Archivi del mese: settembre 2019

As Time Goes By – Per i settantaquattro anni di Bryan Ferry

Tanti auguri a uno degli uomini più stilosi che mai abbiano calcato i palcoscenici del rock e del pop. Lo celebro recuperando una scheda sui Roxy Music che mi venne commissionata per “Extra” e le recensioni di un loro live postumo e di un paio di uscite del Ferry solista. Ivi compresa una che mi fa scoprire che nel ’99 (però già tre anni dopo aggiustavo il tiro) avevo una non buona opinione dei Roxy post-Brian Eno. Dimostrazione fra le ahimé tante che anche il Venerato Maestro in vita sua ne ha scritte di fregnacce.

Roxy Music – Country Life (Island, 1974)

Sontuose modelle hanno campeggiato sulla copertina dei tre album precedenti e su quella del quarto i Roxy Music scelgono di raddoppiare, oltretutto facendo indossare alle due piacenti signorine biancheria intima che nulla lascia all’immaginazione. Colta da uno di quei soprassalti bacchettoni che sovente la prendono, nel bel mezzo del decennio di più sfrenati eccessi sessuali che si ricordi l’America si indigna e censura. È tutta benvenuta pubblicità per Byan Ferry e compagni che, da subito stelle su questo lato dell’Atlantico, su quell’altro hanno fino a quel punto faticato a farsi notare. “Country Life” è il loro primo 33 giri a entrare nei Top 40 USA, forte certo dello scandalo ma soprattutto di un variegato mazzo di canzoni (dal brechtiano al rock’n’roll) che, senza tralasciare del tutto le pulsioni avanguardistiche dell’era Eno, alla raffinatezza di scrittura e arrangiamenti uniscono un’immediatezza inedita.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.22, estate 2006.

Roxy Music – Concerto (Fruit Tree, 2001)

Se non siete vissuti su Marte negli ultimi anni ve ne sarete accorti: lo sdoganamento della disco music è stato ormai completato e non solo in rapporto ai vari generi dance – house e techno in primis – succedanei. Pure la più seria critica rock, che al tempo tanto esecrò tale stile bollandolo degenerazione del funky (che era stato bollato come degenerazione del soul, varrà ricordare e si potrebbe proseguire), lo ha rivalutato. Sul finire dei ’70 (e così sarà per un buon decennio dopo) bastava viceversa un tocco di negritudine in più nel mix per fare censurare con la più infamante delle accuse, il volere essere commerciali, anche nomi in precedenza riveriti. Toccò pure ai Roxy Music, che nel 1979 si ripresentavano alla ribalta dopo un triennio sabbatico. Riascoltato oggi “Manifesto”, sebbene inferiore ai successivi “Flesh + Blood” e “Avalon”, non pare affatto quel disastro di cui si scrisse al tempo e, francamente, neppure così danzereccio.

Ascoltati oggi i Roxy Music che lo portarono in tour (questo doppio vinile racconta in massima parte uno spettacolo a Denver nell’aprile di quell’anno) non sembrano granché distanti dalle edizioni precedenti del dopo-Brian Eno e da quelle che verranno. “Concerto” decolla con i brani portanti di “Manifesto” (la title track, Angel Eyes, Trash) e si mantiene in quota con un gruzzoletto di classici fra cui spiccano versioni eccellenti di In Every Dream Home A Heartache e Do The Strand. È insomma il gruppo di sempre: pop progressivo al livello più alto che mai sia stato concepito. Varrà la pena di ricordare che “Roxy” è crasi di “rock” e “sexy”. Bryan Ferry e compagni non se lo sono mai dimenticato.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.474, 19 febbraio 2002.

Bryan Ferry – As Time Goes By (Virgin, 1999)

Tanto vale cominciare con una confessione: non ho mai amato il Bryan Ferry solista, pur apprezzandone qualche estemporanea performance (tipo una A Hard Rain’s Gonna Fall tanto artefatta da trovare un riscatto nei suoi eccessi melò). Mi ha sempre infastidito l’arroganza con cui si è appropriato di classici altrui presumendo che bastasse una bella voce a giustificare accostamenti azzardati e dischi di assoluta incoerenza. E gli stessi Roxy Music dopo Eno non hanno fatto molto che valesse quei primi due fenomenali 33 giri. Giusto “Avalon”, intimamente forse anche vacuo ma di inappuntabile eleganza formale.

In fatto di eleganza “As Time Goes By” non teme raffronti. E siccome per la prima volta il Nostro ha saputo disegnare uno scenario unitario sul quale fare agire le canzoni, siccome le canzoni stesse sono tutte, di loro, gigantesche e siccome la voce mostra ancora meno rughe di un volto sì giovanile da fare sospettare patti faustiani, ne è venuto fuori il suo album migliore di sempre fra quelli in proprio. Invincibilmente fuori moda e fascinoso come il brano che lo inaugura e lo battezza, che è quello che in Casablanca Rick Blaine/Humphrey Bogart invitava ossessivamente Sam/Dooley Wilson a suonare ancora una volta. Canzone da guancia contro guancia che stabilisce il tono di un lavoro che ci trasporta in un mondo pre-rock’n’roll di orchestrine jazz e buoni sentimenti, omaggiando più volte Cole Porter (Miss Otis Regrets, You Do Something To Me, Just One Of Those Things), evocando Marlene Dietrich con una struggente Falling In Love Again e congedandosi con una September Song (Kurt Weill) che vale qualunque altra interpretazione possa venirvi in mente. Ottimi anche i suoni.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.197, dicembre 1999.

Bryan Ferry – Frantic (Virgin, 2002)

Nel 1999, con “As Time Goes By”, Bryan Ferry confezionava uno degli episodi migliori di una carriera solistica a momenti trentennale (la prima uscita in proprio di un anno e mezzo posteriore all’esordio del gruppo che gli ha dato la fama) e certamente il più coeso e meglio caratterizzato. Elegante escursione in un mondo pre-rock’n’roll di orchestrine jazz e buoni sentimenti, il disco si aggirava fra classici – da Cole Porter a Kurt Weill – porgendone letture più affettuose che ironiche e mai sopra le righe. Evento notevole per un interprete che nel kitsch ha spesso sguazzato. Tre anni e una rimpatriata dei Roxy Music dopo, Ferry torna ai suoi standard con un album diviso fra cover e brani suoi e in saliscendi vertiginoso fra picchi pure notevoli e deprimenti vallate che rimandano a quell’involontaria parodia dei Roxy che furono i neo-romantici. Esemplari in tal senso la voce operatica su passo marziale di Ja Nun Hons Pris, il melò gotico di San Simeon, la magniloquenza pura di I Thought. Anche una Hiroshima che sa di Ultravox orfani di John Foxx, non redenta dalla chitarra di Jonny Greenwood dei Radiohead, uno dei tanti ospiti di una schiera che annovera fra gli altri Brian Eno, Dave Stewart e Chris Spedding.

Detto di una Goddess Of Love la cui capacità seduttiva ha la meglio sull’imponenza dell’arrangiamento, di una Goodnight Irene (di Leadbelly) con tanto di violino e fisarmonica, bella ma fuori posto, i vertici sono una volta di più costituiti da due omaggi a Bob Dylan: un’elettrica It’s All Over Now, Baby Blue in apertura e poco più avanti una Don’t Think Twice, It’s All Right per voce e piano che vale da sola il prezzo del biglietto. È come sentire Elvis cantare il gospel a Las Vegas, in una serata di grazia.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.485, 7 maggio 2002.

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L’invenzione del rhythm’n’blues, ma non solo – Gli anni chez Atlantic di Ray Charles

Verrebbe da scomodare Louis-Ferdinand Céline: viaggio al termine della notte. Oppure il Joseph Conrad di Cuore di tenebra: l’orrore! l’orrore! Verrebbe, digitando “giradischi” su Amazon.it e trovandosi davanti una prima schermata di oggetti in massima parte improponibili. Risparmiandovi lo shock di farlo di persona, vi dirò solo che il “più venduto” è un… coso “in legno con altoparlanti integrati e convertitore vinili + software per Mac e pc e cavo usb inclusi” proposto a 99 euro. Immaginabili tanto la qualità di riproduzione che la delicatezza con la quale un simile arnese può trattare i dischi che incautamente gli vengano dati in pasto. E non è il peggio. A chi volesse risparmiare (!) la stessa innominabile marca a 49 eurelli propone un bell’oggettino “vintage, portatile, a forma di valigetta, con altoparlanti integrati e pile, rosso”. Giacché, come recita lo slogan della casa, “i vinili sono tornati, riproducili con stile”. Nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo: sì, in quella prima schermata, che mette in fila i ventiquattro risultati più rilevanti, qualcosa di non offensivo c’è, quattro apparecchi nella fascia 200-300 euro, “entry level” buoni per chi, pur con un budget modesto, non intende farsi stuprare né i padiglioni auricolari né i dischi. Ora: so bene che il lettore di “Audio Review” le schifezze di cui sopra manco regalate le vorrebbe. Che altro sarebbe il pubblico da mettere in guardia, quello generico che, a botte di articoli sui quotidiani, ha appreso che il vinile è tornato e potrebbe sentirsi perculato constatando che, suonato su quelle robe lì, non è la meraviglia di cui ha letto. Fatto è però che la complessa congiura per smentire chi vorrebbe che sia quello trattato su queste due pagine il supporto fonografico per eccellenza (d’accordo, se ne può discutere) si manifesta pure in altri e più subdoli modi.

Prendiamo il profluvio pazzesco di incisioni “storiche” in tanti ambiti – jazz, country, rock’n’roll, gospel, soul, r&b… – da cui l’appassionato è sommerso dacché qualcuno notò che la legislazione sul diritto d’autore è come lo yogurt, a scadenza, e insomma dopo un certo numero di anni chiunque può ristampare materiali fino al giorno prima di proprietà dei legittimi detentori. Va da sé: pur non avendo l’accesso ai master e ricavandone uno da qualunque fonte disponibile, digitale o analogica che sia. Perché acquistare, per dire, un Chuck Berry su Universal quando a una frazione di quel prezzo si può comprarne uno con una griffe sconosciuta, magari in autogrill? La risposta l’ho già data e vale ancora di più adesso che certe ristampe “economiche” si trovano pure in vinile e a volte tanto economiche manco sono. Sempre partendo da Amazon arrivo al sito di un’etichetta inglese, di cui non farò il nome, e mi imbatto in fior di capolavori del jazz e in diverse interessanti testimonianze d’epoca del primo soul (varie a loro tempo su Tamla Motown; roba che i diritti non te li regalano) in presentazioni da audiofili e con prezzi non bassi. Il diavolo però si cela nei dettagli e quasi sempre in una copertina che non è quella originale. Ma vi pare che chi ha speso per acquisire un capolavoro di Miles Davis o John Coltrane poi lo sistemerebbe in una confezione che non è quella ben nota all’appassionato? Che però, in un attimo di distrazione, potrebbe cascarci e portarsi a casa un vinile con ogni probabilità tratto… da un CD. E la morale della triste favola è: fate attenzione. Informatevi prima di comprare qualunque titolo non sia stato riedito dalla prima casa discografica, o da chi oggi possiede quel catalogo, o da un marchio notoriamente e da lungi dedito alle ristampe.

Prendete Ray Charles (ci sono arrivato: due terzi di rubrica se ne sono andati, ma erano argomenti che prima o poi bisognava affrontare): l’intera produzione Atlantic (così come molti dei titoli più validi su ABC) cade in quella finestra temporale che permette a chiunque di metterci mano. E quasi chiunque ci ha messo mano. Ma se volete rispettare opere d’arte che sono pezzi di Storia – di jazz, black, country e popular music – e insieme rispettare voi stessi (il vostro tempo, le vostre orecchie) non avete che due strade da percorrere. Una è decisamente più costosa e prevede l’esplorazione dei cataloghi dei soliti noti – etichette per audiofili come Speakers Corner, Analogue Productions, Pure Pleasure, Mobile Fidelity Sound Lab… – dove si rintraccia un discreto gruzzolo di titoli, e non soltanto in vinile ma pure in SACD, a prezzi però dai 32 euro in su e talvolta parecchio in su. Si paga tanto ma la soddisfazione è massima, sia chiaro, come sottolineavo pochi mesi fa (AR 386) segnalando l’eccelso “The Genius After Hours” (la versione stereo) su Speakers Corner. Tuttavia (e senza che un’opzione escluda l’altra, se volete pian piano andare a comporre un’integrale) avete anche un’altra possibilità a disposizione da alcuni mesi. A un prezzo medio di 85 euro è disponibile uno splendido e massiccio, settuplo e naturalmente in box, “The Atlantic Years – In Mono” su Rhino, marchio americano di inattaccabile reputazione che cominciò a specializzarsi in ristampe quando il concetto stesso di ristampa era ignoto all’industria discografica. Elenco subito il poco che non mi è piaciuto, o mi ha lasciato perplesso: un ordine degli album che non rispetta quello conclamato per la storiografia ufficiale (a voi provvedere, volendo, a ristabilire quello riconosciuto come corretto: “Ray Charles”, “The Great”, “Yes Indeed!”, “What’d I Say”, “The Genius Of”, “The Genius Sings The Blues” e “The Genius After Hours”); il fascicolo a corredo, 32 pagine perlopiù occupate dalle pletoriche riproduzioni di crediti e copertine, con giusto un breve articolo introduttivo; le buste interne, di semplice carta e non antistatiche. Ma i dischi suonano una meraviglia, le fedeli riproduzioni delle etichette d’epoca sono uno sballo e avere in un colpo tutto il Ray Charles su Atlantic con l’eccezione dei due live e dei due 33 giri a mezzo con Milt Jackson è… impagabile. Anzi no. Vi costerà la miseria di 12 euro e spicci a LP.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.391, settembre 2017.

The Genius After Hours (Atlantic, 1961)

Il primo (e anche unico) album di Ray Charles a raggiungere la vetta delle classifiche USA? Quel “Modern Sounds In Country And Western Music” che già nel titolo avvisava che di black lì non vi era che la pelle del prodigioso interprete. Era il 1962 e la ABC veniva premiata tanto per l’investimento fatto due anni prima per strappare l’artista alla Atlantic che per la saggia scelta di non creare subito uno stacco fra le due discografie. Nel frattempo la Atlantic per consolarsi aveva svuotato i cassetti e ben gliene veniva visto che i tre LP così confezionati si vendevano più che discretamente e in particolare questo in esame. Ben ne è venuto pure all’appassionato, siccome stiamo parlando di tre dischi – gli altri due “The Genius Sings The Blues” e “Soul Meeting” – ottimi. Questo in particolare, messo insieme con quanto – inciso in buona parte il 30 aprile del 1956 e dunque ben cinque anni prima – non era stato incluso nel ’57 in “The Great Ray Charles”. Si resta sbalorditi di fronte alla qualità di questi materiali scartati in origine e che in realtà valgono giusto uno zero virgola qualcosa meno di quelli inclusi nel 33 giri di cui sopra. È hard bop intriso di blues e sopraffino, registrato ora in trio, ora in quintetto o settetto e con un leader in assoluto stato di grazia, a conferma di come per lui il jazz non fosse un capriccio ma amore vero. Se è indiscutibile che fu con la creazione del rhythm’n’blues che il nostro uomo rivoluzionò la storia di black e popular music, è non meno vero che, si fosse limitato a fare il jazzista, avrebbe comunque lasciato il segno. Incisione all’altezza dei più elevati standard dell’epoca, con giusto il pianoforte un filo nasale, metallico.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 386, aprile 2017. Scomparso il 10 giugno 2004, Ray Charles nasceva ottantanove anni fa a oggi, il 23 settembre 1930.

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Quando Charles Mingus cambiò per sempre il jazz

Al Workshop organizzato da Charles Mingus presso gli Audio-Video Studios di New York il 30 gennaio 1956 partecipano i sassofonisti Jackie McLean e J.R. Monterose, il pianista Mal Waldron e il batterista Willie Jones. L’album che ne risulta, “Pithecanthropus Erectus”, verrà acclamato come una pietra miliare già alla pubblicazione nel luglio successivo. “Il” disco di jazz del 1956, oltre che per la bellezza per la capacità di suscitare emulazione e discussioni, con il suo partire dal chiaro omaggio al jungle sound di Duke Ellington per andare oltre: superando un bebop la cui frenesia e i cui virtuosismi stanno venendo a noia; aggiungendo suggestioni di matrice classica a un vocabolario hard bop cui già concorrono blues, rhythm’n’blues e gospel; addirittura (ma questo naturalmente non lo si potrà affermare che con il senno del poi) preconizzando il free. Diversamente dalle sedute precedenti da leader, Mingus stavolta non è arrivato portando degli spartiti ma solamente delle indicazioni generiche sui pezzi che verranno eseguiti. Non lo si direbbe a fronte di arrangiamenti di grande coesione nella loro complessità, dal fluire tanto armonioso quanto carico di swing. Capolavoro nel capolavoro è una traccia inaugurale e omonima dalla melodia tracciata all’unisono da contrabbasso e fiati e colorata pastello dal piano, dalla cadenza dapprincipio flemmatica e quindi tempestosa. Sinfonietta fra malinconia, ebbrezza e tormento, è poema che racconta senza parole, spiega lo stesso Mingus nelle dettagliatissime note di copertina, l’epopea – in quattro movimenti: evoluzione, complesso di superiorità, declino e scomparsa – dell’ominide che avendo conquistato per primo la posizione eretta provò a sottomettere i meno sviluppati simili, solo per poi a sua volta venire superato dall’evoluzione della specie. All’eccezionale apertura vanno dietro un’originale interpretazione di A Foggy Day (George & Ira Gershwin) con sirene e fischietti che suonano nella nebbia e, girato il disco, il bozzetto sentimentale Profile Of Jackie e un’altra ambiziosa sinfonia afroamericana piena di cambi di passo, Love Chant. Dopo di che nulla sarà più lo stesso né per l’autore né per il jazz.

Nemmeno per Tom Dowd, trentenne tecnico del suono che firmava un gioiello di produzione – di timbrica, nitidezza, dinamica ben oltre lo stato dell’arte dell’epoca – e nei due decenni successivi farà la storia di rock e black music assumendosi la regia di fior di classici. Ristampa sui soliti, stratosferici standard della Speakers Corner.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.400, giugno 2018.

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Quattro recensioni di album di (e con) Daniel Johnston e una considerazione

“L’affetto c’è sempre, quando si scrive di Daniel Johnston, ma ci vorrebbe forse più rispetto. Mettere da parte per quanto possibile gli aneddoti sulla salute mentale spesso traballante – sull’infantilismo, l’insicurezza, le paranoie che ne condizionano il rapporto con il mondo – di un bambino prodigio imprigionato nel corpo di un quarantacinquenne malmesso, sempre più grasso e grigio, e concentrarsi sul genio di uno dei più grandi autori di canzoni dell’ultimo quarto di secolo.” (2006)

Fear Yourself (Sketchbook, 2003)

Imponente per nomi e numeri il fan club di Daniel Johnston: Kurt Cobain si presentò nel 1992 a una premiazione di MTV indossando una sua t-shirt; Pastels e Yo La Tengo hanno ripreso Speeding Motorcycle; Lou Reed  ha cercato di registrare qualcosa con lui, Eddie Vedder dei Pearl Jam l’ha vagheggiato, un paio di Sonic Youth ci sono riusciti; Jad Fair degli Half Japanese lo ha affiancato in due dischi, Paul Leary dei Butthole Surfers produsse nove anni fa il suo primo album per una major e per quest’ultimo si è scomodato Mark Linkous degli Sparklehorse. “Artistic Vice”, uno dei dischi di culto degli anni ’90, fu invece prodotto da Kramer. Cercatelo senza darvi pace fin quando non lo avrete trovato, mettete su il primo brano, My Life Is Starting Over, e sarà amore, di quelli che durano per sempre. Daniel Johnston è un Genio. Daniel Johnston confeziona – da oltre vent’anni! – melodie di un’efficacia inaudita dai tempi di Lennon/McCartney e del Brian Wilson maggiore. Daniel Johnston ha un piccolo problema: per lui Manic Depression non è il titolo di una canzone di Jimi Hendrix, è la sua vita. Questo omone dalla faccia bonaria, che dimostra molti anni più dei quarantadue che ha, entra ed esce da decenni da cliniche per malattie mentali e solo l’affetto dei tanti che lo ammirano e l’abbraccio protettivo di una famiglia benestante gli ha dato modo finora di vivere un’esistenza a tratti normale e di non venire definitivamente istituzionalizzato. Daniel Johnston fa una disperata tenerezza ma a starci vicino può fare talvolta paura, come ben sa il padre, che rischiò di schiantarsi con l’aereo che stava pilotando quando il figliolo lo aggredì accusandolo di essere Satana. Insomma: poco probabile che possiate leggere in futuro una sua intervista. Ancora meno che possiate vederlo dal vivo in un qualche club dalle vostre parti.

Vi restano le canzoni, che sono centinaia ma perlopiù irreperibili, siccome pubblicate in buona parte su cassette che il Nostro (la cui discografia conta alcune decine di titoli) a lungo ha regalato per strada. Accontentatevi momentaneamente della dozzina contenuta in “Fear Yourself”. Ce n’è di che perdere la testa, che si tratti di power pop degno dei Ramones (Love Not Dead, Living It For The Moment) o di Jonathan Richman (Fish), di pigolante e irresistibile lo-fi (Now), o ancora di dolenti incantesimi prevalentemente pianistici (Love Enchanted, You Hurt Me). Qualcosa potrebbe appartenere ai Flaming Lips (The Power Of Love), altro – indifferentemente – a John Lennon o a Randy Newman (Wish). Sull’adesivo incollato alla copertina un altro estimatore importante, David Bowie, dichiara fin d’ora “Fear Yourself” uno dei suoi album preferiti del 2003. Saranno in legioni ad accodarsi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.528, 8 aprile 2003.

Daniel Johnston/Artisti vari – Discovered/Covered (Gammon, 2004)

Un’isola dei famosi il fan club di Daniel Johnston: Kurt Cobain si presentò a una premiazione di MTV con una sua t-shirt, Lou Reed ha cercato di registrare qualcosa con lui, Eddie Vedder pure, un paio di Sonic Youth ci sono riusciti, Jad Fair degli Half Japanese lo ha affiancato in due dischi, Paul Leary dei Butthole Surfers produsse dieci anni fa il suo primo album per una major. Per l’ultimo “Fear Yourself” si è scomodato, nel 2003, Mark Linkous degli Sparklehorse. Mentre di “Artistic Vice”, uno dei dischi di culto degli anni ’90, si occupò Kramer. Dimenticavo: fra i tesserati anche David Bowie. E poi Teenage Fanclub, Gordon Gano, Bright Eyes, Beck, Mercury Rev, Vic Chesnutt… Tom Waits: per non citare che alcuni dei nomi che nel primo dei due CD che compongono “Discovered Covered” (attribuito con nero humour a The Late Great Daniel Johnston e con in copertina il nostro eroe davanti alla sua tomba) si misurano con uno dei cataloghi più idolatrati – da chi “sa” – e oscuri – per il grande pubblico – della canzone rock d’autore americana dell’ultimo paio di decenni.

Sono versioni quasi sempre felici e in qualche caso bellissime – vorrei citare almeno una Walking The Cow dalle parti di John Cale dei T.V. On The Radio, i Bright Eyes che rendono alla Jonathan Richman Devil Town, una Go di Sparklehorse & Flaming Lips trapunta d’archi, lo Waits ultra-beefheartiano di King Kong – che, nel mentre esaltano il genio melodico di questo eterno ragazzone tormentato da sempre da seri problemi mentali, in un certo qual modo lo normalizzano. Su un secondo compact che dà nuovi significati all’espressione “low-fi” ci sono gli stralunati originali e sentirli a ruota è esperienza che lascia emotivamente scossi. E catturati per sempre.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.251, novembre 2004.

Lost And Found (Sketchbook, 2006)

Come almeno una volta in ogni suo disco, anche in “Lost And Found” c’è un momento in cui Daniel Johnston ti lacera l’anima e ne butta via i brandelli. Accade in Lonely Song, passo irresistibile e melodia pure, roba che potrebbe venire da un album dei Kinks periodo “Face To Face”, tranne che c’è un tocco country che rimanda a “Muswell Hillbillies”, e insomma una cosuccia impossibilmente carina che davvero non ti prepara a sentirti dire che “se ascolti veramente con attenzione/potrai sentire la disperazione di un cuore/triste e spezzato – il mio”. Epifania che ne pareggia tante regalateci in passato dal nostro scombinato eroe. Tipo quando in Love Defined (da “Yip/Jump Music”, 1983) citava direttamente San Paolo e tanti saluti a quanti hanno posto al centro del suo mito un’incapacità di intendere e volere che rischia di farsi folklore, dopo e peggio che tragedia: “L’amore sopporta ogni cosa/Crede in ogni cosa/Spera ogni cosa/Fa durare ogni cosa/L’amore non finisce mai”. Idiot savant, allora? Certo savant a sufficienza da polemizzare con l’industria discografica in The Chords Of Fame (da “It’s Spooky”, 1988) e pigliare in giro in Happy Time (da “Fun”, 1994, la sua unica uscita major) Allen Ginsberg. L’affetto c’è sempre, quando si scrive di Daniel Johnston, ma ci vorrebbe forse più rispetto. Mettere da parte per quanto possibile gli aneddoti sulla salute mentale spesso traballante – sull’infantilismo, l’insicurezza, le paranoie che ne condizionano il rapporto con il mondo – di un bambino prodigio imprigionato nel corpo di un quarantacinquenne malmesso, sempre più grasso e grigio, e concentrarsi sul genio di uno dei più grandi autori di canzoni dell’ultimo quarto di secolo.

“Lost And Found” è un album buono come quasi qualunque altro (un’abbondante ventina e senza contare le cassettine casalinghe regalate agli angoli delle strade all’inizio, suoi primi messaggi in bottiglia) per accostarsi a Johnston, che tanto il capolavoro a tutto tondo non lo confezionerà mai siccome gli ci vorrebbe accanto come produttore (Mark Linkous ci andò vicino tre anni fa con “Fear Yourself”) uno altrettanto disconnesso ma nel frattempo connesso. È il consueto campionario strambo e intrigante di pestate innodie rock’n’roll (Rock This Town, Rock Around The Christmas Tree) e squisite per quanto storte ballate (Try To Love, la programmatica Country Song), fra una marcetta fratturata (Foolin’) e una gigiona (It’s Impossible), una strombazzante ossessione (Wishing You Well) e un ilare beat radente lo ska (Everlasting Love). Il tutto porto dalla solita voce gracchiante, tremolante, indolente, che respinge certuni più dell’ustionante sincerità di quanto canta.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.23, autunno 2006.

Beam Me Up!! (Hazelwood, 2010)

Ho un discreto numero di dischi di costui, anche se percentualmente una minoranza di una produzione straripante soprattutto negli ’80, quando il nostro squinternato eroe i suoi album li registrava su cassette che poi regalava o li pubblicava per case minuscole. Ed erano vie imperscrutabili quelle per cui tramite finivano in mano a gente famosa o prossima a diventarlo, a Bowie come a Lou Reed, a Sonic Youth e Sparklehorse, Yo La Tengo o Cobain. Tutti… ahem… pazzi per Johnston e in particolare l’ultimo, che se ne faceva propagandista tanto appassionato da persuadere la Atlantic che fosse il caso di ingaggiarla l’aspirante rockstar più improbabile di sempre. Sapete come finì: per quanto le melodie che disegna siano fra le più limpide da Lennon/McCartney in poi, Daniel è un personaggio ingestibile che oltre il culto non può andare. Ho un discreto numero di dischi suoi, ma devo dire che a oggi nessuno mi aveva messo a disagio quanto questo doppiamente finto – nel senso che in massima parte le canzoni erano già note ma nessuna è stata un vero successo e tutte sono state riarrangiate per l’occasione – “Greatest Hits”. Per via di una voce sempre più stridula, barcollante e di suo ansiogena, che fa risaltare come non mai testi espressione di un disagio mentale che devasta.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.670, maggio 2010.

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Little Steven & The Disciples Of Soul – Summer Of Sorcery (Wicked Cool/Universal)

Il Boss è sempre il Boss e qui tutti o quasi gli si vuole bene, e oltretutto a sbilanciarsi non avendo ancora avuto modo di ascoltarne l’ultima fatica, “Western Stars”, si rischia di venire subito smentiti, e tuttavia va detto: il suo luogotenente preferito oggi fa dischi che da Springsteen è un pezzo che ce li sogniamo. Questione di suoni: laddove Bruce da quindici anni in qua dà il meglio di sé quando si porge da folkster (in “Devils & Dust”, ovviamente in “We Shall Overcome”, ultimamente negli spettacoli riassunti nel live “On Broadway”), Miami Steve non dimentica mai di essere l’uomo che entrò nella E Street Band orchestrando la intro fiatistica di Tenth Avenue Freeze-Out. Bombastico, a patto di dare al termine un’accezione positiva. Ma questione soprattutto di qualità delle canzoni: “Summer Of Sorcery” e con esso il predecessore di due anni fa “Soulfire” sovrastano di varie spanne tutto lo Springsteen elettrico da “The Rising” in poi. Persino, sempre “The Rising” escluso, da “Tunnel Of Love”.

Non vale notare, a fronte dell’esuberanza travolgente che trasmettono, che l’iniziale Communion dà il tono all’album reinventando l’acqua calda, la ruota e “The River”, che di Party Mambo dice tutto il titolo, che Soul Power Twist è la Having A Party di Sam Cooke con testo e titoli cambiati e I Visit The Blues un ricalco del classico di Bobby Bland I Pity The Fool. L’intero “Summer Of Sorcery” è un esercizio di stile: da una Vortex da manuale blaxploitation al Wall of Sound spectoriano ricreato in A World Of Our Own, da una Gravity che declina funk alla Prince al rock’n’roll Superfly Terraplane. Fatto da gente con poca anima risulterebbe sterile. Little Steven lo rende un’ora di divertimento sfrenato.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.410, giugno 2019.

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Audio Review n.412

È in edicola dalla fine della scorsa settimana il numero 412 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni degli album nuovi di P.P. Arnold, Calexico & Iron & Wine, Cassius, Clinic, Divine Comedy, Justin Townes Earle, Fujiya & Miyagi, Richard Hawley, Marissa Nadler & Stephen Brodsky,Willie Nelson, Pere Ubu, Peter Perrett, Angie Stone, Stray Cats e Yeasayer e di una ristampa dei dEUS. Nella rubrica del vinile ho scritto dei Rain Tree Crow.

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