Ho da sempre un rapporto un po’ problematico con i Pearl Jam: guardati con diffidenza ai tempi di un debutto – “Ten” – che continuo a pensare sopravvalutato, due canzoni memorabili e il resto contorno prescindibile, rivalutati un po’ grazie a “Vs.” e molto dopo “Vitalogy”, amati senza più riserve all’altezza di un “No Code” che trovo invece sottovalutatissimo, uno dei grandi classici dei ’90. Sugli anni 2000 di Vedder e soci, e a maggior ragione sull’orrido “Lightning Bolt”, stenderei un pietoso velo.
La scusa per recuperare questa pagina che dedicavo qualche anno fa alla prima ristampa (più o meno) per audiofili del loro esordio mi è stata data dalle pessime notizie di cronaca degli ultimi giorni, che dicono il batterista Dave Abbruzzese braccato dall’FBI, con imputazioni che potrebbero costargli anche l’ergastolo. Abbruzzese in “Ten” non figura, ma si univa al gruppo per il tour promozionale proprio di quel disco e resterà con i Pearl Jam per i successivi due album.
Per intanto è un inizio. Oppure è la fine? La notizia è che non un qualche minuscolo marchio specializzato bensì un colosso come Sony & BMG ha reso nuovamente disponibili in nera plastica lucente dodici suoi album “classici”. C’è di tutto un po’: il Leonard Cohen di “Songs Of” e il Bob Dylan di “Blood On The Tracks”, il Lou Reed di “Transformer” e la Patti Smith di “Horses”, i Simon & Garfunkel di “Bridge Over Troubled Water” così come i Clash di “Combat Rock”, la Janis di “Pearl” e il Johnny Cash di “At Folsom Prison”. E ancora: i “Golden Records” di Elvis, il Miles Davis di “Kind Of Blue” e… uh… il Michael Jackson di “Bad”. Tutto questo mentre si celebra il venticinquennale del CD e mai festeggiamenti sono sembrati così simili a un funerale. Tutto questo mentre anche i quotidiani dedicano articoli importanti al fatto che con il download – quello legale sta prendendo decisamente piede ed è un fenomeno che mi lascia cento volte più sconcertato dell’affermarsi di quello illegale – la musica si è fatta “liquida” e – guarda un po’! – la radice è la stessa di “liquidare”. Si chiude la stalla dimenticandosi che il bue non è scappato ma lo si è mangiato e digerito da un pezzo. Certo che non ci volevano dei geni per capire – siccome da sempre l’occasione fa l’uomo ladro – che dare al pubblico la possibilità di fare delle copie indistinguibili all’ascolto dagli originali avrebbe determinato un crollo delle vendite dei secondi. Prima ancora del p2p. Il cerchio si chiude e, almeno come atto simbolico, si torna al vinile: l’unico supporto fisico le cui vendite sono in ascesa. Non riproducibile domesticamente nella sua essenza, trova sempre nuovi estimatori in quest’era che ha reso la musica immateriale.
Per intanto è un inizio e, facendo finta che non sia disperazione, si può apprezzare che, per la stampa di “Ten” dei Pearl Jam che sta girando in questo momento sul mio Thorens, Sony & BMG abbia almeno in parte preso atto che gli standard odierni in materia di vinile sono incomparabilmente più alti di quelli pre-’82. Ha cercato allora di adeguarsi: da cui i 180 ormai canonici grammi di peso, una planarità perfetta e un vinile di qualità eccellente, assolutamente silenzioso. È da altri particolari che si coglie, a volere essere gentili, la desuetudine con il supporto oppure, pensando male, la voglia di risparmiare. Nessuna etichetta per audiofili si sarebbe dimenticata (spesa modestissima) di inserire una morbida busta antistatica all’interno di una di cartone che minaccia di non trattare affatto bene i solchi. Nessuna etichetta per audiofili avrebbe nemmeno preso in considerazione (ma allora i costi sarebbero saliti eccome) l’idea di ristampare “Ten” tale e quale a come uscì al tempo, distribuito su due sole facciate la prima delle quali va a sfiorare i trenta minuti. Causa eccessivo affollamento dei solchi, prevedibilmente ci si ritrova costretti per ottenere un’apprezzabile pressione sonora ad alzare il volume e con il volume, si sa, cresce la distorsione. Naturalmente non si incrementa invece una dinamica che resta deplorevolmente piatta e sarebbe inadeguata a un cantautore solo soletto con la sua chitarra acustica, figurarsi a un gruppo esplosivo come i Pearl Jam degli esordi. Inutile girarci intorno: questo “Ten” in vinile suona peggio del corrispondente CD e mai era andata così in cinque anni di rubrica e confronti (al più dei bei pareggi). Dovrebbe essere però un caso isolato in negativo nella lista di titoli summenzionata e sarà mia cura, scrutinandone un altro paio, darvi conferma di ciò.
Per intanto era un inizio, “Ten”, intendo dire. L’inizio di una nuova vita per il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff Ament, pionieri del grunge con i seminali ma misconosciuti Green River, poi costretti a sciogliere dei Mother Love Bone freschi di approdo a una major (e a un passo dal successo vero) causa la prematura dipartita non dal gruppo ma da questa terra del cantante Andrew Wood. Idem per il secondo chitarrista (i batteristi tenderanno a essere una variabile) Mike McCready e figurarsi allora per il cantante Eddie Vedder, che prima di farsi riottosa rockstar riempiva serbatoi a una pompa di benzina. Pubblicato nell’autunno ’91 a ridosso di “Nevermind” non ne pativa la concorrenza, collezionando giusto qualche platino in meno. Nonostante offra le due canzoni che hanno dato la fama ai Nostri, il midtempo solenne di Alive e l’epica e maliosa Jeremy, con il senno di poi “Ten” pare però a oggi l’articolo più debole del catalogo Pearl Jam. Once, Why Go, Porch, Deep sono grunge all’ingrosso e giusto una sfolgorante melodia evita a Even Flow, brano ad alto tasso innodico, lo stesso vicolo cieco. Meglio le ballate, Oceans e Release, anche se i R.E.M. avrebbero potuto chiedere i diritti. Pur tuttavia: resta un album storico e in quanto tale un classico del rock. Pur tuttavia: si può osservarlo da un diverso punto di vista e lodare allora Vedder e sodali per la capacità che hanno avuto di crescere, cambiare e alla lunga convincere della loro onestà di intenti chi dapprincipio – e un po’ mi ci metto – ne diffidava, dicendoli pallidi epigoni dei Nirvana e complesso artatamente costruito per spadroneggiare nelle classifiche offrendo una finta alternativa a un mainstream di cui era invece parte. La smentita saranno i comportamenti, da granello di sabbia negli ingranaggi dell’industria. La smentita saranno un paio di piccoli capolavori: “Vitalogy” nel 1994 e soprattutto “No Code”, due anni dopo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.284, novembre 2007.