con Phil Spector e conosce il compositore e arrangiatore George Tipton, che investe tutti i suoi risparmi per finanziare la registrazione di quattro canzoni che vende poi alla Tower, una sussidiaria Capitol. Lati B compresi quei singoli costituiranno, nel 1966, il grosso della scaletta del debutto a 33 giri, “Spotlight On Nilsson”, esageratamente succinto (22’29”!) e acerbo (ma nella recente reunion i Monkees hanno rispolverato Good Times e non si è potuto non rivalutare – e tanto – almeno quella).

Di tutt’altro livello risulta in ogni caso, nel dicembre 1967, il già menzionato “Pandemonium Shadow Show”, esordio per la RCA che leggenda vuole che John Lennon abbia trascorso trentasei ore di seguito (lo si può immaginare discretamente fatto) ad ascoltare: come un “Sgt. Pepper’s” a stelle e strisce e in miniatura, un po’ Randy Newman, un po’ Van Dyke Parks e naturalmente un bel po’ (al di là delle due cover: superlative) Lennon/McCartney. Un piccolo capolavoro di pop aromatizzato lisergico e un perfetto prodromo per “Aerial Ballet”, che gli andrà dietro appena sette mesi più tardi. Un album grossomodo su quella falsariga e semplicemente meraviglioso, con a incorniciarlo due numeri da musical (Daddy’s Song e Bath) e in mezzo stupefacenti apocrifi pepperiani (Good Old Desk, Mr. Richland’s Favorite Song), country sentimentale (Don’t Leave Me), Americana colta degna del migliore Van Dyke Parks (Together, il valzerone I Said Goodbye To Me), una ninnananna divisa in due parti (Little Cowboy) e del vaudeville psichedelico (Mr. Tinker). Ho lasciato per ultime le due tracce più memorabili, che sono una autografa – l’ombrosa, scandita da archi luttuosi One – e una – Everybody’s Talkin’, arrangiata in forma di galoppante folk-pop – di Fred Neil. Grazie all’inclusione nel 1969 nella colonna sonora di Midnight Cowboy (in Italia Un uomo da marciapiede) quest’ultima diventerà un successone in differita di un anno, quando alla prima uscita a 45 giri si era arrestata a un modestissimo numero 113 nella classifica dedicata di “Billboard”. È una rilettura favolosa, ma che sia rimasta l’unica canzone “di Harry Nilsson” che tutti ma proprio tutti conoscono (molto più di Without You) è una beffa.

Incredibile a dirsi: nonostante l’affiliazione con i Beatles “Aerial Ballet” non vendeva granché all’uscita, forse anche perché penalizzato dal ritiro dai negozi della prima tiratura, sostituita dopo poco da una seconda e inferiore stampa orba dell’iniziale Daddy’s Song. Nel frattempo coverizzata dai Monkees nel megaflop “Head” e ripresa con l’accordo (all’insaputa dell’autore) che diventasse una loro esclusiva. Ecco: spiace che la recente riedizione per i tipi della Speakers Corner ricalchi questa seconda versione, quando a essere proprio filologi avrebbe dovuto rimanere fedele all’originale. Per il resto niente da ridire: vinile silenzioso e un’incisione piacevolmente ariosa e assai attenta (nonostante le limitazioni tecniche dell’epoca) al dettaglio. Perfetta per valorizzare le sottigliezze di arrangiamenti di estro ed efficacia sublimi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.389, luglio 2017.

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Kazu – Adult Baby (Adult Baby/!K7)

Torneranno i Blonde Redhead? Vero che è di solo due anni fa l’EP “3 O’Clock” ma “Barragán” ne ha cinque e fra i cultori c’è unanimità al riguardo; fra i nove lavori in studio del gruppo italo-nipponico domiciliato a New York, il più debole. Lontanissimo dai fasti di quel “Melody Of Certain Damaged Lemons” con cui il trio formato da Kazu Makino e dai gemelli Simone e Amedeo Pace si affacciava sul secolo nuovo mantenendo la forza d’urto di un sound che lo aveva fatto iscrivere alla scuola “emuli dei Sonic Youth”, ma per la prima volta ponendolo al servizio di melodie insidiose. Misurandosi con la forma canzone come mai i maestri, ragazza e ragazzi ne superavano la lezione (non nel senso di eguagliarne la grandezza, bensì facendosi cosa “altra”) e con i successivi “Misery Is A Butterfly” e “23” si confermavano nella serie A dell’indie USA. Salvo poi perdere forza propulsiva e capacità di messa a fuoco.

Nostalgia dei Blonde Redhead? Non ve la farà passare il debutto da solista della loro cantante. Aspetto incredibilmente giovanile quando è da oltre un quarto di secolo sulle scene, qui Kazu declina tutt’altro rispetto all’art-pop-rock della casa madre e per cominciare abbassando drasticamente i volumi. “Adult Baby” rimanda piuttosto a Björk (in particolare nell’iniziale Salty, che potrebbe arrivare da “Vespertine”), al Momus più estenuato, al connazionale Ryuichi Sakamoto (guarda caso ospite in un’abbondante metà di programma). È dream pop senza più nulla a che vedere con lo shoegaze, che si affida all’elettronica come a orchestrazioni lievi, fra passi di valzer e aperture cinematografiche. Gradevole, eh? Suggestivo in piccole dosi, ma in questa nebbia di trame tanto intricate quanto impalpabili si finisce per perdersi, per dirla con Hegel, come in una notte in cui tutte le vacche sono nere.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.414, novembre 2019.

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Su “London Calling”, che usciva quarant’anni fa

A un certo punto degli anni ‘90, non ricordo esattamente quando ma presumo all’inizio, i critici di “Rolling Stone” decisero di votare “the best album of the 80’s”. Finirono bizzarramente per individuarlo in “London Calling”, lavoro pubblicato ancora nel 1979, sebbene verso la fine. A rappresentare un decennio veniva dunque designata un’opera uscita in quello precedente, errore non solo cronologico ma prospettico, siccome il doppio dei Clash non riflette le tendenze al crossover e al superamento del rock emerse negli ‘80 (pietra di paragone “Remain In Light” dei Talking Heads) quanto un’ansia catalogatoria volta a definire, in luogo che a ridefinire, il canone del rock’n’roll. Come campione di quel decennio (e pure dei ’90!) avrebbero potuto benissimo scegliere, invece, il triplo “Sandinista!”, pubblicato esattamente un anno dopo (e quindi, a essere pignoli, anch’esso ancora un disco degli anni ’70, come del resto “Remain In Light”): ingombrante, ineguale (le ultime due facciate sono superflue) e tuttavia esemplare di una voglia irresistibile di andare oltre il rock e certamente oltre (la distinzione non è questione di lana caprina: rivolgersi per delucidazioni a Keith Richards) il rock’n’roll. Logico, inevitabile – pena il reazionario tornare indietro di cui si renderanno colpevoli i Clash senza Mick Jones dell’ignobile “Cut The Crap” – passo successivo a un album che è un perfetto riassunto del primo quarto di secolo di vita del rock.

Suscitò scandalo, “London Calling”, fra i punkettari che avevano preso sul serio il niente Elvis o Rolling Stones nel 1977 e non avevano compreso che la rivoluzione indotta dal punk stava tutta nell’atteggiamento mentale piuttosto che nella musica, che come ben sapevano i Clash al massimo aggiornava, magari mischiandoli, stili già largamente metabolizzati, dal garage di metà ’60 ispirato dai primi Who e Kinks al pub rock, passando per Stooges ed MC5. Tutt’altro che innovativa, quindi, e destinata a mostrare il suo volto passatista non appena rinchiusa, violandone lo spirito per rispettarne la lettera, nel carcere del purismo. Per aprire le porte del quale chi invece di quello spirito si era imbevuto si trovò fondamentalmente a scegliere fra due opzioni: l’incremento esponenziale di velocità e durezza che genererà l’hardcore; lo sganciamento dalla tradizione del rock’n’roll attuato recuperando materiali ad essa estranei come il dub, il krautrock e l’elettronica, che verrà rubricato alla voce new wave. I Clash, con “Sandinista!”, opteranno per una terza via: consci del fatto che il rock, oltre a essere musica popolare, non è che una delle tante musiche popolari, lo dissolveranno in un calderone di influenze quanto mai eterogenee. Non prima di averlo celebrato come mai a nessuno è riuscito con “London Calling”.

Album immenso al di là dello straordinario livello di scrittura e persino al di là della  magistrale enciclopedizzazione che attua di molto di quanto accaduto da Elvis in avanti, sciorinando rockabilly (Brand New Cadillac) e soul (Train In Vain), beat (I’m Not Down) e musica latina (Spanish Bombs), reggae (The Guns Of Brixton, Lover’s Rock, Revolution Rock) e ska (Rudie Can’t Fail, Wrong ‘Em Boyo), avvicinando New Orleans (Jimmy Jazz), la Detroit del ’69 (la title track, Four Horsemen) e la Londra del ‘77 (Hateful, Clampdown, Death Or Glory, Koka Kola). Ma non è per questo – non solo, almeno – che è l’album che sottrarrei alla distruzione dovendone scegliere uno solo per spiegare alle generazioni future cosa fu il rock e perché, nonostante i suoi limiti artistici e culturali, fu importante. È che a vent’anni dall’uscita trasmette ancora (figuratevi cosa fu ascoltarlo allora) una tensione ideale fortissima, una fede nella forza redentrice della musica che nel mondo odierno (post-rock, sul serio) non è più possibile provare. Retorici, i Clash? Utopici, piuttosto. Sognatori e innocenti. Gli ultimi legittimati dai tempi a esserlo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.17, ottobre 1999.

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Audio Review n.415

È in edicola dalla scorsa settimana il numero 415 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli album nuovi di 808 State, Joseph Arthur, Battles, Big Thief, David Byrne, Richard Dawson, FKA Twigs, Keane, Michael Kiwanuka, Muffs, North Mississippi Allstars, Sterephonics, Sufjan Stevens & Timo Andro, Swans e Kanye West, di una raccolta di Nils Frahm e di una ristampa dei Ramones. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo dei Nirvana e più in breve di Little Steven & The Disciples Of Soul.

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Lana Del Rey – Norman Fucking Rockwell! (Interscope)

Che la ragazza avesse le palle fu subito chiaro: far sopravvivere una carriera in sboccio a un debutto televisivo, a “Saturday Night Live”, assai discusso non è da tutte o tutti, così come reggere contrattaccando alle recensioni irridenti che ne salutavano il debutto (era inizio 2012) “Born To Die”. Un po’ figlie dell’oggettiva debolezza del lavoro e un po’ di un equivoco, la collocazione dell’artista in area “alternative” quando era pop cantautorale, molto più Fiona Apple che Anna Calvi. Un milione e mezzo di copie vendute dopo (solo negli USA! dove è rimasto nei Top 200 oltre cinque anni; le vendite mondiali superano gli otto milioni), oltre a ridere “all the way to the bank” la cantautrice newyorkese mostrava intelligenza (o furbizia, secondo i detrattori) collaborando per il successivo, del 2014, “Ultraviolence” con un nome riveritissimo nell’underground quale Dan Auerback (Black Keys) e, a popolarità inalterata, la sua reputazione se ne giovava. D’altra parte: era pure cresciuto il livello della scrittura, dando a intendere che sotto l’immagine imbronciata ci fosse della sostanza.

Cinque anni e tre album dopo si sta assistendo curiosamente a un’inversione a u per quanto riguarda la critica: in estasi per “Norman Fucking Rockwell!” e magari la Del Rey starà facendo gesti scaramantici. Non il capolavoro già spacciato da taluni, è nondimeno la sua prova più ispirata, in giusto equilibrio fra raffinatezza e immediatezza, ammiccamenti (Mariner’s Apartment cita Elton John e Leonard Cohen ma pare Neil Young) ed episodi davvero sorprendenti come Venice Bitch, 9’37” sull’orlo della psichedelia. Se The Greatest è una ricreazione di radio FM USA anni ’70 il congedo pianistico Hope Is A Dangerous Thing… potrebbe appartenere alla migliore Kate Bush.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.413, ottobre 2019.

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Quei ragazzacci di Boston della J. Geils Band

Nel marzo 1982, all’apice della fama essendo reduce da quattro settimane filate al primo posto nella classifica USA degli LP più venduti con “Freeze Frame”, suo decimo album in studio e dodicesimo in totale, la J. Geils Band intraprendeva l’ennesimo tour americano, un mese “on the road” con come spalla un gruppo irlandese già di buona fama in Europa ma semisconosciuto negli Stati Uniti: tali U2. Da lì a tre mesi toccherà ai Bostoniani, che solo con il suddetto “Freeze Frame” erano riusciti per la prima volta a fare capolino qui e là nelle hit parade europee, trasformarsi in band di supporto nel Vecchio Continente per una formazione britannica un po’ più navigata e famosa: tali Rolling Stones. Mai facile affrontare il palco prima della premiata ditta Jagger & Richards, ma il sestetto USA non aveva problemi a conquistare anche quelle platee oceaniche e nella migliore delle ipotesi distratte, e se no ostili. Poteva averne paura chi in carriera già aveva sfidato con il suo rock-blues sanguigno spettatori accorsi a gustare il prog di ascendenze sinfoniche degli Emerson, Lake & Palmer? Chi, aprendo per i Black Sabbath al Fillmore East nel febbraio 1971, era stato fischiato da quel pubblico all’inizio solo per poi venire richiamato per – ama ricordare il cantante Peter Wolf – uno, due, tre, quattro bis? Il defunto (veniva a mancare nell’aprile dello scorso anno, settantunenne) chitarrista J. Geils, che alla Band dava il nome ma della Band non fu mai il leader, se non giusto all’inizio, rivendicava con orgoglio che “tutti chiamano gli Aerosmith ‘i ragazzacci di Boston’, ma i veri, primi teppisti di quella scena fummo noi”. Mai stati degli hippie, sottolineava, eravamo quelli con i giacconi di cuoio e gli stivali da motociclisti. Giacconi fieramente esibiti nella foto sul davanti come in quella sul retro di copertina del primo e omonimo 33 giri della J. Geils Band, registrato (in diciotto ore distribuite nell’arco di tre giorni) nell’agosto 1970 presso i newyorkesi A&R Studios e mandato nei negozi nel novembre successivo dalla Atlantic. Non esattamente un successone: un numero 195 USA, dice “Billboard”. E nondimeno l’etichetta di Ahmet Ertegun confermava il contratto e pubblicherà altri sei lavori in studio e due dal vivo dei nostri eroi, venendo premiata da vendite crescenti (pure un paio di dischi d’oro, per il “Live Full House” del ’72 e “Bloodshot” dell’anno dopo). Se anche il vero boom si avrà con il passaggio alla EMI e la svolta verso un sound più radiofonico, con vaghe influenze new wave. Mal ne veniva tuttavia alle neo-rockstar, siccome intervenivano a quel punto le proverbiali “divergenze artistiche” che portavano Wolf, contrario a quello che vedeva come uno snaturamento dell’anima del gruppo, ad andarsene. Un clamoroso flop l’unico album senza di lui, datato 1984, conseguente lo scioglimento.

Era cominciato tutto nel 1965, con un trio di blues acustico, Snoopy & The Sopwith Camels, formatosi presso il Worcester Polytechnic Institute: organico che schierava John Geils alla chitarra, Danny Klein al contrabbasso e Richard Salwitz, presto noto come Magic Dick, all’armonica. Passavano due anni prima che, con l’arrivo del cantante Peter Wolf (Blankenfeld all’anagrafe) e del batterista Stephen Bladd, entrambi provenienti da un altro complesso amatoriale locale, gli Hallucinations, nascesse la J. Geils Blues Band, soltanto più J. Geils Band (curiosamente, senza che mai nessuno mettesse in discussione una ragione sociale inspiegabilmente incentrata su un non-leader) quando nel 1968 da quintetto si faceva sestetto con l’ingresso in squadra del tastierista Seth Justman. Momento cruciale, visto che da subito costui formava, con Wolf, il team autorale che fornirà al gruppo la quasi totalità dei materiali autografi. All’inizio minoritari in un repertorio eclettico, con le dodici battute prevalenti ma non monopoliste. Così in un esordio già maturo e del resto era un gruppo più che ben rodato da centinaia di concerti (spalla fra gli altri di B.B. King e Johnny Winter, degli Allman Brothers come dei Byrds) a porvi mano. Popolarissimo a Detroit e dintorni oltre che a Boston e ricercato con insistenza dall’industria discografica, al punto che erano i ragazzi a scegliersi l’etichetta e non il normale contrario.

Lo si legge nelle recensioni d’epoca come in qualunque storia/analisi critica scritta/elaborata a posteriori: gli album in studio della J. Geils Band non rendono che una frazione del formidabile impatto che il gruppo aveva negli spettacoli dal vivo. Sarà pur vero (e i tre live ufficiali, oltre a quello già citato il doppio del ’76 “Blow Your Face Out” e il singolo dell’82 “Showtime!”, ne perpetuano testimonianza), ma un po’ è anche uno stereotipo. Lo certificano un LP a mio giudizio classico quale “Bloodshot” e proprio il debutto dei Nostri, fresco di ristampa per i tipi della tedesca Speakers Corner. Per quanto è energico si stenta francamente a credere che nei concerti il gruppo lo fosse persino di più, ma tant’è, fidiamoci di chi c’era. Dobbiamo accontentarci di un disco? È un bell’accontentarsi. Se sono certamente le cover gli episodi più riusciti – si tratti di un’ipnotica e tagliente Serves You Right To Suffer da John Lee Hooker o dell’Otis Rush reso come fossero gli Stones di Homework, dei Contours dello scintillante errebì First Look At The Purse, dello scatenato rock’n’roll Pack Fair And Square di Big Walter Price o di uno sferragliante strumentale, Sno-Cone, in prestito da Albert Collins – una scrittura oggettivamente un filo scolastica, che evochi gli Yardbirds in Wait o faccia il verso alla Motown più funky in What’s Your Hurry, è più che redenta da un sound turgido quanto giocoso. Capace pure di concedersi l’occasionale parentesi accorata ed ecco On Borrowed Time. Non possedendo altre edizioni in vinile faccio il raffronto con il CD incluso nel peraltro economicissimo box quintuplo Rhino della “Original Album Series” e constato che questa stampa vince facile per impatto, dinamica, dettaglio. Come essere in sala d’incisione con gli allora ragazzi, ma sul serio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.403, novembre 2018.

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Ride – This Is Not A Safe Place (Wichita)

Arrivi in fondo a “This Is Not A Safe Place”, disco che chiarisce come il precedente, del 2017, “Weather Diaries” non fosse frutto di semplice nostalgia dei tempi giovani che furono e insomma una rimpatriata estemporanea, e non sai se essere più felice che i Ride siano tornati insieme o arrabbiato con loro per essere mancati dalle scene tanto a lungo. Vero che per sciogliersi scelsero il momento giusto – e anzi bene avrebbero fatto a farlo prima che il pessimo “Tarantula” sciupasse nel ’96 la sequenza perfetta costruita con “Nowhere” (1990; la cosa migliore prodotta dallo shoegaze dopo l’inarrivabile “Loveless” dei My Bloody Valentine), “Going Blank Again” (1992) e “Carnival Of Light” (1994) – e tuttavia non puoi fare a meno di pensare che, si fossero limitati a prendersi una pausa di riflessione, anche lunga (ma non oltre vent’anni!), nelle case di tanti (di sicuro in quella del sottoscritto) gli scaffali ospiterebbero altri due, tre, quattro signori album in più. E amen.

Era risultato del tutto soddisfacente “Weather Diaries”, con il suo far ripartire la partnership costituita dal cantante Mark Gardener e dal chitarrista Andy Bell da un qualche punto a mezza via fra la seconda e la terza prova in studio, alzando le coltri chitarristiche degli esordi e scoprendoci sotto un’anima psichedelica. “This Is Not A Safe Place” persevera cercando però meno la fusione e rimarcando come una dicotomia: due facce di una medaglia con su un lato l’assalto ottundente dell’iniziale R.I.D.E., una Kill Switch tanto turgida e tesa da richiamare gli Swervedriver, una Fifteen Minutes che dal post-Byrds transita allo stordente e sull’altro schegge di ’67-’68 come le incantevoli Dial Up e Shadows Behind The Sun. Nel mezzo lo spiazzante quanto esilarante krautfunk Repetition.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.413, ottobre 2019.

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