Una breve trattazione della produzione anni ’90 di Nick Cave

Si sa: la notte è più buia subito prima dell’alba. Da “The Good Son” emana un lucore che avvince e commuove. Il faulkneriano And The Ass Saw The Angel è stato finalmente pubblicato e accolto da ovazioni. In Brasile con i Bad Seeds per tre date trionfali, Cave ha conosciuto la stilista Viviane Carneiro e si è innamorato. E non solo di lei ma anche della tentacolare e cosmopolita Sao Paulo, in cui si trasferisce. L’album vede la luce il 17 aprile 1990, ventitré giorni prima del primogenito di Nick e Viviane, Luke, e che sia stato registrato in Brasile si sente. Non soltanto perché gli fa da incipit un adattamento dell’inno protestante locale Foi na cruz, che squisitamente riassume il costante intrecciarsi in esso di gioia e malinconia, ma per un gusto per la melodia assolutamente inedito. Il rock è racchiuso nella deliziosa chitarra surfeggiante di The Hammer Song e nella frenesia di una The Witness Song inondata pure di gospel. Il resto sono pianoforti romantici e profluvi di archi, pop che aspira alla perfezione e la raggiunge in una The Ship Song dopo la quale l’autore avrebbe potuto ritirarsi: è la canzone immortale che crede di non avere ancora scritto.

So di andare controcorrente, ché “The Good Son” già all’uscita fu disco che non metteva d’accordo e in ogni caso raramente viene citato fra i migliori di Cave: a me pare sia ─ per densità emotiva, sapienza degli arrangiamenti, qualità delle singole tracce e articolazione d’assieme ─ la sua raccolta autografa nettamente più memorabile.

Narrativamente gli anni ’90 di Nick Cave offrono materiale infinitamente meno interessante degli ’80, essendo la vita domestica faccenda non eccitante da raccontare quanto la vita spericolata. È un Cave sempre più rispettabile e rispettato che li traversa raccogliendo riconoscimenti da ogni dove, chiudendo con rimpianti e dolcezza la relazione con Viviane e avviandone una fugace con Polly Jean Harvey, lasciandosi alle spalle il Brasile e cominciando a chiamare “casa” Londra. Incontra un nuovo grande e possibilmente definitivo amore nella modella Susie Bick, che gli darà due gemelli, e infine si riconcilia con la memoria del padre, colui che l’ha iniziato alla letteratura, morto giovane in un incidente automobilistico (poco più che adolescente, il figlio apprese la notizia in una stazione di polizia in cui era in stato di fermo). Musicalmente, regalano al contrario dischi ancora capaci di generare controversie. Magari non “Henry’s Dream”, del ’92, che riprende le atmosfere di “The Good Son” scurendole appena e vanta canzoni superbe ─ una Papa Won’t Leave You, Henry dal ritornello saporoso di Irlanda, la lugubre Loom Of The Land (i Walkabouts ne offriranno una versione stellare in “Satisfied Mind”) e la tesa e minacciosa Jack The Ripper ─ ma è danneggiato dalla produzione inusualmente piatta di David Briggs (Neil Young; alcuni brani faranno ben migliore figura nel bellissimo “Live Seeds”). Magari non “Let Love In”, del ’94, che un tantino in effetti si adagia in una routine di classe ma è divertente nella vorticosa Jangling Jack e nella garagista Thirsty Dog e, alle prese con il delicato tema della pedofilia, appiccica al muro e fa il cuore a brandelli con Do You Love Me?. Di sicuro “Murder Ballads”, del ’96, album a tema che finirà per essere di gran lunga l’articolo più venduto del catalogo (oltre un milione di copie), grazie a un duetto con PJ Harvey e soprattutto a uno con Kylie Minogue, nell’incantata e crudele Where The Wild Roses Grow. È un disco che non ho mai amato particolarmente, pur apprezzandone l’umorismo che non molti hanno colto, una Henry Lee che evoca congiuntamente Leonard Cohen e Jennifer Warnes, l’orroroso vaudeville di The Curse Of Millhaven, la tenerezza blues di The Kindness Of Strangers e, più che altro, la liturgica Death Is Not The End, in cui al nostro uomo riesce di nuovo il trucco di migliorare Bob Dylan, sebbene un Dylan di seconda o terza categoria. Fatto è però che in “Murder Ballads” fatico a individuare la consueta messa a nudo dell’anima e quello che scorgo è un bravo attore. In tanti lo hanno detto capolavoro, ma mi permetto di dissentire.

Se un capolavoro va individuato nella produzione dei ’90 è piuttosto “The Boatman’s Call”, che usciva nel 1997 e raccontava la fine di un amore e anzi due con una sincerità bruciante fino all’imbarazzo e toccante. Raccolta di ballate prevalentemente pianistiche, è il più scarno e intimo fra gli album di Nick Cave e davvero dopo brani di intensità indicibile come Into My Arms e People Ain’t No Good ci si può chiedere, con il titolo di un’altra canzone che tuffandosi in una tempesta di sentimenti non vi pesca che dolore: Where Do We Go Now But Nowhere?.

Tratto da Nick Cave – Nel ventre della bestia. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. “The Good Son” arrivava nei negozi trentaquattro anni fa a oggi.

3 commenti

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3 risposte a “Una breve trattazione della produzione anni ’90 di Nick Cave

  1. Caro maestro, quello che posso dirti e che, innamorato perdutamente di Nick Cave dopo aver comprato e ascoltato il vinile di YOUR FUNERAL MY TRAIL (doppio che girava a 45gr con 2 brani per lato se non ricordo male), ovviamente comprai a pochi giorni dall’uscita anche THE GOOD SON rimanendone profondamente deluso. Nel frattempo avevo recuperato sia il primo che il secondo LP del nostro, pertanto il Cave che volevo era quello abrasivo e pertanto fu una cocente delusione

    Purtroppo devo dirti con rammarico che è proprio leggendo, tantissimi anni dopo, per puro caso il sito di un tizio che a te (ma anche a me) non piace proprio, Piero Scaruffi, che vidi un voto 9 a quell’album, voto che mi costrinse a riascoltarlo….

    Beh, devo dirti che dal quel giorno è il Cave che preferisco.

    Senza ombra di dubbio!!!

    Grazie per questa scheda

  2. Mauro

    Il mio Nick Cave preferito è quello racchiuso nei tre album “Kicking Against the Pricks”, “Your Funeral… My Trial”, “Tender Prey”, comunque “The Good Son” mi piacque da subito. Tanto.

  3. Francesco

    Lo seguo dai Birthday Party, kicking rimane per me un must assoluto ma the good son fu anch’esso nella sua diversità un colpo di fulmine. E pure Push the sky away e Skeleton tree si sono rivelati sorprendenti. Ma quanto è cambiato Nick Cave nel corso degli anni rimanendo comunque ad altissimi livelli? Lo percepisco come l’ultimo dei grandi, ma forse sono solo io che invecchio.

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