Archivi del mese: febbraio 2015

Per intanto era un inizio: i sopravvalutati Pearl Jam di “Ten”

Ho da sempre un rapporto un po’ problematico con i Pearl Jam: guardati con diffidenza ai tempi di un debutto – “Ten” – che continuo a pensare sopravvalutato, due canzoni memorabili e il resto contorno prescindibile, rivalutati un po’ grazie a “Vs.” e molto dopo “Vitalogy”, amati senza più riserve all’altezza di un “No Code” che trovo invece sottovalutatissimo, uno dei grandi classici dei ’90. Sugli anni 2000 di Vedder e soci, e a maggior ragione sull’orrido “Lightning Bolt”, stenderei un pietoso velo.

La scusa per recuperare questa pagina che dedicavo qualche anno fa alla prima ristampa (più o meno) per audiofili del loro esordio mi è stata data dalle pessime notizie di cronaca degli ultimi giorni, che dicono il batterista Dave Abbruzzese braccato dall’FBI, con imputazioni che potrebbero costargli anche l’ergastolo. Abbruzzese in “Ten” non figura, ma si univa al gruppo per il tour promozionale proprio di quel disco e resterà con i Pearl Jam per i successivi due album.

Pearl Jam - Ten

Per intanto è un inizio. Oppure è la fine? La notizia è che non un qualche minuscolo marchio specializzato bensì un colosso come Sony & BMG ha reso nuovamente disponibili in nera plastica lucente dodici suoi album “classici”. C’è di tutto un po’: il Leonard Cohen di “Songs Of” e il Bob Dylan di “Blood On The Tracks”, il Lou Reed di “Transformer” e la Patti Smith di “Horses”, i Simon & Garfunkel di “Bridge Over Troubled Water” così come i Clash di “Combat Rock”, la Janis di “Pearl” e il Johnny Cash di “At Folsom Prison”. E ancora: i “Golden Records” di Elvis, il Miles Davis di “Kind Of Blue” e… uh… il Michael Jackson di “Bad”. Tutto questo mentre si celebra il venticinquennale del CD e mai festeggiamenti sono sembrati così simili a un funerale. Tutto questo mentre anche i quotidiani dedicano articoli importanti al fatto che con il download – quello legale sta prendendo decisamente piede ed è un fenomeno che mi lascia cento volte più sconcertato dell’affermarsi di quello illegale – la musica si è fatta “liquida” e – guarda un po’! – la radice è la stessa di “liquidare”. Si chiude la stalla dimenticandosi che il bue non è scappato ma lo si è mangiato e digerito da un pezzo. Certo che non ci volevano dei geni per capire – siccome da sempre l’occasione fa l’uomo ladro – che dare al pubblico la possibilità di fare delle copie indistinguibili all’ascolto dagli originali avrebbe determinato un crollo delle vendite dei secondi. Prima ancora del p2p. Il cerchio si chiude e, almeno come atto simbolico, si torna al vinile: l’unico supporto fisico le cui vendite sono in ascesa. Non riproducibile domesticamente nella sua essenza, trova sempre nuovi estimatori in quest’era che ha reso la musica immateriale.

Per intanto è un inizio e, facendo finta che non sia disperazione, si può apprezzare che, per la stampa di “Ten” dei Pearl Jam che sta girando in questo momento sul mio Thorens, Sony & BMG abbia almeno in parte preso atto che gli standard odierni in materia di vinile sono incomparabilmente più alti di quelli pre-’82. Ha cercato allora di adeguarsi: da cui i 180 ormai canonici grammi di peso, una planarità perfetta e un vinile di qualità eccellente, assolutamente silenzioso. È da altri particolari che si coglie, a volere essere gentili, la desuetudine con il supporto oppure, pensando male, la voglia di risparmiare. Nessuna etichetta per audiofili si sarebbe dimenticata (spesa modestissima) di inserire una morbida busta antistatica all’interno di una di cartone che minaccia di non trattare affatto bene i solchi. Nessuna etichetta per audiofili avrebbe nemmeno preso in considerazione (ma allora i costi sarebbero saliti eccome) l’idea di ristampare “Ten” tale e quale a come uscì al tempo, distribuito su due sole facciate la prima delle quali va a sfiorare i trenta minuti. Causa eccessivo affollamento dei solchi, prevedibilmente ci si ritrova costretti per ottenere un’apprezzabile pressione sonora ad alzare il volume e con il volume, si sa, cresce la distorsione. Naturalmente non si incrementa invece una dinamica che resta deplorevolmente piatta e sarebbe inadeguata a un cantautore solo soletto con la sua chitarra acustica, figurarsi a un gruppo esplosivo come i Pearl Jam degli esordi. Inutile girarci intorno: questo “Ten” in vinile suona peggio del corrispondente CD e mai era andata così in cinque anni di rubrica e confronti (al più dei bei pareggi). Dovrebbe essere però un caso isolato in negativo nella lista di titoli summenzionata e sarà mia cura, scrutinandone un altro paio, darvi conferma di ciò.

Per intanto era un inizio, “Ten”, intendo dire. L’inizio di una nuova vita per il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff Ament, pionieri del grunge con i seminali ma misconosciuti Green River, poi costretti a sciogliere dei Mother Love Bone freschi di approdo a una major (e a un passo dal successo vero) causa la prematura dipartita non dal gruppo ma da questa terra del cantante Andrew Wood. Idem per il secondo chitarrista (i batteristi tenderanno a essere una variabile) Mike McCready e figurarsi allora per il cantante Eddie Vedder, che prima di farsi riottosa rockstar riempiva serbatoi a una pompa di benzina. Pubblicato nell’autunno ’91 a ridosso di “Nevermind” non ne pativa la concorrenza, collezionando giusto qualche platino in meno. Nonostante offra le due canzoni che hanno dato la fama ai Nostri, il midtempo solenne di Alive e l’epica e maliosa Jeremy, con il senno di poi “Ten” pare però a oggi l’articolo più debole del catalogo Pearl Jam. Once, Why Go, Porch, Deep sono grunge all’ingrosso e giusto una sfolgorante melodia evita a Even Flow, brano ad alto tasso innodico, lo stesso vicolo cieco. Meglio le ballate, Oceans e Release, anche se i R.E.M. avrebbero potuto chiedere i diritti. Pur tuttavia: resta un album storico e in quanto tale un classico del rock. Pur tuttavia: si può osservarlo da un diverso punto di vista e lodare allora Vedder e sodali per la capacità che hanno avuto di crescere, cambiare e alla lunga convincere della loro onestà di intenti chi dapprincipio – e un po’ mi ci metto – ne diffidava, dicendoli pallidi epigoni dei Nirvana e complesso artatamente costruito per spadroneggiare nelle classifiche offrendo una finta alternativa a un mainstream di cui era invece parte. La smentita saranno i comportamenti, da granello di sabbia negli ingranaggi dell’industria. La smentita saranno un paio di piccoli capolavori: “Vitalogy” nel 1994 e soprattutto “No Code”, due anni dopo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.284, novembre 2007.

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The Waterboys – Modern Blues (Harlequin & Clown)

The Waterboys - Modern Blues

A trentadue anni dacché in molti – e mi ci metto anch’io – si innamorarono di una ragazza di nome Johnny, i Waterboys ancora sono fra noi, ancora saltano di palo rock in frasca folk, ancora sono Mike Scott più chi passa da quelle parti e non si è mai capito perché a un certo punto pubblicò un paio di dischi con la sua identità anagrafica. Fra l’altro proprio poco dopo che la sigla aveva toccato un pur relativo apice di popolarità, poi nemmeno più lontanamente avvicinato. A trentadue anni dacché una ragazza di nome Johnny cambiò il suo nome, quando capì che la sua scelta era fra cambiare e venire cambiata, non importa dunque più a molti che i Waterboys siano ancora fra noi. L’avevano battezzata Big Music, assumendo a etichetta il titolo di una loro canzone, ma a passare all’incasso furono altri: U2, Big Country, Simple Minds, Hothouse Flowers. E di nuovo mi ci metto anch’io fra quelli a cui in fondo non frega granché – il resto del mondo non ha proprio idea di chi siano – che i Waterboys ci siano ancora. Sono ininfluenti e questo è un fatto. Un altro è però che “Modern Blues” surclassa qualitativamente qualunque cosa abbiano dato alle stampe i viceversa sempre acclamatissimi e chiacchieratissimi U2 dal 2000 a oggi e sono quattro album. Che persino a sommarli un “Modern Blues” – che non è la fine del mondo, no, ma si fa ascoltare – non arrivano a pareggiarlo. E allora e magari un minimo di fortuna e attenzioni in più se le meriterebbero pure, Mike Scott e soci. Ecco.

Registrato a Nashville con al mixer Bob Clearmountain, non proprio uno qualunque, il disco è una piccola summa del suono Waterboys post-“This Is The Sea” e insomma ci sono – intrecciati – sia il folk che il rock e in più la propensione allo slargo epico, e inoltre una negritudine pronunciata come forse non mai ma senza che ciò in nessun modo lo renda il loro disco soul o errebì annunciato da qualcuno. D’accordo: Destinies Entwined, che lo inaugura, attacca alla Booker T., ma gli ottoni che fanno irruzione subito dopo sono mariachi piuttosto che Stax. E se l’organo un po’ ovunque è spesso grasso e con un buon senso del groove il referente principale resta pur sempre Al Kooper, come è logico che sia per uno che idolatra Dylan e prova a emularlo: persino citandolo direttamente in November Tale, estesamente nel chilometrico suggello (10’21” introdotti da Jack Kerouac) Long Strange Golden Road, che tranquillamente potrebbe arrivare anche dai dischi di altri discepoli e mi vengono in mente Elliott Murphy e Steve Wynn. D’accordo: Still A Freak è un bluesone, ma più che a Chicago siamo direttamente nelle lande dell’hard, con tanto di piano rock’n’roll ed elettrica urlante, e a conti fatti con il suo riff torpido, il ritornello corale e un ribollente assolo di tastiera giusto Rosalind (You Married The Wrong Guy) è – a me pare – a prevalenza black. Resta da dire della ballatona con accenti alla Lennon The Girl Who Slept For Scotland, del luccicante folk-rock Beautiful Now, delle visioni di Van Morrison congiurate da Nearest Thing To Hip. Vi si cita Charlie Parker e lo si era già chiamato in causa, con tanti altri, nell’incalzante quanto suadente alt-country I Can See Elvis: sfilata di eroi e piace il pensiero che Mike Scott ne abbia tuttora. Io pure. Lui, per esempio.

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Quando Van The Man era Van The Boy: Van Morrison dopo i Them

Van Morrison - Blowin' Your Mind!

Finalmente! Finalmente non mi tocca più inerpicarmi su una traballante scaletta per raggiungere nella settima e penultima fila, terzo comparto al centro della libreria grande, quella alta quasi tre metri e larga un tot di più dove conservo il sacro vinile, il 45 giri che inaugurò la carriera solistica di Van “The Man” Morrison. Esercizio cui negli ultimi sedici anni, cioè dacché raccattai il magico singoletto in un angolo di Tower Records a Londra, mi sono sottoposto giusto una volta o due al mese solo per cronica mancanza di tempo. Quando sono sicuro che un’assunzione quotidiana sarebbe l’ideale per mantenersi per sempre giovani e in buona salute, nell’anima; probabilmente anche nel corpo, visto il tuffo al cuore che mi coglie ogni volta alle prime battute e sul serio è come se il muscolo cardiaco improvvisamente si ossigenasse meglio. Avete ancora presente l’effetto che vi fece la prima volta vedere lei/lui? Preciso. Nel battito di mani e nel trillare della chitarra elettrica, nella melodia ascendente a incrociare la linea di basso, nel ritornello che deflagra dolcissimo e impossibilmente esuberante di Brown Eyed Girl è racchiusa l’eccitazione del più spensierato dei primi amori come a nessun’altra canzone pop credo sia mai riuscito. Quando poi non è nemmeno diaristica cronaca ma già ricordo e rimpianto. Non avesse inciso altro né prima – con quei Them dicitori di errebì garagistico con pochi pari – né dopo – e stiamo parlando di una carriera quarantennale fitta nella sua prima metà di capolavori, a partire dall’immortale “Astral Weeks” – il cowboy di Belfast già meriterebbe un posticino nell’Olimpo dei grandi del pop-rock. E invece tanto d’altro ha fatto e me lo ricordano, nella medesima libreria ma alcune file più sotto, diversi centimetri occupati da album del Nostro. Li conto. Sono sedici, quattordici in studio e due live. Vado a verificare e rammentavo bene: tolto quel “A Period Of Transition” su cui la diceva lunga già il titolo, è l’intera discografia di Morrison compresa fra “Astral Weeks” e “No Guru, No Method, No Teacher”, che è dell’86 ed ecco perché ho tutto in vinile e nulla in CD. Smisi di comprare un artista che ho a lungo idolatrato perché mi parve, a un certo punto, che il suo peculiare e inimitabile (per quanto in molti ci abbiano provato) soul… gaelico si stesse trasformando in un cliché, l’artefice rischiasse la parodia di se stesso che è (con qualche guizzo ogni tanto) divenuto. E ammetto con una risata che fu in fondo decisivo per il distacco l’imbarazzante retro copertina di “A Sense Of Wonder”. Perché puoi anche avere scritto due delle mie dieci canzoni preferite di sempre (l’altra è Madame George) ma a quarant’anni non puoi vestirti da Zorro.

I primi vent’anni di produzione morrisoniana, allora. Tranne un LP interlocutorio in mezzo. E il debutto. A pensarci, per un attimo mi sembra incredibile che di colui che fra il resto ha scritto anche Gloria mi mancasse l’anello di congiunzione fra l’era Them e le magiche Settimane Astrali. Ci rifletto ancora un momento e la situazione subito assume una sua logica. Non avevo “Blowin’ Your Mind!”, che fresco di ristampa in un’edizione per audiofili della Speakers Corner solo da qualche giorno è entrato a far parte della mia collezione, per due ottime ragioni: che possedevo comunque le due canzoni più celebri fra le otto in scaletta (il retro del mio prezioso sette pollici offre l’impagabilmente melodrammatica T.B. Sheets, sebbene in una versione scorciata di quasi quattro minuti rispetto ai 9’44” del 33 giri) è una; l’altra e più decisiva è che di “Blowin’ Your Mind!” quello che ha sempre parlato peggio è stato l’autore. A tal punto avvelenato con il produttore Bert Berns che probabilmente manco gli dispiacque quando, a poche settimane dall’uscita dell’album, costui ebbe un infarto e se ne andò al Creatore, alla niente affatto veneranda età di anni trentotto. Provvidenziale anzi la disgrazia per l’artista irlandese, che poteva liberarsi dal contratto con la Bang e accasarsi alla Warner. Personaggio controverso, Berns, e in molti che lo conobbero dicono che non era la simpatia il suo forte. Non essendoci dovuti andare in vacanza assieme, possiamo perdonarlo a chi ci ha regalato – ve ne cito cinque, così, per lasciarvi senza fiato – Twist And Shout, Here Comes The Night, Everybody Needs Somebody To Love, Cry Baby e Piece Of My Heart. Più che di pelle era un’incompatibilità progettuale quella fra Bert e Van, il primo imbattibile in materia di 45 giri, il secondo proiettato nell’era del 33. Paradossalmente, ciò che il secondo non perdonava al primo era che Brown Eyed Girl avesse avuto successo, un numero 10 nella classifica USA, costringendolo così ancora in un mercato che rifiutava. “Blowin’ Your Mind!” era assemblato in fretta e furia per andargli in scia e interi mondi lo separano dalla concettuale attenzione al dettaglio di un “Astral Weeks” – che pure venne registrato anch’esso velocemente, ma tutt’altro era l’ambito.

In realtà – ho scoperto – l’album non è male, diciamo tranquillamente quasi un tre stelle su cinque persino togliendogli i due pezzi capolavoro. Graziose la dylaniana He Ain’t Give You None e una Spanish Rose adeguatamente latina e lo stesso lo sculettante errebì di Goodbye Baby (Baby Goodbye), una Ro Ro Rosey iniettata di fuzz, una Who Drove The Red Sports Car blueseggiante sul lato jazz della notte. Soltanto la cover di Midnight Special sa di riempitivo. Suoni un po’ così, senza profondità e spessore. Berns era più bravo a scrivere che dietro un banco di regia. Ma quel che più conta, per quanto mi riguarda, è che potrò sistemare il disco subito prima degli altri LP del Nostro, terza fila dal basso, primo scomparto da sinistra. Non dovrò più arrampicarmi fin lassù. Finalmente.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.279, maggio 2007.

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These Songs Were Made For Walkin’: Lee Hazlewood oltre le hit

Lee Hazlewood - The LHI Years

Copertina che parodizza “Electric Ladyland”, è fresca di pubblicazione un’antologia della produzione ’68-’71 del maestro di Nancy Sinatra. Molte cose insegnò alla figlia di Old Blue Eyes il nostro uomo ma soprattutto e leggendariamente, e quando lei in realtà di anni ne aveva già ventisei, a (parole sue) “cantare come una sedicenne che va a letto con camionisti quarantacinquenni”. Quale canzone, vi basta non essere marziani per saperlo: quella These Boots Are Made For Walkin’ eternamente ritornante (ultimamente sui nostri schermi televisivi come colonna sonora di una pubblicità fra le più martellanti) da quel fatidico 1966, nella versione originale o in una delle innumerevoli riletture. Inno primigenio di ogni riot grrrl che si rispetti e pregasi misurare la distanza immensa che la separa, per dire, da una He Hit Me (It Felt Like A Kiss) fra i capolavori di regia di quel Phil Spector cui Hazlewood aveva in precedenza insegnato un trucco o due (fermarsi un attimo a considerare come la prima sia stata scritta da un uomo e la seconda da una donna sarebbe piuttosto interessante ma sfortunatamente ci porterebbe fuori tema). Sempre a Nancy questo paradossalmente misconosciuto eroe della popular music offriva in quello stesso anno Sugar Town (un peana all’LSD e non se ne accorgeva nessuno! un numero cinque nella classifica USA dei singoli) e nel 1968 Some Velvet Morning, direttamente un classico della psichedelia. Per il primo e il terzo dei brani menzionati i più si ricordano ancora del loro autore e non basta, perché stiamo parlando anche e forse soprattutto di colui che scoprì tanto Duane Eddy che Gram Parsons. Di un Burt Bacharach country, di un rivale di prima grandezza di Johnny Cash, di un antesignano di Leonard Cohen coverizzato dai Vanilla Fudge e dai Thin White Rope, dagli Slowdive e dai Primal Scream, da Lydia Lunch e dai Jesus And Mary Chain, da Beck, dagli Einsturzende Neubauten e persino dagli Entombed e dai Megadeth. Idolatrato da Nick Cave e dai Tindersticks, dai Lambchop e dai Sonic Youth. Da Steve Shelley in particolare fra questi ultimi ed era per la sua Smells Like Records che, sul finire dei ’90, vedevano la luce le ristampe di alcuni dei suoi LP più oscuri e brillanti, primo fra tutti “Cowboy In Sweden”, e cominciava una generale riscoperta cui purtroppo era la scomparsa nel 2007 del Nostro (di poco preceduta dall’uscita del beffardamente testamentario “Cake Or Death”) a dare un più forte impulso.

Licenziato dalla benemerita Light In The Attic e promesso come prima perla di un’autentica collana, “The LHI Years: Singles, Nudes & Backsides (1968-71)” potrebbe contribuire in misura decisiva, dopo che già tanto avevano fatto nel 2002 “These Boots Are Made For Walkin’: The Complete MGM Recordings” (Ace) e nel 2008 “Strung Out On Something New: The Reprise Recordings” (Rhino Handmade), a cancellare definitivamente l’ignorante pregiudizio che vuole Lee Hazlewood autore di due canzoni indubbiamente epocali ma nulla di più. Splendido libretto curato dall’ex-dipendente, discepolo e amico Wyndham Wallace, il CD preleva i suoi diciassette titoli (ecco, qualcuno in più non sarebbe dispiaciuto) da alcuni singoli e da quattro 33 giri (il già nominato “Cowboy In Sweden” e poi “The Cowboy & The Lady”, “Forty” e “Requiem For An Almost Lady”) pubblicati in origine da un’etichetta che il nostro eroe aveva fondato proprio mettendo a buon profitto i proventi delle collaborazioni con la Nancy.

Ciascuna delle quali vale artisticamente non granché di più di una The Bed degna della saga dell’Uomo in Nero e di una The Night Before che si segnala fra i più rimarchevoli apocrifi coheniani di sempre, dello spiritual laico Sleep In The Grass e dell’incantesimo di folk minimale If It’s Monday Morning, del beat barocco Victims Of The Night o di una Trouble Maker torpidamente alla Jacques Brel. Pare impossibile che di canzoni così si fosse persa la memoria, che quasi nessuno le avesse ascoltate a loro tempo.

Pubblicato per la prime volta su “Il Mucchio”, n.694, maggio 2012.

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Yo La Tengo – Extra Painful (Matador)

Yo La Tengo - Extra Painful

Trent’anni di Yo La Tengo meritavano una celebrazione e siccome i venti erano stati festeggiati con il monumentale “Prisoners Of Love: A Smattering Of Scintillating Senescent Songs” le alternative erano due: o ripubblicare quella doppia antologia espandendola ulteriormente, pescando nei tre album dati alle stampe da allora e magari riprendendo qualcosa da una versione tripla uscita in tiratura limitata, oppure concedersi per la prima volta una riedizione Deluxe. Si è optato per la seconda che ho detto e si rivela scelta felice, a maggior ragione per il lavoro e anzi capolavoro sul quale si è deciso di riaccendere i riflettori, a ventun’anni dacché vide la luce: “Painful” non è forse la prova migliore in assoluto del trio di Hoboken (con una pistola puntata alla tempia opterei per il più recente – AD 2000 – “And Then Nothing Turned Itself Inside Out”) ma è indubbiamente il disco con quale gli Yo La Tengo passarono di categoria, da eccellenti emuli dei Velvet Underground (con inoltre una conoscenza enciclopedica degli anni ’60 e di certa new wave) a gruppo capace di fare a sua volta scuola e insieme, e soprattutto, categoria a sé. E per quanto il già corposo catalogo precedente (cinque album) resti piccola cornucopia di meraviglie ha ragione Ira Kaplan quando osserva che non fu che un lungo percorso di apprendistato verso la maturità qui raggiunta.

Ripubblicato con l’integrazione di un secondo CD con demo anche inediti e registrazioni dal vivo, “Painful” mette perfettamente a fuoco uno stile in cui si (con)fondono la ballata post-folk e un noise-pop dolcemente intossicante, le pulsioni motoristiche del krautrock e gli orizzonti espansi della psichedelia, certo romanticismo proto-punk e quel che sarebbero stati i Sonic Youth se oltre che il suono avessero avuto le canzoni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.359, gennaio 2015.

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I miracoli di Smokey Robinson dopo i Miracles

Compie oggi settantacinque anni una delle divinità della black del XX secolo, William “Smokey” Robinson. Lo celebro raccontando non il suo decennio classico, quello trascorso capitanando i Miracles e scrivendo una quantità di successi anche per altri gruppi e solisti Motown, ossia i ’60, bensì invitando alla rivalutazione della successiva carriera solistica, da sempre un po’ snobbata dalla critica.

The Solo Albums Volume 1

The Solo Albums: Volume 1 (Hip-O Select)

Tutto nei dischi con i Miracles lo Smokey Robinson interprete oltre che autore (si pensi ai tanti classici dati ad altri) indispensabile? Azzarderei di sì. Il che non vuole naturalmente dire che in un catalogo da solista che conta quelle due dozzine di album non ci siano cose più che degne e senz’altro meritevoli di riscoperta. Più che altrove nei due titoli, “Smokey” e “Pure Smokey”, qui raccolti e che furono, rispettivamente nel ’73 e nel ’74, i primi due LP in proprio dell’uomo che Bob Dylan definì “il più grande poeta vivente d’America”. Attacco stupendo con l’incantesimo di voci avvolgenti e ricami di ottoni e archi attorno a un basso pulsante e a una batteria metronomica di Holly, il debutto piazzava nel prosieguo almeno un altro paio di colpi magistrali, con il medley dai toni (insolitamente per il Nostro) evocanti il gospel di Never My Love/Never Can Say Goodbye e una versione dal cuore di panna di Will You Love Me Tomorrow?, superclassico della premiata ditta Goffin/King. Meno apici ma media forse più alta in un successore in cui, con un lustro di anticipo e fatte salve le tematiche più adulte, si rinviene già all’incirca tutto il Michael Jackson di “Off The Wall”. Insomma: pop sfacciato e funky levigatissimo, sull’orlo della disco più stilosa.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.676, novembre 2010.

The Solo albums Volume 2

The Solo Albums Volume 3

The Solo Albums: Volume 2 (Hip-O Select)

The Solo Albums: Volume 3 (Hip-O Select)

Non si può ascoltare tutto: la vita è breve e le giornate continuano ad avere ventiquattr’ore anche adesso che ci si potrebbe togliere qualunque voglia. Perché tutto o quasi è stato ristampato minimo una volta e state certi che, se qualcosa non è mai stato riedito, almeno un blogger che lo renda disponibile in Rete c’è. Finisce che il desiderio più grande diventa quello di inventarsi il ritaglio in cui rimettere su qualcosa che sai di sapere a memoria, ma non fai girare dal secolo scorso. Non si può ascoltare tutto ed è inevitabile che, persino facendo il bizzarro mestiere che faccio io, su certe cose continui ad affidarti un po’ alla memoria, un po’ a giudizi che erano forse pregiudizi formatisi quando anche ad avere tutto il tempo del mondo la possibilità di ascoltare tutto non c’era. E giungo infine al punto. Adoro (e conosco non per sommi capi) lo Smokey Robinson di era Miracles, anni ’60 dunque, ma del solista avevo un’idea data da ascolti distratti e a campione. Ed era questa: uno prescindibile, diviso fra serenate eccessivamente languide – archetipo di un cosiddetto modern soul spessissimo né modern né soul – e ballabili sul limitare della disco. Voce ancora splendida ma scrittura tendente al formulaico e irrimediabilmente appannata.

Non dirò che questa serie di CD della solita Hip-O Select su ciascuno dei quali sono raccolti due LP mi stia facendo cambiare radicalmente idea, ma un po’ sì. L’operazione nel complesso continua a sembrarmi esagerata, c’è roba qui che non valeva proprio la pena di ritirare fuori, ma se qualcuno si mettesse a selezionare accuratamente e riducesse a un’ora le tre ore e tre quarti finora ripubblicate ne risulterebbe una raccolta da urlo. Perché di buono ce n’è eccome. Magari non tantissimo né in “Smokey’s Family Robinson” del ’76 (io ne caverei i due pezzi funk, When You Came e Do Like I Do) né in “Deep In My Soul” dell’anno dopo (si salvano l’incalzante Vitamin U e la sontuosa ballata If You Want My Love). Abbastanza però in “A Quiet Storm”, che nel ’75 si vendette come il pane: lavoro soprattutto “di atmosfera” (come già il titolo fa intendere) e che acquista però nel finale muscolarità quasi clintoniana. E nondimeno la vera sorpresa qui è rappresentata da “Big Time”, una colonna sonora del 1977, scampolo residuale di blaxploitation a dir poco fantastico in un tema conduttore che oggi si può raccontare come mediano fra Al Green e Prince e nel gospel assurdamente accellerato He Is The Light Of The World.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.679, febbraio 2011.

The Solo Albums Volume 4

The Solo Albums: Volume 4 (Hip-O Select)

Continua (chissà fin dove si spingerà) la riesumazione dello Smokey Robinson post-Miracles da parte della Hip-O Select e io continuo a stupirmi per quanto di buono si riesce a cavare da album dalla fama non proprio mirabile. Beninteso: continuo anche a pensare che una raccolta ben compilata dei suoi anni ’70 avrebbe reso un servizio migliore all’uomo di The Tracks Of My Tears e di innumerevoli altri classici. A lui e soprattutto all’appassionato, che non dovrebbe allora infliggersi fuffa sentimentaloide come Feeling You Feeling Me, I’m Loving You Softly o la peraltro vendutissima all’epoca Cruisin’ per godere del funky micidiale (mi-ci-dia-le!) di Why You Wanna See My Bad Side e Shoe Soul, It’s A Good Night e Share It. Di una versione tendente alla disco della Get Ready già dei Temptations, che detta così può sembrare un’idea del cazzo e invece no, è una bomba. Di una Love’s So Fine di uno swing tale che subito dopo la si vorrebbe ascoltare da Sinatra. Magari l’appassionato potrebbe farsela lui, allora, l’antologia. Nella più piena legalità, e comunque risparmiando, ricorrendo ad Amazon o al negozio di iTunes.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.683, giugno 2011.

The Solo Albums Volume 5

The Solo Albums: Volume 5 (Hip-O Select)

Magari, in questa riesumazione del catalogo post-Miracles dell’uomo di The Tracks Of My Tears e di almeno un altro paio di decine di classici del Sixties soul, sarebbe il caso di fermarsi qui. Di non sfidare ulteriormente gli dei della black rimettendo in circolo, dopo avere quasi esaurito la produzione dei ’70, anche i dischi del decennio successivo ancora. Nei quali probabilmente qualche gemma rilucerà pure, ma nel mezzo di bigiotteria sempre più improbabile e plasticosa. Temo non andrà così ed è un peccato duplice, perché l’operazione non avrebbe potuto avere suggello migliore di un quinto volume che per una volta riedita un unico album e non due perché in origine, in vinile, quell’album era doppio.  “Smokin’” di nome e di fatto, il primo live del Nostro si rivela (verbo usato a ragion veduta, siccome mai aveva visto la luce in digitale e mancava dunque dai negozi da oltre trent’anni) una meraviglia di soul-pop dal sentimentale con stile allo swingante, ora disposto a colorarsi di jazz, ora a lasciare la ribalta a una festa errebì, a una botta di funk. Ci sono diversi cavalli di battaglia dei Miracles, c’è una scelta sapiente (che non a caso esclude alcuni grossi successi) dal repertorio solistico. Non varrà forse il favoloso (e coevo come data di registrazione) “Tokyo… Live!” di Al Green, “Smokin’”, ma siamo più o meno lì. Ecco, l’ho detto.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.686, settembre 2011.

The Solo Albums Volume 6

The Solo Albums: Volume 6 (Hip-O Select)

Mi arrendo. Arrivato al “Volume 6” della riesumazione a quanto pare dell’opera omnia dello Smokey Robinson post-Miracles (album numero dieci e undici, non so se mi spiego), non faccio più il solito discorso sul fatto che i favolosi anni ’60 di costui furono altra cosa rispetto ai ’70 e che nondimeno, proprio alla luce di questa collana Hip-O Select, quel decennio andrebbe un po’ rivalutato. Non sostengo più che invece che ristampare tutti gli LP sarebbe stato più sensato compilare un’antologia, magari anche doppia. Non dico più che sarebbe meglio fermarsi perché, insomma, lo si legge ovunque che la qualità andò costantemente in calando. Qui siamo ormai al decennio successivo – “Warm Thoughts” è dell’80, “Being With You” dell’81 – e la sapete una cosa? Live a parte (quello “Smokin’” che occupava per intero il volume cinque) sono i due titoli migliori della serie. Non dei capolavori in toto, ma zeppi (in particolare il secondo) di canzoni memorabili, fra soul del più lascivo o sentimentale, funky da paura e ballate rock-oriented di classe suprema. CD che meriterebbe l’acquisto anche soltanto per la tredicesima traccia, Can’t Fight Love. Ma che dico? Meriterebbe l’acquisto anche solo per un break di cinquantotto secondi – prima percussioni e tromba, poi anche voce, basso e sintetizzatore – sistemato sul finale di quella tredicesima traccia. Roba da avere un orgasmo ascoltandolo… senza mani.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.693, aprile 2012.

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Il 1914 nel 2014 – Tindersticks vs. Einstürzende Neubauten

Sul finire dello scorso anno, a cavallo fra ottobre e novembre, sono stati pubblicati due album per il resto assai diversi ma accomunati dall’ispirazione: la Prima Guerra Mondiale, nel centesimo anniversario del suo inizio.

Tindersticks vs Einsturzende Neubauten

Tindersticks – Ypres (Lucky Dog)

Una prima avvertenza: se vi innamoraste di Stuart Staples e soci in quei primi ’90 in cui rischiarono di diventare delle star pur sciorinando canzoni non precisamente “cheap” e nonostante fossero antipodici tanto ai coetanei del grunge che a quelli del Britpop, ma poi li avete persi di vista, non è detto che “Ypres” faccia per voi. Nello spesso opprimente scorrere dei suoi 54’13” non troverete traccia di quel sound da Bad Seeds al netto del maledettismo e che assumeva a numi tutelari Scott Walker e Jacques Brel, Leonard Cohen e Lee Hazlewood in un tempo in cui (tranne il Canadese) tutti questi nomi circolavano infinitamente meno di oggi. Se invece avete continuato a seguire il combo di Nottigham pure quando ha preso a sfornare colonne sonore dove la forma-canzone finisce in secondo piano a vantaggio di atmosfere ancora più vaporose e raffinate, una possibilità a questo nuovo disco dovreste proprio darla. Pur con la consapevolezza che – seconda avvertenza – non è per l’ascolto domestico che è stato concepito, bensì per sonorizzare le varie sezioni nelle quali si articola il museo che per l’appunto a Ypres, nelle Fiandre, commemora le centinaia di migliaia di caduti nella più sanguinosa delle battaglie della Prima Guerra Mondiale. Sono spartiti pensati per una fruizione senza soluzione di continuità, senza un inizio o una fine definiti, entrando in un qualunque punto del percorso e dirigendosi verso qualunque altro.

Ciò premesso, pur fermati in un ordine necessariamente statico promanano egualmente suggestioni tanto sobrie quanto fortissime nel loro sommesso essere mortifere. Di rock non vi è l’ombra, avrete inteso. Siamo piuttosto dalle parti di una musica neo-classica che se ha debiti li ha nei confronti di Arvo Pärt, Henryk Górecki, Sybelius. Al limite, Nyman.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.358, dicembre 2014.

Einstürzende Neubauten – Lament (Mute)

Per caso ma anche no, giacché cadeva nel 2014 il centesimo anniversario dall’inizio di quella tragedia, per due numeri di seguito ci si ritrova a raccontare di lavori concepiti non come dischi a sé bensì come colonne sonore di opere con al centro la Prima Guerra Mondiale: lo scorso mese toccava ai Tindersticks di “Ypres”, sonorizzazione del museo ospitato dall’omonima cittadina delle Fiandre, e ora è la volta di un album che nasce (pur essendo registrato in studio) in funzione dell’esecuzione dal vivo e da essa, dichiarano gli artefici stessi, va considerato inscindibile. Al di là di questo quasi nulla accomuna le due opere, quella da collocarsi in un ambito di classica contemporanea, quest’altra babele di linguaggi organizzata con teutonica precisione. Quando poi invece tanto condividono i titolari, dal substrato rock (ambito tuttavia che gli Einstürzende Neubauten approcciavano partendo dal rumorismo e da una industrial estrema e i Tindersticks da una prospettiva cantautorale) all’abitare un mondo plasmato da Nick Cave: datore di lavoro per Blixa Bargeld dall’83 al 2003, un’influenza cruciale per Stuart Staples e soci.

Tutto ciò premesso… Sarà fors’anche perché ho visto lo spettacolo prima di ascoltare il disco e ascoltando il disco per la prima volta mi sono reso conto che lo avevo memorizzato già, ma a me pare non solo che “Lament” stia benissimo in piedi da solo ma che sia uno degli album più riusciti degli Einstürzende. Persino un approdo ideale di un percorso che partendo dai palcoscenici distrutti a colpi di martelli pneumatici li ha visti raccattare per strada, fra un detrito urbano e l’altro, folk e rock, elettronica, musiche accademiche e la tradizione del cabaret mitteleuropeo. Poco meno che geniale nel contesto il synth-pop di The Willy-Nicky Telegrams.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.359, gennaio 2015.

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Per Sam Andrew (18 dicembre 1941-12 febbraio 2015)

Janis Joplin e Sam Andrew 1968

“All Is Loneliness la comprammo da questo tizio veramente bizzarro, un ragazzone cieco vestito da antico vichingo che si faceva chiamare Moondog e vendeva musiche e poesie di sua composizione all’angolo fra la Cinquantacinquesima e la Quinta. Così la volta dopo che ci troviamo a New York andiamo a cercarlo e gli raccontiamo che l’abbiamo incisa sul nostro primo lp. E lui: ‘Sì, va bene, ma l’avete fatta in 5/4?’. E noi: ‘Be’, nel nostro gruppo siamo in cinque e questa l’abbiamo registrata in quattro’.” (Sam Andrew)

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Micah P. Hinson – And The Gospel Of Progress (Talitres)

Micah P. Hinson - And The Gospel Of Progress

Ricordavo bene: ero io dieci tondi anni fa a occuparmi su queste colonne dell’esordio dell’allora ventitreenne Micah Paul Hinson, texano di Abilene che si accasava discograficamente nel Regno Unito dopo avere perso la sua casa vera oltre Atlantico, cacciato da una famiglia di fondamentalisti cristiani che non gli perdonava una tumultuosa adolescenza tossica con conseguente galera. All’uscita dal carcere il giovanotto si ritrovava in un colpo abbandonato dalla gnocchissima ma sfortunatamente ancora più drogata fidanzata e diseredato e si risolveva a cambiar aria. Ben gliene verrà e siccome non tutto il male vien per nuocere era proprio l’avventuroso vissuto a fornirgli l’ispirazione per le canzoni che persuadevano la Skechtbook a porlo sotto contratto. E che razza di canzoni! A un ideale crocevia su cui convergevano Beck e Leonard Cohen, Dylan, Will Oldham e magari il primo Tom Waits e degne di venire reinterpretate (ma non era purtroppo già più possibile) da un Johnny Cash. Ne scrivevo benissimo, azzardandomi a scommettere che il ragazzo sarebbe diventato una star. Ho avuto ragione, ma ho avuto torto. Per un verso Hinson ha saputo confermarsi autore di vaglia (performer assai meno, come ebbi modo di constatare restandone parecchio deluso), con una serie di lavori non pregiati quanto il debutto ma nemmeno granché inferiori. Per un altro, non gli è riuscito di andare oltre il culto.

Riedito in una versione per niente Deluxe (appena una bonus a integrare le tredici tracce originali) che calmiererà le quotazioni assurde raggiunte nel tempo dalla prima stampa, l’album conferma la dimensione classica che parve avere da subito. Resta uno dei migliori esempi di cantautorato USA degli anni 2000.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.359, gennaio 2015.

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Marilyn Manson – The Pale Emperor (Hell, etc.)

Marilyn Manson - The Pale Emperor

Peccato. Avevo in testa un incipit perfetto per questa recensione ed era una cosa così: magari sarò io che non ho più l’età per Marilyn Manson (non che l’abbia mai avuta) ma nemmeno lui ce l’ha più, per fare Marilyn Manson. E vai con le ironie sul God of Fuck ormai sul lato sbagliato dei quaranta e sulla scelta, rivelatasi preveggente, di puntare tutto, come i Kiss, sul trucco. Vai con l’evocazione dei dubbi fasti passati, quando una versione da grand guignol, e palesemente meno ispirata dell’originale per quanto da esso legittimata, di Trent Reznor bastava a scandalizzare con blasfemie spicciole certa Amerika bigotta e scema, persino a impaurirla. Peccato, peccato sul serio ch’io non riesca a togliermi un vizio da cui certi colleghi (colleghi… oddio…) sono sempre stati palesemente immuni: quello di ascoltare i dischi prima di scriverne. Ascoltarli a lungo, ascoltarli con attenzione e dedicandogliene tanta di più quanto più mi hanno spiazzato. Insomma: ero partito con l’idea, che mi divertiva assai, di stroncare Marilyn Manson e mi ritrovo non direi a incensarlo ma ad applaudirlo sì. Con convinzione.

Lo dicono tutti e per quanto io, lo ammetto, non abbia fatto girare tutti quelli usciti nel frattempo mi accodo: il migliore lavoro dell’uomo nato Brian Hugh Warner dacché eravamo ancora nel Novecento. Da “Mechanical Animals”, che è dal ’98, se non da “Antichrist Superstar”, che è di due anni prima e, via, si può anche avere. Non solo in quanto testimonianza di un fenomeno di costume ma per un sound indubbiamente di impatto e una scrittura scaltra nel miscelare metal e new wave, attitudine dark e industrial adattata alle masse. Lì Marilyn Manson era vincente perché, pur puntando moltissimo sul personaggio, non dimenticava il musicista e il musicista qualche numero dimostrava di averlo. Con “The Pale Emperor” torna a vincere perché il costume da supereroe negativo viene appeso (per sempre?) al chiodo e ci si concentra sulle canzoni. Ce ne sono di ottime in un album teso e coeso e che, se è furbo, lo è giusto nel calare subito alcune delle carte migliori del mazzo: una Killing Strangers massiccia e contemporaneamente elastica, con uno zing di chitarre taglienti e insieme il semi-inedito swing di un passo ondeggiante; una Deep Six dall’arpeggiante evocativo all’incalzante nel tempo di un respiro e quindi felicemente ostaggio di un riffone che squassa; una Third Day Of A Seven Day Binge che pagherei per sentirla ancora da un Iggy Pop una cosa così. Da lì al fondo la tensione non cala mai più di tanto e, quel che è più notevole, per restare alta non è ai volumi che si affida bensì alle atmosfere, a un gioco sapiente di arresti e ripartenze e rilasci. Un’altra cosa che dicono tutti o quasi è che questo è il disco “blues” di Marilyn Manson e, aggiungendo un tot di virgolette alla definizione, ci sta e ci sta sempre di più, tornando a sottrarre virgolette, man mano che ci si avvicina al congedo squisitamente malevolo di Odds Of Even. Ditemi voi se, fatta la tara (ma anche no) a un synth minaccioso, Birds Of Hell Awaiting non è una novella Riders On The Storm, il nostro eroe che sceglie di reincarnarsi Re Lucertola invece che Alice Cooper. Gioco, partita, incontro.

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